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mercoledì 24 settembre 2014
martedì 23 settembre 2014
Golf a Cuba
Fonte: TTC
Costruiscono a Cuba campi da golf per il turismo
Varadero Golf Club
Cuba promuove la creazione di joint venture per lo sviluppo del settore immobiliare relativo ai campi da golf come parte del quadro degli investimenti esteri che sono prioritari nel settore.
Il Direttore Commerciale del Ministero del Turismo (MINTUR), José Reinaldo Daniel Alonso ha recentemente dichiarato alla stampa nazionale che si stanno portando a termine i negoziati per l’istituzione nel paese della seconda società mista, negoziati in cui sono coinvolti il gruppo extra-alberghiero Palmares assieme alla società cinese Beijing Enterprises Holdings Limited, il partner straniero del progetto che si svilupperà nella zona di Bellomonte, ad est di L’Avana.
Alonso ha ricordato che la prima di tali società è stata fondata all’inizio di quest’anno in seguito all’associazione tra il gruppo Palmares e la società britannica Esencia Hotels and Resorts. The Carbonera Golf and Country Club, un progetto che prevede un investimento di 350 milioni di dollari prevede la costruzione di due mila unità immobiliari, un campo da golf, un centro commerciale e un hotel, vicino a Varadero, Matanzas, principale polo turistico di Cuba.
Il dirigente ha detto che nel semestre corrente si sono portate avanti in parallelo le preparazioni tecniche dei due progetti: uno situato nella zona di El Salado, ad ovest della capitale, e un altro a Punta Colorada, nella provincia occidentale di Pinar del Rio.
In entrambi i casi, la partecipazione straniera sarà di imprese spagnole di alto prestigio nel settore, in associazione con il menzionato gruppo extra-alberghiero cubano.
Per quanto riguarda il quadro giuridico per questa attività, Daniel Alonso ha detto che Cuba ha concesso il diritto di superficie per 99 anni o in perpetuo, e la data iniziale di vigenza della società sarà determinata in corrispondenza con il periodo di recupero dell’investimento, l’entità della risorse mobilitate e le caratteristiche del progetto.
Oggi la priorità degli investimenti, è preferibilmente in seconda linea di spiaggia o in zone prive delle infrastrutture necessarie, come Santa Lucia, a nord della provincia di Camagüey, e Covarrubias e nella provincia orientale di Las Tunas.
In questi luoghi si richiede la costruzione di circuiti a distanze non superiori ai 30 minuti di strada, e nei cui pressi si trovino aeroporti internazionali in funzione.
Per completare l’offerta di Sole e Mare, la nazione caraibica promuove lo sviluppo di altre modalità ricreative, come il turismo nautico e naturalistico, al fine di posizionare la destinazione nei Caraibi, una zona di forte competizione per l’attenzione da parte dei viaggiatori internazionali.
Fonte: CubaDebate
lunedì 22 settembre 2014
Mojica all'Avana, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud rebelde del 22/9/14
La scrittrice cubana Dulce
María Loynaz – Premio Miguel de Cervantes 1992 – dice, nelle sue memorie, che
il cantante messicano José Mojica ha fatto perdere il lume della ragione agli
avaneri durante la sua visita alla fine del 1931. “Per esaltarlo o vituperarlo,
nessun artista ha mai sollevato un tale clamore”, precisa l’autrice di Jardín e Últimos días de una casa, mentre il cosiddetto Valentino dell’opera
scriveva da parte sua: “Se ho avuto grandi gioie, all’Avana, ho anche sofferto
grandi dolori”.
Chiarisce la Loynaz che lei
rimase al margine di tutto ciò. Mai, né allora né dopo, le sono interessati i
cantanti e aveva certamente cose più importanti a cui pensare. Un suo cugino
cominciava a corteggiarla e suo giudizio, era più gagliardo del messicano. “Di
Mojica non avevo nemmeno visto films. E lo consideravo una persona vanesia e
superficiale”.
Giungeranno, col tempo, a
conoscersi personalmente. Né l’artista né la poetessa erano le stesse persone.
L’uomo che aveva guadagnato una fortuna con le sue pellicole e i suoi concerti,
si stava ordinando sacerdote e faceva voto di povertà. Dulce María rompeva
ilimonio col cugino e si lasciava corteggiare dal cronista sociale Pablo
Álvarez de Cañas che moriva d’amore per lei da quando vide la sua foto su un
giornale. Pablo sognava che quel romanzo terminasse in matrimonio, possibilità
impensabile per la poetessa. Ciò nonostante intrapresero, assieme, un viaggio
per l’America Latina. Arrivando in Perú, Álvarez de Cañas volle salutare
Mojica, già frate José Francisco de Guadalupe, internato in un convento de La
Recoleta, allora quasi inaccessibile in quelle sperdute terre andine. Il
concetto che si fece di lui, la creatrice di Carta de amor al Rey Tut Ank Amen, cambiò radicalmente. “Era tanto
cambiato e mi fece tanta impressione in quell’unica visita, che adesso posso
dire che furono le sue parole a pesare di più sulla mia vacillante volontà di
sposare Pablo”.
Un’amicizia fraterna unì i
due uomini e questa relazione durò fino alla morte, successa con pochi giorni
di differenza fra i due.
Scrive la Loynaz in Fe de vida: “Tra le lettere che
arrivarono ancora a suo nome dopo il decesso di Pablo, ce n’era una di frate
José de Guadalupe Mojica che accludeva la sua ultima foto a lui dedicata. In
essa appariva in una sedia a ruote, ancora sorridente, quando la ricevetti
erano morti entrambi”.
Chi lo avrebbe detto a Dulce
María, nel 1931, quando le strade di entrambi erano ancora così lontane, che
sarebbe stata lei l’incaricata di ricevere il messaggio postumo di Mojica? Il
messicano era, in quell’anno lontano, al vertice della fama. La sua voce
bellissima e le sue gambe, una delle quali sarebbe stata amputata, saltavano
agili. La gente formava lunghe code di fronte al suo hotel o al suo teatro,
solo per vederlo di sfuggita quando usciva, se non svicolava prima da una porta
segreta.
Più di una volta, durante il
suo soggiorno avanero, gli agenti dell’ordine dovettero proteggerlo
dall’entusiasmo del pubblico e più di una volta, egli stesso, dovette castigare
con i suoi pugni duri l’insolenza di alcuni che portavano la turpitudine e la
malignità troppo avanti, dichiara la poetessa e aggiunge che fu una specie di follia
collettiva che si impadronì degli avaneri durante il soggiorno di José Mojica.
La
voce d’oro
In quesl momento si
considerava il miglior tenore dell’America Latina. Alla meraviglia della sua
voce –voce d’oro, come si diceva a quel tempo – aggiungeva un tipo di fascino
latino che, a partire da Rodolfo Valentino, richiedevano i canoni
melodrammatici dell’epoca. La sua carriera cinematografica cominciò nel 1928
con pellicole sonore e cantate in spagnolo, come Ladrón de amor e El precio
de un beso.
Il famoso compositore e
pianista Ernesto Lecuona, lo contrattó perché venisse all’Avana. Si conobbero a
Hollywood. La Metro Goldwyn Mayer aveva richiesto al cubano che collaborasse
nella musicalizzazione di Canción de
amor, film protagonizzato dal baritono Lawrence Tibbet e l’attrice
messicana Lupe Vélez, nella quale partecipò l’orchestra de Los Hermanos Palau
con cantanti e ballerini cubani.
Lecuona divenne intimo di
Mojica e rispose all’invito dell’astro messicano che lo invitava nella magione
che si era costruito a Santa Monica. Lì, valendosi di un gran pianoforte a coda
che c’era nellasala della casa, il compositore diede un’audizione
memorabile della sua opera. In un
intermezzo Lecuona disse a Mojica: “Devi andare a Cuba. Avrai un successo
enorme”. Gli offrì mille dollari per ogni concerto all’Avana. Era una bella
somma per un’epoca di crisi economica e Mojica accettò, entusiasta, la
proposta. Aveva bisogno di soldi per appoggiare il movimento dei cristiani.
Verrà assieme al grande pianista Troy Sanders che lo accompagnerà nelle sue
presentazioni. Partirono dal porto di Vera Cruz con destinazione la capitale
dell’Isola. Il suo arrrivo suscitò un entusiasmo visto poche volte, prima.
Il tenore scrisse nelle sue
memorie: “fin dal mio arrivo compresi che dovevo affrontare un pubblico amico
che dovevo trattare in modo speciale. Il ricevimento che mi preparò Lecuona fu
sensazionale. Dovevo lasciarmi andare senza riserve a un pubblico entusiasta.
La serietà e compostezza non si adattano ai cubani che amano la confidenza, la
franchezza e si interessano per la persona. Me lo aveva detto Esperanza Iris
quando mi riferiva del trattamento familiare e caloroso che davano in tutta
l’Isola”.
Per il 14 dicembre si
programmò la sua prima presentazione nel teatro Nacional, oggi Gran Teatro
dell’Avana. Si dice che era materialmente impossibile attraversare l’angolo di
Prado e San Rafael, in Centro Avana, dove si trova il teatro e che il vicino
parque Central era completamente invaso dal pubblico e dai poliziotti. Le
poltrone si vendevano a tre pesos, un prezzo alto vista la situazione del
Paese. Il teatro era gremito. Sembrava che la gente avesse perso la paura ad
accudire ai luoghi pubblici in quei giorni in cui si acutizzava l’opposizione
al generale Gerardo Machado, il regime estremizzava la repressione e i gruppi
rivoluzionari facevano detonare bombe e petardi, facevano funzionare il fucile
a canne mozze. Ma tutti volevano vedere Mojica e l’auto che lo trasportava
dovette muoversi con estrema cautela in mezzo a un mare di gente che
applaudiva, gridava e voleva vedere il cantante.
Alle nove in punto Mojica
uscì sullo scenario. Una vera tempesta di applausi lo seppellì per lunghi
minuti. Alla fine cominciò la musica: Peri, Cavalli, Cimara, Gounod...La parte
iniziale del concerto andava meravigliosamente quando, dal palco, il tenore
cominciò a vedere la gente che si alzava e usciva precipitosamente. Tossiva,
gesticolava e si copriva il naso col fazzoletto. Scrisse nelle sue memorie:
“L’acre odore delle bombe lacrimogene arrivava fino a me”.
Non erano tali. Si trattava
delle cosiddette bombette puzzolenti che si elabora con i petali di un fiore
particolare e che nello scoppiare produce un odore nauseabondo, il quale in una
stanza chiusa, invade poco a poco tutto lo spazio e si mantiene nell’ambiente
per lunghi minuti impregnando l’olfatto di chi è stato costretto ad annusarlo.
Il concerto venne sospeso. Quando si riprese, l’atmosfera era ancora impregnata
di gas. Sanders eseguì Zeckwer e lo stadio Staccato di Rubinstein. Mojica proseguì
con opere di Duparc, Massenet, Chausson, Head e altri.
La calma sembrava essere
tornata.
Quando
me ne vada
Un momento importante dei
concerti di Mojica all’Avana fu l’interpretazione di María la O, zarzuela di Ernesto Lecuona. Mai, prima, era stata cantata
da una voce maschile giacché l’avevano fatta conoscere solo le soprano. Mojica
la interpretò in un arrangiamento speciale, fatto da lui, con recitato e
declamazioni che le rendevano propria per interpretazioni maschili. “Per quello
ricevetti – disse il tenore – una delle più grandi ovazioni della mia vita e
quella sera, María la O – che
vocalmente offre difficoltà e acuti alla più scabrosa aria di un’opera – restò
per sempre nel gusto del pubblico cubano: dico per sempre perché è già un
quarto di secolo che l’ho cantata e si ascolta quotidianamente”.
Il giorno 16 di dicembre
Mojica tornò allo scenario del Nacional con opere di Pergolesi, Erlanger,
Chaminade, Donizzetti...Sanders eseguì Debussy e Turina. Il tenore chiuse con
canzoni folkloristiche e anonime. Per finire interpretò Cuando me vaya, di María Grever.
Il 20 dicembre, Mojica offrì
un’audizione popolare con canzoni messicane e cubane. Quel giorno Lecuona
interpretò, a due piani con Sanders, i suoi pezzi La comparsa e Danza Lucumí.
Ci furono concerti il 25, 26 e il 28. Il 30 fu l’omaggio di commiato
all’artista visitante.
Gli storici cubani non hanno
mai chiarito le ragioni che motivarono la maleodorante interruzione del primo
concerto di Mojica all’Avana. A differenza della bomba che posero a Caruso, nel
proprio Teatro Nacional nel 1920, nessuno si dichiarò autore del fatto in oltre
80 anni trascorsi da allora. Non esistono nemmeno dei sospetti.
Lo stesso tenore spiegò
nelle sue memorie le motivazioni possibili: “C’erano interessi di gente risentita
pregiudizialmente con l’artista che lasciava senza pubblico gli altri teatri;
imprese cinematografiche che credevano necessario sminuire e anche calunniare
chi gli dava perdite; giornalisti privi di etica professionale che aspettavano
gratificazioni dai miei impresari e che, non avendole ottenute, scrissero
articoli pieni di satira e malizia.
Ci furono caricature che
oltre ad essere stupide erano offensive. Il rimedio che mi proposero per
silenziare i commenti era peggiore della campagna di calunnie. Avrei dovuto,
io, schiaffeggiare in pubblico un tal giornalista; intraprendere un’avventura
con qualche donna sposata, giocare grandi somme in casinò clandestini;
organizzare festini e visitare case malfamate. Dovevo essere ammirato come uomo
di mondo, non come artista di buon costume”.
C’è qualcosa di vero. Con
eccezione di Pablo Álvarez de Cañas, un cronista sociale del giornale El País,
la stampa rese la vita impossibile a Mojica durante il suo soggiorno all’Avana.
Solamente
una vez
Nel 1941, a San Miguel de
Allende, Guanajuato, muore doña Virginia, la madre del tenore José Mojica, nel
pieno della sua carriera. Allora abbandona la vita artistica ed entra in un
convento. Si dice che in tali circostanze, Agustín Lara gli dedica il bolero Solamente una vez. Due anni più tardi
riceve gli ordini minori e, dopo aver fatto il noviziato, si ordina sacerdote.
Morì a Lima il 20 settembre
del 1974, a 79 anni di età. Attuò nel cine, con la debita autorizzazione
ecclesiastica, praticamente fino alla fine della sua vita.
Mojica en La Habana
Ciro Bianchi RossCiro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
20 de Septiembre del 2014 18:59:30 CDT
La escritora cubana Dulce María Loynaz -premio Miguel de Cervantes,
1992- dice en sus memorias que el actor y cantante mexicano José
Mojica hizo perder la razón a los habaneros durante su visita de
finales de 1931. “Para ensalzarlo o vituperarlo, ningún artista ha
levantado aquí clamor semejante”, precisa la autora de Jardín y
Últimos días de una casa, mientras que el llamado Valentino de la
ópera escribiría por su parte: “Si tuve grandes alegrías en La Habana,
también sufrí grandes dolores”.
Aclara la Loynaz que ella permaneció al margen de todo aquello. Nunca,
ni entonces ni después, le interesaron los cantantes y tenía
ciertamente cosas más importantes en las que pensar. Un primo suyo
empezaba a cortejarla y era, a su juicio, más gallardo que el
mexicano. “De Mojica ni siquiera había visto las películas. Y lo tenía
por persona vana y superficial”.
Llegarían, con el tiempo, a conocerse personalmente. Ni el artista ni
la poetisa eran ya las mismas personas. El hombre que había ganado una
fortuna con sus películas y sus conciertos, se ordenaba sacerdote y
hacía voto de pobreza. Dulce María rompía su matrimonio con el primo y
se dejaba cortejar por el cronista social Pablo Álvarez de Cañas, que
moría de amor por ella desde que vio su retrato en un periódico. Pablo
soñaba con que aquel romance terminara en boda, posibilidad impensable
para la poetisa. Aun así emprendieron juntos un viaje por América
Latina. Al llegar a Perú, quiso Álvarez de Cañas saludar a Mojica ya
fray José Francisco de Guadalupe, internado en el convento de La
Recoleta, casi inaccesible en aquellas tremendas soledades andinas. El
concepto que de él se hiciera la creadora de Carta de amor al rey Tut
Ank Amen cambió radicalmente. “Tan rectificado fue, y tal impresión me
hizo en esa única visita, que puedo decir ahora que fueron sus
palabras las que más pesaron en mi vacilante voluntad de casarme con
Pablo”.
Una amistad fraternal unió a los dos hombres y esa relación duró hasta
la muerte, ocurrida con solo días de diferencia entre los dos.
Escribe la Loynaz en Fe de vida: “Entre las cartas que todavía
llegaron a su nombre después de fallecido Pablo, estaba una de fray
José de Guadalupe Mojica, que incluía su última foto dedicada a él. En
ella aparecía en una silla de ruedas, aún sonriente, y cuando la
recibí los dos estaban muertos”.
¿Quién iba a decirle a Dulce María, en 1931, cuando los caminos de
ambos se hallaban tan distantes, que sería ella la encargada de
recibir el mensaje póstumo de Mojica? Estaba el mexicano en aquel
lejano año en la cúspide de la fama. Su voz era hermosísima y sus
piernas, una de las cuales le sería amputada, saltaban ágiles. La
gente formaba largas filas al frente de su hotel o su teatro solo para
verlo escapar rápidamente cuando salía, si no se escabullía antes por
una puerta secreta.
Más de una vez, durante su estancia habanera, los agentes del orden
tuvieron que protegerlo del entusiasmo del público, y más de una vez
tuvo que castigar él mismo con sus recios puños la insolencia de
algunos que llevaban su torpeza o su malignidad demasiado lejos, acota
la poetisa y añade que fue una suerte de locura colectiva la que se
adueñó de los habaneros durante la estancia de José Mojica.
La voz de oro
Ciro Bianchi RossCiro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
20 de Septiembre del 2014 18:59:30 CDT
La escritora cubana Dulce María Loynaz -premio Miguel de Cervantes,
1992- dice en sus memorias que el actor y cantante mexicano José
Mojica hizo perder la razón a los habaneros durante su visita de
finales de 1931. “Para ensalzarlo o vituperarlo, ningún artista ha
levantado aquí clamor semejante”, precisa la autora de Jardín y
Últimos días de una casa, mientras que el llamado Valentino de la
ópera escribiría por su parte: “Si tuve grandes alegrías en La Habana,
también sufrí grandes dolores”.
Aclara la Loynaz que ella permaneció al margen de todo aquello. Nunca,
ni entonces ni después, le interesaron los cantantes y tenía
ciertamente cosas más importantes en las que pensar. Un primo suyo
empezaba a cortejarla y era, a su juicio, más gallardo que el
mexicano. “De Mojica ni siquiera había visto las películas. Y lo tenía
por persona vana y superficial”.
Llegarían, con el tiempo, a conocerse personalmente. Ni el artista ni
la poetisa eran ya las mismas personas. El hombre que había ganado una
fortuna con sus películas y sus conciertos, se ordenaba sacerdote y
hacía voto de pobreza. Dulce María rompía su matrimonio con el primo y
se dejaba cortejar por el cronista social Pablo Álvarez de Cañas, que
moría de amor por ella desde que vio su retrato en un periódico. Pablo
soñaba con que aquel romance terminara en boda, posibilidad impensable
para la poetisa. Aun así emprendieron juntos un viaje por América
Latina. Al llegar a Perú, quiso Álvarez de Cañas saludar a Mojica ya
fray José Francisco de Guadalupe, internado en el convento de La
Recoleta, casi inaccesible en aquellas tremendas soledades andinas. El
concepto que de él se hiciera la creadora de Carta de amor al rey Tut
Ank Amen cambió radicalmente. “Tan rectificado fue, y tal impresión me
hizo en esa única visita, que puedo decir ahora que fueron sus
palabras las que más pesaron en mi vacilante voluntad de casarme con
Pablo”.
Una amistad fraternal unió a los dos hombres y esa relación duró hasta
la muerte, ocurrida con solo días de diferencia entre los dos.
Escribe la Loynaz en Fe de vida: “Entre las cartas que todavía
llegaron a su nombre después de fallecido Pablo, estaba una de fray
José de Guadalupe Mojica, que incluía su última foto dedicada a él. En
ella aparecía en una silla de ruedas, aún sonriente, y cuando la
recibí los dos estaban muertos”.
¿Quién iba a decirle a Dulce María, en 1931, cuando los caminos de
ambos se hallaban tan distantes, que sería ella la encargada de
recibir el mensaje póstumo de Mojica? Estaba el mexicano en aquel
lejano año en la cúspide de la fama. Su voz era hermosísima y sus
piernas, una de las cuales le sería amputada, saltaban ágiles. La
gente formaba largas filas al frente de su hotel o su teatro solo para
verlo escapar rápidamente cuando salía, si no se escabullía antes por
una puerta secreta.
Más de una vez, durante su estancia habanera, los agentes del orden
tuvieron que protegerlo del entusiasmo del público, y más de una vez
tuvo que castigar él mismo con sus recios puños la insolencia de
algunos que llevaban su torpeza o su malignidad demasiado lejos, acota
la poetisa y añade que fue una suerte de locura colectiva la que se
adueñó de los habaneros durante la estancia de José Mojica.
La voz de oro
En ese momento se le consideraba el mejor tenor de América Latina. A
la maravilla de su voz --voz de oro, como se decía en ese tiempo-- unía
su tipo de galán latino que, a partir de Rodolfo Valentino, exigían
los cánones melodramáticos de la época. Su carrera cinematográfica
comenzó en 1928 con películas habladas y cantadas en español, como
Ladrón de amor y El precio de un beso.
El afamado compositor y pianista Ernesto Lecuona lo contrató para que
viniera a La Habana. Se conocieron en Hollywood. La Metro Goldwyn
Mayer había solicitado al cubano que colaborara en la musicalización
de Canción de amor, filme protagonizado por el barítono Lawrence
Tibbett y la actriz mexicana Lupe Vélez, y en la que participó la
orquesta de los Hermanos Palau y cantantes y bailarines cubanos.
Lecuona intimó con Mojica y respondió a la invitación del astro
mexicano de que lo visitara en la mansión que se había construido en
Santa Mónica. Allí, valiéndose del gran piano de cola que había en la
sala de estar de la casa, hizo el compositor una audición memorable de
su obra. En un aparte, Lecuona le dijo a Mojica: “Tienes que ir a
Cuba. Tendrás un éxito enorme”. Le ofreció mil dólares por cada
concierto en La Habana. Era una buena suma para una época de crisis
económica, y Mojica aceptó encantado la oferta pues necesitaba plata
para apoyar el movimiento de los cristeros. Vendría junto al notable
pianista Troy Sanders, quien lo acompañaría en sus presentaciones.
Partieron del puerto de Veracruz con destino a la capital de la Isla.
Su llegada despertó un entusiasmo poco visto antes.
Escribió el tenor en sus memorias: “Desde mi arribo advertí que tenía
que enfrentarme a un público amigo al que debía tratar de manera
especial. La recepción que me preparó Lecuona fue sensacional. Tenía
que entregarme, sin reservas, a un público entusiasta. La seriedad y
compostura no encajan con los cubanos, que aman la confianza, la
franqueza, y se interesan por la persona. Me lo había advertido
Esperanza Iris cuando me refería el trato familiar y cálido que le
daban en toda la Isla”.
Para el 14 de diciembre se programó su primera presentación en el
Teatro Nacional, hoy Gran Teatro de La Habana. Se dice que era
materialmente imposible atravesar la esquina de Prado y San Rafael, en
Centro Habana, donde se encuentra el coliseo y que el cercano Parque
Central estaba totalmente invadido de público y policías. Las lunetas
se vendían a tres pesos, un precio subido dada la situación del país.
El teatro estaba lleno a reventar. Parecía que la gente había perdido
el miedo a concurrir a lugares públicos en aquellos días cuando se
recrudecía la oposición a la dictadura del general Gerardo Machado y
el régimen extremaba la represión y los grupos revolucionarios
detonaban bombas y petardos y hacían funcionar la escopeta recortada.
Pero todo el mundo quería ver y oír a Mojica, y el automóvil que lo
transportaba debió desplazarse con sumo cuidado en medio de un mar de
gente que aplaudía, gritaba y exigía ver al cantante.
A las nueve en punto salió Mojica al escenario. Una verdadera
tempestad de aplausos lo arropó durante largos minutos. Al fin empezó
la música: Peri, Cavalli, Cimara, Gounod... La parte inicial del
concierto transcurría de maravilla cuando desde el escenario el tenor
comenzó a ver que la gente se levantaba y salía apresuradamente. Tosía
y gesticulaba, y se cubría la nariz con pañuelos. Apuntó en sus
memorias: “Hasta mí llegaba el picante olor de las bombas
lacrimógenas”.
No eran tales. Se trataba de las llamadas bombitas de peste, rústico
adminículo que se elabora con la flor de pedo que al reventarse
produce un olor nauseabundo y que, de hacerse en una habitación
cerrada, invade poco a poco todo el espacio, se mantiene en el
ambiente durante largos minutos e impregna el olfato de quien le tocó
olerla. El concierto debió ser suspendido. Cuando se reanudó, la
atmósfera estaba aún viciada por lo gases. Sanders ejecutó a Zeckwer y
el estadio Staccato, de Rubinstein, y Mojica prosiguió con obras de
Duparc, Massenet, Chausson, Head y otros.
La calma parecía haberse restablecido.
Cuando me vaya
Un momento importante de los conciertos de Mojica en La Habana fue su
interpretación de María la O, zarzuela de Ernesto Lecuona. Nunca antes
había sido cantada por voz masculina ya que solamente las sopranos la
habían dado a conocer. Mojica la interpretó en un arreglo especial
hecho por él, con recitados y declamaciones que la hacían propia para
voz varonil. “Por ello recibí, dijo el tenor, una de las más grandes
ovaciones de mi vida, y esa noche María la O --que vocalmente ofrece
dificultades y agudos iguales a la más escabrosa aria de ópera-- quedó
para siempre en el gusto del público cubano; digo para siempre porque
hace un cuarto de siglo que la canté y todavía se escucha
diariamente”.
El día 16 de diciembre volvió Mojica al escenario del Nacional con
obras de Pergoilessi, Erlanger, Chaminade, Donizetti... Sanders acometió
a Debussy y a Turina. El tenor cerró con canciones folclóricas y
anónimas, y para finalizar interpretó Cuando me vaya, de María Grever.
El 20 de diciembre, Mojica ofreció una audición popular con canciones
mexicanas y cubanas. Ese día Lecuona interpretó, a dos pianos con
Sanders, sus piezas La comparsa y Danza lucumí. Hubo conciertos el 25,
el 26 y el 28, y el 30 fue de homenaje y despedida al artista
visitante.
Historiadores cubanos no han esclarecido nunca las razones que
motivaron la maloliente interrupción del primer concierto de Mojica en
La Habana. A diferencia de la bomba que le pusieron a Caruso en el
propio Teatro Nacional, en 1920, nadie se proclamó autor del hecho en
los más de 80 años transcurridos desde entonces. No existen sospechas
siquiera.
El propio tenor explicó en sus memorias los posibles motivos: “Había
intereses que resentían perjuicios con el artista que dejaba sin
público los demás teatros; empresas cinematográficas que creían
necesario desacreditar y aun calumniar al que les causaba pérdidas;
periodistas sin ética profesional que esperaban gratificaciones de mis
empresarios y que, por no obtenerlas, escribieron artículos llenos de
sátira y malicia.
Hubo caricaturas que, a más de bobas, eran insultantes. El remedio
que me propusieron para acallar los comentarios, era peor que la
campaña de calumnia. Debería yo abofetear en público a cierto
periodista; correr una aventura amorosa con cualquier mujer casada;
jugar grandes sumas en casinos clandestinos; organizar juergas y
visitar casas de mala nota. Debía ser admirado como hombre mundano, no
como artista de buenas costumbres”.
Hay algo cierto. Con la excepción de Pablo Álvarez de Cañas, cronista
social del periódico El País, la prensa le hizo imposible la vida a
Mojica durante su estancia en La Habana.
Solamente una vez
En 1941, en San Miguel de Allende, Guanajuato, fallece doña Virginia,
la madre del tenor. José Mojica, en plenitud de su carrera, abandona
entonces la vida artística e ingresa en un convento. Se dice que en
tales circunstancias Agustín Lara le dedica su bolero Solamente una
vez. Dos años más tarde recibe las órdenes menores y, después de hacer
el noviciado, se ordena sacerdote.
Murió en Lima, el 20 de septiembre de 1974, a los 79 años de edad.
Actuó en el cine, con la debida autorización eclesiástica,
prácticamente hasta el final de su vida.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
domenica 21 settembre 2014
sabato 20 settembre 2014
venerdì 19 settembre 2014
giovedì 18 settembre 2014
Presentata la XXXII edizione della Fiera Internazionale dell'Avana
Convocata la Fiera Internazionale dell’Avana 2014
Il Ministro del Commercio Estero e degli Investimenti Esteri di Cuba, Rodrigo Malmierca, a nome del Comitato Organizzatore della Fiera Internazionale de L’Avana (FIHAV) invita a partecipare alla sua trentaduesima edizione, che si terrà dal 2 all’8 novembre presso il centro fieristico EXPOCUBA a L’Avana.
FIHAV è una fiera consolidata che si tiene ogni anno dal 1983.E ‘il più importante evento fieristico di carattere generale di Cuba e dei Caraibi, ed uno dei più rappresentativi dell’America Latina. In questo caso tutti i settori dell’economia cubana sono presentati, riuscendo a riunire la mostra commerciale più completa a livello nazionale ed internazionale, in uno spazio adatto affinché espositori e visitatori realizzino incontri d’affari, svolgano trattative e scambino conoscenze oltre ad attualizzarsi sugli ultimi sviluppi tecnologici.
Nella sua edizione XXXII, FIHAV sarà caratterizzata da più di 20 000 m2 di superficie espositiva netta, circa 4500 espositori nazionali e stranieri provenienti da oltre 60 paesi, prevede di ricevere 150 000 visitatori e si attende la partecipazione di importanti delegazioni ufficiali estere, consolidandosi così come evento che promuove i collegamenti e le relazioni internazionali del nostro paese con il mondo.
I Nipoti di Hemingway a Cuba
Nipoti di
Hemingway ricordano il Premio Nobel del nonno
John e Patrick visitano Cuba dal 7 al 13 settembre in compagnia di altri 14
statunitensi.
L’Avana.- I nipoti del romanziere statunitense Ernest Hemingwawy, John e
Patrick, hanno ricordato nel museo che porta il nome del loro nonno la consegna
della medaglia del Premio Nobel per la letteratura nel 1954.
Quando hanno visitato questo giovedì la che allora è stata la residenza
dello scrittore nel quartiere di San Francisco de Paula dal 1939, i nipoti
hanno partecipato all’inaugurazione della mostra nella Torre di questo luogo,
con la medaglia consegnata allo scrittore e che Hemingway poi ha donato ai
pescatori cubani.
La medaglia è ora esibita nel Museo Hemingway, in ricordo dei 60 anni
dell’accaduto; al momento di riceverla, il romanziere ha dichiarato alla
televisione che era “un cubano vero”.
Finca Vigia esibisce l’unico oggetto che l’autore di “Il vecchio ed il
mare” aveva depositato nel santuario della Virgen de la Caridad del Cobre nella
città orientale di Santiago de Cuba, come un gesto per rendere omaggio ai suoi
amici più cari, gli umili pescatori cubani.
John e Patrick visitano Cuba (dal 7 al 13 settembre) in compagnia di altri
14 statunitensi, soprattutto biologi e pescatori interessati alla protezione
dell’ambiente.
Entrambi i nipoti hanno mostrato ai giornalisti la loro gioia nel vedere
per la prima volta quella medaglia, che solo conoscevano dalle fotografie.
Inoltre appaiono, insieme alla medaglia, alcuni dei 118 telegrammi di
congratulazioni, che Hemingway ha ricevuto per il premio, e due lettere e
ritagli di giornali dell’epoca.
Nel corso della cerimonia, la Presidentessa del Consiglio Nazionale dei
Beni Culturali, Gladys Maria Collazo, ha spiegato che il museo ha più di 15
mila documenti, conservati sotto la politica di custodia del patrimonio.
Collazo ha ricordato che Hemingway aveva più di 900 dischi di musica
cubana, che dimostrano il rapporto dell’autore con la cultura di questo paese.
Durante la cerimonia, studenti del Conservatorio di Musica di Guanabacoa
hanno eseguito brani del compositore cubano Ernesto Lecuona.
Fonte: Prensa Latina
mercoledì 17 settembre 2014
L'embargo, ma a chi serve?
L'amico Luca Lombroso, sempre interessato a Cuba, mi invia questo articolo di "La Repubblica" che non ha bisogno di molti commenti. Uno di questi è: ma a chi giova? Probabilmente ai politici dell'estrema destra della Florida che intascano succose tangenti, più o meno legali, dai fondi stanziati dal Governo Federale...su loro richiesta. Oppure dai giornalisti e anchorman locali che cavalcano una tigre, sempre più di carta, anch'essi per riempirsi le tasche ed essere sempre più "popolari".
Dopo quasi 54 anni, questo strumento applicato per far implodere il governo di Fidel Castro non è servito a niente e oggi, sotto la direzione del fratello Raúl, al suo mandato finale, con i tentativi di riforma che sta mettendo in atto, serve ancora meno allo scopo prefisso. Le cifre e i fatti parlano da soli. D'altra parte, la miopia, prepotenza e arroganza dei governi nordamericani, dentro e fuori da "casa non loro", è ampiamente conosciuta e dimostrata.
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L'embargo Usa costa 116 miliardi a Cuba: Onu in pressing per la fine
Il blocco ha dimensioni internazionali perché colpisce anche il commercio cubano con Paesi terzi per dire delle mancate entrate da rum e sigari che non può vendere negli Stati Uniti. Se poi gli statunitensi potessero andare sull'isola, il turismo guadagnerebbe 2 miliardi. Solo Israele resta al fianco di Obama
di ALESSANDRA BADUEL
Centosedici miliardi di dollari persi, di cui quasi quattro solo nell'ultimo anno: eccolo, il prezzo pagato da Cuba per effetto dell'embargo statunitense, reso noto in questi giorni dal vice ministro degli Esteri Abelardo Moreno, che ha ricordato come lo scorso sei settembre l'amministrazione Obama abbia rinnovato di un altro anno quel Proclama 3447 con cui John Fitzgerald Kennedy ampliò le restrizioni commerciali già varate da Eisenhower nel 1960 (poco dopo la rivoluzione castrista) e impose la fine di ogni scambio commerciale, economico e finanziario. Era il 7 febbraio 1962. Obama aveva appena compiuto sette mesi, come ricordava poco tempo fa l'Economist, chiedendo di abolire quella misura ormai appartenente al passato neanche più tanto prossimo di un'America "minacciata dal comunismo".
Niente da fare, "el bloqueo" - come lo chiamano i cubani - continua, e Moreno ha elencato le cifre. Solo fra aprile 2013 e giugno 2014, Cuba ha avuto mancate entrate per 3,9 miliardi in dollari, mentre il conto globale è arrivato esattamente a 116.880 milioni di dollari. Quanto poi al deprezzamento del dollaro dall’ inizio dell'embargo a oggi, secondo i cubani fa sì che quella cifra arrivi a 1,11 trilioni. Come ogni anno dal 1982, Cuba ha preparato l'informativa per accompagnare l'ennesima richiesta di fine dell'embargo alla prossima assemblea generale dell'Onu. Assemblea che per 22 anni consecutivi ha regolarmente approvato, con il voto contrario degli Stati Uniti e sempre meno altri Paesi al loro fianco.
Niente da fare, "el bloqueo" - come lo chiamano i cubani - continua, e Moreno ha elencato le cifre. Solo fra aprile 2013 e giugno 2014, Cuba ha avuto mancate entrate per 3,9 miliardi in dollari, mentre il conto globale è arrivato esattamente a 116.880 milioni di dollari. Quanto poi al deprezzamento del dollaro dall’ inizio dell'embargo a oggi, secondo i cubani fa sì che quella cifra arrivi a 1,11 trilioni. Come ogni anno dal 1982, Cuba ha preparato l'informativa per accompagnare l'ennesima richiesta di fine dell'embargo alla prossima assemblea generale dell'Onu. Assemblea che per 22 anni consecutivi ha regolarmente approvato, con il voto contrario degli Stati Uniti e sempre meno altri Paesi al loro fianco.
L'anno scorso i sì sono stati 188 e i no due: Usa e Israele.
Come si componga quella cifra, il viceministro Moreno l'ha spiegato ricordando che "el bloqueo" ha dimensioni internazionali, dato che colpisce anche il commercio cubano con Paesi terzi e la possibilità di investimenti esteri nell'isola. Per non dire del fatto che Cuba valuta in 205,8 milioni di dollari le mancate entrate da rum e sigari che non può vendere proprio negli Stati Uniti - e che là arrivano comunque, di contrabbando. Se poi gli statunitensi potessero andare liberamente sull'isola, il turismo guadagnerebbe 2.000 milioni in dollari. L'isola, in più, non può fare alcuna transazione in moneta Usa nel mondo, né stabilire relazioni con aziende in Paesi terzi che hanno capitale statunitense.
Nel riportare la conferenza stampa di Moreno all'Avana, El País spiega come in realtà una parte crescente dei cubani d'America abbia cambiato idea sull'embargo. Come la comunità internazionale, dal crollo dell'Unione Sovietica in poi, ha criticato sempre di più quel blocco. Nel frattempo, però, ha ricordato Moreno, fra 2009 e 2014 l'amministrazione Obama ha multato 37 aziende statunitensi e straniere per averlo violato. E dal 2004 a oggi il totale delle multe, calcolato anche quello, è stato di 11.500 milioni di dollari. Il grosso è fatto degli 8.970 milioni di dollari pagati dalla francese BNP Paribas per Cuba (in una multa che includeva comunque anche rapporti con l'Iran e soprattutto con il Sudan).
Intanto, il mondo va avanti. Il castrismo si orienta pian piano verso il capitalismo, cerca investimenti esteri e li sta anche cominciando a trovare. E se non è certo più da lungo tempo una minaccia per gli Stati Uniti, sta diventando attraente per altri, come Singapore o il Brasile, o l'Unione europea, mentre ci sono uomini d'affari come il magnate dello zucchero Alfonso Fanjul, personalità preminente dei cubani fuggiti in Florida mezzo secolo fa, che da fiero oppositore si è ora trasformato nell'uomo che chiede di investire nell'isola. Come osservava l'Economist in aprile, se anche il Congresso continuasse a non approvare, Obama potrebbe comunque usare la sua autorità diminuendo le restrizioni di viaggio e togliendo Cuba dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo. Titolo dell'articolo: "Se non ora, quando?".
Come si componga quella cifra, il viceministro Moreno l'ha spiegato ricordando che "el bloqueo" ha dimensioni internazionali, dato che colpisce anche il commercio cubano con Paesi terzi e la possibilità di investimenti esteri nell'isola. Per non dire del fatto che Cuba valuta in 205,8 milioni di dollari le mancate entrate da rum e sigari che non può vendere proprio negli Stati Uniti - e che là arrivano comunque, di contrabbando. Se poi gli statunitensi potessero andare liberamente sull'isola, il turismo guadagnerebbe 2.000 milioni in dollari. L'isola, in più, non può fare alcuna transazione in moneta Usa nel mondo, né stabilire relazioni con aziende in Paesi terzi che hanno capitale statunitense.
Nel riportare la conferenza stampa di Moreno all'Avana, El País spiega come in realtà una parte crescente dei cubani d'America abbia cambiato idea sull'embargo. Come la comunità internazionale, dal crollo dell'Unione Sovietica in poi, ha criticato sempre di più quel blocco. Nel frattempo, però, ha ricordato Moreno, fra 2009 e 2014 l'amministrazione Obama ha multato 37 aziende statunitensi e straniere per averlo violato. E dal 2004 a oggi il totale delle multe, calcolato anche quello, è stato di 11.500 milioni di dollari. Il grosso è fatto degli 8.970 milioni di dollari pagati dalla francese BNP Paribas per Cuba (in una multa che includeva comunque anche rapporti con l'Iran e soprattutto con il Sudan).
Intanto, il mondo va avanti. Il castrismo si orienta pian piano verso il capitalismo, cerca investimenti esteri e li sta anche cominciando a trovare. E se non è certo più da lungo tempo una minaccia per gli Stati Uniti, sta diventando attraente per altri, come Singapore o il Brasile, o l'Unione europea, mentre ci sono uomini d'affari come il magnate dello zucchero Alfonso Fanjul, personalità preminente dei cubani fuggiti in Florida mezzo secolo fa, che da fiero oppositore si è ora trasformato nell'uomo che chiede di investire nell'isola. Come osservava l'Economist in aprile, se anche il Congresso continuasse a non approvare, Obama potrebbe comunque usare la sua autorità diminuendo le restrizioni di viaggio e togliendo Cuba dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo. Titolo dell'articolo: "Se non ora, quando?".
luca lombroso
martedì 16 settembre 2014
Usciti i primi due numeri di La Nuova Replica, a Miami
Sono usciti e distribuiti, a Miami, i primi due numeri della rivista La Nueva Replica che il direttore ed editore Max Lesnick ha fatto resuscitare dalle ceneri de La Replica e dopo la chiusura dello spazio radiofonico di Radio-Miami.
La rivista contiene articoli molti interessanti per chi vuole conoscere meglio la Cuba di prima e attuale. L’aspetto culturale prevale su quello politico che , naturalmente non è occulto, ma non “pesa” più di tanto nel contenuto.
Per chi non può ottenere l’originale in carta stampata, c’è la versione digitale che si può trovare al sito www.lanuevareplica.com
lunedì 15 settembre 2014
Il crimine dell'Almendares e altre risposte, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 14/9/14
Il lettore Rafael
Rodríguez Muñiz, chiede con la sua posta elettronica che riferisca sul caso
dell’omicidio della giovane polacca Sima Rabasky, una ragazza che apparve
pugnalata ai margini del Río Almendares. Il fatto accadde durante la presidenza
del dottor Ramón Grau San Martín (1944-48) e, commenta Rodríguez Muñiz, è un
caso che gli è rimasto nella memoria. Egli era adolescente e qualcuno gli
raccontò che aveva coinciso con Sima Rabasky nell’Istituto di Secondo
Insegnamento dell’Avana.
Non si sono mai
conosciuti il movente dell’omicidio né chi furono gli assassini. Dramma
passionale, vendetta, estorsione, rapina? Lo chiede il lettore e gli piacerebbe
sapere che opinione ha, lo scriba, sulla versione del fatto.
In una occasione,
conversai di ciò con il mio amico giornalista e scrittore jaime Sarusky,
deceduto in questa capitale da poco più di un anno. Egli conobbe Sima nel
ristorante Moische Pipik, il miglior esercizio di cucina ebraica dell’Avana,
sito nella calle Acosta al 211, in pieno quartiere ebreo. Mi disse che non la
ricordava tanto bella come la stampa dell’epoca insisteva nel qualificarla,
però molto vivace, altezzosa e provocante. Precisò che, secondo quello che si
diceva allora, i genitori del fidanzato di Sima non la tolleravano: non
possedeva un centesimo. I Bergman erano una famiglia agiata di Matanzas e si
diceva anche che furono loro, magari riuscendovi, nel far si che le
investigazioni del caso restassero nel maggior silenzio possibile. I fatti
succedettero così.
Un meriggio, sotto il
ponticello del Río Almendares nel Bosco dell’Avana, venne rinvenuta morta, con
dieci pugnalate disseminate in tutto il corpo, una bella ragazza identificata,
poi, come Sima Rabasky, di origine ebrea. Nel pomeriggio, molto vicino a questo
luogo, apparve il cadavere del suo fidanzato lo studente, anch’egli ebreo,
Jaime Bergman. Presentava una pugnalata precisa al cuore.
Omicidio suicidio?
Doppio omicidio? Patto suicida? Per lunghe settimane la polemica non ebbe fine.
Mentre le autorità svolgevano le investigazioni pertinenti, i principali
giornali della capitale dedicavano intere pagine al fatto misterioso affondando
in ogni dettaglio, per piccolo che fosse. I forensi non scartarono la
possibilità di un omicidio-suicidio. Ma alcuni scommettevano sul doppio
omicidio e altri vedevano il fatto come delitto passionale. Quando sembrava
prevalere la prima tesi, nuovi elementi facevano pendere la bilancia per il
doppio omicidio. Ma la morte di Jaime e Sima non si poté mai chiarire.
Lo statista senza Stato
Ile Diego A. Artiles
richiede dati su Francisco de Arango y Parreño.
Questo avanero, nato
nel 1765 e morto nel 1837, lo chiamarono lo statista senza Stato e fu l’eminenza
grigia della "saccarocrazia" creola. Fu
accreditato dal il Comune dell’Avana presso la Corte spagnola, con solo 24 anni d’età; sindaco del Real Consulado de
Agricultura, Industria y Comercio; redattore de El Papel Periódico, promotore e
direttore de la Sociedad Económica de Amigos del País, consigliere delle Indie
e deputato alle Corti fu, dice César García del Pino “il primo dei nostri
economisti”.
Dedicò un’attenzione
costante all’agricoltura. Il suo Discurso
sobre la agricultura ben La Habana y medios de fomentarla (1792), segna una
nuova tappa nel progresso economico di Cuba. Abbraccia un esteso piano di
riforme che, messe in pratica in anni seguenti, furono la base della grandezza
materiale dell’Isola. I suoi studi, i viaggi d’investigazione che intraprese
per disposto ufficiale, in compagnia del Conde de Casa Montalvo, in
Inghilterra, Francia e alcune delle loro colonie, si tradussero nel trapianto
di nuovi metodi agricoli nel Paese, così come di macchinari e procedimenti di
coltivazione, protezione e stimolo all’industria agraria e a difesa dei suoi
prodotti.
Arango comprese che
lo sviluppo dell’agricoltura aveva bisogno, come complemento, della libertà di
commercio e consacrò il suo sforzo per conseguirla fino dal 1908 quando, come
sindaco del Real Consulado presentò la sua informazione su “i mezzi che
conviene proporre per togliere dagli affanni, in cui si trovano, l’agricoltura
e il commercio dell’Isola”. Dieci anni dopo, quando Arango era già Consigliere
delle Indie, la Spagna decretò il libero commercio tra i porti di Cuba con i
mercati esteri, col quale scomparve il monopolio mercantile che la metropoli
esercitò per secoli. Nella promulgazione di questo decreto, un ruolo importante
lo disimpegnò l’intendente generale per l’Industria Alejandro Ramírez che non è
solo il nome della strada che costeggia l’antica Quinta de Dependientes, ma
uno degli uomini più utili dei suoi tempi.
Nei suoi ultimi anni,
Arango, si mostrò partitario della soppressione del traffico di schiavi e
suggerì un piano di emancipazione graduale al fine di dichiarare abolita la
schiavitù. Rettificando così criteri anteriori che lo portavano a raccomandare
la libera introduzione di schiavi e ad opporsi, nelle Cortes del 1813, al
proposito di sopprimere la schiavitù. Nel 1816 conseguì la smonopolizzazione
del tabacco.
La sua prosa è
trasparente, senza condimenti, dice Max Enríquez Ureña. Sapeva essere eloquente
nell’espressione a forza di sobrietà. L’importanza dei suoi scritti risiede,
non nella forma, ma nella sua chiara visione dei problemi economici della sua
patria. Più che uno scrittore fu uno statista. Alejandro de Humboldt lo
qualificò come “statista eminente”. Tutto quello che ha scritto è raccolto nei
due grossi volumi dal titolo Obras del
Excmo. Señor Don Francisco de Arango y Parreño che si pubblicarono nel 1888
e tornarono a vedere la luce nel 1952 con il marchio della Direzione di Cultura
del Ministero dell’Educazione, edizione che lo scriba racchiude fra i suoi
libri di maggior valore.
Il già citato García
del Píno scrive nel suo imprescindibile Mil
criollos del síglo XIX; diccionario biográfico: “All’essere inviato in
Spagna dai francesi, pretende di creare una Giunta come quelle create in altre
province (colonie), quelle che condussero il nostro continente
all’indipendenza, ma l’opposizione di elementi intransigenti, che probabilmente
captarono le sue intenzioni, frustrarono la sua proposta”. A partire da quel
momento i suoi nemici, gli avversari del suo modo di pensare e delle sue
riforme, lo indicarono con il soprannome di ”indipendente”.
Nel 1824 respinse la
nomina a Sovraindendente Generale d’Industria e l’anno successivo si ritirò
dalla vita pubblica. Tre anni prima di morire, il Re spagnolo gli concesse il
titolo di Sostenitore del Regno.
Di ritorno al Tropicana
Le pagine che lo
scriba ha dedicato al Tropicana si sono ripercosse al di la dello sperato. Mi
riferirò solo a due o tre dei messaggi ricevuti. Uno di questi lo invia lo
storico José Quintas da Ciego de Ávila. Il messaggio ratifica, in ciò che
scrive, quello che ha detto Orlando F.
Hernández Machado. Martin Fox Zamora, proprietario del Tropicana era oriundo di
Matanzas; di Calimete, scrive Orlando. Di Calimete o Cárdenas, Quintas dice che
nell’Archivio Storico Provinciale ha consultato un documento in cui si dice che
Fox era “nativo di Matanzas”. Si tratta di una scrittura contenuta nel Fondo
del Protocollo Notarile del citato Archivio e porta la data del 1° dicembre
del 1943. Gia allora Fox risiedeva a Miramar, afferma Quintas.
Aggiunge che Fox
fondò con Florentino Hernández Soler, alias Tino, una ricevitoria nella calle
Marcial Gómez, entre República y Cuba che poi si trasferì nella centrale calle
Independencia, entre Maceo y Simón Reyes (oggi l’edificio è compreso nel boulevard).
L’esercizio fu battezzato come La Batallita, non come La Vallita e in questo
lavorò Oscar Echemendia, un avileño che poi lo accompagnò al Tropicana e che fu
uno dei suoi uomini di fiducia e menager del cabaret. Commenta che nel suo
libro più recente - El hombre que nunca
ríe: Edizioni Ávila 2013 – incluse una cronaca su Fox. S’intitola Todo comenzò en la Batallita.
Per finire, Quintas,
riproduce la testimonianza di un anziano che fu dipendente del cafè Venus,
ubicato molto vicino a La Batallita. Il vecchio cameriere ricordava: “Fox era
un uomo generoso e servizievole, accorreva sempre al richiamo di vicini
necessitati. Usava un profumo francese, un estratto dal nome tipo Narciso Blu o
Narciso Negro, qualcosa di simile e quando arrivava al caffè a bersi la sua
birra tedesca, sapevamo tutti che era vicino, di certo arrivava prima l’odore
caratteristico del suo profumo”.
Orlando F. Hernández
invia un messaggio esplosivo. Domanda allo scriba se sa chi sono le persone che
perdettero più soldi nel casinò del Tropicana. Uno in una sola volta e l’altro
negli anni.
In quanto al primo,
lo scriba non ha potuto comprovare l’informazione che dice che fu il Re Carol
di Romania. L’altro Santiago Rey, senatore della Repubblica; grausiano prima e
batistiano poi, Ministro del Governo (Interni) di Batista. Nemmeno questa
informazione si è potuta comprovare, ma non ci si può dimenticare che il
soggetto era un giocatore compulsivo.
Carol è stato
all’Avana, a quanto pare, più di una volta. Nel 1925 abdicò a favore di suo
figlio Miguel, ancora bambino e partì per l’estero con la sua amante Magda
Lupescu, figlia di un agiato commerciante di tessuti. Lasciava indietro anche
sua moglie Elena, figlia del Re Costantino di Grecia. Si recò a parigi e mentre
sognava l’Avana la realtà del suo Paese lo obbligò a tornare. Assunse il potere
in qualità di reggente e sempre con Magda appresso, stipulò un;alleanza con la
Germania nazista, ma tornò a fuggire. Con la sua amante giunse in Florida, fu a
Nassau e da lì all’Avana dove, nell’hotel Nacional, visse una memorabile storia
d’amore. Il suo Paese lo reclamò di nuovo. Stabilì in Romania un regime
fascista. Si incontrò con Hitler e volle innalzarsi a mediatore del conflitto
che si avvicinava fra il Reich e il blocco anglo-francese. Hitler lo tolse dal
potere a scappellotti e con Magda, tornò a un esilio senza ritorno.
Stabilì la sua
residenza a Lisbona. Viaggiò in America, soggiornò in Brasile e a balzi giunse
all’Avana. Qui si incapricciò del
Tropicana e sempre secondo la versione del lettore Orlando F. Hernández, a cui
lo scriba non controbatte, pretende di ottenerlo con una partita di baccarat.
Intervengono, in una di queste partite, sei o sette giocatori. Il banco non
gioca: prende una percentuale di quello che guadagna il vincitore. Ma quella fu
una partita atipica, Un solo giocatore Carol II ex Re di Romania, contro il
Tropicana. Se avesse vinto sarebbe rimasto proprietario locale. Nel tentativo perse
un milione di dollari.
El crimen del Almendares y otras respuestas
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
13 de Septiembre del 2014 18:22:37 CDT
El lector Rafael Rodríguez Muñiz pide en su correo electrónico que
refiera el caso del asesinato de la polaquita Sima Rasbasky, una
muchacha que apareció apuñalada en las márgenes del río Almendares. El
suceso ocurrió durante la presidencia del doctor Ramón Grau San Martín
(1944-48) y, comenta Rodríguez Muñiz, es un caso que ha permanecido en
su memoria. Él era adolescente y alguien le contó que había coincidido
con Sima Rasbasky en el Instituto de Segunda Enseñanza de La Habana.
Nunca se conoció el móvil del hecho ni se supo quiénes fueron los
asesinos. ¿Drama pasional, venganza, extorsión, escarmiento?, pregunta
el lector y dice que le gustaría saber la versión que el escribidor
tiene del asunto.
En una ocasión conversé sobre esto con mi amigo el narrador y
periodista Jaime Sarusky, fallecido en esta capital hace poco más de
un año. Él conoció a Sima en el restaurante Moische Pipik, el mejor
establecimiento de cocina judía de La Habana, sito en la calle Acosta
No. 211, en pleno barrio judío. Me dijo que no la recordaba tan linda
como la prensa de la época insistió en calificarla, pero sí muy viva,
presumida y coqueta. Precisó que, según se dijo entonces, los padres
del novio de Sima no la toleraban; no tenía un centavo. Los Bergman
eran una familia acaudalada de Matanzas y, se decía también, fueron
ellos los que insistían, y tal vez lograran, en que las
investigaciones sobre el caso quedaran en el mayor silencio posible.
Los hechos ocurrieron así.
Un mediodía, debajo de un puentecito del río Almendares, en el Bosque
de La Habana, fue hallada muerta, con diez puñaladas diseminadas por
todo el cuerpo, una bella joven identificada después como Sima
Rasbasky, de origen hebreo. Por la tarde, y muy cerca de ese sitio,
aparecía el cadáver de su novio, el estudiante, también hebreo, Jaime
Bergman. Presentaba una cuchillada certera en el corazón.
¿Homicidio-suicidio? ¿Doble homicidio? ¿Pacto suicida? Durante largas
semanas no cesó la polémica. Mientras las autoridades acometían las
investigaciones pertinentes, los principales diarios de la capital
dedicaban planas enteras al misterioso suceso y ahondaban en todos los
detalles, por pequeños que fueran. Los forenses no descartaron la
posibilidad de un homicidio-suicidio. Pero algunos apostaban por el
doble homicidio y otros conceptuaban el suceso como un crimen
pasional. Cuando parecía prevalecer la primera tesis, nuevos elementos
hacían que la balanza se inclinara por el doble homicidio. Pero la
muerte de Jaime y Sima no pudo esclarecerse nunca.
El estadista sin estado
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
13 de Septiembre del 2014 18:22:37 CDT
El lector Rafael Rodríguez Muñiz pide en su correo electrónico que
refiera el caso del asesinato de la polaquita Sima Rasbasky, una
muchacha que apareció apuñalada en las márgenes del río Almendares. El
suceso ocurrió durante la presidencia del doctor Ramón Grau San Martín
(1944-48) y, comenta Rodríguez Muñiz, es un caso que ha permanecido en
su memoria. Él era adolescente y alguien le contó que había coincidido
con Sima Rasbasky en el Instituto de Segunda Enseñanza de La Habana.
Nunca se conoció el móvil del hecho ni se supo quiénes fueron los
asesinos. ¿Drama pasional, venganza, extorsión, escarmiento?, pregunta
el lector y dice que le gustaría saber la versión que el escribidor
tiene del asunto.
En una ocasión conversé sobre esto con mi amigo el narrador y
periodista Jaime Sarusky, fallecido en esta capital hace poco más de
un año. Él conoció a Sima en el restaurante Moische Pipik, el mejor
establecimiento de cocina judía de La Habana, sito en la calle Acosta
No. 211, en pleno barrio judío. Me dijo que no la recordaba tan linda
como la prensa de la época insistió en calificarla, pero sí muy viva,
presumida y coqueta. Precisó que, según se dijo entonces, los padres
del novio de Sima no la toleraban; no tenía un centavo. Los Bergman
eran una familia acaudalada de Matanzas y, se decía también, fueron
ellos los que insistían, y tal vez lograran, en que las
investigaciones sobre el caso quedaran en el mayor silencio posible.
Los hechos ocurrieron así.
Un mediodía, debajo de un puentecito del río Almendares, en el Bosque
de La Habana, fue hallada muerta, con diez puñaladas diseminadas por
todo el cuerpo, una bella joven identificada después como Sima
Rasbasky, de origen hebreo. Por la tarde, y muy cerca de ese sitio,
aparecía el cadáver de su novio, el estudiante, también hebreo, Jaime
Bergman. Presentaba una cuchillada certera en el corazón.
¿Homicidio-suicidio? ¿Doble homicidio? ¿Pacto suicida? Durante largas
semanas no cesó la polémica. Mientras las autoridades acometían las
investigaciones pertinentes, los principales diarios de la capital
dedicaban planas enteras al misterioso suceso y ahondaban en todos los
detalles, por pequeños que fueran. Los forenses no descartaron la
posibilidad de un homicidio-suicidio. Pero algunos apostaban por el
doble homicidio y otros conceptuaban el suceso como un crimen
pasional. Cuando parecía prevalecer la primera tesis, nuevos elementos
hacían que la balanza se inclinara por el doble homicidio. Pero la
muerte de Jaime y Sima no pudo esclarecerse nunca.
El estadista sin estado
Datos sobre Francisco de Arango y Parreño solicita el lector Diego A. Artiles.
A ese habanero nacido en 1765 y muerto en 1837 le llamaron el
estadista sin Estado y fue la eminencia gris de la sacarocracia
criolla. Apoderado del Ayuntamiento de La Habana en la Corte española,
con solo 24 años de edad; síndico del Real Consulado de Agricultura,
Industria y Comercio; redactor del Papel Periódico, promotor y
director de la Sociedad Económica de Amigos del País, consejero de
Indias y diputado a Cortes fue, dice César García del Pino, “el
primero de nuestros economistas”.
Dedicó una atención constante a la agricultura. Su Discurso sobre la
agricultura en La Habana y medios de fomentarla (1792) señala una
nueva etapa en el progreso económico de Cuba. Abarca un extenso plan
de reformas que puestas en práctica en años subsiguientes fueron la
base de la grandeza material de la Isla. Sus estudios y los viajes de
investigación que, por disposición oficial, emprendió, en compañía del
Conde de Casa Montalvo, por Inglaterra y Francia y algunas de sus
colonias, se tradujeron en la implantación de nuevos métodos agrícolas
en el país, así como de maquinaria y procedimientos de cultivo,
protección y estímulo a la industria agrícola y defensa de sus
productos.
Comprendió Arango que el desarrollo de la agricultura necesitaba como
complemento la libertad de comercio y a conseguirla consagró su
esfuerzo desde 1808 cuando, como síndico del Real Consulado, presentó
su informe sobre “los medios que conviene proponer para sacar a la
agricultura y el comercio de la Isla del apuro en que se hallan”. Diez
años después, cuando Arango era ya consejero de Indias, España decretó
el libre comercio de los puertos de Cuba con los mercados extranjeros,
con lo que desapareció el monopolio mercantil que la metrópoli ejerció
durante siglos. En la promulgación de ese decreto desempeñó un papel
importante el intendente general de Hacienda Alejandro Ramírez, que no
es solo el nombre de la calle que bordea la antigua Quinta de
Dependientes, sino uno de los hombres más útiles de su tiempo.
En sus últimos años Arango se mostró partidario de la supresión del
tráfico de esclavos y sugirió un plan de emancipación gradual a fin de
declarar abolida la esclavitud. Rectificaba así criterios anteriores
que lo llevaron a recomendar la libre introducción de esclavos y a
oponerse en las Cortes de 1813 al propósito de suprimir la esclavitud.
En 1816 consiguió el desestanco del tabaco.
Su prosa era transparente y sin aliños, dice Max Henríquez Ureña.
Sabía ser elocuente en la expresión a fuerza de sobriedad. La
importancia de sus escritos estriba, no en su forma, sino en su clara
visión de los problemas económicos de su patria. Más que un escritor
fue un estadista. De “estadista eminente” lo calificó Alejandro de
Humboldt. Todo lo que escribió está compilado en los dos gruesos
volúmenes que con el título de Obras del Excmo. Señor Don Francisco de
Arango y Parreño se publicaron en 1888 y volvieron a ver la luz en
1952 con el sello de la Dirección de Cultura del Ministerio de
Educación, edición que el escribidor atesora entre sus libros más
valiosos.
Escribe el ya aludido García del Pino en su imprescindible Mil
criollos del siglo XIX; diccionario biográfico: “Al ser invadida
España por los franceses, pretende crear una Junta como las creadas en
otras provincias (colonias) --las que condujeron en nuestro continente
a la independencia, pero la oposición de elementos intransigentes, que
quizá penetraron sus intenciones, frustraron su propuesta”. A partir
de ese momento, sus enemigos y los adversarios de su modo de pensar y
de sus reformas lo señalaron con el mote de “independiente”.
En 1824 rechazó el nombramiento de Superintendente General de Hacienda
y al año siguiente se retiró de la vida pública. Tres años antes de
morir, el Rey español le concedió el título de Prócer del Reino.
De vuelta a Tropicana
Las páginas que el escribidor dedicó a Tropicana repercutieron más
allá de lo esperado. Me referiré únicamente a dos o tres de los
mensajes recibidos. Uno de esos lo envía el historiador José Quintas
desde Ciego de Ávila. El mensaje ratifica lo que a quien esto escribe
dijo el lector Orlando F. Hernández Machado. Martín Fox Zamora,
propietario de Tropicana, era oriundo de Matanzas; de Calimete,
escribe Orlando. De Calimete o Cárdenas, dice Quintas quien en el
Archivo Histórico Provincial consultó un documento en el que se afirma
que Fox era “natural de Matanzas”. Se trata de una escritura que obra
en el Fondo de Protocolos Notariales del citado Archivo y tiene fecha
de 1ro. de diciembre de 1943. Ya para entonces Fox residía en Miramar,
afirma Quintas.
Añade que Fox fundó con Florentino Hernández Soler, alias Tino, una
colecturía en la calle Marcial Gómez, entre República y Cuba, que
luego se trasladó a la céntrica calle Independencia, entre Maceo y
Simón Reyes (hoy el edificio está enmarcado en el Bulevar). El
establecimiento fue bautizado como La Batallita, no La Vallita, y en
este trabajó Oscar Echemendía, un avileño que luego le acompañó a
Tropicana, y que fue uno de sus hombres de confianza y mánager del
cabaré. Comenta que en su libro más reciente --El hombre que nunca ríe;
Ediciones Ávila, 2013-- incluyó una crónica sobre Fox. Se titula Todo
comenzó en La Batallita.
Por último, Quintas reproduce el testimonio de un anciano que fue
dependiente del café Venus, ubicado muy cerca de La Batallita.
Recordaba el viejo camarero: “Fox era hombre generoso y servicial, que
acudía al reclamo de vecinos necesitados. Usaba un perfume francés,
extracto, de nombre algo así como Narciso Azul o Narciso Negro, y
cuando iba al café, a tomar su cerveza alemana, todos sabíamos que
estaba cerca, pues primero llegaba el olor característico de su
perfume”.
Orlando F. Hernández envía un mensaje que es un bombazo. Pregunta al
escribidor si sabe quiénes fueron los hombres que más dinero perdieron
en el casino de juego de Tropicana. Uno, de un solo golpe; otro, en el
transcurso de los años.
En cuanto al primero, y el escribidor no ha podido contrastar la
información, dice que es el rey Carol II, de Rumania. El otro,
Santiago Rey, senador de la República; grausista primero y batistiano
después, ministro de Gobernación (Interior) de Batista. Tampoco esta
información pudo ser contrastada, pero no puede olvidarse que el
sujeto era un jugador compulsivo.
Carol estuvo en La Habana, al parecer más de una vez. En 1925 abdicó a
favor de su hijo Miguel, un niño todavía, y salió al exterior con su
amante Magda Lupescu, hija de un acaudalado comerciante de tejidos.
Dejaba atrás también a su esposa Elena, hija del rey Constantino de
Grecia. Viajó a París y cuando soñaba con La Habana, la realidad de su
país lo obligó a volver. Asumió el poder en calidad de regente y,
siempre con Magda a cuestas, tranzó una alianza con la Alemania nazi,
pero volvió a fugarse. Con su amante, llegó a la Florida, viajó a
Nassau y de ahí a La Habana donde, en el Hotel Nacional, vivió una
memorable encerrona de amor. De nuevo su país lo reclamó. Implantó en
Rumania un régimen fascista. Se entrevistó con Hitler y quiso alzarse
como el mediador del conflicto que se avecinaba entre el Reich y el
bloque anglo-francés. Hitler lo sacó del poder a sombrerazos y, con
Magda, volvió a un exilio sin regreso.
Establece su residencia en Lisboa. Viaja a América, hace estancia en
Brasil y dando saltos llega a La Habana. Aquí se encapricha con
Tropicana y siempre, según la versión del lector Orlando F. Hernández
que el escribidor no contrastó, pretende ganarlo en una partida de
bacará. Intervienen en una de esas partidas seis o siete jugadores. El
banco no juega; coge un por ciento de lo que gana el triunfador. Pero
aquella fue una partida atípica. Un solo jugador, Carol II, ex rey de
Rumania, contra Tropicana. Si ganaba, se quedaba con el cabaré. Perdió
un millón de dólares en el intento.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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