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venerdì 15 aprile 2016
giovedì 14 aprile 2016
È mancato Julio García Espinosa, un pezzo di storia del Cinema cubano
In questo “bisesto” 2016,
continuano i lutti nel campo della Cultura cubana e in particolare nella
Cinematografia, dopo la scomparsa la settimana scorsa del regista, soggettista
e sceneggiatore Rogélio París, ieri
pomeriggio è mancato, all’età di 89 anni, Julio García Espinosa. Uno dei
grandi, tra i primissimi fondatori del nuovo cinema cubano, assieme ad Alfredo
Guevara e Tomàs Gutiérrez Alea (Titón) ed Enrique Pineda Barnet e Santiago
Álvarez.
Julio ha frequentato il CSC
di Roma tra il 1951 e il 1954, dove ha incontrato Gabriel García Márquez col
quale ha conservato un’amicizia per la vita e con lui ed altri, come Alfredo,
ha creato la Fondazione del Nuovo Cine Latinoamericano e la Scuola
Internazionale di Cine e TV di San Antonio de los Baños.
A Roma ha anche stretto una
lunghissima amicizia con Cesare Zavattini che è proseguita epistolarmente per
molti anni.
È stato fondatore e
presidente dell’ICAIC e del Festival del Nuovo Cine Latinoamericano che già da
oltre tre decadi, porta il Cinema di questo continente, ma non solo, in una
grande festa con centinaia di proiezioni nei cinema di tutto il Paese,
accompagnate da eventi, conferenze e dibattiti, dove non mancano prestigiosi
esponenti della cinematografia mondiale.
Nel 2013, Julio ha ricevuto,
per mano dell’Ambasciatore italiano, la Stella al merito della Repubblica
Italiana, in occasione del suo 83° compleanno.
Alla sua compagna di vita,
per tantissimi anni, Dolores Calviño “Lola”, vadano le più sentite
condoglianze.
martedì 12 aprile 2016
Pennellate avanere, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 10/4/16
Lo sapevate che la Plaza di
San Francisco in una certa occasione ha avuto il nome ufficiale di Plaza de Key
west? Ebbens sì. Successe nel 1947, ai tempi del sindaco Nicolás Castellanos
Rivero e seppure si collocò in quello spazio una targa con la nuova
denominazione, gli avaneri sembrarono non essersene accorti e continuarono
chiamandola Plaza de San Francisco.
De San Francisco? All’inizio
non poteva avere questo nome, ebbene la piazza esisteva dal 1559 e non fu fino
al 1584 quando cominció a costruirsi il convento, un edificio di grandi
proporzioni le cui opere furno concluse nel 1591, nonostante non fu pronto fino
a dopo una grande riforma che si estese tra il 1731 e il 1738, per essere
consacrato l’anno seguente.
Nel 1841 il Governo spagnolo
confiscó i beni delle comunità religiose e i frati francescani dovettero
abbandonarlo; allora cercarono a Guanabacoa e nella chiesa del convento di San
Augustín, oggi di Sna Francisco, all’angolo di Cuba e Amargura. Il vecchio
convento con il suo tempio diventó deposito di merci e dal 1856 funzionarono,
nella sua area, l”Archivio Generale dell’Isola e la Dogana dell’Avana. Nel 1907
fu occupato dalla direzione delle Poste e Telegrafi e dopo un buon restauro
ospitò la Direzione delle Comunicazioni, poi chiamata Segreterie e poi Ministero,
fino al suo trasloco alla Plaza Cívica, oggi della Rivoluzione, nel 1957,
quando si inaugurò il cosiddetto Palazzo delle Comunicazioni.
Dopo il 1959 si pensò di
trasferirvi l’idea di installarvi un Museo Coloniale. Non si fece niente in
questo senso e l’edificio servì da magazzino fino a che ospitò la Scuola
Laboratorio Gaspar Melchor de Jovellanos, dell’Ufficio dello Storico dellla
Città che lo restaurò con grande zelo.
Il 17 novembre del 1955, si
conclusro i restauri del claustro nord del convento che gli restituirono
l’aspetto originario.
Prima, il 4 ottobre del
1994, terminò il restauro della Basilica Minore di San Francesco di Assisi.
Oggi il convento ospita il
Museo di Arte Sacra, con una prezioas collezione che comprende,
fondamentalmente, immagini del XVIII° secolo, cosí come pezzi di caratttere
religioso come le pantofole e la cappa impermeabile di Dionisio Rezino y
Ormachea, primo Vescovo Ausiliare di Cuba, ricamate in Messico nel VII° secolo,
in seta,fili d’oro e pietre preziose. La mostra ha importanti pezzi d’avorio (secoli
XVII e XIX) e una collezione di ritrovamenti archeologici, provenienti in buona
misura negli scavi realizzati nel medesimo edificio e un’ampia rappresentazione
di oreficeria e mobili religiosi di epoche passate.
La Basilica Minore di San
Francesco di Assisi, dedicata alla musica corale e da camera è una delle
migliori sale da concerto della città. (vi si è esibita anche Katia Ricciarelli
in una Settimana della Cultura italiana. n.d.t.).
Col
nome di Céspedes
La Plaza de San Francisco si
chiamò, per breve tempo e pure senza esito, Plaza de Fernando VII°. La Plaza de
Armas fu originariamente la Plaza de la Iglesia, per la Parrochiale Maggiore
che vi si affacciava e che occupava lo spazio dove poi si eresse il Palazzo dei
Capitani Generali.
A parire dal 1581 si fanno
sentire le gravi differenze tra Gabriel de Luján, governatore dell’Isola e
Diego Fernández de Quiñones, reggente del Castillo de la Fuerza, per la
supremazia e il comando della guarnigione che ra già di 200 elementi, Quiñones
occupò la Plaza de la Iglesia perché la truppa vi facesse le sue esercitazioni
militari e i luogo cominciò a chiamarsi Plaza de Armas, con la delusione del
vicinato che perse lo spazio che dedicava al commercio e alla ricreazione.
Fu allora che il Comando
politico decise l’acquisto di un terreno per la collocazione della nuova
piazza, ma l’acquisto non si fece per mancanza di soldi. La piazza continuò ad
essere la de Armas anche quando, passato il tempo, i soldati de La Fuerza
cessarono di farvi le loro esercitazioni e il destino che spinse il bellicoso
Quiñones, vi lasciò solo il nome.
Nel 1955 si sloggiò dal
centro de la Plaza de Armas la statua di Ferdinando VII°, il re fellone, il più
odiato dei regnanti spagnoli, situata lì nel 1834. Al suo posto si collocò
l’immagine scultorica di Carlos Manuel de Céspedes, Padre della Patria, opera
del cubano Sergio López Mesa: una statua di marmo, dimensioni rispettabili,
nella quale il personaggio appare in piedi, con i vestiti dell’epoca e la testa
scoperta, eretta sul medesimo piedestallo della statua del re che prima si
conservò nei magazzini del Museo della Città e poi si collocò nel portico del
Palazzo del Secondo Capo, fino a che passò a quello del citato Museo.
Céspedes, duole dirlo, non
ha all’Avana un monumento degno della sua grandezza. Nel 1900 si creò
l’Associazione Pro Monumento a Céspedes e Martí, ma si elevò solo quello
dell’Apostolo nel Parque Central avanero. Nel 1919, per iniziativa di don Cosme
de la Torriente, colonnello dell’Esercito di Liberazione e cancelliere della
Repubblica, il Congresso votò una legge nella quale si finanziavano 175.000
pesos per erigere il monumento. Non se ne fece nulla. Nel 1923 il Municipio
dell’Avana accordò, su proposta della rivista Cuba Contemporánea, di dare il
nome di Carlos manuel de Céspedes alla Plaza de Armas.
Piazza
nuova o vecchia?
La piazza che noi chiamiamo
Vecchia fu, a suo tempo, La Plaza Nueva. Si formò, dice lo storico Arrate, nel
1559, quando sesitevano già la Plaza de la Iglesia e quella di San Francisco.
Lo storico Pérez Beato afferma che la Plaza Nueva fu rispetto a quella de la
Iglesia perché quella di San Francisco non esisteva. Forse esisteva, come
afferma un’altro storico, Emilio Roig, solo che San Francisco al suo inizio,
non era altro che una frangia di terra senza edifici.
L’autore de La Habana: apuntes históricos:
“Un’angusta frangia di terreno sita tra le calli Oficios e quella della Marina,
a modo di spiaggia, frangia che si estendeva tra l’atrio della Chiesa e la
calle Lamparilla”.
Roig assicura che San Francisco
fu il mercato pubblico fino a che questi, su richiesta dei francescani, si
traferì all’attuale Plaza Vieja.
Nonostante fosse andato via
da lì il vero mercato, San Francisco fu il centro commercial e di ogni
transazione, durante la Colonia, “luogo di attesa, carico e scarico dei
carrettoni che si recavano al molo e ai magazzini che circondavano quel luogo;
deposito di merci e frutta...Su di essa sbarcarono anche gli immigranti che
venivano, dalla Penisola, a fare soldi in America o a morire di febbre gialla
senza aver raggiunto le loro speranze di ricchezza”.
Come quella di San
Francisco, anche questa, anche questa port il nome di Fernando VII°. Per la verità ha avuto non pochi nomi lungo la sua
lunga esistenza: Plaza Nueva, Plaza Real, Plaza Mayor, Plaza de Roque Gil,
Plaza del Mercado, Plaza de la Verdura, Plaza de la Constitución, Plaza de
Cristina, Plaza de la Concordia, Plaza Vieja e Parque Juan Bruno Zayas. Nel
1835 il governatore Miguel Tacón costruì al centro della Piazza un edificio
quadrangolare di mattoni che si sarebbe destinato a mercato: il Mercato di
Cristina, in omaggio all’allora regina spagnola. La Plaza Nueva cominciò a
essere Vieja quando, a partire dal 1640 si costruì la Plaza Nueva del Cristo.
Dal 1814 vi funzionò, in modo extra ufficiale un mercato e nel 1836, Tacón
dispose che si chiamasse Mercato del Cristo, l’insieme di posteggi che ordinò
di costruirvi.
A San Francisco si trovava
la cosiddetta casa de Aróstegui, residenza dei governatori spagnoli dal 1763 fino a che si costruì il Palazzo dei
Capitani Generali. All’angolo tra Oficios e Amargura si trova la palazzina che
fu dei successori del IV marchese di San Felipe Y Santiago, dove nel 1878 si
alloggiò parte della comitiva dei duchi di Orleáns che più tardi avrebbero
occupato il trono di Francia. Oggi è l’albergo Marqués de San Felipe y
Santiago.
Il
più ricco
Non poche famiglie
principali della Colonia risiedettero nella Plaza Vieja. Si distingue fra di
loro quella dei conti di San Juan de Jaruco.
Il terzo conte, don Juaquín
de Santa Cruz y Cárdenas fu, al suo tempo (1769-1807) l’uomo più ricco di Cuba.
Ma era illuso e poco pratico. Fondò grandi aziende e quasi tutte fracassarono;
nonostante fosse carente di scrupoli, il suo capitale diminuiva e i debiti
aumentavano. Quando morì. Lasciò l’immensa fortuna, per quell’epoca, di nove
milioni di pesos, condizionata da un debito di sette milioni che il testamento
lo obbligava ad onorare. Don Joaquín è il padre della celeberrima Contessa di
Merlin autrice, nel 1844 di un libro delizioso, frutto di una breve visita
all’Isola, Viaje a La Habana.
Ad opinione di specialisti,
nella Plaza Vieja si edificarono alcune delle più belle magioni coloniali.
Alcune di esse resistettero al passare del tempo. La sua armonia costruttiva e
dignità architettonica, ben meritano il lavoro di restauro a cui si sotommise
negli anni ’90, quando la demolizione di un parcheggio sotterraneo che vi si costruì nel 1952, dette la spinta
ai lavori di rimodernizzazione del centro storico. I suoi abitanti la considerarono
sempre come la piazza principale della città.
In essa si fecero i proclami
reali fino agli inizi del XIX° secolo ed ebbero luogo molti avvenimenti che
segnarono i giorni della città. Nel 1942 si propose che vi si erigesse un
monumento ai massoni caduti nelle lotte per l’indipendenza, giacché questo fu
lo spazio dove, nel 1820, i membri della massoneria manifestarno, con i loro
attributi, al fine di proclamare pubblicamente la loro adesione alla libertò e
alla giustizia.
El
Caballero de París
Si è lavorato molto in
queste piazze. La Plaza de la Catedral rimane per una prossima pagina. In
quella de las Armas si è appena terminato di restaurare il Palazzo del Secondo
Capo. L’Hotel Marqués de San Felípe y Santiago de Bejucal apre le sue porte in
San Francisco, come l’edificio della Loggia del Commercio, costruito nel 1909 e
trasformato, nel 1996, in un immobile intelligente con una superficie
affittabile di 9.000 metri quadrati.
Il Planetario e la Camera
Oscura, nella Plaza Vieja, entusiasmano grandi e piccoli. Lì inoltre ci sono la
Fototeca di Cuba e il Centro di Sviluppo delle Arti Visive e in via di
restaurazione, il caffè El Escorial e la Factoría de Maltas y Cervesas così
come la Victrola, esercizio, non statale di successo dove si conciliano la buona
cucina e il buon gusto.
I resti mortali del
Caballero de París, personaggio popolare dell’Avana di sempre, furono inumati
nel convento di San Francisco.
In una delle porte di questo
edificio cha da alla calle Oficios, si è posta una scultura in bronzo in cui
l’artista cubano José Villa Soberón catturò il personaggio. Una nuova leggenda
è nata nell’Avana Vecchia a partire da allora. si dice che a chi, da dietro la
statua, riesce a toccargli la punta della barba con una mano e con l’altra la
punta delle se dita, verrà arriso dalla fortuna. Sembra che non sia facile
farlo, ma vale la pena di provarci.
Brochazos habaneros
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
9 de Abril del 2016 21:14:17 CDT
¿Sabía usted que la Plaza de San
Francisco recibió en cierta ocasión el nombre oficial de Plaza de Key West?
Pues sí. Ocurrió en 1947, en tiempos del alcalde Nicolás Castellanos Rivero, y
aunque se colocó en dicho espacio una tarja con la nueva denominación, los
habaneros parecieron no enterarse de ella y continuaron llamándole Plaza de San
Francisco.
¿De San Francisco? En sus comienzos
no pudo llevar ese nombre, pues la plaza existía antes de 1559 y no fue hasta
1584 cuando comenzó a construirse el convento, un edificio de grandes
proporciones cuyas obras concluyeron en 1591, aunque no quedó listo hasta después
de una amplia reforma que se extendió entre 1731 y 1738, para ser consagrado al
año siguiente.
En 1841 el Gobierno español confiscó
los bienes de las comunidades religiosas y los frailes franciscanos debieron
abandonarlo; buscaron asiento entonces en Guanabacoa y en la iglesia y convento
de San Agustín, hoy, de San Francisco, en la esquina de Cuba y Amargura. El
viejo convento, con su templo, pasó a ser depósito de mercancías y desde 1856
funcionaron en sus áreas el Archivo General de la Isla y la Aduana de La
Habana. En 1907 fue ocupado por la Dirección de Correos y Telégrafos y, luego
de una acertada restauración, albergó la Dirección de Comunicaciones, llamada
después Secretaría y luego Ministerio, hasta su traslado a la Plaza Cívica, hoy
de la Revolución, en 1957, cuando se inauguró el llamado Palacio de las
Comunicaciones.
Después de 1959 se manejó la idea de
instalar allí un museo de historia colonial. Nada se hizo en ese sentido y el
edificio sirvió de almacén hasta que dio albergue a la Escuela Taller Gaspar
Melchor de Jovellanos, de la Oficina del Historiador de la Ciudad, que lo
restauró con esmero.
El 17 de noviembre de 1995
concluyeron las obras de restauración del claustro norte del convento, que le
devolvieron su aspecto original.
Antes, el 4 de octubre de 1994,
terminó la restauración de la Basílica Menor de San Francisco de Asís.
Hoy el convento da albergue al Museo
de Arte Sacro, con una valiosa colección que incluye, en lo fundamental,
imágenes del siglo XVIII, así como piezas de carácter religioso como las
zapatillas y la capa pluvial de Dionisio Rezino y Ormachea, primer Obispo
Auxiliar de Cuba, bordadas en México en el siglo XVII, en seda, hilos de oro y
piedras preciosas. La muestra tiene importantes piezas de marfil (siglos XVIII
y XIX), una colección de hallazgos arqueológicos, procedentes en buena medida
de las excavaciones realizadas en el propio edificio, y una amplia
representación de la orfebrería y el mobiliario religiosos de épocas pasadas.
La Basílica Menor de San Francisco
de Asís, dedicada a la música coral y de cámara, es una de las mejores salas de
concierto de la ciudad.
Con el nombre de Céspedes
La Plaza de San Francisco también se
llamó, por breve tiempo e igualmente sin éxito, Plaza de Fernando VII. La Plaza
de Armas fue originalmente la Plaza de la Iglesia, por la Parroquial Mayor que
se asomaba a ella y que ocupaba el espacio donde se erigió después el Palacio
de los Capitanes Generales.
A partir de 1581 se hacen sentir las
graves diferencias entre Gabriel de Luján, gobernador de la Isla, y Diego
Fernández de Quiñones, alcaide del Castillo de la Fuerza, por la supremacía en
el mando de la guarnición de la fortaleza, que era ya de 200 elementos.
Quiñones ocupó la Plaza de la Iglesia para que la tropa hiciera sus ejercicios
militares y el lugar empezó a llamarse Plaza de Armas, con el desconsuelo de la
vecinería, que perdió el espacio que dedicaba al comercio y a la recreación.
Fue entonces que el Cabildo decidió
la compra de un terreno para el asiento de una nueva plaza, pero la adquisición
no se efectuó por falta de dinero. La plaza siguió siendo la de Armas, aun
cuando pasado el tiempo, los soldados de la Fuerza dejaron de hacer allí su
entrenamiento y del destino a la que la forzó el belicoso Quiñones no quedó más
que el nombre.
En 1955 se desalojó del centro de la
Plaza de Armas la estatua de Fernando VII, el rey felón, el más odiado de los
monarcas españoles, emplazada allí en 1834. En su lugar se colocó la imagen de
bulto de Carlos Manuel de Céspedes, Padre de la Patria, obra del cubano Sergio
López Mesa; una estatua de mármol, de tamaño heroico, en la que el personaje
aparece de pie, con la indumentaria de su época y la cabeza descubierta,
erigida sobre el mismo pedestal de la estatua del monarca, que se guardó primero
en los almacenes del Museo de la Ciudad y se colocó luego en el portal del
Palacio del Segundo Cabo, hasta que pasó al portal del mencionado museo.
Céspedes, duele decirlo, no tiene en
La Habana el monumento digno de su grandeza. En 1900 se creó la Asociación Pro
Monumento a Céspedes y Martí, pero se levantó solo el del Apóstol, en el Parque
Central habanero. En 1919, a iniciativa de don Cosme de la Torriente, coronel
del Ejército Libertador y canciller de la República, el Congreso votó una ley
en la que se consignaban 175 000 pesos para erigirle el monumento. Nada se
hizo. En 1923 el Ayuntamiento de La Habana acordó, a propuesta de la revista
Cuba Contemporánea, dar el nombre de Carlos Manuel de Céspedes a la Plaza de
Armas.
¿Plaza nueva o vieja?
La plaza que nosotros llamamos Vieja
fue, en su tiempo, la Plaza Nueva. Se formó, dice el historiador Arrate, en
1559, cuando ya existían la Plaza de la Iglesia y la de San Francisco. El
historiador Pérez Beato afirma que fue Plaza Nueva con relación a la de la
Iglesia, porque San Francisco no existía. Quizá existiera, comenta otro
historiador, Emilio Roig, solo que San Francisco, en sus comienzos, no era más
que una pequeña faja de tierra sin edificios.
Precisa el autor de La Habana:
Apuntes históricos: «una angosta faja de terreno situada entre la calle de los
Oficios y la Marina, a modo de playa, faja que se extendía entre el atrio de la
iglesia y la calle de la Lamparilla».
Asegura Roig que San Francisco fue
el mercado público hasta que este, por petición de los franciscanos, se
trasladó a la actual Plaza Vieja.
A pesar de haber salido de allí el
verdadero mercado, San Francisco fue durante la Colonia el centro de la vida
comercial y de toda clase de transacciones, «lugar de espera, carga y descarga
de los carretones que acudían al muelle y a los almacenes que rodean aquel
lugar; depósito de mercancías y frutos… Por ella desembarcaban también los
inmigrantes que venían de la Península a hacer dinero en América o a morir de
fiebre amarilla sin haber logrado sus ansias de riqueza».
Como la de San Francisco, también
llevó esta el nombre de Fernando VII. En verdad, ha tenido no pocos nombres a
lo largo de su dilatada existencia: Plaza Nueva, Plaza Real, Plaza Mayor, Plaza
de Roque Gil, Plaza del Mercado, Plaza de la Verdura, Plaza de la Constitución,
Plaza de Cristina, Plaza de la Concordia, Plaza Vieja y Parque Juan Bruno
Zayas. En 1835 el gobernador Miguel Tacón construyó en el centro de la plaza un
edificio cuadrangular de mampostería que se destinaría a mercado: el Mercado de
Cristina, en homenaje a la entonces reina española. La Plaza Nueva empezó a ser
Vieja cuando a partir de 1640 se construyó la Plaza Nueva del Cristo. Desde
1814 funcionó aquí, de manera extraoficial, un mercado, y en 1836 Tacón dispuso
que se llamara Mercado del Cristo al conjunto de casillas que ordenó construir
en el lugar.
En San Francisco se localizaba la
llamada Casa de Aróstegui, residencia de los gobernadores españoles desde 1763
hasta que se construyó el palacio de los Capitanes Generales. Y en la esquina
de Oficios y Amargura se halla el palacete que fue de los sucesores del IV
Marqués de San Felipe y Santiago, donde en 1798 se alojó parte de la comitiva
de los duques de Orleáns, que más tarde ocuparían el trono de Francia. Hoy es
el hotel Marqués de San Felipe y Santiago.
El más rico
No pocas familias principales de la
Colonia residieron en la Plaza Vieja. Sobresale entre ellas la de los condes de
San Juan de Jaruco.
El tercer conde, don Joaquín de
Santa Cruz y Cárdenas, fue en su tiempo (1769-1807) el hombre más rico de Cuba.
Pero era iluso y poco práctico. Acometió grandes empresas y casi todas
fracasaron; pese a que carecía de escrúpulos, su capital decrecía y las deudas
aumentaban. Cuando falleció, legó a su hijo mayor la inmensa fortuna, para la
época, de nueve millones de pesos, condicionada por una deuda de siete millones
que en el testamento le obligaba a honrar. Don Joaquín es el padre de la muy
célebre Condesa de Merlin, autora, en 1844, de un libro delicioso, fruto de una
breve visita a la Isla, Viaje a La Habana.
En opinión de especialistas, en la
Plaza Vieja se edificaron algunas de las más bellas mansiones coloniales.
Algunas de ellas resistieron el paso del tiempo. Su armonía constructiva y
dignidad arquitectónica bien merecen el trabajo de restauración al que las
sometieron en los años de 1990, cuando la demolición de un parque soterrado que
allí se construyó en 1952 dio impulso a las labores de remozamiento del centro
histórico. Sus vecinos la tuvieron siempre como la principal plaza de la villa.
En ella se hicieron las
proclamaciones reales hasta los comienzos del siglo XIX y tuvieron lugar
múltiples hechos que matizaron el día de la ciudad. En 1942 se propuso que se
erigiera allí un monumento a los masones caídos en las luchas por la
independencia, ya que fue ese el espacio donde, en 1820, los miembros de la
masonería, portando todos sus atributos, salieron en manifestación a fin de
proclamar públicamente su adhesión a la libertad y la justicia.
El Caballero de París
Mucho se ha trabajado en estas
plazas. La Plaza de la Catedral queda para una página posterior. En la de Armas
acaba de restaurarse el palacio del Segundo Cabo. El hotel Marqués de San
Felipe y Santiago de Bejucal abre sus puertas en San Francisco, al igual que el
edificio de la Lonja del Comercio, construido en 1909 y transformado en 1996 en
un inmueble inteligente, con una superficie rentable de 9 000 metros cuadrados.
El Planetario y la Cámara Oscura, en
la Plaza Vieja, entusiasman a grandes y chicos. Allí están además la Fototeca
de Cuba y el Centro de Desarrollo de las Artes Visuales, y, en el orden de la
restauración, el café El Escorial y la Factoría de Maltas y Cervezas, así como
La Victrola, exitoso establecimiento del sector no estatal donde se concilian
la buena cocina, un mejor servicio y el buen gusto.
Los restos mortales del Caballero de
París, personaje popular de La Habana de siempre, fueron inhumados en el
convento de San Francisco.
En una de las puertas de ese
edificio que da a la calle Oficios, se colocó la escultura en bronce en la que
el artista cubano José Villa Soberón atrapó al personaje. Una nueva leyenda le
surgió a La Habana Vieja a partir de ella. Se dice que a quien, desde detrás de
la estatua, logre tocarle con una mano la punta de la barba y con la otra uno
de sus dedos, le sonreirá la fortuna. Parece que no es fácil conseguirlo, pero
vale la pena intentarlo.
Ciro Bianchi
Ross
Come ho visto crescere e svilupparsi il turismo a Cuba, contenuto in sintesi
Il
testo percorre, con una breve premessa su quello che era il turismo a Cuba ,
prima del 1959, quello che è diventato dopo la metà degli anni ’70 del secolo
scorso, considerando che nella decade del ’60 di turismo non se ne parlava
proprio per necessità contingenti del Paese.
Si
tratta di documentazioni e aneddoti in prima persona, oltre ad alcune altre
avute da chi è stato presente al momento vero e proprio dell’inizio dei viaggi di italiani,
primi in Europa, a visitare Cuba dopo l'avvento dell'era rivoluzionaria.
Un
percorso che va dagli anni dei primi “pionieri” con relativi disagi dovuti ai trasporti
aerei e interni, oltre che alle precarie situazioni di alloggio, al giorno
d’oggi dove il Paese si è messo in linea con moltissimi altri ed offre
alternative che fino a non molto tempo fa erano impensabili.
Si
conclude con la recente visita di Barack Obama all’Avana e le prospettive che
si possono aprire anche prima, ma
sopratutto dopo, dell’abolizione totale dell’embargo economico imposto dagli
Stati Uniti a Cuba che ha anche aspetti extra territoriali chiaramente contrari alle norme di Diritto Internazionale.
lunedì 11 aprile 2016
Ri - nascita del turismo a Cuba (visto da un italiano) - 3.000 candeline
Oggi ho registrato il "saggio" (si fa per dire), di cui al titolo, alla Società Cubana per i Diritti di Autore col numero di protocollo 1169-04-2016. Ho sfoderato un castigliano che nemmeno Cervantes...
In questi giorni sarò impegnato a fare giri di visite con relativo DVD, flash memory e qualche copia "casereccia" su carta, pertanto non sarò presentissimo, ma se non domani, per dopo c'è l'ultimo "Ciro Bianchi" per i suoi affezionati lettori.
Mi spiace non poter pubblicare il mio testo per insufficienza cronica di internet, spero invece di trovare qualche editore cubano o della Florida. Mai dire mai, diceva Bond, James, Bond.
P.S.: questo è il post n° 3.000 del blog, giusto per la statistica.
P.S.: questo è il post n° 3.000 del blog, giusto per la statistica.
Una professione dimenticata, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 3/4/16
Quando
lo scriba era bambino, il termine “chirrín” equivaleva a dar per conclusa
qualunque cosa: un gioco di bocce o una relazione di amicizia. Voleva dire: c’è
stato uno scivolone in terza base e
Chirrín! È finita la partita, o lei ha insistito che sua sorella la accompagnasse
e chirrin!, finita la passeggiata. Alcuni, per enfatizzare l’azione,
aggiungevano al chirrín un altro vocabolo: “chirrán” e quando veniva al caso
dicevano, per esempio: chirrín chirrán ed è finita; cirrín chirrán non ti amo più...come dice Juan Formell in una
delle sue gustose composizioni.
Il
vocabolo “chirrín” ha senza dubbio un’altra accezione. Lo scriba ignora fino a
che punto è un cubanismo. In verità non appare nel Nuevocatauro di Fernando Ortíz, pubblicato nel 1974 e che è il più
attualizzato e in quanto al tema chi scrive lo ha nella sua biblioteca.
Se in
Colombia chirringo è sinonimo di piccolo, a Cuba si chiamava chirrín una aereo
di poca capienza, qualcosa come un aeroplanino; e chirrinero era chi lo
occupava. Si trattava di aerei con un motore solo che spostavano passeggeri o merci
tra località interne dell’Isola dove non arrivava l’aviazione commerciale e che
servivano anche per la ricreazione.
L’informazione
me l’ha data l’amico e lettore Gabriel Valdés, un maestro in pensione che
risiede nella città della Florida di Wellington e che conserva a fior di pelle
le sue radici cubane, nonostante la sua lunga permanenza all’estero.
Conversavamo
in un ristorante di Pompano Beach mentre, tra grandi boccali di birra scura,
degustavamo un piatto tipicamente irlandese. Non per niente il pranzo occorse
li passato 17 marzo, Giorno di San Patrizio, patrono degli irlandesi, quando la
tradizione obbliga a mettersi qualcosa di verde addosso, a rischio di prendere
un pizzicotto e si preferisce la birra scura o verde.
Chirrines
– riferisce Gabriel con memoria invidiabile – erano gli aeroplanini di marca
Aeronca, Luscombe, Taylorcraft e naturalmente, Super Piper Cruiser, Stinson e
Cessna. Di questi ultimi, il Super Piper poteva trasportare due passeggeri più
il pilota, mentre gli altri contavano di quattro sedili compreso quello
dell’aviatore, sviluppavano una più velocità e potevano raggiungere una maggior
distanza senza rifornirsi di carburante.
Il
chirrín per eccellenza era il Piper J-3 per un solo passeggero. Questo
aeroplanino fabbricato negli U.S.A. misurava poco più di 35 piedi da punta a
punta mentre le ali, altri 23 di apertura; contava di 65 cavalli di forza e una
velocità di crocera di 75 miglia, anche se poteva raggiungere una velocità
massima maggiore. Il suo peso totale era di 1.200 libbre a pieno carico, pilota
compreso.
Gabriel
Valdés apporta un dettaglio interessante: i piloti di Cessna, Stinson e il Super
Piper avevano una categoria superiore a quelli del Piper j-3. Ma erano tutti
chirrineros e gli apparecchi erano chirrines.
Vivere dell’aria
“Chirrinero
era chiunque viveva, quasi, in un chirrín. E che dotato di una licenza di
aviatore civile (non tutti l’avevano in quei momenti) si guadagnava la vita
onestamente. Che viveva dell’aria. Non era tutta ironia, in realtà era una vita
avventurosa. I costi delle operazioni erano alti: caro il carburante, costosi i
pezzi di ricambio, carissimi i materiali di manutenzione e ricostruzione.
E
bisognava tenere i prezzi bassi. Ma si passavano i giorni in un clima quasi di
allegria, godendo di emozioni che giungevano dal dominio degli orizzonti, della
libertà di movimento e dal gusto intenso che mette al palato dell’uomo
l’avventura impossibile. E non tutto era romanzo,come diceva quel grande
aviatore francese, Antonio de Saint Exupéry, sotto quelle nuvole bianche e
belle ci puó aspettare l’eternità”, scrisse il chirrinero Raoul García nelle
memorie che dette a conoscere nel 1975.
Che
pista utilizzava? Di che torre si avvaleva? Aveva una radio a bordo per
comunicarsi?
Il
chirrinero operava su campi d’erba, più che sulle piste pavimentate degli
aeroporti. “Un sentiero pulito tra i campi di canna era una pista quasi perfetta”,
diceva García e subito chiariva che un chirrinero operava anche in un aeroporto
vero e proprio. “Esserlo era come una condizione spirituale. Una specie di
boemio moderno, a cui importava di più l’occasione di volare, la tazza di caffè
o la chiacchierata senza tempo più che i progetti di arricchimento.
L’importante era il cielo aperto; l’odore dei pascoli; lui solo sulle ali; il
cielo azzurro nel parabrezza; i cumuli benigni; la brezza muovendo i palmeti e
il pennacchio orgoglioso di fumo delle ciminiere degli zuccherifici, conversando
coi suoi vortici su vento e la sua direzione”.
Naturalmente
di radio non ce n’erano, nella maggior parte dei chirrines. Il chirrinero, come
il pescatore, presentiva la tormenta o la perturbazione. Quelli che l’avevano
la riservavano per comunicarsi con le torri di controllo degli aeroporti,
quando gli affari li portavano dove entravano e uscivano altri velivoli. Ma,
precisava García, “eravamo cavallette gialle, rosse o blu portando i nostri
carichi, i nostri passeggeri, i nostri entusiasmi per le aziende di raccolta di
canna ed enormi recinti di cavalli...”
Dicevo
che l’aviazione aveva la sua aria naturale in campagna, fra la gente della
savana e dei campi di canna. Mentre, nelle città, avvertiva indifferenza,
riguardo e timore, i contadini la ricevevano con meno paura e inibizioni, non
solo quando la usavano come mezzo di divertimento.
Giorni di passaggi
Giorni
di “passaggi” erano chiamate quelle giornate di festa, generalmente un sabato e
preferibilmente una domenica, sempre nel tempo di raccolta della canna, Si
arrivava a un accordo col padrone della terra che si sarebbe utilizzata come
campo d’aviazione e non mancava chi assumeva l’offerta gastronomica.
Non era
raro che si organizzasse una specie di fiera con giochi d’azzardo, tiro al
bersaglio e corse di cavalli. Il campo si riempiva di pubblico.
La voce
correva e la gente, a piedi, a cavallo o con un carretto, arrivava a volte da
luoghi lontani. L’aviatore portava carburante in bidoni da cinque galloni e
tramite un panno di camoscio filtrava il combustibile a misura che riforniva il
chirrín.
La
passeggiata con l’aeroplanino si faceva pagare un peso al minuto ed il tempo in
volo era minimo di tre minuti. La gente si illudeva di poter far cadere un
messaggio scritto sulla casa della madre, la fidanzata o l’innamorata.
Raoul
garcía ricordava nelle sue memorie:
“Volavamo
con bambini, donne impaurite che guardavano appena verso terra; ragazze vivaci
a cui si strappava l’illusione con la sfida alla grande monotonia dei giorni.
Volavamo
con uomini disinibiti e ostentosi che volevano mostrare alle persone lì riunite
che loro erano nati per l’eroismo senza timori e che chiedevano, a ogni costo
che gli facessimo il ‘salto mortale’. E via con noi a realizzare la classica
manovra del ‘looping’ o giro di campana. Pagavano con piacere, con fanfarroneria,
ma senza perdere il dettaglio di contare i pesos”.
Con tutto
ciò era una affare di centesimi che costrinse i chirrineros ad essere i
meccanici delle loro macchine. Le manutenzioni si facevano impagabili e di più
se si trattava di una rottura. Gli emolumenti dei meccanici avaneri risultavano
molto alti e d’altra parte era molto quello che se ne andava nel mangiare,
sigari e bicchieri di birra. I meccanici non tardarono a perdere la loro
clientela ebbene il chirrinero, con immaginazione e ingegno, apprese a riparare
il suo apparecchio.
Per San Ramón
Gli
aneddoti che Raoul García riscatta nel suo libro, sono molti e di diverse
sfaccettature. Giocosi, tristi, riflessivi...lo dimostra quanto segue.
Un
primo pomeriggio bollente di uno di quei giorni in cui non c’è niente da fare,
un uomo si avvicinó al chirrinero che si riparava dal sole sotto un’ala del
Piper e gli chiese il prezzo di una “corsa” a San Ramón, vicino a Viana. Erano
nelle vicinanze dello zuccherificio Resulta, nella regione centrale dell’Isola
e l’aviatore, dopo aver calcolato la distanza disse: dieci pesos.
-
Caspita! È carissimo! Con dieci pesos vado in automobilina a Santa Clara.
García
gli spiegò che un aeroplanino non era un’automobilina, né un carro di buoi che
si aggiustava con un pezzo di filo di ferro. Il gallone di carburante costava
50 centesimi e si doveva ricorrere al pegno ogni volta che si rompeva un pezzo.
Il
nuovo arrivato lo guardò con simpatia. Scese dal suo cavallo, lo legò dove
potette ed estrasse una borsa di carta dalle tasche di pelle della sella. Porse
all’aviatore un foglio spiegazzato e un mozzicone di matita. Supponeva che il
chirrinero avesse una calligrafia migliore della sua e gli chiese che scrivesse
il poema che gli avrebbe dettato. Poema che assieme alla borsa di carta piena
di dolci avrebbe fatto cadere quando il velivolo sorvolasse la casa della sua
fidanzata. Passati gli anni, García ricordava solo una strofa di quel poema.
Diceva: “Martina, i dolci sono/costumi dell’amore che impera,/ma invece di
quelli vorrei/ buttarti il mio cuore”.
L’uomo,
non senza sforzo, si accomodó sul sedile posteriore dl Piper e non gli piacque
dover mettersi il cinturone di sicurezza che chiamò cimice, ma lo fece.
L’aviatore commentò che giunto il momento, sarebbe stato lui a lanciare i dolci
e il poema. Iniettò carburante al motore
e da dietro, dalla cabina, con una mano sull’acceleratore e con la
destra agganciata alla punta dell’elica, dette una spinta e avvió l’apparecchio,
Era una tecnica nuova che permetteva controllare la potenza senza pericolo che
l’aeroplanino schizzasse privo di pilota, come era successo a molti.
La casa
ha un mulino ad acqua, diceva l’uomo e descriveva una costruzione che si
differenziava leggermente dalle altre della zona. Volavano a 600 piedi sulla
torrida campagna quando il chirrinero credette di avvertire un interesse
inusitato in una delle case. Una donna, vestita di rosso, si affacciava a un
portone e attorno a lei correvano bambini e c’erano altre donne. Senza
commentare niente al suo passeggero, fece una picchiata sul luogo e gli passó a
meno di 200 piedi. Sentì l’agitazione alle sue spalle. L’uomo aveva
riconosciuto il suo adorato tormento e dava manate al pilota gridando contemporaneamente:
È li! È lì. Il contadino, nervoso, sporgeva le due mani dal finestrino
prorompendo con urla. Il pilota virò per affrontare il vento mentre riduceva il
motore. Il passeggero affondò nel sedile tenendosi il cappello. L’aviatore leanciò
il pacchetto coi dolci e il poema, tirò la cloche e dette motore per tornare al
luogo di partenza.
Una
volta lì, il passeggero cercò ancora nelle sue tasche per riunire in biglietti
da uno, i dieci pesos che doveva all’aviatore. Sudava copiosamente e il pomo di
Adamo gli saliva e scendeva con sete da gallo secco. García volle sapere di più
sul suo passeggero e gli chiese da dove veniva. Impacciato, con un mezzo
sorriso, rispose:
-Io
vengo da San Ramón.
-E
adesso dove va?
-E dove
devo andare? A prendere la giumenta per andare a San Ramón.
Ciro
Bianchi Ross
2 de Abril
del 2016 22:39:41 CDT
Cuando el
escribidor era niño, el término «chirrín» equivalía a dar por concluido un
asunto, cualquier cosa: un juego de bolas o una relación amistosa. Podía
decirse: hubo un roletazo por tercera y ¡chirrín!, acabó el juego, o ella
insistió en que su hermana la acompañara y ¡chirrín!, terminó el paseo.
Algunos, para enfatizar la acción añadían al chirrín otro vocablo: chirrán, y
llegado el caso expresaban, por ejemplo: chirrín chirrán, que ya se acabó;
chirrín chirrán, que ya no te quiero…, como lo dice Juan Formell en una de sus
gustadas composiciones.
El vocablo
«chirrín» tiene, sin embargo, otra acepción. Desconoce el escribidor hasta qué
punto es un cubanismo. En verdad no aparece en el Nuevocatauro, de Fernando
Ortiz, publicado en 1974, que es lo más actualizado que, en cuanto al tema,
tiene quien esto escribe en su biblioteca.
Si
chirringo es en Colombia sinónimo de chiquito, chirrín se llamaba en Cuba al
avión de muy pequeño porte, algo así como una avioneta; y chirrinero era quien
lo tripulaba. Se trataba de aparatos de un solo motor que movían pasaje o carga
entre puntos del interior de la Isla donde no tocaba la aviación comercial, y
que servían asimismo para la recreación.
La
información me la ofreció el amigo y lector Gabriel Valdés, un maestro jubilado
que reside en la ciudad floridana de Wellington y que mantiene a flor de piel
sus raíces cubanas, pese a la larga permanencia en el exterior. Conversamos en
un restaurante de Pompano Beach, mientras entre grandes vasos de cerveza negra
degustábamos una comida típicamente irlandesa. No en balde el almuerzo
transcurrió el pasado 17 de marzo, Día de San Patricio, patrón de los
irlandeses, cuando la tradición obliga a lucir algo verde en el atuendo, so
pena de merecer un pellizco, y se prefiere la cerveza negra o verde.
Chirrines
—refiere Gabriel con envidiable memoria— eran las avionetas marca Aeronca,
Luscombe, Taylorcraft y, por supuesto, Piper Súper Cruiser, Stinson y Cessna.
De estos últimos, el Piper Súper Cruiser podía llevar dos pasajeros más el
piloto, en tanto que los dos restantes contaban con cuatro asientos, incluido
el del aviador, desplegaban una velocidad mayor y podían alcanzar distancias
mayores sin reabastecerse de combustible.
El chirrín
por excelencia era el Piper J-3, para un pasajero solitario. Esa avioneta
fabricada en EE.UU. medía algo más de 35 pies de punta a punta de las alas y
otros 23 de fuselaje; contaba con 65 caballos de fuerza y cruzaba a 75 millas,
aunque podía alcanzar una velocidad máxima mayor. Su peso total era de 1 200
libras, cifra que incluía el peso del piloto, el pasajero y el combustible.
Un detalle
interesante aporta Gabriel Valdés: los pilotos del Cessna, el Stinson y el
Piper Súper tenían más categoría que los del Piper J-3. Pero todos seguían
siendo chirrineros y todos los aparatos eran chirrines.
Vivir del aire
«Chirrinero
era todo aquel que casi vivía en un chirrín. Y que dotado de una licencia de
aviador civil (no todos la tenían en algún momento) se buscaba la vida
honradamente. Que vivía del aire. No todo era ironía, pues en verdad era un
vivir aventurado. Los costos de operación eran altos: cara la gasolina,
costosas las piezas de recambio, carísimos los materiales de mantenimiento y
reconstrucción.
Y había
que mantener los precios bajos. Pero se pasaban los días en un clima casi de
alegría, disfrutando emociones que venían del dominio de los horizontes, de la
libertad de movimiento y del regusto que pone en el paladar del hombre la
aventura posible. Y no todo era romance, pues como decía aquel gran aviador
francés, Antonio de Saint Exupéry, debajo de esas nubes blancas y bellas nos
puede esperar la eternidad», escribió el chirrinero Raoul García en las
memorias que dio a conocer en 1975.
¿Qué
pistas utilizaba? ¿De qué torres de control se valía? ¿Tenía a bordo un radio
para comunicarse?
El
chirrinero operaba sobre campos de yerba, más que sobre las pistas pavimentadas
de los aeropuertos. «Una guardarraya limpia entre los cañaverales era una pista
casi perfecta», decía García y aclaraba enseguida que en aeropuertos
propiamente dichos también operaba el chirrinero. «Serlo era como una condición
espiritual. Una clase de bohemia modernizada, en que importaba más la ocasión
de volar, la taza de café o la charla sin tiempo que los planes de
enriquecimiento. Lo importante era el cielo abierto; el olor a pastizales; el
solo sobre las alas; el cielo azul en el parabrisas; los cúmulos benignos; la
brisa moviendo los palmares y el penacho orgulloso del humo de las chimeneas de
los centrales, conversando con sus remolinos sobre el viento y su rumbo».
Radio, por
supuesto, no había en la mayor parte de los chirrines. El chirrinero, al igual
que los pescadores, presentía la tormenta o el frente frío. Los que lo tenían,
lo reservaban para comunicarse con las torres de control de los aeropuertos,
cuando el negocio los llevaba a terminales en las que entraban y salían otras
naves. Pero, precisaba García, «éramos saltamontes amarillos, rojos o azules
llevando nuestros encargos, nuestros pasajeros, nuestros entusiasmos por
bateyes, campos de caña y enormes potreros…».
Expresaba
que la aviación tenía su aire natural en el campo, entre la gente de la sabana
y de los cañaverales. Mientras en las ciudades advertía indiferencia, recelo y
temor, los campesinos la asumían con menos miedo e inhibiciones, no solo cuando
la usaban por necesidad, sino también cuando, en determinados fines de semana,
la utilizaban como un medio de diversión.
Días de boteo
Días de
«boteo» llamaban a esas jornadas de fiesta, por lo general un sábado y
preferentemente un domingo, y siempre en tiempos de zafra. Se llegaba a un
arreglo con el dueño de la tierra que se utilizaría como campo de aviación y no
faltaba quien asumiera la oferta gastronómica.
No era
raro que se organizara una suerte de feria con juegos de azar, tiros al blanco
y carreras de caballo. El campo se colmaba de público.
Se corría
la voz y la gente, a pie, a caballo o en carreta, llegaba a veces de lugares
distantes. El aviador llevaba la gasolina en latas de cinco galones y a través
de un paño de gamuza filtraba el combustible a medida que abastecía el chirrín.
El paseo
en la avioneta se cobraba a peso el minuto y era de tres minutos el mínimo de
tiempo en el aire. La gente se ilusionaba con la posibilidad de dejar caer un
mensaje escrito sobre la casa de la madre, la novia o la enamorada.
Recordaba
Raoul García en sus memorias:
«Volábamos
niños, mujeres amedrentadas que apenas miraban hacia la tierra; muchachas
atrevidas que se les arrebataba la ilusión con el desafío a la gran monotonía
de los días. Volábamos a hombres desembarazados y presumidos que querían
demostrarle al personal allí congregado que ellos habían nacido para la
heroicidad sin temblores, y que pedían, a cualquier costo, que le diéramos “el
salto mortal”. Y allá se iban con nosotros a realizar la clásica maniobra del
“looping”
o vuelta
de campana. Y pagaban con gusto, con fanfarronería, pero sin perder el detalle
del cuento de los pesos».
Con todo,
era un negocio de centavos que obligó a los chirrineros a ser los mecánicos de
sus máquinas. Los mantenimientos se hacían incosteables, y más cuando se
trataba de una rotura. Resultaban muy altos los emolumentos de los mecánicos
habaneros y era mucho lo que por otra parte se iba en comidas, tabacos y
vasitos de cerveza. No demoró el mecánico en perder su clientela, pues el
chirrinero, con imaginación e ingenio, aprendió a componer su aparato.
Pa’ San Ramón
Las
anécdotas que Raoul García rescata en su libro son muchas y de muy diverso
matiz. Jocosas, tristes, reflexivas… Va de muestra la que sigue.
Un
mediodía hirviente de uno de esos días en que no había nada que hacer, un hombre
se acercó al chirrinero que se resguardaba del sol bajo una de las alas del
Piper y le preguntó por el precio de una «carrera» a San Ramón, cerca de Viana.
Estaban en las inmediaciones del central Resulta, en la región central de la
Isla, y el aviador, luego de calcular la distancia, dijo: diez pesos.
—¡Caray,
eso está muy caro! Con diez pesos me voy en fotingo a Santa Clara.
Explicó
García que una avioneta no era un fotingo, ni una carreta de bueyes que se
arreglaba con un pedazo de alambre de cerca. El galón de gasolina costaba 50
centavos y debía empeñarse cada vez que se rompía una pieza.
El recién
llegado lo miró con simpatía. Descendió de su cabalgadura, la amarró donde pudo
y sacó una bolsa de papel de una de las alforzas de la montura. Extendió al
aviador un pedazo de papel de estraza y un mocho de lápiz. Suponía que el
chirrinero tenía mejor letra que la suya y le pidió que escribiera el poema que
le dictaría. Poema que junto con la bolsa de papel llena de dulces dejaría caer
cuando la nave sobrevolara la casa de su novia. Pasados los años, García solo
recordaba una estrofa de aquel poema. Decía: «Martina, los dulces son/ prenda
del amor que impera;/ pero en vez de ellos quisiera/ tirarte mi corazón».
El hombre,
no sin esfuerzo, se acomodó en el asiento trasero del Piper y le desagradó
tener que ajustarse el cinturón de seguridad, que llamó cincha, pero lo hizo.
El aviador comentó que, llegado el momento, sería él quien lanzaría los dulces
y el poema. Cebó el motor y desde atrás, desde la cabina, con una mano en el
acelerador y con la derecha agarrada a la punta de la hélice, le dio un tirón y
arrancó el aparato. Era una técnica novedosa que permitía controlar la potencia
sin el peligro de que la avioneta se «disparase» sin piloto, como le había ocurrido
a muchos.
La casa
tiene un molino de agua, decía el hombre y describía una vivienda que en poco
se diferenciaba de las otras de la zona. Volaban a 600 pies sobre la tórrida
campiña cuando el chirrinero creyó advertir un interés inusitado en una de las
viviendas. Una mujer vestida de rojo se asomaba a un portón y a su alrededor
corrían niños y otras mujeres. Sin comentar nada con su pasajero, «picó» hacia
el lugar y le pasó a menos de 200 pies. Sintió el alborozo a sus espaldas. El
hombre había reconocido a su adorado tormento y daba manotazos al piloto al
tiempo que gritaba: ¡Es ahí! ¡Es ahí! El guajiro, nervioso, sacaba las dos
manos por la ventanilla y prorrumpía en grandes gritos. El piloto giró para
enfrentar lo que hubiese de viento mientras cortaba el motor. El pasajero se
hundió en el asiento agarrándose el sombrero. El aviador lanzó el cartucho con
los dulces y el poema y tiró de la palanca y «dio» motor para regresar al lugar
de donde partieron.
Ya allí,
el pasajero rebuscó en sus bolsillo hasta juntar en billetes de a uno los diez
pesos que debía al aviador. Sudaba copiosamente y la nuez le bajaba y subía con
sed de gallo seco. Quiso García saber más sobre su pasajero y preguntó de dónde
venía. Cohibido, con una media sonrisa, respondió:
—Yo vine
de San Ramón.
—Y ahora,
¿a dónde va?
—¿Pues a
dónde voy a ir? Cogeré la yegua pa’ San Ramón.
Ciro
Bianchi Ross
venerdì 8 aprile 2016
giovedì 7 aprile 2016
mercoledì 6 aprile 2016
martedì 5 aprile 2016
Agli affezionati lettori di Ciro Bianchi Ross
Chiedo
scusa agli affezionati lettori delle interessanti e simpatiche note di Ciro
Bianchi Ross, questa si intitola “Una professione dimenticata”, ma per la
registrazione del mio saggio devo presentare l’edizione in lingua spagnola,
cosa che mi occuperà un po’ di tempo e i pochi neuroni rimasti, visto che sono
circa 60 cartelle.
Oltre a
questo ho avuto una serie di inconvenienti che non vorrei vi facesero piangere,
tipo perdita della scheda bancomat, con relativa burocrazia e 10 giorni
lavorativi di attesa per la nuova, rottura della pompa del frigorifero, vedremo
se trovio qualche angelo caduto dal cielo che mi aiuta. Esaurimento della
batteria della macchina, fortunatamente ne sono arrivate, in un solo posto che
io sappia e sono riuscito a comprarne una nuova a prezzo da gioielliere.
Insomma
tutta una serie di problemini e impegni che mi tengono occupato, non ultima la
richiesta di collaborazione di un amico fotografo italiano di cui ho pubblicato
lavori in queste note, Franco Oriot che essendo ben introdotto nel campo degli
artisti cubani mi ha chiesto di gestire un blog per lui.
Ben
consapevole cha alla maggioranza dei lettori nun je po’ fregà de meno (come
diciamo a Milano), spero di pubblicare i due ultimi testi di Ciro la settimana
prossima.
lunedì 4 aprile 2016
Stranezze...ogni giorno ce n'è una....
Da un po' di giorni in qua, vedo che sulle statistiche da amministratore, alcuni post sono commentati. Stranamente, quando li apro, vedo "commenti 0". Non solo, dalla lista delle opzioni è scomparsa la voce "commenti spam" con la quale si potevano eliminare commenti offensivi (non per o con me), scurrili, pubblicitari o altro. Ed a volte ci finivano commenti normali che potevano essere recuperati.
Chiedo scusa per questo inconveniente non dovuto alla mia volontà e come Amleto mi chiedo: Goooooooogle o non Goooooooogle? questo è il dilemma.
sabato 2 aprile 2016
Dizionario d mare per lupi di terra
ARGANO: in una stanza senza pareti sembra un'ormonica (cit. apocrifa G. Paoli)
Il porto dell'Avana si prepara
Tra le misure “obamiane” c’è
quella che prevede dal prossimo 1° maggio, l’arrivo delle navi da crociera
della “Carnival”, provenienti da Miami e dirette a una crociera per altri Paesi
dei Caraibi.
Speriamo che tutto sia
pronto per poter ricevere questi giganti del mare con le loro migliaia di
passeggeri.
Sempre nel tema marittimo,
18 imprenditori che hanno accompagnato il presidente nella sua recente visita a
Cuba, hanno visitato il porto della Zona Franca del Mariel ed hanno espresso
parere che questa zona può diventare un asse primario per la navigazione
commerciale tra nord, centro e sud America come valido supporto o in
sostituzione, quando non necessario, del Canale di Panama.
venerdì 1 aprile 2016
giovedì 31 marzo 2016
Ri-nascita del turismo a Cuba
Tempo fa ho pubblicato (a rate), su questo blog, una storia molto condensata di come ho visto rinascere il turismo a Cuba, ora ne ho preparata una versione un po' più "diluita" e meglio documentata che sto registrando alla Società Cubana per i Diritti di Autore in forma di "saggio", anche la parola non è troppo adeguata a me.
la mia infinita vanità prevede di farne un'edizione in spagnolo e una in inglese, sperando di trovare qualche editore interessato. Comunque non ho fretta, visto che ho una lunga vita davanti a me...
Ho l'imbarazzo della scelta sulle 2 copertine, entrambe su disegno di Roberto Romanò, ma GOOOOOOOGLE, col valido aiuto di ETECSA, non mi lascia pubblicarle...domani è un altro giorno, si vedrà. Naturalmente, se riuscirò, mi aspetto una valanga di voti/referendum per l'una o per l'altra (vale a dire almeno 2 o 3). Grazie.
Ho l'imbarazzo della scelta sulle 2 copertine, entrambe su disegno di Roberto Romanò, ma GOOOOOOOGLE, col valido aiuto di ETECSA, non mi lascia pubblicarle...domani è un altro giorno, si vedrà. Naturalmente, se riuscirò, mi aspetto una valanga di voti/referendum per l'una o per l'altra (vale a dire almeno 2 o 3). Grazie.
martedì 29 marzo 2016
Cal, il silenzioso, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/3/16
Con motivo dell’apparizione
in questo giornale, della mia pagina sulla visita all’Avana del presidente nordamericano Calvin Coolidge, in un giornale del sud della Florida si è
pubblicato, con la firma di Glenn Garvin, un articolo che affronta altri
aspetti del soggiorno avanero del citato presidente che soprannominavano,
ricorda la nota “Cal il silenzioso” e di cui si giunse a dire che mostrava
l’espressione di qualcuno “allattato con un cetriolino sottaceto”.
Garvin mette alla sua nota
il titolo di Sconfitta della democrazia e vittoria della baldoria, così,
d’acchito, da l’idea al lettore di dove andranno gli spari. Afferma subito che
quella visita fu “un festival di ubriacature e libertinaggio, contrabbando
salace e perfino atti innaturali con torte di limone”. La stampe, al suo
momento, non rivelò niente di questo. Questo sfondo venne a lla luce 30 anni
dopo, quando il giornalista Beverly Smith fece suonare un’allarme in un
articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Un racconto di fate – scrive
Garvin -, con elementi di pompa, dramma, commedia e farsa; di dignità rigida e
comportamento indecoroso; di diplomazia del cappello di bicchieri con un tocco
di alcolismo”
Garvin precisa che Coolidge
non partecipò alla depravazione generale. Se alcuni avaneri credettero di
vedere il presidente scivolando per le vie delle zone di tolleranza della
città, elegante, con un cappello a bombetta completamente fuori luogo, si
sbagliarono completamente. È che tra i giornalisti che lo accompagnavano, uno
che somigliava molto al Presidente, si faceva passare per lui. Lo stesso che
sostituendo il presidente frequentava i bar dell’Avana suscitando l’ammirazione
e la simpatia della clientela, splendida al momento del convivio e che non
risparmiava di pagargli tutte le bevute che fosse capace di ingerire. Smith
scriveva sul suo articolo del 1959: “Sospetto che ci siano ancora alcuni
avaneri vecchi che credono che Cal, fuori dal suo orario di lavoro, era un
allegro bevitore”.
In ogni modo l’aneddoto
segnò il soggiorno avanero del Presidente nordamericano. Si dice che il
presidente Gerardo Machado invitò Coolidge e la sua signora e che visitassero
la tenuta avicola sperimentale che alimentava il Governo cubano. Quando la
prima dama si avvicinò a uno dei pollai, osservò stupita come un gallo
“calpestava” freneticamente una gallina.
- “Con che frequenza lo fa?”
– chiese a uno dei lavoratori.
-“Decine di volte al giorno
– rispose l’interpellato.
-Bene lo dica al presidente,
quando passa.
Così fece il lavoratore.
Coolidge allora domandò se il gallo “calpestasse” sempre la stessa gallina.
-“No, è una diversa ogni
volta – rispose il lavoratore e il presidente non tardo con la sua risposta:
-“Dica questo a mia moglie.
L’aneddoto, naturalmente è
apocrifo. La storica Amity Shales, nella sua biografia di Coolidge, pubblicata
nel 2013, afferma che fece l’impossibile per trovare elementi che lo
confermassero. “Non ho trovato prove che fosse certo”, conclude.
Un
presidente uscente
In quel già lontano mese di
gennaio del 1928, quando venne a Cuba, Coolidge era un presidente uscente che
cercava di chiudere il suo soggiorno alla casa Bianca con un successo nella
politica estera”, scrive Glenn Garvin nel suo articolo. Aggiunge che cercava di
calmare la crescente avversità dei cubani con le alte tariffe zuccheriere degli
U.S.A. che danneggiavano l’economia dell’Isola e di placare le critiche
generalizzate in America Latina per gli interventi militari statunitensi in
Nicaragua, Haiti e nella Repubblica Dominicana. Questi furono i suoi propositi
nel rispondere in modo affermativo all’invito di Machado per assistere alla
Sesta Conferenza Panamericana dell’Avana.
Si dice che si proponeva di
usare la riunione per dare impulso alla sua campagna a favore di un trattato, a
livello mondiale, di rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale.
Il Senato degli U.S.A. si era negato ad approvare la partecipazione del Paese
alla Lega delle Nazioni otto anni prima, ma Coolidge pensò che poteva riuscire
a che fosse approvata se ci si concentrava semplicemente nel proibire la
guerra, senza creare una burocrazia internazionale come parte dell’accordo.
In ultima istanza perse in
tutto ciò che si propose, affermano gli specialisti. Nonostante Coolidge
promise al governante cubano di abbassare le tariffe, questo non avvenne mai –
di fatto, un paio d’anni dopo si alzarono le imposte sullo zucchero che gli
U.S.A. compravano da Cuba. D’altra parte, gli sforzi per placare l’America
Latina rispetto agli interventi statunitensi non vennero mai messi in pratica,
perché Coolidge ordinò ai suoi marines che tornassero in Nicaragua, giusto poco
prima di partire per l’Avana.
Il trattato di pace a
livello mondiale di Coolidge che finì per essere conosciuto come il Patto
Briand-Kellogg, fu approvato da oltre cinque dozzine di Paesi. Ma questo non
impedì a nessuno di tuffarsi di testa nella Seconda Guerra Mondiale, una decade
più tardi, ciò che fece dell’accordo citato, l’atto diplomatico più inutile
della storia universale.
“Non sono sicura di quanto
fosse convinto di ciò”, afferma Amity Shales nella biografia. “Egli fece tutto
con certa malinconia, il tipo di cose che uno fa quando qualcosa è d’accordo
coi suoi principi, ma non prova molta gioia nel farlo. Coolidge non si sentiva
bene; pensava che la presidenza lo stesse sfinendo, ma in realtà era malato di
cuore. E stava sentendo la solitudine che circonda un presidente quando tutti
quanti si rendono conto che non contuerà ad essere presidente per molto tempo e
cominciano ad adulare il nuovo”.
Ricevimento
da apoteosi
Otto navi della Marina
Militare nordamericana si resero necessari per trasportare, da Key West, il
Presidente e la sua comitiva, della quale faceva parte il famoso aviatore
Charles Lindbergh il primo ad attraversare, in solitario, l’oceano Atlantico a
bordo del suo aereo Spirit of St. Luis. Già di fronte all’Avana, una piccola
imbarcazione lo portò sulla sponda. Si riunirono duecentomila persone, lungo le
strade, per acclamarlo nel suo breve percorso dal porto al Palazzo
Presidenziale, dove si sarebbe alloggiato con sua moglie e i suoi principali
collaboratori, mentre il resto della comitiva alloggiava all’hotel Sevilla e
altre installazioni. Ci fu una nota simpatica al ricevimento; otto o dieci
ragazze vestite in modo vistoso e molto truccate, lanciarono rose al passaggio
dell’automobile che trasportava il presidente. Erano le pupille di un vicino
postribolo, portavano la bandiera nordamericana e assistettero all’atto di
benvenuto in compagnia della loro maitresse che pure non volle restare nella
casa.
Quando Coolidge, alla fine,
si ritirò a riposare al terzo piano della magione della calle Refugio, numero 1,
giornalisti ed editorialisti rimasero liberi per iniziare il giornalismo
investigativo...nei bar della città. Venivano da un Paese nel quale vigeva il
Proibizionismo dal 1920 che proibiva le bevande alcoliche e obbligava ad
arrischiarsi in cantine clandestine, dove l’accesso dipendeva da parole d’ordine
o frasi in codice. Per i giornalisti e funzionari del Governo che si aggiunsero
all’avventura, si apriva la città che a detta di Alejo Carpentier, poteva
offrire la maggior quantità di bevute al palato del viaggiatore curioso, dove
una coppia non doveva esibire il certificato di matrimonio per trovare
ospitalità in un hotel e nella quale si poteva scommettere –vincere o perdere- qualsiasi somma di denaro nelle roulettes del
Casinò Nazionale senza richiamare l’attenzione delle autorità. I visitatori
cercarono bar come il Floridita o lo Sloppy Joe’s, o quelli degli alberghi
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, i più intraprendenti si spostavano fino
ai bar o ai piccoli cabaret che nella Playa di Marianao si conoscevano col nome
generico de “las fritas”. Ci furono visite ai teatri pornografici e non furono
pochi quelli che si recarono al quartiere di Colón al fine di cercare emozioni
indimenticabili tra le gambe di una ragazza cubana.
Alcuni degli articoli che
apparvero su Coolidge e la sua visita a Cuba nella stampa nordamericana, furono
scritti sotto l’influenza dell’alcol, dice Glenn Garvin e offre questa perla che
pubblicò The New York Times nella quale si inizia riferendosi all’abbigliamento
protocollare dei funzionari cubani e termina facendosi incoerente. Dice:
“Siccome non si poteva trovare un paio di calzini corti grigi in tutta
l’Avana, uno stato di perturbazione prevalse fino a che gli investigatori si
accertarono che fu un falso allarme”.
In realtà la festa e il
divertimento erano cominciati a Key West, quando i passeggeri si resero conto
di aver lasciato indietro un Paese col Proibizionismo per trovare che a West con i suoi bar a porte spalancate, era semplicemente Key West. Ci furono
scherzi crudeli come quelle dei letti spalmati di torta di limone, con i quali
gli ubriachi si trovavano all’ora di andare a dormire.
Il presidente Calvin
Coolidge assistette, all’Avana, a una partita di pelota basca. L’ora del ritorno
intristì i membri della sua comitiva: tornavano al Paese della proibizione.
Presto un’altra notizia li rianimò: nessuno, nemmeno i reporters avrebbe fatto
dogana a Key West all’ingresso negli Stati Uniti, cosa che significava che chi
lo volesse, poteva portarsi tutto il rum che voleva. I venditori di liquore
cubani fecero festa. Furono molte le valigie che si comprarono in fretta e
furia per trasportare il miglior rum cubano contenuto in recipienti di circa
due litri e che più tardi i marines, con sogghigni complici, avrebbero messo a
bordo delle navi.
Chi approvò questa
gigantesca operazione di contrabbando? Si domandava, nel 1959, il giornalista
Beverly Smith nel suo articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Sarebbe
stato, incredibilmente lo stesso Calvin, in un attacco di umore capriccioso che
qualcuno supponeva si nascondesse dietro la sua faccia acida del Vermont?”
Cal, el Callado
Ciro Bianchi Ross
26 de
Marzo del 2016 22:51:24 CDT
A raíz de
la aparición en este diario de mi página sobre la visita a La Habana del
presidente norteamericano Calvin Coolidge, se publicó en un periódico del sur
de Florida, y con la firma de Glenn Garvin, un artículo que aborda otras
aristas de la estancia habanera de dicho mandatario, a quien apodaban, recuerda
la nota, «Cal, el Callado» y de quien se llegó a decir que lucía la expresión
de «alguien a quien destetaron con un pepinillo encurtido».
Garvin da
a su nota el título de Fracaso de la diplomacia y triunfo de la juerga, y así,
de entrada, da al lector la idea de por dónde irán los tiros. Afirma enseguida
que aquella visita fue «un festival de borrachera y libertinaje, contrabando
salaz y hasta actos antinaturales con tartas de Key Lime». Nada de eso reveló
la prensa en su momento. Ese trasfondo salió a relucir 30 años después, cuando
el reportero Beverly Smith hizo sonar la alarma en un artículo publicado en el
Saturday Evening Post. «Un cuento de hadas —escribe Garvin—, con elementos de
pompa, drama, comedia y farsa; de dignidad rígida y juerga indecorosa; de
diplomacia de sombrero de copa con un toque de alcoholismo».
Precisa
Garvin que Coolidge no participó de la depravación general. Si algunos
habaneros creyeron ver al mandatario escurriéndose por las calles de las zonas
de tolerancia de la ciudad, tocado con un sombrero de copa totalmente fuera de
lugar, se equivocaron por completo. Y es que venía entre los periodistas que lo
acompañaron uno que se parecía mucho al Presidente y se hacía pasar por él. El
mismo que, suplantando al mandatario, recorría los bares de La Habana
despertando la admiración y la simpatía de la clientela, espléndida a la hora
de la convidada y que no escatimaba en pagarle todos los tragos que fuera capaz
de beber. Escribía Smith en su reportaje de 1959: «Sospecho que todavía hay
algunos habaneros viejos que creen que Cal, fuera de su horario de oficina, era
un alegre bebedor».
De
cualquier manera la anécdota matizó la estancia habanera del Presidente
norteamericano. Se dice que el presidente Gerardo Machado invitó a Coolidge y a
su esposa a que visitaran una granja avícola experimental que fomentaba el
Gobierno cubano. Cuando la Primera Dama se acercó a uno de los gallineros,
observó asombrada cómo un gallo «pisaba» frenéticamente a una gallina.
—¿Con qué
frecuencia hace eso? —preguntó a uno de los peones.
—Decenas
de veces al día —respondió el aludido.
—Pues
dígaselo al Presidente cuando pase.
Así lo
hizo el peón. Coolidge inquirió entonces si el gallo «pisaba» siempre a la misma
gallina.
—No, es
una diferente cada vez —contestó el peón, y el mandatario no demoró su
respuesta:
—Dígale
eso a mi esposa.
La
anécdota desde luego es apócrifa. La historiadora Amity Shlaes, en su biografía
de Coolidge publicada en 2013, afirma que hizo lo imposible por hallar
elementos que la sustentaran. «No encontré pruebas de que fuera cierta»,
concluye.
Un presidente saliente
En aquel
lejano ya mes de enero de 1928, cuando vino a Cuba, Coolidge era «un presidente
saliente que intentaba cerrar su estancia en la Casa Blanca con un logro de
política exterior», escribe Glenn Garvin en su artículo. Añade que trataba de
calmar la creciente inconformidad de los cubanos con las altas tarifas
azucareras de EE. UU. que acababan con la economía de la Isla, y de aplacar las
críticas generalizadas en Latinoamérica a las intervenciones militares
estadounidenses en Nicaragua, Haití y República Dominicana. Fueron esos sus
propósitos al responder de manera afirmativa a la invitación de Machado para
asistir a la Sexta Conferencia Panamericana de La Habana.
Se dice
que se proponía usar la reunión para impulsar su campaña a favor de un tratado
a nivel mundial de renuncia de la guerra como instrumento de política nacional.
El Senado de EE. UU. se había negado a aprobar la participación del país en la
Liga de las Naciones ocho años antes, pero Coolidge pensó que podría conseguir
que fuese aprobado si se concentraba simplemente en prohibir la guerra sin
crear una burocracia internacional como parte del acuerdo.
En última
instancia, fracasó en todo lo que se propuso, afirman especialistas. Aunque
Coolidge prometió al gobernante cubano bajar las tarifas, eso nunca sucedió —de
hecho, un par de años más tarde subieron los impuestos al azúcar que EE. UU.
adquiría en Cuba. Por otra parte, los esfuerzos por aplacar al resto de América
Latina con respecto a las intervenciones estadounidenses nunca se pusieron en
práctica, porque Coolidge ordenó a sus marines que regresaran a Nicaragua justo
antes de partir rumbo a La Habana.
El tratado
de paz a nivel mundial de Coolidge, que acabó siendo conocido como el Pacto
Briand-Kellogg, fue aprobado por más de cinco docenas de países. Pero eso no
impidió a nadie lanzarse de cabeza a la Segunda Guerra Mundial una década más
tarde, lo cual hizo del mencionado acuerdo el acto de diplomacia más inútil de
la historia universal.
«No estoy
segura de cuán convencido estaba él de nada de esto», afirma Amity Shlaes en la
biografía. «Él lo hizo todo con cierta melancolía, el tipo de cosas que uno
hace cuando algo está de acuerdo con sus principios, pero no encuentra mucho
placer en hacerlo. Coolidge no se sentía bien; pensaba que la presidencia
estaba agotándolo, pero en realidad estaba enfermo del corazón. Y estaba
sintiendo la soledad que rodea a un presidente cuando todo el mundo se da
cuenta de que él no va a seguir siendo presidente por mucho tiempo y empieza a
adular al nuevo».
Recibimiento apoteósico
Ocho
buques de la Marina de Guerra norteamericana se hicieron necesarios para
transportar desde Cayo Hueso al Presidente y su comitiva, de la que formaba
parte el famoso aviador Charles Lindbergh, el primero en atravesar en solitario
el océano Atlántico a bordo de su avión Espíritu de San Luis. Ya frente a La
Habana, una pequeña embarcación lo trajo a la orilla. Doscientas mil personas
se congregaron a lo largo de las calles para aclamarlo en su breve recorrido
desde el puerto hasta el Palacio Presidencial, donde se alojaría con su esposa y
sus principales colaboradores, mientras que el resto de la comitiva se alojaba
en el hotel Sevilla y otros establecimientos. Hubo una nota simpática en el
recibimiento: ocho o diez muchachas llamativamente vestidas y muy maquilladas
lanzaron rosas al paso del automóvil que conducía al mandatario. Eran las
pupilas de un prostíbulo cercano, portaban una bandera norteamericana y
acudieron al acto de bienvenida en compañía de su matrona, que tampoco quiso
quedarse en casa.
Cuando
Coolidge se retiró al fin a descansar en el tercer piso de la mansión de la
calle Refugio número 1, reporteros y editorialistas quedaron libres para
acometer el periodismo de investigación… en los bares de la ciudad. Venían de
un país donde, desde 1920, primaba la llamada Ley Seca, que prohibía las
bebidas alcohólicas y obligaba a arriesgarse en cantinas clandestinas, donde la
entrada dependía de contraseñas y toques en clave. Para los periodistas y
funcionarios del Gobierno, que se sumaron también a la aventura, se abría la
ciudad que, al decir de Alejo Carpentier, mayor cantidad de bebidas podía
mostrar al paladar curioso del viajero, donde una pareja no tenía que mostrar
el certificado de matrimonio para encontrar albergue en un hotel y en la que se
podía apostar —y ganar o perder— cualquier cantidad de dinero en las ruletas
del Casino Nacional sin llamar la atención de las autoridades. Buscaron los
visitantes bares como el Floridita y el Sloppy Joe’s o los de los hoteles
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, y los más osados se desplazaron hasta los
bares y cabaretuchos que en la playa de Marianao se conocían con el nombre
genérico de «las fritas». Hubo visitas a teatros pornográficos y no fueron
pocos los que acudieron al barrio de Colón a fin de buscar emociones
inolvidables entre las piernas de una muchacha cubana.
Algunos de
los artículos que sobre Coolidge y su visita a Cuba aparecieron en la prensa
norteamericana fueron escritos bajo la influencia del alcohol, dice Glenn
Garvin, y ofrece esta perla que publicó The New York Times en la que se comenzó
aludiendo al vestuario protocolar de los funcionarios cubanos y termina
haciéndose incoherente. Dice: «Como no se podía encontrar un par de polainas
cortas grises en toda La Habana, un estado de perturbación prevaleció hasta que
los investigadores se cercioraron de que se trataba de una falsa alarma».
En
realidad, la fiesta y la diversión habían comenzado en Cayo Hueso, cuando los
viajeros descubrieron que dejaban atrás un país sometido a la Ley Seca para
encontrar que Cayo Hueso, con sus bares abiertos de par en par, era
sencillamente Cayo Hueso. Hubo bromas crueles como las de las camas embarradas
con tartas de Key Lime, con las que se encontraban los borrachos a la hora de
acostarse.
El
presidente Calvin Coolidge asistió en La Habana a un partido de jai alai. La
hora del regreso entristeció a los miembros de su comitiva:
volverían
al país de la prohibición. Pronto otra noticia les devolvió el alma al cuerpo:
nadie, ni siquiera los reporteros, haría aduana en Cayo Hueso a su entrada en
Estados Unidos, lo que quería decir que el que lo deseara podría llevar todo el
ron que quisiera. Los licoreros cubanos hicieron su agosto. Fueron muchas las
maletas que se adquirieron de prisa para transportar el mejor ron cubano
envasado en recipientes de medio galón, que más tarde los marines, entre guiños
cómplices, subirían a los barcos.
¿Quién
aprobó esa gigantesca operación de contrabando?, se preguntaba en 1959 el
periodista Beverly Smith en su artículo publicado en el Saturday Evening Post.
«¿Habría sido, increíblemente, el mismo Calvin, en un arranque del humor
caprichoso que algunos suponían se ocultaba tras su cara de avinagrado de
Vermont?».
Ciro Bianchi Ross
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