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giovedì 19 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BATTAGLIOLA: scaramuccia

martedì 17 maggio 2016

Italiani all'estero e interviste RAI

Il prossimo 25 maggio (mercoledì), DOVREBBE andare in onda una intervista che mi è stata fatta nei mesi scorsi. Il “pezzo” doveva essere inserito in “Peoples” (credo sia questo il titolo) che se mal non ricordo andava in onda la domenica mattina, poi mi è stato detto che vista la “lunghezza” sarebbe stato rimandato.  Ora mi è stato comunicato che DOVREBBE, appunto, andare in onda mercoledì 25. Purtroppo la realizzatrice non mi ha comunicato il programma e l’ora di messa in onda. Siccome gli annunci me li aveva dati a suo tempo via FB sito, sul quale mi è sempre più difficile entrare e sopratutto scambiare messaggi, non avendo la sua mail, se qualcuno riesce a sapere qualcosa tramite i palinsesti e/o programmi Rai e me lo fa sapere, gli bacio le mani. Grazie.


aldoab@enet.cu

domenica 15 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

batisfera: pallone di Batistuta

mercoledì 11 maggio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

BARRA: quartiere suburbano di Napoli

martedì 10 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BAROMETRO: misura l'onestà dei giocatori

lunedì 9 maggio 2016

Quello che non ho detto della Cattedrale, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde dell' 8/5/16

Lo sapevate che il giornale “della domenica” si ideò nella Plaza de la Catedral quando il giornale La Discusión si installò in quello che fu il palazzo dei Conti di casa Bayona? Che fu la prima volta che a Cuba si utilizzò la linotype che rese possibile “comporre” i giornali in meno tempo e potessero aumentare il numero delle pagine?
Sapevate che il 20 gennaio del 1804 la cassaforte della Tesoreria Reale, installata nella casa del marchese di Arcos, pure nella Plaza de la Catedral fu scassinata dalla guardia incaricata della sua custodia che sottrasse il denaro contenuto, cosa che mise i Tesoriere della Industria Reale nella disgiuntiva di riporre, coi propri soldi, quano rubato o finire in carcere?
Un altro scandalo ebbe luogo in questa casa quando Sebastián Calvo de la Puerta y O’ Farrill rapì, col consenso della giovane, la figlia del Tesoriere Reale dvanti al rifiuto di dargliela in sposa.
Nella casa d’angolo del Callejón del Chorro, dove si può vedere la targa commemorativa della Zanja Real si installarono, verso il 1840, i bagni pubblici di Guiliasti, i primi del loro tipo che esistettero all’Avana, aprofittavano l’antico scarico della Zanja. Non sarà fino alle decadi della fine del XIX secolo quando i principali alberghi e pensioni cominciarono a includere quello che si chiamava “il lusso del bagno”. Gli esercizi che non lo avevano si limitavano a indicare ai loro clienti dove potevano lavarsi per un prezzo di circa 30 centesimi.
Già che si è alluso alla Zanja, diciamo rapidamente che fu l’opera di ingegneria più importante del XVI secolo.
La sua sorgente si prese dal río Almendares e le acque si fecero scendere dolcemente per gravità, fino a quella che sarà la Plaza de la Catedral, la zona più bassa della città. La vecchia lapide ricorda la costruzione del primo acquedotto avanero.
Dice: “Quest’acqua la portò il maresciallo di campo Juan de Tejada nell’anno 1592”.
Quello che rende attraente questa casa senza portici e meno “palazzo” delle su vicine, è la sua cattiva ombra. Come ha già detto lo scriba nella pagina corrispondente alla settimana anteriore, due dei suoi proprietari finirono, in momenti diversi, in carcere e vi morirono senza che la loro fortuna ed enorme prestigio sociale si salvasse. Nel 1740, Antonio Palacín y Gatica, tenente governatore e auditore di guerra – il secondo al comando nella difesa dell’Avana – che creò inoltre una cattedra di Legge nell’Università avanera. Ebbene, questo soggetto, in compagnia di Gabriel Beltrán de Santa Cruz, altro abitante importante della città, presentò una denuncia contro il Capitano Generale Francisco Güemes de Horcasitas, conte di Revillagigedo che processato dal governatore interinale, fu a mettere le sue ossa nell’oscuro castello-prigione di san Juan de Ulúa, in Messico, dove morì.
Nel 1571 la casa fu acquistata dal colonnello Sebastian Peñalver y Calvo de la Puerta, reggente, tenente di capo di polizia maggiore e sindaco dell’Avana in diverse occasioni. Si distinse nella difesa della città durante l’attacco britannico del 1762, ma una volta che gli inglesi abbandonarono la città l’anno seguente, le autorità spagnole lo accusarono di collaborazione col nemico e fu recluso a Ceuta, da dove non tornò.
La settimana scorsa abbiamo detto che il Plazzo di Lombillo ha due facciate. Una guarda la Plaza de la catedral e l’altra a Empedrado.
Il 27 settembre del 1932, il dottor Ricardo Dolz, avvocato con studio e residenza in questo immobile, salvò miracolosamente la vita peché, avvisato a tempo, uscì da una porta mentre i sicari entravano da un’altra. Erano i giorni del Governo dispotico di Gerardo Machado e il dittatore volle vendicare Clemente Vázquez Bello, presidente del senato e massima figura del Partito Liberale, mnorto in un attentato, con l’assassinio di vari oppositori.
Come venne a sapere Dolz di cosa stava succedendo?Nello sparire il giornale La Discusión, si mantenne nell’edificio che era occupato da un museo giornalistico che passò opportunamente all’Associazione dei Reporters, in calle Zulueta, a fianco della caserma dei pompieri, quando la casa de la Discusión fu comprata dalla fabbrica di rum Arechabala. In questo immobile della casa Zulueta funzionò, inoltre a partire dagli anni ’40, il Collegio Nazionale dei Giornalisti, entità che scomparvero poco dopo la vittoria dell Rivoluzione. Sorgeva, quindi, l’unione dei Giornalisti di Cuba che si installà nella magione che fu del senatore liberale (e machadista) Agustín García Osuna, ampia e confortevole come casa di abitazione, ma poco pratica per la sua nuova funzione. Si era lasciato, dietro, un edificio costruito espressamente per il settore, dotato di sale di riunione, biblioteca, ristorante, bar, barbiere, sala da scherma, palestra...tutto quello che la sede  della UPEC (Unión de Periodistas y Escritores Cubanos, n.d.t.) Lo scriba non vuole andare oltre nel pronunciarsi sulla convenienza del cambio, vuole solo fare una domanda. Dove sono andati a finire i pezzi che conformavano il Museo della Stampa?

La più bella

Ci fu un epoca in cui i giornali si componevano a mano. Un operaio abile ed esperto – il tipografo – univa velocemente una lettera con l’altra in unione obbligatoria, così come fanno i muratori coi mattoni, fino a creare la muraglia. Allora, i giornalisti consegnavano alle redazioni i loro lavori scritti a mano, a volte con calligrafia infernale e le prime pagine si riservavavno per annunci commerciali e di navigazione, perfino per annunci funebri.
La linotype è una macchina per comporre provvista di matrici e che fonde le lettere per righe intere fino a comporre un solo blocco, si introdusse a Cuba, nel giornale La Discusión – nel 1899 – e si impose non senza resistenza, fra l’altro perché eliminava il tipografo che era l’anima del periodo classico. Non tardarono a scoprirsi i suoi vantaggi: i giornali potevano aumentara la loro impaginazione, si componevano in minor tempo e ammettevano maggior quantità di testo.
Con la linotype si instaurò l’uso della macchina da scrivere e su acordo del sindacato dei linotipisti si decise che questi non lavorassero su originali che non gli giungessero fra le mani scritti a macchian con doppia spaziatura.
Manuel Márquez Sterling – ultimo romantico – fu l’unico giornalista che si negò a utilizzare la macchina da scrivere. Continuò a scrivere a mano i suoi articoli fino al 1934, quando morì.
Adesso andiamo alla casa del marchese di Arcos.
Nel 1871, Ignacio de Peñalver y Cárdenas, tesoriere generale dell’Industria Reale e dell’Esercito, si oppose alla richiesta di matrimonio di Sebastián Calvo de la Puerta y O’ Farril con sua figlia Maria Luisa, considerata la più bella donna della città.
Sebastián decise di rapirla e portarla in altro luogo. Così. La marchesa di Jústiz e sua figlia María Josefa, questa cognata del pretendente, pianificarono e portarono a termine l’audace azione, nella chiesa di San Francesco, contando con la complicità della ragazza che fu condotta alla residenza delle Jústiz.
Lo scandaloso affronto del Tesoriere Reale contro la Marchesa, ciascuno col potere dei suoi titoli e l’inviolabilità dei suoi spazi privati, dette motivo all’intervento del Capitano Generale che affidò la custodia della giovane al convento di Santa Teresafino a che si riuscì a portare a termine il matrimonio senza il consenso del padre, poco prima che il contraente pertisse per una campagna militare in Luisiana.
Entrato il XIX secolo, il figlio di Ignacio Peñalver de Cárdenas, marchese di Arcos, fu nominato tesoriere dell’Industria Reale, rimanendo installata la medesima,  come da costume dell’epoca, nella stessa residenza del responsabile.
Nella notte del 20 gennaio del 1804, la guardia incaricata della custodia della cassaforte del Real Tesoro, la scassinò e sottrasse i 150.000 pesos che vi si trovavano. A Cuba esisteva, allora, la disposizione che stabiliva che il funzionario pubblico a cui si sottraevano benefici a suo carico, aveva due alternative: li rimetteva immediatamente dai suoi propri averi, anche se non fosse responsabile della perdita, o finiva in carcere.
Il Governatore Generale, marchese di Someruelos, venuto a conoscenza dell’atto vandalico e senza sapere se il tesoriere potesse riporre il denaro, mandò un messaggio a Peñalver. Gli offriva un prestito in contanti al fine che riponesse quanto rubato.
Il marchese di raco espresse il suo ringraziamento all’emissario del Governatore Generale e nel rifiutare l’offerta gli mostrò le 9.500 once d’oro, tolte dalle sue tasche con cui aveva già coperto l’ammanco.

Casa di due porte

Casa di due porte, è cattiva da conservare, dice il refrain. Ma queste due porte furono la salvezza di Ricardo Dolz.
L’avvocato Carlos Manuel de la Cruz fermò la sua automobile e comprò l’Heraldo de Cuba, giornale che serviva da portavoce al regime di Machado. In prima pagina si rendeva conto della morte del senatore Vázquez Bello. Si diceva inoltre che per mano di sconosciuti erano morti Dolz, Il rappresentante della Camera Miguel Ángel Aguiar, i fratelli Gonzalo, Guillermo e Leopoldo Freire de Andrade e lo stesso Carlos Manuel de la Cruz. Questi capì al volo che non c’era errore nella redazione della notizia. Già nel suo studio della calle O’ Reilly, chiamò per telefono Dolz che dallo stesso giornale aveva appena appreso della sua morte. De la Cruz uscì dal retro dell’edificio e non si fermò fino all’Ambasciata uruguayana, ubicata nell’appartamento 245 della Manzana de Gómez, mentre Dolz trovava rifugio nell’Ambasciata del Brasile in 17 e A, nel Vedado.
Poterono sfuggire a tempo gli avvocati Pedro Cue, Juan Marinello e Mayito García Menocal, figlio dell’ex presidente che doveva essere eliminato “per dispetto a suo padre”. Ad Aguiar i sicari lo fulminarono sulla porta del suo domicilio, in 19 angolo B, nel Vedado. Poco prima arrivarono alla casa di B numero 13, quasi angolo a Calzada. Chiesero di Gonzalo Freire de Andrade che nella lista che avevano era l’unico compromesso con l’opposizione. Ma già dentro alla residenza gli assassini, non potendo identificarlo, ebbero eccesso di zelo ultimando tutti e tre.


Lo que no dije de la Catedral
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Mayo del 2016 20:57:01 CDT

¿Sabía usted que el periódico «del domingo» se ideó en la Plaza de la Catedral cuando el periódico La Discusión se instaló en el que fue el palacio de los condes de Casa Bayona? ¿Que fue en ese diario donde se utilizó por primera vez en Cuba el linotipo que posibilitó que los periódicos se «compusieran» en menos tiempo y pudieran aumentar el número de sus páginas?
¿Sabía que el 20 de enero de 1804 la caja fuerte de la Real Tesorería, instalada en el palacio del marqués de Arcos, también en la Plaza de la Catedral, fue violentada por la guardia encargada de su custodia que sustrajo el dinero que había en ella, lo que situó al Tesorero de la Real Hacienda en la disyuntiva de reponer de su peculio lo robado o ir preso?
Otro escándalo tendría lugar en esta casa cuando Sebastián Calvo de la Puerta y O’Farrill raptó, con el consentimiento de la joven, a la hija del Tesorero Real ante la negativa de este de dársela en matrimonio.
En la casa de la esquina del Callejón del Chorro, donde puede verse la tarja conmemorativa de la construcción de la Zanja Real, se instalaron, alrededor de 1840, los baños públicos de Guiliasti, los primeros en su clase que existieron en La Habana; aprovechaban el antiguo desagüe de la Zanja. No sería hasta las décadas finales del siglo XIX cuando los principales hoteles y casas de huéspedes empezaron a incluir lo que entonces se llamaba «el lujo del baño». Los establecimientos que carecían de ese servicio se limitaban a indicar a sus clientes dónde podían bañarse por un precio que giraba en torno a los 30 centavos.
Ya que se aludió a la Zanja, digamos de paso que fue la obra ingeniera más importante del siglo XVI. Su fuente se buscó en el río Almendares y las aguas se hicieron descender suavemente, por gravedad, hasta lo que sería la Plaza de la Catedral, la cota más baja de la villa. La vieja lápida consigna la construcción del primer acueducto habanero.
Dice: «Esta agua la trajo el maese de campo Juan de Tejada en el año de 1592».
Lo que hace llamativa esa casa sin portales y menos palacial que sus vecinas, es su mala sombra. Como ya dijo el escribidor en la página correspondiente a la semana anterior, dos de sus propietarios fueron a parar, en diferentes momentos, a la cárcel y murieron en ella sin que su fortuna y enorme prestigio social los salvara. En 1740, Antonio Palacín y Gatica, teniente gobernador y auditor de guerra —el segundo al mando en la defensa de La Habana— que creó además una cátedra de leyes en la universidad habanera. Pues bien, este sujeto, en compañía de Gabriel Beltrán de Santa Cruz, otro vecino principal de la ciudad, presentó una denuncia contra el capitán general Francisco Güemes de Horcasitas, conde de Revillagigedo, y, procesado por el gobernador interino, fue a dar con sus huesos al sombrío castillo-presidio de San Juan de Ulúa, en México, donde murió.
En 1751 la casa fue adquirida por el coronel Sebastián Peñalver y Calvo de la Puerta, regidor, teniente de alguacil mayor y alcalde de La Habana en diferentes ocasiones. Se destacó en la defensa de la ciudad cuando el ataque británico de 1762, pero una vez que los ingleses abandonaron la villa al año siguiente, las autoridades españolas lo acusaron de colaboración con el enemigo y fue recluido en Ceuta, de donde no volvió.
Dijimos la semana pasada que el Palacio de Lombillo tiene dos fachadas. Una mira a la Plaza de la Catedral, y la otra, a Empedrado.
El 27 de septiembre de 1932, el doctor Ricardo Dolz, abogado con bufete y residencia en ese inmueble, salvó milagrosamente la vida porque, avisado a tiempo, logró huir por una de las puertas mientras los porristas entraban por la otra. Eran los días del Gobierno despótico de Gerardo Machado y el dictador quiso vengar a Clemente Vázquez Bello, presidente del Senado y máxima figura del Partido Liberal, muerto en un atentado, con el asesinato de varios opositores.
¿Cómo se enteró Dolz de lo que sucedería?
Al desaparecer el periódico La Discusión, se mantuvo en el edificio que ocupaba un museo periodístico que oportunamente pasó a la Asociación de Reporteros, en la calle Zulueta, al lado del cuartel de bomberos, cuando la casa de La Discusión fue adquirida por la ronera Arechabala. En ese inmueble de la calle Zulueta funcionó además, a partir de los años 40, el Colegio Nacional de Periodistas, entidades que desaparecieron poco después del triunfo de la Revolución. Surgía entonces la Unión de Periodistas de Cuba que se instaló en la mansión que fuera del senador liberal (y machadista) Agustín García Osuna, amplia y confortable como casa de vivienda, pero poco práctica para su nueva función. Se dejaba atrás un edificio, construido expresamente por y para el sector, dotado de salas de reunión, biblioteca, restaurante, bar, barbería, sala de esgrima, gimnasio… todo lo que la sede de la UPEC no tiene. No quiere el escribidor pronunciarse sobre la conveniencia del cambio; quiere solo hacer una pregunta. ¿Dónde fueron a parar las piezas que conformaron el museo de la prensa?

La más hermosa

Tiempo hubo en que los periódicos se «paraban» a mano. Un operario hábil y experto —el tipógrafo— unía aceleradamente una letra con otra en obligada familia, al igual que hacen los albañiles con los ladrillos, hasta formar la galerada. Entonces los periodistas entregaban a la redacción sus trabajos escritos a mano, a veces con caligrafía infernal, y las primeras páginas se reservaban para anuncios comerciales y de navegación y hasta para esquelas mortuorias.
El linotipo, que es una máquina de componer provista de matrices y que funde las letras por líneas completas hasta formar un solo bloque, se introdujo en Cuba —en el periódico La Discusión— en 1899 y se impuso no sin resistencia, entre otros motivos, porque eliminaba al tipógrafo, que era el alma del periódico clásico. No tardaron en descubrirse sus ventajas: los diarios podían aumentar su paginación, se componían en menos tiempo y admitían una mayor cantidad de textos.
Con el linotipo se instauró el uso de la máquina de escribir, y, por acuerdo del gremio de linotipistas, se decidió que estos no trabajarían originales que no llegasen a sus manos escritos a máquina y a dos espacios.
Manuel Márquez Sterling —último romántico— fue el único periodista que se negó a utilizar la máquina de escribir. Siguió haciendo sus artículos a mano hasta 1934, cuando murió.
Surgió también allí el periódico «del domingo».
En los albores del siglo XX existía en Cuba el criterio, generalizado entre los directores de publicaciones, que los periódicos dominicales no funcionaban. De hecho, los diarios más importantes de la época —La Discusión y La Lucha— no aparecían los domingos, y los que lo hacían, aunque a veces daban cabida a folletines, en poco se diferenciaban en su edición dominical de las del resto de la semana. Pero Manuel María Coronado, director de La Discusión, tenía una idea opuesta. Pensaba que un periódico elaborado especialmente para ser leído en la calma del domingo, con temas variados y materiales extensos y bien escritos e ilustraciones en colores, sería todo un éxito, y puso a su gente a trabajar. Su idea marcó un paso de progreso en la prensa nacional y fue pronto imitada por otras publicaciones. Llega hasta hoy.
Vayamos ahora hasta la casa del marqués de Arcos.

En 1781, Ignacio de Peñalver y Cárdenas, tesorero general de la Real Hacienda y del Ejército, se opuso a la solicitud de matrimonio de Sebastián Calvo de la Puerta y O’Farrill con su hija María Luisa, considerada como la mujer más hermosa de la ciudad.
Sebastián decidió raptarla y llevarla en depósito a otro lugar. Así, la marquesa de Jústiz y su hija María Josefa, cuñada esta del pretendiente, planearon y ejecutaron la audaz acción en la iglesia de San Francisco, contando con la complicidad de la novia, que fue conducida a la residencia de las Jústiz.
El escandaloso enfrentamiento del Tesorero Real contra la Marquesa, cada uno con el poder de sus títulos y la inviolabilidad de sus espacios privados, dio motivo a la intervención del Capitán General, que confió la custodia de la joven al convento de Santa Teresa hasta que se logró llevar a cabo el matrimonio sin consentimiento del padre, poco antes de que el contrayente partiera hacia Luisiana en una campaña militar.
Entrado el siglo XIX, el hijo de Ignacio Peñalver y de Cárdenas, marqués de Arcos, fue nombrado tesorero de la Real Hacienda, quedando instalada la Real Tesorería, como era costumbre en la época, en la propia residencia de su responsable.
En la noche del 20 de enero de 1804, la guardia encargada de la custodia de la caja fuerte del Real Tesoro la violentó y sustrajo los 150 000 pesos que se guardaban en ella.
Existía en la Cuba de entonces una disposición que establecía que el funcionario público al que se le sustrajesen caudales a su cargo, tenía dos alternativas: los reponía de inmediato de su propio peculio, aunque no fuese responsable de la pérdida, o iba preso.
El gobernador general, marqués de Someruelos, enterado del hecho vandálico y sin saber si el Tesorero podía reponer el dinero, envió un recado a Peñalver. Le ofrecía un préstamo en efectivo a fin de que repusiese lo robado.
El marqués de Arcos expresó su agradecimiento al emisario del Gobernador General y al rehusar el ofrecimiento le mostró las 9 500 onzas de oro sacadas de su bolsillo  con las que había ya cubierto el desfalco.

Casa de dos puertas

Casa de dos puertas, mala es de guardar, dice el refrán. Pero esas dos puertas fueron la salvación de Ricardo Dolz.
El abogado Carlos Manuel de la Cruz detuvo su automóvil y compró el Heraldo de Cuba, diario que servía de vocero al régimen de Machado. En la primera página se daba cuenta de la muerte del senador Vázquez Bello. Se decía además que a manos de desconocidos habían muerto los oposicionistas  Dolz, el representante a la Cámara Miguel Ángel Aguiar, los hermanos Gonzalo, Guillermo y Leopoldo Freire de Andrade y el propio Carlos Manuel de la Cruz, Este comprendió de golpe que no había error en la redacción de la noticia. Ya en su bufete, en la calle O’Reilly, llamó por teléfono a Dolz, que por el mismo periódico acababa de enterarse de su muerte. De la Cruz salió por el fondo del edificio y no paró hasta la Embajada uruguaya, sita en el departamento245 de la Manzana de Gómez, mientras Dolz hallaba refugio en la Embajada de Brasil, en 17 y A, en el Vedado.
Pudieron escabullirse a tiempo los abogados Pedro Cue y Juan Marinello, y Mayito García Menocal, hijo del expresidente, que debía ser eliminado «para escarmiento de su padre». A Aguiar los porristas lo fulminaban en la puerta de su domicilio, en 19 esquina a B, en el Vedado. Poco antes llegaron a la casa de B número 13 casi esquina a Calzada. Preguntaron por Gonzalo Freire de Andrade que era  el que llevaban en la lista porque de los tres hermanos, era el único comprometido con la oposición. Pero ya en el interior de la residencia los asesinos no pudieron identificarlo y extremando su celo, los ultimaron a los tres.

Ciro Bianchi Ross



domenica 8 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BARILOTTO: contenitore di rum o polvere nera dei pirati

sabato 7 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BARCAROLA: composizione musicale

giovedì 5 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BARCARIZZO: sistemo un imbarcazione storta o capovolta

English o "spanglish" alla cubana?

La mia conoscenza della lingua inglese non è nemmeno elementare (nessuno è perfetto), diciamo che è a livello di giardino d’infanzia, come oggi si chiama l’asilo infantile, ma  mi è sorto il dubbio visto che qualcuno non la la conosca affatto, nonstante i compiti che svolge.
Come già detto in queste note ho presentato la domanda di riaccredito all’Ufficio Stampa Estera di Cuba, dove loro stessi mi hanno detto, oggi è possibile accreditarsi come “freelance”. Dopo qualche tempo, giusto per sapere se la mia richiesta venisse accolta o meno, mi sono presentato negli appositi uffici per parlare con l’incaricata dei rapporti coi giornalisti italiani a cui avevo indirizzato la mia sollecitudine.
Molto amabilmente, direi tipicamente cubanamente, la suddetta e molto carina signora o signorina mi ha detto che la mia richiesta è “stata elevata”, in Paradiso? E che sì è possibile accreditarsi come “freelance”, ma ci vuole la richiesta di una testata giornalistica che avalli la domanda. Ora, con le mie straminime conoscenze dell’english language (si scriverà così?), credo di aver capito che un giornalista “freelance” è uno che lavora per conto proprio e offre i suoi servizi a chi interessano (magari) scegliendo il miglior offerente o non da esclusive a nessuno e può darle a destra e anche a sinistra, se capita.
Credo che con il ristabilimento delle relazioni diplomatiche e con le prospettive (spinose) di affari convenga comunque, a chi di dovere, dare una rinfrescatina all’albionico dizionario.

Se sbalio mi corigerete. 

mercoledì 4 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BARBETTA: onor del mento caprino

martedì 3 maggio 2016

Piazza della Cattedrale, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 1°/5/16


Tre domeniche fa abbiamo fatto, in questa pagina, una rapida visita alla Plaza de San Francísco per poi passare a quella de Armas e per ultima alla cosiddetta Plaza Vieja. Allora si era detto che per ragioni di spazio, la Plaza de la Catedral sarebbe stata rimandata ad altra occasione. Quello che faremo adesso.
Ai suoi inizi si chiamò Plaza de la Cienaga (Palude, n.d.t.). Passò il tempo. L’Isola si divise in due diocesi e il vescovo José de Tres Palacios che reggeva la parte occidentale, ricostruì coi suoi soldi e con quelli dei suoi fedeli, la Santa Casa Lauretana, edificata dall’ordine gesuita, già espulsa dai domini spagnoli e la trasformò nella Santa Iglesia Catedral. Allo stesso tempo, il collegio che avevano costruito i gesuiti si ampliò per convertirsi in quello che doveva essere il famoso seminario di San Carlos y San Ambrosio.
Con l’apertura del nuovo tempio, il carattere e l’aspetto della piazza cambiarono. Nella zona esistevano già case di bello stile, ma a partire da allora si trasformarono tutte in magioni signorili di figure che ostentavano titoli di Castiglia e lo spazio cessò di essere conosciuto col suo vecchio nome dispregiativo, per cominciare ad essere la Plaza de la Catedral.
“L’antico pantano utilizzato come mercato e recinto del bestiame che fu sito di riunioni di pescatori, scrive lo storico Emilio Roig, si convertì in uno dei posti più eleganti della capitale, scenario di feste fastuose e cerimonie che cominciò a disputare la supremazia de la Plaza de Armas”.
Oggi continua ad essere la parte più bella e armoniosa della capitale. “La zona del primo incantesimo avanero”, la chiamò il grande scrittore cubano José Lezama Lima. E Alejo Carpentier, altro avanero irriducibile pur essendo nato a Losanna, in Svizzera, affermava che la facciata della Cattedrale era nientemeno che “musica trasformata in pietra”.

Recinto per muli e immondezzaio

Quella che sarebbe stata la Plaza de la Catedral prima fu, come si rileva dal suo nome originario, un posto pantanoso, malsano. Lì nel 1857, il governatore Gabriel de Luján, aprofittando delle sorgenti che sgorgavano in quel posto, fece costruire un contenitore o cisterna che manteneva sempre una quantità d’acqua sufficiente per rifornire le imbarcazioni in porto e la popolazione della città. Il flusso abbondante di queste sorgenti si  mantenne per lunghi anni, tanto che ancora nel secolo XIX, riforniva una installazione che col nome di “Bagni della Cattedrale” si installò all’angolo del Callejon del Chorro, dove apre le sue porte la galleria Víctor Manuel.
L’atto del Cabildo (antenato coloniale del municipio, n.d.t.) dell’Avana corrispondente al 23 agosto del 1577 rende conto che la palude impedisce il passaggio degli abitanti che vivono “all’altro lato della città, verso la vecchia fortezza” e li ostacola ad assistere alla messa. Da qui il Cabildo raccomanda la costruzione di un ponte e chiede che il fatto si comunichi ai pergiudicati e con loro si veda “le giornate che potrebbero dare per fare un ponte come si conviene”.
Nalla stessa data in cui si costruiva la cisterna, il governatore Luján incitava gli abitanti a costruire le loro case nell’area. Si erano già edificate alcune belle case e se ne costruivano altre per cui, affermava il  governatore, “questo luogo si va nobilitando”.
La terra si asciugava poco a poco e già nel 1623 si parlava della piazzetta della Palude. Nel 1625 il Cabildo proibiva negoziare parcelle nel centro dello spazio, “al fine che da ora in poi serva da piazza e da ornamento di quel quartiere e non si spiani né si conceda per edificio a nessuna persona”. E una Bolla Reale riaffermava, nel 1632, “che non si venda né si ceda per mercede, ma che si conservi per la città nello stato originale in cui si trova”.
Gli abitanti che si sentivano pregiudicati dalla misura protestarono.Uno di loro, a cui si negò il terreno per edificare la sua casa si lamentava, nel 1636, dello stato deplorevole dal quale la località non ne usciva, diceva, recinto di muli e immondezzaio con acqua che imputridiva; Il  danneggiato aggiungeva che si trattava di un’area molto brutta in una città che si stava abbellendo e costruendo begli edifici.
Una piazzetta deserta che causa solo inconvenienti e che si manteneva sopratutto per ricoverare il bestiame destinato al mattatoio.
Già dal 1597 la Zanja Real  sboccava nel cosiddetto Callejón del Chorro.
Sul posto c’è lapide che ricorda il fatto.

Pericolo di crollo

Nel secolo XVII, la futura Plaza de la Catedral era un luogo poco considerato dagli avaneri. La situazione cambiò col tempo. Già nel 1704 il Procuratore Generale della città si opponeva al proposito dei gesuiti di costruire lì la loro chiesa. Il Procuratore asseriva che non aveva un’altra piazza per lo svago degli abitanti, l’esercito aveva alienato al pubblico la Plaza de Armas. Quella della Ciénaga, in cambio, serviva per feste, esercitazioni e sfilate militari e poteva essere utilizzata anche come mercato. Aggiungeva che la città disponeva di poche marine e in quella della Ciénaga si poteva prestare un grande servizio alla Flotta in quanto a cucire vele, torcere cordami e immagazzinare l’acqua necessaria.
Siccome già allora la legge si rispettava, ma non si compiva, ci fu chi fece orecchie da mercante alla disposizione del Re, agli accordi del Cabildo e commerciò terreni che non pregiudicavano il tracciato della piazza. Il vescovo Compostela acquistò per 10.000 pesos la parcella dove si eleverà la missione e il collegio dei padri gesuiti che è lo stesso spazio che col tempo occuperà la Cattedrale. Sarebbe, da principio, un umile oratorio di travi e tetto di foglie, molto simile alle capanne dei pescatori erette in luogo. Muore Compostela, suo protettore e la Compagnia di Gesù convertirà la cappella in un edificio ampio che potesse ospitare la chiesa, il convento e il collegio. Il Procuratore tornò a occuparsene. Ai suoi vecchi argomenti aggiungeva, forse a ragione che la zona era conveniente e magari imprescindibile per la difesa dell’Avana.
I gesuiti vinsero la partita e nel 1748 conseguirono, non senza altri ostacoli, di collocare la prima pietra del loro edificio che avrebbero messo sotto la protezione di Nostra Signora di Loreto. Quasi 20 anni dopo terminarono la costruzione del collegio, non la chiesa né il convento, ma Carlos III li espulse dai loro domini.
Nel 1772 la Chiesa Parrocchiale Maggiore, situata di fronte alla Plaza de Armas –occupava parte di quello che sarà il Palazzo dei Capitani Generali, oggi Museo della Città-, presentava pericolo di crollo. Si determinò il suo trasloco per l’oratorio di San Felipe Neri, nella calle Aguiar e il 9 dicembre del 1977 i trasferì solennemente nell’edificio costruito dai gesuiti. Come si è già detto, il vescovo Tres Palacios gli fece modifiche per adeguarlo a Santa Chiesa Cattedrale, dedicata alla Santissima Concezione, mentre il collegio dei gesuiti fu ampliato e convertito nel Seminario di San Carlos y San Ambrosio.

Ritorno alla piazza

Quando lo scriba cominciò a percorrere l’Avana Vecchia, verso il 1963, l’Ufficio dello Storico dell’Avana era installato nel Palazzo di Lombillo. Si trova all’angolo di Empedrado, alla sinistra uscendo dalla Cattedrale. Ha due facciate e nonostante essere molto bella, la meno importante è quella che guarda alla Plaza. Si tratta di un edificio che esisteva già nel 1739. Appartenne originariamente alla famiglia Pedroso e poi a quella dei Lombillo, sposato con una Pedroso.
Già nella Repubblica, fu acquistato da un avvocato e politico, Ricardo Dolz; risiedeva in quell’edificio con la sua famiglia e lì aveva il suo studio.
Nel 1932, quando per vendicare il suo amico e correligionario Clemenete Vázquez Bello, morto in un attentato, il dittatore Gerardo Machado ordinò di assassinare varie figure dell’opposizione, Dolz che era anche lui nella lista, salvò miracolosamente la vita perché, avvisato in tempo, riuscì a uscire da una porta mentre i sicari entravano da un’altra.
Nel 1937, vi funzionò il Ministero della Difesa Nazionale fino al suo trasferimento a Empedrado e Monserrate, allora lo occuparono diversi uffici del Municipio. Già in questo secolo, lo Storico vi installò un’altra volta il suo Ufficio e oggi è essenzialmente una sala da esposizioni.
Il palazzo del Marchese di Arcos confina con quello di Lombillo. Esisteva già nel 1739. Due anni dopo veniva acquisito da Diego Peñalver y Angulo, Tesoriere dell’Industria Reale.
 Suo figlio Ignacio fu nominato Marchese di Arcos nel 1792 come pagamento ai servigi prestati alla Corona, durante la presa dell’Avana degli inglesi, nel 1762. Si chiamò la Tesoreria quando la occuparono i Peñalver. Poi l’affittarono all’amministrazione delle poste e ricevette il nome di Casa delle Poste.
Fu, a partire dal 1844, sede del Liceo Artistico dell’Avana. Da lì il murale che ricorda grandi figure della cultura cubana e che si apprezza nella calle Mercaderes, perché questa casa ha due fronti, quello che guarda la Cattedrale e quello che guarda alla calle citata che è sempre stata quella principale.
A parere di specialisti, il Palazzo del Marchese di Arcos è il tipo più perfetto di casa coloniale che ci resta. Non c'è niente di più tipicamente avanero che l’atrio e la scala di questo edificio. La scala è quella dei grandi palazzi del Rinascimento. L’impressione che si ha nel salirvi è di grandezza. È la scala di un palazzo.
Al fondo della Plaza, al lato opposto, e di fronte alla Cattedrale, si eleva l’amabile casa dei conti di Casa Bayona. Anch’essa è anteriore alla Cattedrale; data dal 1720. La si considera uno dei nostri palazzi più tipici nell’aspetto esterno, per la simmetria dei suoi interni, per i materiali che si impiegarono per la sua costruzione...”Grande casa di vita all’interno, fatta per godere l’intimità e che offre solo, al passante, un freddo ermetismo. Che distinzione il suo interno! Le stanze sono ampie e accoglienti, i cortili chiusi, ombreggiati, pieni di rumori di fronde e dell’acqua delle fonti. Le gallerie, ridenti; i saloni vastissimi...” dice uno specialista.
Già nel XX secolo fu acquisita dal Collegio degli Scrivani. Poi vi ebbe sede il giornale La Discusión e più tardi gli uffici della distilleria di rum Arechabala. Oggi è il Museo dell’Arte Coloniale.
Il Palazzo del Marchese di Aguas Claras è l’attuale ristorante El Patio, Francisco Filomeno Ponce de León, lo costruì nel XVIII secolo e i suoi discendenti lo vendettero nel 1870 al Conte di Peñalver. In uno degli appartamenti superiori di questo edificio, visse Victor Manuel, iniziatore della pittura moderna a Cuba.
Completa la piazza un’altra stupenda magione, senza portici, molto meno palazzo e molto meno tipica delle sue vicine. In una delle sue pareti c’è la targa commemorativa della costruzione della prima Zanja (Fossato, n.d.t.)
Merita di essere citata per il destino disgraziato di due dei suoi principali abitanti. Nonostante le loro ricchezze e importanza sociale, entrambi finirono in carcere e vi morirono, in differenti periodi del XVIII secolo. Uno per opporsi al governatore Güemes de Horcasitas, Conte di Revillagigedo; l’altro per aver collaborato con l’occupante britannico nel 1762.


Plaza de la Catedral

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
30 de Abril del 2016 21:41:18 CDT

Hace tres domingos hicimos en esta página una rápida visita a la Plaza de San Francisco para pasar después a la de Armas y, por último, a la llamada Plaza Vieja. Consignamos entonces que, por razones de espacio, la Plaza de la Catedral quedaría para otra ocasión. Lo haremos ahora.
Se le llamó en sus comienzos Plaza de la Ciénaga. Pasó el tiempo. La Isla se dividió en dos diócesis, y el obispo José de Tres Palacios, que regía en su parte occidental, reconstruyó con su dinero y con los de su prelacía, la Santa Casa Lauretana, edificada por la orden jesuita, expulsada ya de los dominios españoles, y la transformó en Santa Iglesia Catedral. Al mismo tiempo, el colegio que construyeron los jesuitas se amplió para convertirse en lo que habría de ser el famoso seminario de San Carlos y San Ambrosio.
Con la apertura del nuevo templo cambió el aspecto y el carácter de la plaza. Existían ya en la zona casas de buen estilo, pero a partir de ahí todas se convirtieron en mansiones señoriales de figuras que ostentaban títulos de Castilla, y el espacio dejó de ser conocido por su nombre viejo y despectivo, para empezar a ser la Plaza de la Catedral.
«El antiguo desaguadero utilizado como mercado y corral de ganado que fue sitio de reunión de pescadores, escribe el historiador Emilio Roig, se convirtió en uno de los lugares más elegantes de la capital, escenario de fiestas fastuosas y ceremonias, que comenzó a disputarle la primacía a la Plaza de Armas».
Hoy sigue siendo la parte más bella y armoniosa de la capital. «La zona del primer hechizo habanero», la llamó el gran escritor cubano José Lezama Lima. Y Alejo Carpentier, otro habanero irreductible aunque nació en Lausana, Suiza, afirmaba que la fachada de la Catedral era nada más y nada menos que «música convertida en piedra».

Muladar y basurero

Lo que sería la Plaza de la Catedral fue antes, como se desprende de su nombre original, un sitio anegadizo, un lugar malsano. Allí, en 1587, el gobernador Gabriel de Luján, aprovechando los manantiales que brotaban en ese sitio, hizo construir un aljibe o cisterna que mantenía siempre una cantidad de agua suficiente para abastecer las embarcaciones en puerto y a la población de la villa. El abundante caudal de esos manantiales se mantendría durante largos años, tantos que todavía en el siglo XIX surtía un establecimiento que, con el nombre de «Baños de la Catedral», se instaló en la esquina del Callejón del Chorro, donde abre sus puertas la galería Víctor Manuel.
El acta del Cabildo de La Habana correspondiente a 23 de agosto de 1577 da cuenta de que la ciénaga impide el paso de los vecinos que viven «en la otra banda de la villa, hacia la fortaleza vieja», y les obstaculiza asistir a misa. De ahí que el Cabildo recomiende la construcción de un puente y pide que el asunto se comunique a los perjudicados y se vea con ellos «los jornales que podrán dar para hacer un puente como conviene».
En la misma fecha en que se construía el aljibe, el gobernador Luján instaba a los vecinos a que construyesen sus viviendas en el área. Ya se han edificado algunas buenas casas y se levantan otras con lo que, afirmaba el Gobernador, «este lugar se va ennobleciendo».
La tierra se secaba poco a poco y ya en 1623 se hablaba de la plazuela de la Ciénaga. En 1625 el Cabildo prohibía mercedar solares en el centro del espacio, «a fin de que ahora y para todo el tiempo sirva de plaza y adorno de aquel barrio, y no se labre ni conceda para edificio a ninguna persona». Y una Real Cédula reafirmaba en 1632 «que no se venda ni enajene por vía de la merced, sino que se conserve para la ciudad en el antiguo estado en que se encuentra».
Protestaban los vecinos que se sentían perjudicados por la medida. Uno de ellos, al que se le negó el terreno para levantar su vivienda, se quejaba, en 1636, del deplorable estado del lugar que no pasaba de ser, expresaba, muladar y basurero, con un agua que se pudre e infecta la ciudad. Añadía el perjudicado que se trataba de un área de mucha fealdad en una urbe que se va ilustrando y hermoseando de edificios.
Una plazuela desierta que solo causa perjuicios y que se utilizaba sobre todo para sustentar el ganado destinado al matadero.
Ya desde 1597 la Zanja Real vertía en el llamado Callejón del Chorro.
Hay en el lugar una lápida que conmemora el suceso.

Peligro de derrumbe

En el siglo XVII la futura Plaza de la Catedral era un lugar poco estimado por los habaneros. La situación varió con el tiempo. Ya en 1704 el Procurador General de la ciudad se oponía al propósito de los jesuitas de construir allí su iglesia. Aducía el Procurador que La Habana no contaba con otra plaza para el esparcimiento de los vecinos, pues el Ejército había enajenado al pueblo la de Armas. La de la Ciénaga, en cambio, servía para fiestas, ejercicios y desfiles militares y hasta podía utilizarse como mercado. Añadía que la ciudad disponía de pocas marinas, y en la de la Ciénaga se podía prestar un gran servicio a la Armada en cuanto a coser velas, torcer jarcias y almacenar el agua necesaria.
Como ya entonces la ley se respetaba, pero no se cumplía, hubo quien hizo caso omiso a la disposición del Rey y a los acuerdos del Cabildo y mercedó terrenos que no perjudicaban el trazado de la plaza. El obispo Compostela adquiere por 10 000 pesos la parcela donde se levantaría la misión y el colegio de los padres jesuitas, que es el mismo espacio que con el tiempo ocuparían la Catedral. Sería, de entrada, un humilde oratorio de horcones y techo de guano, muy parecido a las chozas de pescadores erigidas en el lugar. Muere Compostela, su protector, y quiere la Compañía de Jesús convertir la ermita en un edificio amplio que albergase iglesia, convento y colegio. Volvió a oponérsele el Procurador. A sus viejos argumentos añadía quizá con razón que la zona era conveniente y acaso imprescindible para la defensa de La Habana.
Ganaron los jesuitas la partida y en 1748 consiguieron, no sin otros obstáculos, colocar la primera piedra de su edificio, que pondrían bajo la advocación de Nuestra Señora de Loreto. Casi 20 años después terminaron la construcción del colegio, no la iglesia ni el convento, pero Carlos III los expulsó de sus dominios.
En 1772 la Iglesia Parroquial Mayor, situada frente a la Plaza de Armas —ocupaba parte de lo que sería el Palacio de los Capitanes Generales, hoy Museo de la Ciudad—, presentaba peligro de derrumbe. Se determinó su traslado para el oratorio de San Felipe de Neri, en la calle Aguiar, y el 9 de diciembre de 1777 se trasladó solemnemente para el edificio construido por los jesuitas. Como ya se dijo, el obispo Tres Palacios le hizo modificaciones para adecuarlo a la Santa Iglesia Catedral, dedicada a la Santísima Concepción, en tanto que el colegio establecido por los jesuitas fue ampliado y convertido en el Seminario de San Carlos y San Ambrosio.

Vuelta a la plaza

Cuando el escribidor comenzó a recorrer La Habana Vieja, allá por 1963, la Oficina del Historiador de La Habana estaba instalada en el Palacio de Lombillo. Se halla en la esquina de Empedrado, a la izquierda según se sale de la Catedral. Tiene dos fachadas y pese a ser muy bella, la menos importante es la que mira a la Plaza. Se trata de un edificio que existía ya en 1739. Perteneció originalmente a la familia Pedroso y luego a la de Lombillo, casado con una Pedroso.
Ya en la República fue adquirido por el abogado y político Ricardo Dolz; residía en ese inmueble con su familia y tenía allí su bufete.
En 1932, cuando para vengar a su amigo y correligionario Clemente Vázquez Bello, muerto en un atentado, el dictador Gerardo Machado ordenó asesinar a varias figuras de la oposición, Dolz, que estaba también en la lista, salvó la vida milagrosamente porque avisado a tiempo, logró huir por una de las puertas mientras los sicarios entraban por la otra.
En 1937 funcionó allí el Ministerio de Defensa Nacional hasta su traslado a Empedrado y Monserrate, y lo ocuparon entonces diversas dependencias del Ayuntamiento. Ya en este siglo, el Historiador instaló otra vez allí su Oficina y hoy es esencialmente una sala de exposiciones.
El Palacio del Marqués de Arcos colinda con el de Lombillo. Existía ya en 1739. Dos años después era adquirido por Diego Peñalver y Angulo, Tesorero de la Real Hacienda. Su hijo Ignacio fue nombrado Marqués de Arcos en 1792, en pago a los servicios prestados a la Corona cuando la toma de La Habana por los ingleses, en 1762. Se le llamó de la Tesorería cuando la ocuparon los dos Peñalver. Luego la arrendaron a la administración de correos y recibió el nombre de Casa de Correos.
Fue, a partir de 1844, sede del Liceo Artístico Literario de La Habana. De ahí el mural que recuerda a grandes figuras de la cultura cubana y que se aprecia en la calle Mercaderes, porque esta casa tiene dos frentes, el que mira a la Catedral y el que da a la calle mencionada, que siempre se ha tenido como el principal.
En opinión de especialistas, el Palacio del Marqués de Arcos es el tipo más perfecto de casa colonial que nos queda. No hay nada más típicamente habanero que el zaguán y la escalera de este edificio. La escalera es la de los grandes palacios del Renacimiento. La impresión que se recibe al ascenderla es de grandeza. Es la escalera de un palacio.
En el fondo de la Plaza, en el lado opuesto y frente por frente a la Catedral, se alza la amable casona de los condes de Casa Bayona. Es también anterior a la Catedral; data de 1720. Se le considera una de nuestros palacios más típicos por su aspecto exterior, por la simetría de sus interiores, por los materiales que se emplearon en su construcción… «Casona de vida dentro, hecha para gozar de lo íntimo, que solo brinda al transeúnte un frío hermetismo. ¡Qué distinto su interior! Las habitaciones son amplias y acogedoras, los patios cerrados, umbrosos, pleno de rumores de fronda y del agua de las fuentes. Las galerías rientes; los salones, vastísimos…», dice un especialista.
Ya en el siglo XX fue adquirida por el Colegio de Escribanos. Radicó después allí el periódico La Discusión, y más tarde las oficinas de la ronera Arechabala. Hoy es el Museo de Arte Colonial.
El Palacio del Marqués de Aguas Claras es el actual restaurante El Patio. Francisco Filomeno Ponce de León lo construyó en el siglo XVIII y sus descendientes lo vendieron, en 1870, al Conde de Peñalver. En uno de los apartamentos superiores de este edificio vivió Víctor Manuel, iniciador de la pintura moderna en Cuba.
Completa la Plaza otra hermosa mansión, sin portales, mucho menos palacial y mucho menos típica que sus vecinas. En una de sus paredes está la tarja conmemorativa de la construcción de la Zanja primitiva.
Merece mención por el desgraciado destino de dos de sus moradores principales. Pese a sus riquezas e importancia social, ambos fueron a parar a la cárcel y murieron en ella, en diferentes etapas del siglo XVIII. Uno, por oponerse al gobernador Güemes de Horcasitas, Conde de Revillagigedo; el otro por haber colaborado con el ocupante británico en 1762.

Ciro Bianchi Ross








Dizionario del mare per lupi di terra

BARBA: onor del mento

lunedì 2 maggio 2016

Dopo oltre 50 anni una nave statunitense attracca al porto dell'Avana

Dopo la "prima volta" di un presidente, è venuta la "prima volta di una nave statunitense  dopo le rotture avvenute oltre 50 anni fa. Questa mattina è passata davanti al faro dei Tres Reyes del Morro, per scivolare lungo il canale costeggiato dalla fortezza di San Carlos de la Cabaña e dominato dal Cristo dell'Avana, la nave Adonia, appartenente al gruppo Carnival, leader mondiale delle crociere e che avrà una cadenza bisettimanale nei porti cubani di l'Avana, Cienfuegos e Santiago de Cuba per proseguire la sua crociera nei Caraibi con rientro a Miami, da dove ha origine.
Sulla nave c'erano 12 cittadini dal doppio passaporto, cubano e statunitense che però sono obbligati a rientrare esibendo il cubano e che fino ad ora non potevano fare viaggi in mare, autorizzati. 




domenica 1 maggio 2016

1 maggio 1916

Come ogni anno, grandiosa sfilata per la festa dei Lavoratori, molte le delegazioni straniere, più folta che mai quella turca. Con il contingente dell’Istituto per la Ricreazione e lo Sport ha sfilato, assieme ad altri volti popolari nei rispettivi contingenti, il tre volte campione olimpico e Presidente della Federazione di Atletica di Cuba, Alberto Juantorena con i figli e sempre disponibile col pubblico.





C'è voluta qualche ora e non so quanti tentativi falliti, ma ce l'ho fatta...




sabato 30 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BANDERUOLA: secondo Mina folle, stravagante...

venerdì 29 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BANCHINA: usata nei barchi e ciardini, specialmente dai bensionati

giovedì 28 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BALENIERA: imbarcazione per passeggeri corpulenti

mercoledì 27 aprile 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BAGNASCIUGA: penitenza, se all'infinito tortura

domenica 24 aprile 2016

Un vice presidente degli U.S.A. ha giurato a Limonar, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 24/4/16

Il senatore James Buchanan che con l’andare del tempo (1857) risulterà eletto presidente degli Stati Uniti, scriveva alla sua amica Cornelia Roosvelt, in occasione dell’assenza del suo amico, il pure senatore e più tardi vice presidente della nazione, William Rufus King, ciò che segue: “Adesso sono solo, solitario, perché non ho compagnia in casa con me. Ho corteggiato diversi cavalieri, ma non ho avuto successo con nessuno di loro. Sento che per un uomo non è belloe essere solo e non mi stupirei di trovarmi sposato, un gioeno, con una zitellona che mi curi quando sono malato, mi faccia dei buoni cibi quando sto bene e che non si aspetti da me nessuna affetto ardente e romantico”.
Gli storici nordamericani consumarono molte pagine nell’analisi della relazione fra questi due ambiziosi uomini politici che nel 1844 decisero di candidarsi come presidente e vice presidente del Paese, cosa che gli impedì il Partito Democratico, al quale appartenevano entrambi. Anche se alcuni esperti dicevano che non c’era niente di strano, all’epoca che due uomini condividessero lo stesso letto e che i termini affettivi che potevano usare nella corrispondenza trasmessa tra di loro, non significava nessun indizio romantico e catalogarono Buchanan e Rufus come “asessuati e scapoloni”, l’amicizia tra i due  suscitò la curiosità dei loro compagni al Congresso che finirono per definirli “ la signorina Nancy” e la “zia Nancy”, eufemismi usati allora per indicare che un uomo era effemminato. A Buchanan e Rufus che vennero a sapere di questi commenti, non importò mai molto e continuarono la loro vita in comune e il loro lavoro di legislatori. Dal 1834 fino a che Rufus fu nominato ambasciatore in Francia – separazione che motivò la lettera di Buchanan a Cornelia – condiviso lo stesso tetto a Washington e assistevano assieme agli atti in Campidoglio e agli eventi sociali.
Un legislatore diceva che Rufus era la “mezza mela” di Buchanan e un altro si riferiva a loro come ai “gemelli siamesi”, ebbene, stavano sempre assieme. Rufus diceva che questa amicizia era una “comunione”.
Buchanan ebbe una fidanzata con cui ruppe prima di arrivare al matrimonio interessato, sopratutto com’era, alla dote della ragazza. A Rufus non si conobbe nessuna relazione con donne. Alla morte di entrambi – Rufus morì nel 1853 e Buchanan nel 1868 – le rispettive famiglie distrussero  la corrispondenza fra di loro. Le lettere che si salvarono, senza dubbio lasciarono molti argomenti interessanti.

Il vice che non fu

Non è interesse dello scriba e lo esprime, a qualsiasi intimità, come usava dire un noto avvocato, prima del 1959 mentre si appoggiava con entrambe le mani al suo bastone, abbondare nell’orientamento sessuale di William Rufus King. Vuole, sì, sottolineare un fatto inedito nella storia degli Stati Uniti. Rufus, tredicesimo vice presidente di questo Paese – con Franklin Pierce come presidente -, giurò per il suo alto incarico nella casa di abitazione dello zuccherificio Adriadna, a Limonar in provincia di Matanzas. Si avvicinava la date del giuramento e collaboratori e amici si convinsero che il soggetto che cercava di recuperarsi a Cuba, non sarebbe arrivato a Washington. Stava tanto male di salute che per la cerimonia si dovette mantenerlo in piedi sostenendolo per le due braccia.
Pass diversi giorni in più nella zona e giunse a casa sua il 17 aprile del 1853. Morì il giorno dopo, nella sua fattoria nella contea di Dallas, in Alabama. Si mantenne in carica solo un mese. Non poté disimpegnare nessun incarico inerente alla sua alta investitura.
Fu lo storico matanzero Raúl Ruíz già deceduto, a portare alla luce, anni fa, questa storia dimenticata, pagine che compilò in un libro quasi introvabile, Aguas de la ciudad.,
Alla fine della decade del 1940 o all’inizio del 1950, la Alabama Historial Society, volle perpetuare il fatto con la collocazione di una targa in una delle colonne vicine all’entrata principale del Palazzo Municipale matanzero: targa non conosciuta dallo scriba.
Nonostante i suoi compagni  di emiciclo si burlavano di un uomo melenso e stravagante che usava coprirsi con parrucche impolverate che ai suoi tempi erano già fuori moda Rufus fu, si dice, un legislatore capace e un oratore impressionante. Alla sua morte, Buchanan lo definì “tra i migliori, più puri e più consistenti uomini pubblici che abbia conosciuto”, ma l’apprezzamento veniva da molto vicino.
In ogni modo la sua carriera politica fu folgorante. Discendente di irlandesi e di ugonotti francesi, William Rufus King nacque nella contea di Sampson, Carolina del Nord, il 7 aprile 1786. La sua era una famiglia grande, benestante e con molti buoni contatti. Fece gli studi universitari e nel 1806 fu eletto deputato alla rappresentanza del suo Stato di nascita. Disimpegnò in tre occasioni l’atto di Rappresentante alla Camera a Washington e partecipò come delegato alla convenzione organizzata dal Governo dello Stato dell’Alabama. Nel 1819, nel riconoscere questo territorio come il ventiduesimo Stato dell’Unione, fu eletto al Senato, camera dove giunse a presiedere la commissione per le Relazioni Esterne.
Alla morte del presidente Zachary Taylor, il vice Millar Filmore occupò la prima magistratura, per cui la vice presidenza rimase vacante. William Rufus King, già vice presidente del Senato, fu posto, come previsto dalla Costituzione, nella prima linea di successione presidenziale.
I suoi contemporanei lo consideravano moderato in temi come la schiavitù, separazione tra il nord e il sud ed espansione verso l’Ovest. Siccome lui e la sua famiglia erano proprietari di grandi piantagioni di cotone e di circa 500 schiavi, si dice che era un difensore della schiavitù.
Il suo maggior successo fu l’elezione, per il Partito Democratico, alla vice presidenza degli Stati Uniti.

Un uomo ammalato

In quel momento era già un uomo molto ammalato. Minato dalla tubercolosi, i medici gli raccomandarono di andare a Cuba in cerca di un possibile ristabilimento della salute. Fece il viaggio subito dopo la sua elezione.
All’inizio del suo soggiorno nell’Isola, alloggiò nella residenza di William Scott Jencks Updicke, proprietario di uno zuccherificio e suo amico personale. Una magnifica magione di due piani ubicata a la Cumbre, attuale reparto Versalles, vicino alla baia matanzera. Era una zona raccomandata dai medici e lì Rufus rimase, dice l’investigatore Raúl Ruíz, per un periodo di due settimane, fino a che le moleste perturbazioni del nord con pioggia e freddo, raccomandarono il suo trasferimento in altro luogo.
Coi due nipoti che lo accompagnavano e i collaboratori, allora si trasferì allo zuccherificio Ariadna, nella zona di Limonar, bel lontano dalla costa e con un clima eccellente, proprietà di JuanChartrand-Dubois, padre di Esteban e Felipe, gli eccellenti paesaggisti. Era la stessa fabbrica di zucchero dove, nel 1851, si era installata la svedese Fredrika Bremer, occasione in cui aprofittò di scfrivere buona parte del suo libro Cartas desde Cuba che lei stessa illustrò.
Rufus, nello zuccherificio Ariadna, vide lo stesso panorama che precedentemente aveva apprezzato la svedese e che lo scriba rivive grazie a lei. Una grande ceiba in pieno vigore e magnificenza. I margini delle strade bordeggiati, alcune da palme, altre da manghi. I frutteti. Il ballo dei negri la domenica, quando gli si permetteva una pausa nel duro lavoro. Il baraccone degli schiavi, una specie di muraglia bassa, costruita attorno ai quattro lati di un gran patio, col portone su un lato che si chiudeva la sera. Dentro questa muraglia c;erano le stanze degli schiavi – una stanza per ogni famiglia e nel centro del patio, la cucina e il lavandino. – Felipe era sui 25 anni e Esteban che giunse ad essere il più famoso dei due sui 20. La signora della casa, la moglie di Chartrand-Dubois, aveva doti musicali e una voce che ara un vero piacere ascoltare. Dimostrava un carattere tranquillo e dolce, come attivo e vivace era quello del marito, un francese oriundo di Santo Domingo che fece la sua ricchezza grazie alla fortuna, era vivace, ciarliero e cortese, possedeva grande acume e sagacia.

Con l’Approvazione del Congresso

Gli investigatori non si mettono d’accordo nel fissare il luogo esatto dove William Rufus King giurò come vice presidente degli Stati Uniti.
Alcuni insistono a dire che la cerimonia si effettuò a la Cumbre, la residenza di William Updicke, latifondista e interprete della Marina spagnola. Altri su una nave da guerra che Washington inviò a Matanzas per l’occasione. La versione ufficiale assicura che questo giuramento si portò a termine all’Avana. È poco probabile che a questo punto Rufus che era molto malato, in quello stato, si trasferisse alla capitale dell’Isola. D’altra parte il Fulton, una nave della Marina Militare nordamericana che lo portò a Matanzas, fu lo stesso che lo riportò negli Stati Uniti e questa imbarcazione, col suo illustre passeggero a bordo, salpò dall’Atene di Cuba.
Rimane quindi l’ipotesi sostenuta da Raúl Ruíz che la cerimonia ebbe luogo nei possedimenti dei Chartrand.
Si avvicinava la data della presa di possesso e Rufus capì che gli risultava impossibile fare il viaggio. I suoi correligionari e amici iniziarono allora le pratiche per ottenere l’autorizzazione, al fine che il giuramento si effettuasse a Cuba.
La petizione contò dell’approvazione del Congresso. In virtù della decisione, William Sharley, console degli Stati Uniti all’Avana, si sarebbe presentato a Matanzas e avrebbe preso il giuramento di Rufus nello zuccherificio Adriadna. Giunto il momento, si dovette sostenerlo per le braccia per compiere le formalità.
Conclusa la cerimonia, Rufus King conversò coi presenti e si ritirò in una stanza. Dodici giorni dopo, partiva di ritorno agli Stati Uniti. Nel porto di Mobile, una moltitudine aspettava il passeggero che dopo una breve sosta in luogo, rimontò il fiume Alabama fino alla sua tenuta, di Dallas, dove morì.

La legislatura territoriale dell’Oregon creò la contea di King a suo nome. Molti anni dopo, le autorità di questa località emendarono la designazione e il suo logotipo per onorare la memoria di Martin Luther King, l’eroe afroamericano che lottò contro la discriminazione razziale.



Un Vicepresidente de EE.UU. juró en Limonar

Ciro Bianchi Rossdigital@juventudrebelde.cu
23 de Abril del 2016 20:44:44 CDT

El senador James Buchanan que andando el tiempo (1857) resultaría electo presidente de los Estados Unidos, escribía a su amiga Cornelia Roosevelt, con motivo de la ausencia de su amigo, el también senador y más tarde vicepresidente de la nación, William Rufus King, lo
siguiente: «Ahora estoy solo y solitario porque no tengo compañía en la casa conmigo. He cortejado a varios caballeros pero no he tenido éxito con ninguno de ellos. Siento que no es bueno para un hombre el estar solo, y no me sentiría asombrado de encontrarme un día casado con una solterona que me cuide cuando estoy enfermo, me provea buenas comidas cuando estoy bien y que no espere de mí ningún afecto ardiente y romántico».
Muchas páginas consumieron los historiadores norteamericanos en el análisis de la relación entre esos dos ambiciosos políticos que en 1844 decidieron postularse como presidente y vice del país, lo que les impidió el Partido Demócrata, al que ambos pertenecían. Aunque algunos conocedores plantean que no había nada raro en la época en que dos hombres compartieran la misma cama, que los términos afectivos que podían utilizar en la correspondencia cursada entre ellos no significaba ningún tipo de apego romántico, y catalogan a Buchanan y a Rufus como «asexuales y solterones», la amistad entre ambos despertó la curiosidad de sus compañeros en el Congreso, que terminaron aludiendo a ellos como la «señorita Nancy» y la «tía Nancy», eufemismos empleados entonces para sugerir que un hombre era afeminado. A Buchanan y a Rufus, que llegaron a conocer de esos comentarios, nunca les importó mucho pues prosiguieron su vida en común y su trabajo como legisladores. Desde 1834 hasta que Rufus fue nombrado embajador en Francia —separación que motivó la citada carta de Buchanan a Cornelia—, compartieron en Washington el mismo techo y juntos asistían a las sesiones del Capitolio y a los actos sociales.
Un legislador decía que Rufus era la «media naranja» de Buchanan, y otro se refería a ellos como los «hermanos siameses», pues siempre andaban juntos. Rufus diría que esa amistad era una «comunión».
Buchanan tuvo una novia con la que rompió antes de llegar al matrimonio, interesado como estaba sobre todo, se dice, en la dote de la muchacha. A Rufus no se le conoció ninguna relación con mujeres. A la muerte de ambos —Rufus falleció en 1853, y Buchanan, en 1868— las familias  respectivas destruyeron la correspondencia entre ellos. Las cartas que quedaron, sin embargo, dan mucha tela por donde cortar.

El vice que no fue

No es interés del escribidor, y lo expresa a toda intimidad, como solía decir un abogado notable antes de 1959 mientras se apoyaba con ambas manos en su bastón, abundar en la orientación sexual de William Rufus King. Quiere, sí, destacar un hecho inédito y hasta ahora no repetido en la historia de Estados Unidos. Rufus, décimo tercer vicepresidente de ese país —con Franklin Pierce como primer mandatario—, juró su alto cargo en la casa de vivienda del ingenio azucarero Adriadna, en Limonar, provincia de Matanzas. Se acercaba la fecha del juramento, y amigos y colaboradores se convencieron de que el sujeto, que intentaba recuperarse en Cuba, no llegaría a Washington. Estaba tan mal de salud que, para que pudiera mantenerse en pie durante la ceremonia, hubo que sostenerlo por ambos brazos.
Pasó varios días más en la zona y llegó a su casa el 17 de abril de 1853. Murió al día siguiente, en su hacienda del condado de Dallas, en Alabama. Se mantuvo en el cargo apenas un mes. No pudo desempeñar ninguna de las funciones inherentes a su alta investidura.
Fue el historiador matancero Raúl Ruiz, ya fallecido, quien sacó a relucir años atrás esta historia olvidada, páginas que compiló en un libro ya casi inencontrable, Aguas de la ciudad. A fines de la década de 1940 o a comienzos de la de 1950, la Alabama Historial Society quiso perpetuar el hecho con la colocación de una tarja en una de las columnas cercanas a la entrada del Palacio Municipal matancero; tarja de la que desconoce el escribidor.
Aunque sus compañeros de hemiciclo se burlaban de un hombre melindroso y cursi, que solía cubrirse con pelucas empolvadas que en su tiempo estaban ya fuera de moda, Rufus fue, se dice, un legislador capaz y un orador impresionante. A su muerte, Buchanan lo ubicó «entre los mejores, más puros y más consistentes hombres públicos que he conocido», pero la recomendación venía desde muy cerca.
De cualquier manera su carrera política fue meteórica. Descendiente de irlandeses y de hugonotes franceses, William Rufus King nació en el condado de Sampson, Carolina del Norte, el 7 de abril de 1786. Era la suya una familia extensa, acaudalada y con muy buenas conexiones. Hizo estudios universitarios y en 1806 fue electo diputado a la legislatura de su estado natal. Desempeñó en tres ocasiones un acta de Representante a la Cámara en Washington y participó como delegado en la convención organizada por el Gobierno del estado de Alabama. En 1819, al reconocerse ese territorio como el vigésimo segundo estado de la Unión, fue electo al Senado, cámara donde llegó a presidir la comisión de Relaciones Exteriores.
A la muerte del presidente Zachary Taylor, el vice Millar Fillmore ocupó la primera magistratura, con lo que la vicepresidencia quedó vacante. William Rufus King, ya presidente del Senado, se colocó, como estipulaba entonces la Constitución, en la primera línea de la sucesión presidencial.
Sus contemporáneos lo consideraron moderado en temas como esclavitud, separación entre el norte y el sur, expansión  hacia el Oeste. Como él y su familia eran propietarios de grandes plantaciones de algodón y de unos 500 esclavos, se dice que era un defensor de la esclavitud.
Su mayor éxito fue su elección en 1852, por el Partido Demócrata, a la vicepresidencia de Estados Unidos.

Un hombre enfermo

A esas alturas era ya un hombre muy enfermo. Minado por la tuberculosis, los médicos le recomendaron que viajara a Cuba en busca del posible restablecimiento de la salud. Hizo el viaje inmediatamente después de su elección.
Se alojó, al comienzo de su estancia en la Isla, en la residencia de William Scott Jencks Updike, propietario de un ingenio azucarero y su amigo personal. Una magnífica mansión de dos plantas ubicada en la Cumbre, actual reparto Versalles, junto a la bahía matancera. Era una zona recomendada por los médicos y allí Rufus permaneció, dice el investigador Raúl Ruiz, por espacio de dos semanas hasta que los molestos nortes, con lluvia y frío, recomendaron su traslado a otro sitio.
Con los dos sobrinos que lo acompañaban y colaboradores se trasladó entonces al ingenio Adriadna, en la zona de Limonar, bien alejado de la costa y con un clima excelente, propiedad de Juan Chartrand-Dubois, padre de Esteban y Felipe, los excelentes paisajistas. Era la misma fábrica de azúcar donde, en 1851, se había instalado la sueca Fredrika Bremer, ocasión que aprovechó para escribir buena parte de su libro Cartas desde Cuba, que ella misma ilustró.
Rufus, en el ingenio Adriadna, ve el mismo paisaje que antes apreció la sueca y que el escribidor revive gracias a ella. Una gran ceiba en pleno vigor y magnificencia. Las guardarrayas bordeadas, unas de palmas y otras, de mangos. Los frutales. El baile de los negros los domingos, cuando se les permite un alto en el duro trabajo. El barracón de los esclavos, una especie de muralla baja, construida en torno a los cuatro lados de un gran patio, con un portón por un lado, que se cierra por la noche. Dentro de esa muralla están las viviendas de los esclavos —una habitación para cada familia, y en el centro del patio, la cocina y el lavadero. Felipe anda por los 25 años, y Esteban, que llegaría a ser el más famoso de los dos, por los 20. La señora de la casa, la esposa de Chartrand-Dubois, tiene dotes musicales y una voz que es verdaderamente un placer escuchar. Da muestras de un carácter tan tranquilo y suave, como activo y vivaz es el del marido, un francés oriundo de Santo Domingo que hizo su fortuna gracias a la suerte, y es vivo, charlatán y cortés, y posee gran agudeza y sagacidad.

Con la aprobación del congreso

No se ponen de acuerdo los investigadores al fijar el lugar exacto donde William Rufus King juró como vicepresidente de los Estados Unidos.
Algunos insisten en que la ceremonia se efectuó en la Cumbre, la residencia de William Updike, hacendado e intérprete de la Marina española. Otros, en un barco de guerra que Washington envió a Matanzas para la ocasión. La versión oficial asegura que ese juramento se llevó a cabo en La Habana. Es poco probable porque a esas alturas Rufus se encontraba muy enfermo y en ese estado no se trasladaría a la capital de la Isla. Por otra parte, el Fulton, un buque de la Marina de Guerra norteamericana, que lo llevó a Matanzas, fue el mismo que lo regresó a Estados Unidos, y esa embarcación, con su ilustre pasajero a bordo, zarpó de la bahía de la Atenas de Cuba.
Queda entonces la hipótesis sostenida por Raúl Ruiz, de que la ceremonia del juramento tuvo lugar en el predio de los Chartrand.
Se acercaba la fecha de la toma de posesión, y Rufus comprendió que le resultaría imposible hacer el viaje. Sus correligionarios y amigos inician entonces las gestiones para lograr la autorización, a fin de que el juramento se efectuara en Cuba.
La petición contó con la aprobación del Congreso. En virtud de la decisión, William Sharley, cónsul de Estados Unidos en La Habana, se personaría en Matanzas y tomaría juramento a Rufus en el ingenio Adriadna. Llegado el momento, hubo que sostenerlo por los brazos para cumplir con las formalidades.
Concluida la ceremonia, Rufus King conversó con los asistentes y se retiró a una habitación. Doce días después partía de regreso a Estados Unidos. En el puerto de Mobile una multitud aguardaba al viajero que, tras una breve estancia en el lugar, remontó el río Alabama hasta su hacienda, en Dallas, donde murió.
La legislatura territorial de Oregón creó el condado King en su nombre. Muchos años después, las autoridades de esa localidad enmendaron la designación y su logo para honrar la memoria de Martin Luther King, el héroe afroamericano que luchó contra la discriminación racial.

Ciro Bianchi Ross