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lunedì 14 marzo 2016

Revillagigedo, di Ciro Bianchi Ross


Pubblicato su Juventud Rebelde del 10/3/16

Lo scriba non crede che siano molti gli avaneri che sappiano che la calle Revillagigedo, in questa capitale, debba il suo nome a un governatore spagnolo dalla mano dura, le cui eccellenti doti come governante si videro eclissate per un’ambizione e un’altaneria censurabili che fecero si che si guadagnasse l’epiteto di “il tiranno”. Assunse il comando dell’Isola il 18 marzo del 1734 e durante gli 11 anni che si mantenne come governatore generale della Colonia, fu immune alle critiche e denunce del patriziato creolo, alla minaccia degli inglesi nella loro infinita guerra contro la Spagna ed anche alle malattie. Quando i suoi nemici pensarono che non si riprendesse da un attacco apoplettico fulminante che lo paralizzò e lo mise sulla soglia della morte, lo videro tornare alla casa del Governo più grasso e colorito di prima e più disposto che mai a continuare ad arricchirsi con i vantaggi del potere e a far tremare di rabbia quelli che non lo amavano. Quando giunse all’Avana la notizia che lo avevano destituito dall’incarico, ai suoi rivali si congelò l’allegria venendo a sapere che lo avevano nominato viceré del Messico.
Il maresciallo di campo Juan Francisco Güemes de Horcasitas, primo conte di Revillagigedo, titolo che gli conferì la Corona durante il suo comando a Cuba, è il protagonista di questa storia.
La cronaca lo descrive come un uomo dall’aspetto terribile, occhi dominatori, unghie molto lunghe e spesse sopracciglia sugli occhi da imporre paura ai suoi nemici.
“Solamente col presentarsi a cavallo nella piazza soffocò un ammutinamento in Messico, essendo viceré”, ricorda Álvaro de la Iglesia in una delle sue Tradiciones cubanas. Non era solo coraggioso, ma lo dimostrava sempre quando si presentasse l’occasione per farlo. Non si lasciò imporre da nessuno e chi osasse minacciarlo vinceva la lotteria senza aver comprato il biglietto perché compiva la sua minaccia o andava in carcere a pentirsene.
Il conte di Revillagigedo sostituì al Governo il brigadiere Dionisio Martínez de la Vega. Giunse a Cuba in un’epoca in cui il contrabbando che conquistava il diritto di legittimità e le immoralità amministrative mantenevano esausto il tesoro dell’Isola. Per compiacenze e riguardi della prima autorità le rendite della Colonia, si trovavano in estremo collasso e la condotta dei funzionari subalterni non era migliore.
Álvaro de la Iglesia scrive:
“Dentro quella razza di disordine, è chiaro che chi arrivasse con spinte moralizzatrici, se non moriva di un colpo come successe al santo vescovo Montiel, moriva diffamato o gli elevavano un monumento di calunnie tale da fargli perdere i capelli in prigione. Ma Güemes era un asturiano dai mille diavoli per cui gli era indifferente che parlassro bene o male di lui, molto soddisfatto che non fosse nato un uomo che osasse guardare di traverso il conte di Revillagigedo”.
La real compagnia
Si necessitava una mano forte per porre fine ai molti e gravi  mali della Colonia.  E questa fu la mano di Juan Francisco Güemes de Horcasitas. Cominciò con castigare abusi e peculati. Nominò tenenti capaci, per attitudini e severità, di incamminare l’ordine in giurisdizioni dell’importanza di Puerto Príncipe, Sancti Spíritus e San Juan de los Remedios. Sottomise alla sua potestà il Governo di Santiago de Cuba. I 22 bandi che il Governo emise per dettare la disciplina all’amministrazione e l’ordine pubblico della Colonia, sono prove delle sue eccellenti doti di comando.
Revillagigedo regolò la pulizia delle strade e degli spazi pubblici, così come del porto avanero. Trasferì il mattatoio in luogo adeguato, fu implacabile con queli che esageravano coi prezzi e speculavano coi prodotti agricoli. Favorì la riapertura dell’ospedale di San Lázaro, riorganizzò il Municipio e regolarizzò la giustizia. Ristabilì l’impero della legge. Molte furono le sue misure efficaci contro chi si beffava del fisco.
Lo si considera il vero fondatore della Reale Compagnia di Commercio dell’Avana che per oltre 20 anni mantenne il più mostruoso monopolio delle produzioni cubane.
La ricchezza dell’Isola andava aumentando e siccome il settore del tabacco aveva riportato grandi ricchezze in Spagna, diversi commercianti spagnoli e alcuni coltivatori creoli accalorarono l’idea di monopolizzare tutto il commercio della Colonia. Fu così che accordarono di costituire la Reale Compagnia di Commercio dell’Avana, autorizzata dal Re, con la raccomandazione preventiva del conte di Revillagigedo. Al fine di ottenere i maggiori privilegi, l’entità nascente dette al monarca e al governatore la partecipazione ai guadagni. Ottenne prima il monopolio del tabacco e un anno dopo quello di tutto il commercio d’importazione ed esportazione dell’Isola.
Il Governo concesse alla Compagnia il privilegio di introdurre in Spagna, esenti da dazi, i prodotti del Paese - cuoio, legname, zucchero, miele... - e quello di importare articoli di consumo. In cambio si vide obbligata a costruire navi per la marina da guerra e quella mercantile, di rifornire le navi da guerra che ormeggiassero nel porto dell’Avana e di mantenere dieci imbarcazioni armate per combattere il contrabbando e proteggere le navi che realizzavano il traffico tra il porto di Cadice e l’Avana. Ebbe anche a suo carico il commercio degli schiavi.
I risultati della Compagnia furono l’arricchimento smisurato dei commercianti spagnoli e di alcuni pochi possidenti creoli dell’Avana. Nel resto dell’Isola si sopportarono i privilegi della Compagnia, dovendo pagare a prezzi elevatissimi gli articoli d’importazione e vendere a prezzi miserabili i propri prodotti. Le assemblee delle città dell’interno si stancarono di inviare proteste alla metropoli (spagnola, n.d.t.) chiedendo la cessazione della Compagnia. Si dovette attendere che gli inglesi si impadronissero dell’Avana, nel 1762, molti anni dopo che il conte di Revillagigedo fosse uscito dal potere. Allora gli occupanti britannici si impossessarono di tutte le proprietà della Compagnia alla quale, Carlos III darà il colpo di grazia nel decretare le franchige nel 1765.
Ma prima si arricchirono i possidenti dell’Avana e quei possessori di zuccherifici che avevano azioni della Reale Compagnia. Per capire la lucratività dei suoi affari, basti dire che un barile di farina o di grano comprato in Spagna per 5 o 6 pesos era venduto all’Avana per 35 o 36 pesos.
Il governatore Juan Francisco Güemes de Horcasitas, propiziatore ufficiale del monopolio della Reale Compagnia, si arricchì con la sua partecipazione nell’affare. Ricevette il titolo di conte e giunse all’ambito incarico di viceré del Messico.
Da allora, l’incarico di capitano generale e di governatore di Cuba si convertì in una posizione molto ambita.
Il vassallo più ricco
Il conte di Revillagigedo era avaro e rapace, Questo era, dice Álvaro de la Iglesia, il suo difetto maggiore. Quando si presentava un affare nel quale vedeva la possibilità di guadagnare, lo approvava anche sapendo che poteva essere causa di scandalo. L’enorme fortuna che giunse ad accaparrare in questo modo, gli permise di creare in Spagna un azienda per ognuno dei suoi figli ed erano diversi, mentre ne La Gazzetta d’Olanda si qualificava come il “vassallo più ricco che aveva Ferdinando VI”.
Revillagigedo rubava, ma non lasciava rubare. Se avesse fatto finta di niente con i ladri e malversatori che lo circondavano, nessuno avrebbe detto mezza parola contro di lui. Ma lui la vedeva in altro modo, suscitando contro di se e tutti i suoi atti di Governo una tempesta di censure e anche di calunnie. Le denunce contro di lui si ripetevano, ma a Madrid compresero che anche se il conte rubava, i redditi di Cuba non avrebbero mai raggiunto la somma di quello che egli rimetteva dall’Avana. A questo si univa la sua difesa adeguata dell’Isola, ebbene teneva in scacco le armate nemiche. Da quì che Madrid lo mantenesse nel suo incarico contro venti e maree.
I suoi nemici nominarono l’avvocato Lorenzo Hernández Tinoco come una specie di accusatore privato contro Güemes e Güemes, senza perdere tempo lo deportò in Spagna. Non gli restava altro da fare che chiedere al cielo cho lo fulminasse, com’era successo in quei giorni a un vascello nella baia avanera.
Non venne fulminato, ma un attacco apoplettico sembrò che lo mettesse fuori gioco in modo definitivo. I suoi nemici cantarono vittoria, senza contare sulla resistenza dell’asturiano. La famiglia Chacón lo portò nei suoi possedimenti di Santa María del Rosario e le acque medicinali del posto fecero in modo che si ristabilisse in un mese. Tornò all’Avana disposto a continuare ad arricchirsi e a far inferocire sempre di più i suoi nemici.
Álavaro de la Iglesia dice che nei giorni della sua grave malattia circolò un detto popolare che alludendo ala sua meschina avarizia diceva:
“Né conte né marchese; Juan é”. “Più che degli attacchi di cui fu oggetto, a Revillagigedo dovette far male quel detto che correva di bocca in bocca, da quel momento divenne più acido e temibile di prima, mettendo in guardia i suoi persecutori che lo temevano come il colera”.
Lo appresi da mio padre
Suo figlio maggiore, Juan Vicente Güemes Pacheco, secondo conte di Revillagigedo, nato all’Avana nel 1738, fu pure viceré del Messico, il viceré numero 52 che governò quel Paese per cinque anni. A otto giorni scarsi dall’aver assunto il suo incarico condannò a morte gli assassini di un agiato commerciante. Il suo procedere gli dette fama di giusto.
Modificò l’amministrazione pubblica e trasformò intendenze e tribunali, cosa che permise una manovra più efficiente della Colonia. Fondò varie scuole, fra di esse il Reale Collegio di Mineraria. Ai suoi tempi la Città del Messico si rimodernò e si eressero nuovi edifici. Il municipio della città lo citò a giudizio per illecito, ma i suoi accusatori furono obbligati a pagare le spese del processo nel domostrarsi l’innocenza del viceré. Morì a Madrid nel 1799.


Revillagigedo

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
12 de Marzo del 2016 20:42:38 CDT


No cree el escribidor que sean muchos los habaneros que sepan que la calle Revillagigedo, en esta capital, deba su nombre a un gobernador español de mano dura, cuyas excelentes dotes como gobernante se vieron eclipsadas por una codicia y una altivez censurables y que hicieron que ganara el epíteto de «tirano». Asumió el mando de la Isla el 18 de marzo de 1734 y durante los 11 años que se mantuvo como gobernador general de la Colonia fue inmune a las críticas y denuncias del patriciado criollo, a la amenaza de los ingleses en su inacabable guerra contra España e incluso a la enfermedad. Cuando sus enemigos pensaron que no se repondría de un ataque de apoplejía fulminante que lo paralizó y lo puso a las puertas de la muerte, lo vieron regresar a la casa de Gobierno más gordo y colorado que antes y más dispuesto que nunca a seguirse enriqueciendo con los gajes del poder y a hacer temblar de rabia a los que no lo querían. Cuando llegó a La Habana la noticia de que lo habían cesado en el cargo, a sus rivales pronto se les congeló la alegría al enterarse de que lo habían nombrado virrey de México.

El mariscal de campo Juan Francisco Güemes de Horcasitas, primer conde de Revillagigedo, título que le otorgó la Corona durante su mando en Cuba, es el protagonista de esta historia. La crónica lo describe como un hombre de aspecto terrible, ojos dominadores y uñas tan largas y espesas cerdas sobre los ojos que imponía miedo a sus mismos enemigos.
«Solo con presentarse a caballo en la plaza sofocó un motín en México, siendo virrey», recuerda Álvaro de la Iglesia en una de sus Tradiciones cubanas. No solo era valiente, sino que lo demostraba siempre que se le presentara ocasión para ello. No se dejó imponer de nadie y el que osara amenazarle se sacaba la lotería sin haber comprado el billete, porque cumplía su amenaza o iba a arrepentirse de ella en la cárcel.

El conde de Revillagigedo sustituyó en el Gobierno al brigadier Dionisio Martínez de la Vega. Llegó a Cuba en una época en que el contrabando, que conquistaba carta de legitimidad, y las inmoralidades administrativas tenían exhausto el tesoro de la Isla. Por complacencias y miramientos de la primera autoridad las rentas de la Colonia se hallaban en abatimiento extremo y no era mejor la conducta de los funcionarios subalternos.

Escribe Álvaro de la Iglesia:

«Dentro de aquel medio de desorden, claro está que quien llegara con pujos moralizadores, si no moría de un jicarazo, como ocurrió con el santo obispo Montiel, moría difamado o le levantaban un monumento de calumnias capaz de hacerle perder el pelo en presidio. Pero Güemes era un asturiano de mil demonios que tanto le daba que hablaran de él bien como mal, muy satisfecho de que por delante no había nacido hombre que se atreviera a mirar atravesado al conde de Revillagigedo».

La real compañía


Se requería de una mano fuerte para poner coto a los muchos y graves males de la Colonia. Esa fue la mano de Juan Francisco Güemes de Horcasitas. Empezó por hacer castigar abusos y peculados. Nombró tenientes, capaces por sus actitudes y severidad, de encauzar el orden en jurisdicciones de la importancia de Puerto Príncipe, Sancti Spíritus y San Juan de los Remedios. Sometió a su potestad al Gobierno de Santiago de Cuba. Los 22 bandos que en el curso de 11 años de Gobierno dictó para disciplinar a la administración y el orden público de la Colonia son prueba de sus excelentes condiciones de mando.

Revillagigedo reguló la limpieza de las calles y de los espacios públicos, así como del puerto habanero. Trasladó el matadero a un lugar apropiado y fue implacable con los que exageraban los precios y especulaban con los productos del agro. Favoreció la apertura del hospital de San Lázaro, reorganizó el Ayuntamiento y regularizó la justicia. Restableció el imperio de la ley. Fueron muy eficaces sus medidas contra los que burlaban el fisco.

Se le considera el verdadero fundador de la Real Compañía de Comercio de La Habana, que durante más de 20 años llevó a cabo el más monstruoso monopolio con las producciones cubanas.

La riqueza de la Isla iba en aumento y como el estanco del tabaco había reportado a España grandes riquezas, varios comerciantes españoles y algunos hacendados criollos calorizaron la idea de monopolizar todo el comercio de la Colonia. Fue así que acordaron constituir la Real Compañía de Comercio de La Habana, que fue autorizada por el Rey con la recomendación previa del conde de Revillagigedo. Con el fin de obtener los mayores privilegios, la naciente entidad dio al monarca y al gobernador participación en las ganancias. Obtuvo primero el monopolio del tabaco y un año después el de todo el comercio de importación y exportación de la Isla.

El Gobierno concedió a la Compañía el privilegio de introducir en España, libre de derechos, los productos del país —cuero, madera, azúcar, miel…— y el de importar artículos de consumo. A cambio, se vio obligada a construir barcos para la marina de guerra y la mercante, de abastecer los barcos de guerra que fondearan en el puerto de La Habana y de mantener diez embarcaciones armadas para perseguir el contrabando y proteger a los barcos que realizaban el tráfico entre los puertos de Cádiz y La Habana. También tuvo a su cargo el comercio de esclavos.

Los resultados de la Compañía fueron el enriquecimiento desmedido de comerciantes españoles y de algunos pocos hacendados criollos de La Habana. En el resto de la Isla se soportaron los privilegios de la Compañía, teniendo que pagar a precios elevadísimos los artículos de importación y vender sus productos a precios de miseria. Los cabildos de ciudades del interior se cansaron de enviar quejas a la metrópoli demandando el cese de la Compañía. Hubo que esperar a que los ingleses se apoderaran de La Habana, en 1762, muchos años después de que el conde de Revillagigedo saliera del poder. Entonces los ocupantes británicos se apoderaron de todas las propiedades de la Compañía, a la que Carlos III daría el tiro de gracia al decretar las franquicias en 1765.

Pero antes se enriquecieron los hacendados de La Habana y aquellos dueños de ingenios que poseían acciones en la Real Compañía. Para comprender lo lucrativo de su negocio baste decir que un barril de harina de trigo comprado en España por cinco o seis pesos era vendido en La Habana en 35 o 36 pesos.

El gobernador Juan Francisco Güemes de Horcasitas, propiciador oficial del monopolio de la Real Compañía, se enriqueció con su participación en el negocio. Recibió el título de conde y llegó al codiciado cargo de virrey de México.

Desde entonces, el cargo de capitán general y de gobernador de Cuba se convirtió en una posición muy codiciada.

El vasallo más rico

El conde de Revillagigedo era avaro y rapaz. Era ese, dice Álvaro de la Iglesia, su mayor defecto. Cuando se presentaba un negocio en el que veía la posibilidad de ganar, lo acometía aunque supiera que sería causa de escándalo. La enorme fortuna que llegó a acaparar por esa vía le permitió crear en España un mayorazgo para cada uno de sus hijos, y fueron varios, mientras que en La Gaceta de Holanda se le calificaba como «el vasallo más rico que tenía Fernando VI».

Revillagigedo robaba, pero no dejaba robar. Si hubiese hecho la vista gorda con los ladrones y malversadores que lo rodeaban, nadie hubiera dicho media palabra en su contra. Pero él lo entendió de otra forma, suscitando contra su persona y todos sus actos de Gobierno una tempestad de censuras y aun de calumnias. Se repetían las denuncias en su contra, pero en Madrid comprendieron que si el conde robaba, las rentas de Cuba no habían alcanzado nunca antes el monto de lo que él remitía desde La Habana. A eso se unía su adecuada defensa de la Isla, pues tenía a raya a las armadas enemigas. De ahí que Madrid lo mantuviera en su cargo contra viento y marea.

Nombraron sus enemigos al abogado Lorenzo Hernández Tinoco como una especie de acusador privado contra Güemes, y Güemes sin perder tiempo lo deportó a España. No les quedaba ya nada que hacer como pedir al cielo que lo partiera un rayo, al igual que le había sucedido en esos días al navío Invencible en la bahía habanera.

No lo partió el rayo, pero un ataque de apoplejía pareció que lo sacaría del juego de manera definitiva. Cantaron victoria sus enemigos, que no contaron con la resistencia del asturiano. La familia Chacón lo llevó a sus predios de Santa María del Rosario y las aguas medicinales del lugar hicieron que se restableciera en un mes. Volvió a La Habana dispuesto a seguir enriqueciéndose y a hacer rabiar aún más a sus enemigos.

Dice Álvaro de la Iglesia que por los días de su grave dolencia fue que circuló un dicho popular que aludía a su mezquina avaricia. Decía:
«Ni conde ni marqués; Juan es». «Más que los ataques de que había sido objeto, debió dolerle a Revillagigedo aquel dicho que corría de boca en boca, pues desde entonces se hizo aún más avinagrado y terrible que antes, poniendo en cuidado a sus perseguidores, que le temían como al cólera».

Pasó el tiempo. Los que seguían en espera de verlo caer, creyeron volverse locos al saber que Juan Francisco Güemes de Horcasitas era nombrado virrey de México.

De mi padre lo aprendí

Su hijo mayor, Juan Vicente Güemes Pacheco, segundo conde de Revillagigedo, nacido en La Habana en 1738, fue también virrey de México, el virrey número 52 que gobernó ese país durante cinco años. A escasos ocho días de haber asumido su mandato condenó a muerte a los asesinos de un acaudalado mercader. Su proceder le ganó fama de justo.
Modificó la administración pública y transformó intendencias y tribunales, lo que permitió un manejo más eficiente de los recursos de la Colonia. Fundó varias escuelas, entre estas el Real Colegio de Minería. En su tiempo la ciudad de México se remozó y se levantaron nuevos edificios. El Ayuntamiento de la ciudad le formó un juicio de residencia, pero sus acusadores fueron obligados a pagar los gastos del proceso al demostrarse la inocencia del virrey. Murió en Madrid en 1799.

Ciro Bianchi Ross



Dizionario di mare per lupi di terra

ÁNCORA: richiesta di chi vuole dìpiu

sabato 12 marzo 2016

Dizionario di Mare per lupi di terra

AMMIRAGLIO: amante dei sapori forti

venerdì 11 marzo 2016

Ricevo una mail una gentile lettrice interessata a Cuba e al turismo sull'Isola

Una gentile lettrice del blog con interesse verso Cuba anche per motivi di studio, fra le altre mail intercambiate mi ha mandato anche questa a cui ho risposto.

Ovviamente non cito i suoi dati per intero, senza la sua autorizzazione, ma mi sembra opportuno pubblicare i suoi quesiti che probabilmente saranno di tanti e come la vedo io personalmente, credo che anche la mia opinione sia quella di tanti altri.

De: Giulia

Enviado el: venerdì 11 marzo 2016 10.25
Para: aldo abuaf
Asunto: Re: "saggio"

Gentile Aldo facendo riferimento al passato e ho visto che è stato molto dettagliato dato la sua esperienza , secondo lei cosa mi sa dire del turismo di massa che sta per avvenire ad oggi a Cuba , dopo che il presidente degli USA Obama ha dichiarato che presto sarà disposto a togliere quasi del tutto l'embargo ? Cosa ne sarà di Cuba vieja ? Lei che ne pensa ? Diventerà un paese monopolio delle grandi industrie e catene americane ? Cioè immagina un Mc Donald all avana ?!?!?!


Gentile Giulia,

Il quesito che mi propone è veramente impegnativo per chi non ha doti da indovino o la Verità in tasca. Comunque dato che mi chiede il mio parere le dirò come la penso.
In primo luogo la volontà di Obama non dipende solo da lui e bisognerà vedere chi gli succederà come la pensa. Ovviamente nel breve, medio tempo. Indubbiamente l’embargo non credo che esista per l’eternità e con tutta probabilità anche molto prima dl Giudizio Universale. Parafrasi a parte, credo che tutti i politici nordamericani, prima o poi, si rendano conto che è un atteggiamento inutile e controproducente per tutti, in un mondo sempre più globalizzato. Il problema, nell’attualità, è un altro: Obama e molti altri come la stragrande maggioranza dei democratici oltre a una discreta minoranza dei repubblicani stanno pensando a un “cavallo di Troia” perché succeda quello che è capitato agli ex Paesi socialisti europei, Unione Sovietica/Urss in testa, anche se in realtà la spinta iniziale è venuta dalla Polonia che guarda caso era la terra del Papa dell’epoca...
Dal loro punto di vista (nordamericano) mi sembra una manovra almeno intelligente. Oltre 50 anni di embargo più o meno asfissiante secondo i presidenti in carica non hanno raggiunto l’effetto voluto, cioè di rovesciare il regime che oggi anche loro chiamano Governo “dei” Castro. Pertanto, come l’Ornella Vanoni stanno pensando: Proviamo con le buone, non si sa mai”. Per riassumere, il togliere o meno l’embargo nella sua totalità ormai non dipende più da Obama, anche se gli va il merito di aver dato la spallata più poderosa.

Cuba “vieja” come la chiama lei non credo che cambi più di tanto nella sua essenza generale, certo cambierà come sta cambiando, ci sia o no l’embargo. Il tempo passa per tutti e già oggi ci sono differenze impensabili fino a pochi anni fa. Come tutte le medaglie c’è un rovescio e non sta a me giudicare se sia un bene o un male. Secondo le dichiarazioni ufficiali, “Cuba non rinuncerà mai costruire un socialismo prospero ed efficiente...”, ma sono parole. Come diceva Don Lisander: “ai posteri l’ardua sentenza”.

Questo concetto vale anche se diventerà monopolio  delle grandi catene e industrie nordamericane, o meglio, se tornerà ad esserlo. Probabilmente, secondo me, almeno per un po’ di tempo il concetto nazionalista avrà il suo peso anche nel non cedere proprio tutto ai nordamericani o altri. Non trascuriamo che proprio nel campo del turismo, seppure le proprietà “fisiche” delle installazioni, per non parlare delle località, sono giuridicamente cubane la gestione è in mano a partner stranieri, almeno in molti casi sopratutto delle installazioni più importanti.

Non so se si chiamerà Mac Donald, Burger King, Kentucky Chiken o Taco Bell, ma qualcosa del genere credo che sarà inevitabile. Nel corto tempo della loro eventuale installazione, sarà sicuramente  a partecipazione cubana, poi...se fossi credente direi: “solo Dio lo sa!”.

Queste sono le mie opinioni, ma come dicevo all’inizio, non ho né bacchetta magica, né la Verità in tasca.

Cordiali saluti. Aldo.




giovedì 10 marzo 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

AMMAINATO: famosa lettera della Fallaci a un bambino

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AMMANIGLIARE: far diventare complice

martedì 8 marzo 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

AMANTIGLIO: appassionati di tisane

Arrivano i Rolling Stone

Fervono i lavori per preparare lo scenario in cui si esibiranno i mitici rockers inglesi il prossimo 25 marzo. Gli ampi spazi aperti della Città Sportiva che consentono un capienza di circa 400.000 persone, sono invasi da materiali e lavoratori provenienti da diversi Paesi che stanno montando lo scenario in cui si muoveranno, è proprio il caso di dirlo nonostante la non più verde età, quelli che furono i "rivali" dei Beatles negli anni della moda del Rock nd' Roll, ma anche dopo, come dimostra questo concerto che chiude una tournée in America Latina, della band.
L'ampiezza del palco sarà di 80 metri per oltre 20 di profondità e altrettanti di altezza della scenografia. 
L'ingresso al pubblico sarà completamente libero e si prevede che assistano anche spettatori che vengono appositamente dall'estero per assistere a questa occasione storica  nella musica internazionale.

lunedì 7 marzo 2016

Il Tempietto, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 6/3/16

La ceiba (sorta di quercia tropicale,n.d.t) del Tempietto è diventata secca. Per motivi che gli specialisti finiranno per spiegare, l’albero al quale si formulava un desiderio mentre gli si facevano tre giri attorno e che fu seminato nel 1959, non c’è più e sarà sostituito da un altro. Sotto una pianta della stessa specie si celebrò il 16 novembre del 1519, secondo la tradizione, la prima messa e la prima assemblea quando, in quella data, L’Avana si stabilì nel luogo che occupa da allora.
La ceiba originale che sul lato nord est di quella che sarebbe stata la Plaza de Armas, vide prostrati sotto la sua ombra quei valorosi colonizzatori e che fu per decenni l’unico testimone di un fatto storico, ma anche religioso e poetico, dovette essere sostituita col passare del tempo. Quando nel 1754, Francisco Cagigal de la Vega, Governatore Generale dell’Isola, fece erigere lì una colonna commemorativa, la ceiba originale già non esisteva. Tra il 1755 e il 1757 si seminarono tre ceibas al posto della primogenita. Di esse, due si rinsecchirono dopo poco tempo e la terza sopravvisse fino al 1827, quando la mano dell’uomo la fece sparire per facilitare la costruzione del Tempietto. Tre ceibas nuove si seminarono l’anno seguente e di esse solo una fece le radici e sembra che durò fino al 1959. Altre due si piantarono nel 1873 e morirono dieci anni dopo.

Detieni il passo viandante

La memoria di quella prima messa e quella prima assemblea celebrati sotto la ceiba sarebbe forse sparita se Cagigal de la Vega, nel 1754, non si fosse occupato di raccogliere e perpetuare in maniera ostensibile la tradizione. “L’iniziativa di quel governante fu rivolta al futuro”, scrive lo storico Emeterio Santovenia. “Grazie a lei passò ai posteri una versione che in altro modo poteva sperimentare trasformazioni o estinguersi per opera del tempo”, aggiunge.
La già citata colonna commemorativa del governatore Cagigal consta di tre facce, le tre province in cui si divideva allora la colonia e portava, alla sommità, un’immagine della Vergine del Pilár. Su di essa si leggevano due iscrizioni allusive. Una scritta in latino e l’altra in castigliano antico. Questa diceva:
“Fondossi la villa (oggi città) dell’Avana nell’anno 1515 e al trasferirsi dalla sua primitiva sede alla riva di questo porto, nel 1519, è tradizione che in questo sito si trovò una frondosa ceiba sotto la quale si celebrò la prima messa e assemblea: rimase fino al 1753 quando si sterilizzò. E per perpetuarne la memoria, governando le Spagne il nostro cattolico Monarca il Signor Don Fernando VI, mandò ad erigere questo padrone il Signor Maresciallo di Campo Don Francisco Cagigal de la Vega, dell’Ordine di Santiago, Governatore e Capitano Generale di quest’Isola, essendo Procuratore Generale Dottor Don Manuel Phelipe de Arango. Anno del 1754”.
La primitiva iscrizione latina fu sostituita nel 1903, nel restaurare la colonna, con un’altra il cui testo latino è una versione dell’antico. La fece il dottor Juan M. Dihigo, all’epoca professore di latino dell’università dell’Avana, l’unica sede di alti studi che esisteva allora a Cuba, detto giusto per saperlo diceva:
“Detieni il passo, viandante; adorna questo sito un albero, una ceiba frondosa, dirò meglio segno memorabile della prudenza e antica religione della giovane città (...) Fu tenuta per la prima volta la riunione dei prudenti consiglieri già da oltre due secoli: era conservata per una tradizione perpetua; indubbiamente cedette al tempo. Ebbene guarda e che non muoia nel futuro la fede avanera. Vedrai un’immagine fatta con la pietra oggi, vale a dire l’ultimo di novembre del 1754”.
Nella prima faccia del triangolo della colonna che guarda al Nascente, c’è un rilievo del tronco di quella che si ritiene sia la prima ceiba. Appare coi rami tagliati, come se fosse carente di fogliame, come se fosse secca.
Col tempo la colonna andò sciupandosi. Si deteriorò, disgraziatamente, questo semplice monumento che quasi rimaneva nascosto dai chioschi e bancarelle dei venditori di tutti i tipi di generi che si installavano nella sua vicinanza.

Le opere

Questo spinse don Francisco Dionisio Vives y Planes, Conte di Cuba, governatore e Capitano Generale dell’Isola a restaurare la colonna e inoltre a erigere un’altro monumento maggiore. Fu un criterio suo e del municipio avanero quello di realizzare un’opera durevole che fosse, non solo degna dei fatti che volevano perpetuarsi, ma anche dell’importanza che andava prendendo la città. Nella sessione del 15 giugno del 1827, il sindaco-presidente del municipio sottolineò la necessità di curare la conservazione della colonna di Cagigal e il corpo municipale, cosciente del dovere in cui si trovava rispetto a quel punto, accordò di restaurarla e sgombrare dai suoi dintorni le bancarelle e i chioschi che deturpavano il luogo.
Prese corpo, quindi, l’idea di un monumento di maggiori dimensioni e nel proprio anno 1827 si mise mano all’opera che da allora ricevette il nome di Tempietto. Vives ordinò ad Antonio María de la Torre y Cárdenas, suo segretario politico che si occupasse di tutto ciò che fosse concernente ai piani e del lavori necessari, cosa in cui ebbe la collaborazione di José Rodríguez Cabrera, reggente del municipio. Dovette metterci molto interesse nel concludere l’opera, nel giro di pochi mesi fu pronto l’edificio, mentre la colonna veniva collocata su quattro basi circolari di pietra e si sostituí l’immagine della vergine del Pilar che la rifiniva con un’altra, dorata a fuoco, di circa ottanta centimetri di altezza.
Con motivo della costruzione del Tempietto, il vescovo Juan José Díaz de Espada fece erigere, a spese sue, molto vicino all’edificio, un busto di marmo con piedestallo, dell’ammiraglio Cristoforo Colombo, un’opera di autore sconosciuto e povera di esecuzione che si conserva ancora. Dentro al recinto chiuso dalle sbarre che circondano il Tempietto rimasero con questo busto, la ceiba e la colonna di Cagigal.

Evidentemente neoclassico

Il Tempietto è il più piccolo e meno vistoso degli edifici che circondano la Plaza de Armas. È, senza dubbio, la prima opera civile di carattere evidentemente neoclassico con cui contò l’Avana. Si alza di fronte al Palazzo dei Capitani Generali –attuale Museo della Città- e alla sinistra del Palazzo dei Conti Santovenia, dove funziona l’hotel Santa Isabel. Misura circa otto metri di fronte e circa sei metri e mezzo nei due lati, mentre la sua altezza è di circa otto metri. È di stile greco ed è composto da un’architrave con sei colonne di capitelli dorici, basamenti attici e altri quattro pilastri sui fianchi con altri ornamenti. Una lapide rende conto della sua inagurazione. Dice:
“Regnando il signor don Fernando VII, essendo presidente e governatore don Francisco Dionisio Vives, la fedelissima Avana, religiosa e pacifica, eresse questo semplice monumento adornando il luogo dove nell’anno 1519 si celebrarono la prima messa e assemblea. Il vescovo don Juan José Díaz de Espada solennizzò il medesimo augusto sacrificio il giorno diciannove di marzo del mille ottocento ventotto”.
Il Tempietto che questo mese compie 188 anni dalla sua edificazione, è uno dei monumenti più visitati da cubani e stranieri. Sembra sia stato sempre così. Lo scrittore galiziano Jacinto Salas y Quiroga diceva nel 1840, nel suo libro di viaggio che si trattava di “uno dei monumenti che il viaggiatore più desidera visitare all’Avana, per poco che ami i ricordi storici”. A partire da lì si estende nella descrizione dell’edificio e dei quadri di carattere storico che tesaurizza. Dice: “Era giusto scendere a tanti dettagli perché questo é l’unico monumento che ricordi fatti antichi, nell’opulenta città dell’Avana. Invasa, fino a un certo punto, dal traffico e commercio, ancora instabile nel modo di essere amministrata, insicura della sua ricchezza e potere, è difficile che si occupi di altre opere che non siano quelle che le promettono un avvenire felice. Così che il viaggiatore quì, più che rovine deve cercare semi”.

Solenne e pomposa

Salas y Quiroga allude alle tele di Juan Butista Vermay, pittore francese stabilitosi all’Avana, dove morì a causa della febbre gialla, dopo aver fondato l’Accademia di Pittura di San Alejandro. Sono opere (un trittico, n.d.t.), sopratutto, di valore storico che si apprezzano ancora nel Tempietto. Due di esse evocano, con immaginazione, la celebrazione della prima messa e la prima assemblea; l’altra ricrea  la cerimonia inaugurale del monumento in quel 19 marzo 1828. Una cerimonia che la cronaca descrive come solenne e pomposa. Consistette nella messa che officiò il vescovo Espada con la presenza del Capitano Generale e le principali autorità civili e militari ed ecclesiastiche, così come gli abitanti più in vista della città, ebbene il municipio si incaricò di invitare tutte le corporazioni e persone in vista. Davanti ai presenti, Espada pronunciò un discorso che lo storico Pezuela qualificò di erudito. Álvaro de la Iglesia, il celebre autore de Las tradiciones cubanas, nel riferirsi a quest’opera, dice nel suo libro Cosas de antaño che all’apertura del Tempietto, Vermay raggiunse tale esattezza nella pittura delle persone e vestiti che “è una vera e validissima testimonianza storica”.
Poveri e ricchi celebrarono allo stesso modo l’inaugurazione del Tempietto. Ci fu un’ascensione aerostatica, la prima che si faceva a Cuba dal 1796 e che apportò all’aeronauta, giunto da New Orleans, la per niente disprezzabile somma di 15.000 pesos. Ci furono, inoltre, funzioni teatrali, ricevimenti e banchetti nei palazzi, balli pubblici e privati nei quali si sperperò una fortuna. Dice Álvaro de la Iglesia che “in fiori, gioielli, banchetti, ostentazione e allegria il denaro scorse come un fiume in piena e l’Avana sembrava preda della follia durante dette feste”. Ci fu, per non lasciar perdere, un ballo in una delle navi della squadra alla fonda nel porto. Una festa per tutti i gusti, dice de la Iglesia, giacché Vives “prestò grande attenzione a tre basi infallibili della politica coloniale: ballo, bisca e bottiglia. Popolo che si diverte, non cospira...”

Il proprio Vives lo dichiara esplicitamente nel suo rapporto a Madrid: le feste avevano avuto un carattere e un orientamento apertamente politico, incamminate a distrarre il popolo dalle lotte emancipatrici che si svolgevano nel continente e per esaltare la pace, la sicurezza e la prosperità di cui godevano “i fedeli cubani sotto l’impero delle leggi e del dolce e paterno governo di Sua Maestà”.


El Templete

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
5 de Marzo del 2016 20:37:56 CDT

Se secó la ceiba del Templete. Por razones que los especialistas terminarán por explicar, el árbol al que se le formulaba un deseo mientras se daban tres vueltas a su alrededor, y que fue sembrado en 1959, ya no está y será sustituido por otro. Bajo una planta de la misma especie se celebró, el 16 de noviembre de 1519, según la tradición, la primera misa y el primer cabildo cuando, en esa fecha, La Habana se asentó en el lugar que ocupa desde entonces.
La ceiba original que en el lado noroeste de lo que sería la Plaza de Armas vio, postrados bajo su sombra, a aquellos valerosos colonizadores y que fue durante décadas testigo único de un hecho histórico y también religioso y poético, debió ser reemplazada oportunamente a lo largo del tiempo. Cuando en 1754 Francisco Cagigal de la Vega, Gobernador General de la Isla, hizo erigir allí una columna conmemorativa, ya la ceiba original no existía. Entre 1755 y 1757 tres ceibas se sembraron en lugar de la primigenia. De ellas, dos se secaron al poco tiempo y la tercera sobrevivió hasta 1827, cuando la mano del hombre la hizo desaparecer para facilitar la construcción del Templete. Tres nuevas ceibas se sembraron al año siguiente y de ellas solo arraigó una, que, al parecer, duró hasta 1959. Dos más se plantaron en 1873 y murieron diez años más tarde.

Detén el paso, caminante

La memoria de aquella primera misa y aquel primer cabildo celebrados debajo de la ceiba hubiese tal vez desaparecido de no haberse ocupado Cagigal de la Vega, en 1754, de recoger y perpetuar de manera ostensible la tradición. «La iniciativa de aquel gobernante estuvo fija en el porvenir», escribe el historiador Emeterio Santovenia. «Gracias a ella pasó a la posteridad una versión que, de otra manera, pudo experimentar transformaciones o extinguirse por obra del tiempo», añade.
La ya aludida columna conmemorativa del gobernador Cagigal consta de tres caras, las tres provincias en las que entonces se dividía la colonia, y lucía, en lo alto, una imagen de la virgen del Pilar. Se leían en ella dos inscripciones alusivas. Una escrita en latín. La otra en castellano antiguo. Decía esta:
«Fundóse la villa (hoy ciudad) de La Habana el año de 1515, y al mudarse de su primitivo asiento a la ribera de este puerto el de 1519, es tradición que en este sitio se halló una frondosa ceiba bajo de la cual se celebró la primera misa y cabildo: permaneció hasta el de 1753 que se esterilizó. Y para perpetuar la memoria, gobernando las Españas nuestro católico Monarca el señor Dn. Fernando VI, mandó erigir este padrón el señor Mariscal de Campo Dn. Francisco Cagigal de la Vega, del orden de Santiago, Gobernador y Capitán General de esta Isla, siendo Procurador General Doctor Dn. Manuel Phelipe de Arango. Año de 1754».
La primitiva inscripción latina fue sustituida en 1903, al restaurarse la columna por otra cuyo texto latino es una versión del antiguo. La hizo el doctor Juan M. Dihigo, a la sazón profesor de latín de la Universidad de La Habana, la única casa de altos estudios que existía entonces en Cuba, dicho sea de paso. Reza:
«Detén el paso, caminante; adorna este sitio un árbol, una ceiba frondosa, más bien diré signo memorable de la prudencia y antigua religión de la joven ciudad (…). Fue tenida por primera vez la reunión de los prudentes concejales hace ya más de dos siglos: era conservado por una tradición perpetua; sin embargo cedió al tiempo. Mira, pues, y no perezca en lo porvenir la fe habanera. Verás una imagen hecha hoy en la piedra, es decir, el último de noviembre de 1754».
En el primer frente del triángulo de la columna, que mira al Naciente, hay un relieve del tronco de la que se supone sea la primera ceiba. Luce con las ramas cortadas, como si careciera de follaje, como si estuviera seca.
Con el tiempo, la columna fue desgastándose. Se deterioró lamentablemente ese sencillo monumento que casi permanecía oculto por las casillas y timbiriches de los vendedores de todo tipo de artículos que en su cercanía se instalaban.

Las obras

Eso impulsó a don Francisco Dionisio Vives y Planes, Conde de Cuba, gobernador y Capitán General de la Isla, a restaurar la columna y a levantar además otro monumento mayor. Fue criterio suyo y del ayuntamiento habanero realizar una obra durable, que fuera no solo digna de los hechos que querían perpetuarse, sino también de la importancia que iba adquiriendo la ciudad. En sesión de 15 de junio de 1827, el alcalde-presidente del ayuntamiento apuntó la necesidad de atender a la conservación de la columna de Cagigal y el cuerpo municipal, consciente del deber en que se hallaba respecto a aquel punto, acordó restaurarla y despejar sus alrededores de casillas y timbiriches que desdoraban el paraje.
Tomó cuerpo entonces la idea de un monumento de mayores dimensiones, y en el propio año de 1827 se puso manos a la obra que desde entonces recibió el nombre de Templete. Vives ordenó a Antonio María de la Torre y Cárdenas, su secretario político, que se ocupase de todo lo concerniente a los planos y trabajos necesarios, en lo que contó con la colaboración de José Rodríguez Cabrera, regidor del ayuntamiento. Debió primar mucho interés en concluir las obras, pues a la vuelta de pocos meses quedó listo el edificio, en tanto que la columna era colocada sobre cuatro gradas circulares de piedra y se sustituía la imagen de la virgen del Pilar que la remataba por otra dorada a fuego, de una vara de alto.
Con motivo de la construcción del Templete, el obispo Juan José Díaz de Espada hizo erigir a sus expensas, muy cerca del edificio, un busto en mármol, con su pedestal, del almirante Cristóbal Colón, una obra de autor desconocido y pobre ejecución que aún se conserva. Dentro del recinto cerrado por las verjas que circundan el Templete quedaron incluidos ese busto, la ceiba y la columna de Cagigal.

Notoriamente neoclásico

El Templete es el más pequeño y menos vistoso de los edificios que rodean la Plaza de Armas. Es, sin embargo, la primera obra civil de carácter notoriamente neoclásico con que contó La Habana. Se alza frente al Palacio de los Capitanes Generales —actual Museo de la Ciudad— y a la izquierda del Palacio de los Condes de Santovenia, donde funciona el hotel Santa Isabel. Mide 12 varas de frente y ocho y media varas por los dos costados, en tanto que su altura es de 11 varas (una vara equivale a 0.84 metros aproximadamente). Es de estilo griego y está compuesto de un arquitrabe de seis columnas de capiteles dóricos y zócalos áticos, y cuatro pilastras más en los costados con otros adornos. Una lápida da cuenta de su inauguración. Dice:
«Reinando el señor don Fernando VII, siendo presidente y gobernador don Francisco Dionisio Vives, la fidelísima Habana, religiosa y pacífica, erigió este sencillo monumento decorando el sitio donde el año de 1519 se celebró la primera misa y cabildo. El obispo don Juan José Díaz de Espada solemnizó el mismo augusto sacrificio el día diez y nueve de marzo de mil ochocientos veinte y ocho».
El Templete, que cumple este mes 188 años de edificado, es uno de los monumentos más visitados por cubanos y extranjeros. Parece que así ha sido siempre. El escritor gallego Jacinto Salas y Quiroga decía en 1840, en su libro de viajes, que se trataba de «uno de los monumentos que más desea el viajero visitar en La Habana por poco que ame los recuerdos históricos». A partir de ahí se explaya en la descripción del edificio y los cuadros de carácter histórico que atesora. Expresa: «Preciso era descender a tantos detalles porque es este el único monumento que recuerde antiguos hechos, en la opulenta ciudad de La Habana. Invadida, hasta cierto punto, por el tráfico y comercio, inestable todavía en la forma de administración, insegura en su riqueza y poderío, es difícil que se ocupe en otra especie de obras que aquellas que le prometen un porvenir feliz. Así que el viajero aquí, más que ruinas, debe buscar gérmenes».

Solemne y pomposa

Salas y Quiroga alude a los lienzos de Juan Bautista Vermay, pintor francés avecindado en La Habana, donde murió a causa de la fiebre amarilla, luego de haber fundado la Academia de pintura de San Alejandro. Son obras, sobre todo, de valor histórico que todavía se aprecian en el Templete. Dos de ellas evocan, con imaginación, la celebración de la primera misa y el primer cabildo; la otra recrea la ceremonia inaugural del monumento aquel, el 19 de marzo de 1828. Una ceremonia que la crónica describe como solemne y pomposa. Consistió en la misa que ofició Espada con la asistencia del Capitán General y las principales autoridades militares, civiles y eclesiásticas, así como los vecinos más notables de la villa, pues el ayuntamiento se encargó de invitar a todas las corporaciones y personas distinguidas. Ante los asistentes, Espada pronunció un discurso que el historiador Pezuela calificó de erudito. Álvaro de la Iglesia, el célebre autor de las Tradiciones cubanas, al referirse a esa obra, dice en su libro Cosas de antaño que en la apertura del Templete, Vermay logró tal exactitud en la pintura de personas y trajes que es «un verdadero y valioso testimonio histórico».
Pobres y ricos celebraron por igual la inauguración del Templete. Hubo una ascensión aerostática, la primera que ocurría en Cuba desde 1796 y que reportó al aeronauta, que había llegado desde New Orleans, la nada despreciable suma de 15 000 pesos. Hubo, además, funciones teatrales, recepciones y saraos en los palacios y bailes públicos y privados en los que se derrochó una fortuna. Dice Álvaro de la Iglesia que «en flores, joyas, banquetes, ostentación y alegría el dinero corrió como un río desbordado y La Habana pareció presa de la locura durante dichas fiestas». Hubo, por no dejar de haber, baile en uno de los navíos de la escuadra surta en puerto. Una fiesta para todos los gustos, dice De la Iglesia, ya que Vives «prestó gran atención a tres bases infalibles de la política colonial: baile, baraja y botella. Pueblo que se divierte, no conspira…».
El propio Vives lo consigna explícitamente en su informe a Madrid; las fiestas habían tenido un carácter y una orientación abiertamente políticos, encaminados a distraer al pueblo de las luchas emancipadoras que se libraban en el continente y a exaltar la paz, la seguridad y la prosperidad que disfrutaban «los fieles cubanos bajo el imperio de las leyes y del suave y paternal gobierno de Su Majestad».


domenica 6 marzo 2016

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mercoledì 2 marzo 2016

Un presidente nordamericano all'Avana, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventude Rebelde del 28/2/16


Solo un presidente nordamericano è stato all’Avana durante l’esercizio del suo mandato. Nel gennaio 1928, in risposta a un invito del generale Gerardo Machado, presidente della Repubblica di Cuba, giungeva all’Isola Calvin Coolidge, al fine di essere presente all’inaugurazione della Sesta Conferenza Panamericana che quì si sarebbe tenuta.
Il “più ermetico” dei presidenti nordamericani, scrisse nelle sue memorie Orestes Ferrara, ambasciatore cubano a Washington tra il 1926 e il 1932 e lo descrive come “serio, silenzioso e intelligente”.
“Io considero che il successo di questo presidente – scrisse Ferrara – che fu molto grande, nonostante non fosse un politico di livello, ebbe come base il suo equilibrio, la sua mancanza di vanità e il suo poco, o nessun, interesse che lo considerassero un gran personaggio. Era convinto che quanto meno facesse, al potere, fosse meglio e che come contrasto, i famosi redentori di popoli rincorrono la propria gloria. A Coolidge non lo illudeva l’applauso, non si affliggeva per la critica, non lo offendeva il polemista in mala fede. Chiuso in se stesso, sincero nelle sue meditazioni, sperava di servire il Paese come un funzionario che deve evitargli i mali che si presentano e solo quando si presentano”.
In ricevimenti e banchetti vari, si incontrarono diverse volte il Presidente nordamericano e l’Ambasciatore cubano. In un’occasione che lo ricevette nel suo studio alla Casa Bianca, Ferrara fu sorpreso nel vedere la scrivania completamente libera di scartoffie e gli chiese come faceva per ottenerlo. La risposta giunse rapida. Con la sua voce nasale e monotona Coolidge rispose:
- Perché lavoro poco.
Il diplomatico replicò che il presidente Taft che aveva visitato 15 anni prima, nello stesso ufficio, gli confidò che la vita di un presidente nordamericano era un tormento, perché adempiere agli obblighi dell’incarico era sovrumano. Coolidge non rispose. Mantenne un lungo silenzio che non fu sgradevole per l’Ambasciatore, perché il presidente lo guardava sorridendo.
-Chi distribuisce il lavoro del potere esecutivo? – chiese alla fine.
-Il Presidente – rispose Ferrara.
-È quello che faccio io. Divido il lavoro e prendo parte al problema se il gabinetto non si mette d’accordo – disse Coolidge abbassando lo sguardo, gesto che in modo inequivocabile metteva fine a una discussione.

Fuori dal Protocollo

Un giorno, quasi all’alba, squillò il telefono dell’Ambasciatore di Cuba a Washington.
Machado che si alzava sempre alle cinque, voleva comunicare a Ferrara che due giorni dopo sarebbe partito per quella città, con un seguito di otto o dieci persone e chiedeva se poteva alloggiare all’Ambasciata. In caso contrario non ci sarebbero stati problemi; sarebbe andato in un albergo. Ad ogni modo sarebbe rimasto solo due giorni nella capitale nordamericana e avrebbe proseguito verso New York. Machado spiegò che Enoch Crowder, ambasciatore nordamericano all’Avana, lo aveva invitato alla riunione annuale del Gridiron Club. A Ferrara sembrò un’idea poco felice. Era contrario a che un mandatario straniero partecipasse a una riunione come quella e inoltre era fuori dal protocollo che Machado si incontrasse con Coolidge che avrebbe assistito al banchetto, senza averlo visto prima.
Urgeva trovare una via d’uscita. Il Segretario di Stato era malato e Ferrara non volle rivolgersi a la capo del protocollo per timore che la sua decisione sminuisse o annullasse il Capo di Stato cubano. Preferì conversare con il direttore della Sezione Latinoamericana del Dipartimento di Stato. Criticò l’idea che Machado assistesse al banchetto del Gridiron Club, ma caldeggiò il proposito che visitasse Coolidge e lo invitasse alla Conferenza Panamericana dell’Avana.
Il funzionario si mostrò d’accordo con l’ambasciatore e corse a rendere conto del fatto al Segretario di Stato. Solamente un’ora dopo, giunse con l’approvazione del capo del Dipartimento: Machado sarebbe giunto a Washington e avrebbe invitato il Presidente alla riunione. Quello che non si sapeva era se Coolidge avrebbe accettato o no. Questo, al momento, era il meno, mancava ancora quasi un anno per la conferenza dell’Avana. In quanto al banchetto del Gridiron Club, il cui invito aveva accettato, Machado si sarebbe dichiarato ammalato e avrebbe delegato Ferrara a rappresentarlo.
La visita del Presidente cubano a Washington tardò più del previsto, circostanza che Ferrara aprofittò per ultimare con calma e giudiziosamente i preparativi del suo soggiorno. Rimase tre o quattro giorni nella capiatle nordamericana ed alloggiò nell’Ambasciata di Cuba. Ci furono cene e ricevimenti, si distinse fra questi atti il banchetto col quale Coolidge si congratulò col visitatore, alla Casa Bianca. Siccome Machado era arrivato senza sua moglie, corrispose alla signora María Luisa, moglie di Ferrara, sedersi alla destra del Presidente nordamericano. E fu a lei che comunicò che accettava l’invito di visitare l’Avana. Siccome quell’uomo silenzioso e riflessivo si espresse con l’Ambasciatrice nel momento quasi finale della cena, Alice Longworth, figlia dell’ex presidente Teodoro Roosvelt e moglie del Presidente della Camera dei Rappresentanti che occupava la sedia alla sinistra del mandatario, domandò a María Luisa, al di sopra di Coolidge, cosa avesse fatto perché l’uomo parlasse tanto, quando a lei non aveva rivolto una sola parola. Coolidge assistette all’Ambasciata di Cuba alla cena con cui Machado contraccambiava la sua. L’ultimo giorno di soggiorno del cubano a Washington, entrambi i presidenti affrontarono il tema della Conferenza Panamericana. A richiesta di Machado si toccò il tema zuccheriero e della crisi economica che si avvicinava. Anche, si dice, Machado chiese la deroga dell’Emendamento Platt. La stampa riferì, attribuendolo a Machado che la sua conversazione con Coolidge fu quasi completamente sui mutui vantaggi di rettificare l’Emendamento, ma Coolidge disse che non fu quello il tema affrontato nella conversazione.
Ferrara su questo punto si dimostrava ottimista. Dice che gli assicurarono che Coolidge avrebbe derogato l’Emendamento se Cuba riduceva il suo debito pubblico e realizzava le elezioni presidenziali del 1928 senza agitazioni faziose, frodi né violenza. Questa notizia non quadrava con quello che Coolidge disse alla moglie di Ferrara durante la cena alla Casa Bianca: “Se fino adesso vi è andato bene con l’Emendamento Platt, perché sopprimerlo?”.
Si dice che Machado fu a Washington in cerca di appoggio alla sua politica di rielezione e proroga dei poteri, offrendo come garanzia di non pronunciarsi contro l’Emendamento Platt e dare, durante la conferenza, il più servile appoggio alla delegazione nordamericana quando le delegazioni latino americane presenti inalberassero la tesi del non intervento. Nella sua docilità, il Governo Cubano, giunse a negare l’invito al presidente della Lega delle Nazioni e ai rappresentanti del governo spagnolo che chiedevano di partecipare.

Corona di frutta

L’Avana si preparò per la celebrazione della Sesta Conferenza Panamericana. Mesi prima, l’esperto diplomatico Manuel Márquez Sterling, divenuto ambasciatore speciale, visitò tutti i Paesi dell’America Latina ottenendo la presenza dei loro Governi al conclave.
La risposta fu unanime: inviarono tutti la loro rappresentanza all’Isola: mai prima, una riunione di quel tipo aveva avuto tanti paesi partecipanti. Si eresse la Scalinata dell’Università, si terminò il tracciato dell’Avenida de las Misiones e il vecchio Campo di Marte fu trasformato nella Piazza della Fraternità Americana. Nelle radici della ceiba che vi fu trapiantata per l’occasione, si sparse la terra di tutte le repubbliche americane, portata specialmente per i capi di ogni delegazione. Ai capi delegazione fu consegnata una chiave d’oro con cui si apriva il cancello che proteggeva la ceiba. Per certo, la chiave della delegazione del Messico si conserva nel museo della cancelleria di quel Paese.
Uno spettacolo brillante dette inizio alla conferenza al Teatro Nacional e nella sessione di appertura si ascoltarono i discorsi di Machado e Coolidge. La conferenza avrebbe avuto le sessioni all’Università. In quei giorni non si permise l’entrata degli alunni alla casa degli alti studi e oltre 200 lavoratori e studenti che il Governo considerava come indesiderabili o sovversivi vennero messi dietro le sbarre. Il giorno di apertura della riunione – 28 gennaio 1928 – fu dichiarato Festa Nazionale. Nelle giornate finali, il 17 febbraio, Machado invitò i delegati a che lo accompagnassero all’Isola dei Pini al fine di inaugurare la prima galera della cosiddetta Prigione Modello. La riunione si concluse il giorno 20.
Durante i suoi giorni a Cuba, Calvin Coolidge si alloggiò nel Palazzo Presidenziale. Lo si vide molto compiaciuto nel pranzo che Machado offrì in suo onore nella sua tenuta Nenita, sulla strada che va da Santiago de las Vegas a Managua. Il visitatore alterò tutta la disposizione del menù e mangiò abbondantemente frutta cubana che lo deliziò. La moglie di Ferrara, seduta alla sua sinistra e servendogli da interprete, si rese conto della sua curiosità e lo invitò a cominciare dalla frutta, col permesso di Elvira, la moglie di Machado. L’immenso portafrutta andò svuotandosi poco a poco, giacché Machado e gli altri invitati imitarono Coolidge. Il capo della sala da pranzo e i camerieri, portando ogni tipo di piatto squisito, non sapevano cosa fare; il banchetto si poté organizzare solo quando cominciarono a essere servite le estremità della tavola per arrivare poi, lentamente, fino al personaggio del centro. Machado lo omaggiò con una colonna confezionata con metalli che furono parte del monumento al Maine, distrutto dal ciclone del 20 ottobre del 1926.
“Durante la sua permanenza a Cuba, Coolidge non commise un solo errore e compì con buona volontà quanto gli fu indicato da coloro che prepararono il programma per i festeggiamenti che risultavano sempre eccessivi, senza manifestare nessuna contrarietà”. Scrisse Orestes Ferrara nelle sue memorie e aggiunse che quando lasciò l’Avana, cosa che successe molto prima che si concludesse la riunione, il conclave funzionò regolarmente.
Quando, alla viglia della Sesta Conferenza Panamericana, Márquez Sterling si preparava a compiere il suo periplo latino americano, il presidente Machado gli disse: “Márquez, ho bisogno che visiti quei paesi che sono renitenti a prendere parte alla riunione e che ci aiutino a fare dell’Emendamento Platt uno strumento obsoleto”.
Parole vane. Risultò tutto il contrario. Anche se l’agenda della riunione era carica di affari intrascendenti, si apriva il passo al tema del non intervento. Gli Stati Uniti erano intervenuti militarmente in Messico, Santo Domingo, Haiti, Nicaragua...In Brasile nel 1927, la riunione dei Giureconsulti aveva proclamato: “Nessuno Stato può intervenire negli affari interni di un altro”. All’Avana, la maggioranza delle delegazioni non volle opporsi a quello precettato dai Giureconsulti in Brasile. Machado, comunque esagerava con segnali e Ferrara, come
capo della delegazione cubana, dava il “la” nel proclamare cinicamente che Cuba non poteva unirsi al coro generale del non intervento, perché l’intervento aveva significato l’indipendenza per il Paese. Quindi espresse: “la parola intervento, nel mio Paese, è stata parola di gloria, è stata parola d’onore, è stata parola di vittoria; è stata parola di libertà; è stata l’indipendenza”.
Il tema sarebbe stato definitivamente rinviato alla Settima Conferenza Panamericana da celebrarsi a Montevideo, nel 1934.

Un presidente norteamericano en La Habana

Ciro Bianchi Rossdigital@juventudrebelde.cu
27 de Febrero del 2016 21:04:31 CDT

Solo un presidente norteamericano estuvo en La Habana durante el ejercicio de su cargo. En enero de 1928, en respuesta a una invitación del general Gerardo Machado, presidente de la República de Cuba, arribaba a la Isla Calvin Coolidge, a fin de estar presente en la inauguración de la Sexta Conferencia Panamericana que aquí tendría lugar.
Era «el más hermético» de los mandatarios norteamericanos, escribió en sus memorias Orestes Ferrara, embajador cubano en Washington entre 1926 y 1932, y lo describe como «serio, silencioso e inteligente».
«Yo considero que el éxito de ese Presidente —apuntó Ferrara—, que fue muy grande a pesar de no ser él un político de envergadura, tuvo como base su equilibrio, su falta de vanidad y su poco o ningún deseo de que lo considerasen un gran personaje. Estaba convencido de que cuanto menos hacía en el poder era mejor, y que por contraste los famosos redentores de pueblos corren detrás de su propia gloria. A Coolidge no le halagaba el aplauso, no le afligía la crítica, no le mortificaba el polemista de mala fe. Encerrado en sí mismo, sincero en sus meditaciones, esperaba servir al país como un funcionario que debe evitarle los males que se presenten y solo cuando se presenten».
En recepciones y banquetes alternaron varias veces el Presidente norteamericano y el Embajador cubano. En una ocasión en que lo recibió en su despacho de la Casa Blanca, Ferrara se sorprendió al ver el escritorio totalmente limpio de papeles y preguntó cómo se las arreglaba para conseguirlo. La respuesta llegó rápida. Con su voz nasal y monótona, Coolidge respondió:
—Porque trabajo poco.
Replicó el diplomático que el presidente Taft, a quien había visitado 15 años antes en el mismo despacho, le confió que la vida de un mandatario norteamericano era un tormento, porque cumplir con las obligaciones del cargo resultaba superior a lo humano. Coolidge no respondió. Guardó un largo silencio que no fue desagradable para el Embajador, porque el mandatario lo miraba sonriendo.
—¿Quién distribuye el trabajo del poder ejecutivo? —inquirió al fin.
—El Presidente —respondió Ferrara.
—Eso es lo que yo hago. Reparto el trabajo y solo tomo cartas en el asunto si el gabinete no se pone de acuerdo —dijo Coolidge y bajó los ojos, gesto con que de manera invariable daba por terminada una discusión.

Fuera de protocolo

Un día, casi de madrugada, sonó el teléfono del Embajador de Cuba en Washington. Machado, que se levantaba siempre a las cinco, quería comunicar a Ferrara que dos días después saldría para esa ciudad, con un séquito de ocho o diez personas, y preguntaba si podía alojarse en la Embajada. En caso negativo, no habría problema; se iría a un hotel.
De cualquier manera, permanecería solo dos días en la capital norteamericana y seguiría rumbo a Nueva York. Machado explicó que Enoch Crowder, exembajador norteamericano en La Habana, lo había invitado a la reunión anual del Gridiron Club. A Ferrara le pareció una idea poco feliz. Era contrario a la norma que un mandatario extranjero participara en una reunión como aquella y, además, estaba fuera del protocolo que Machado se encontrase con Coolidge, que asistiría al banquete, sin haberlo visto antes.
Urgía buscar una salida. El Secretario de Estado estaba enfermo, y Ferrara no quiso acudir al jefe del protocolo por temor a que su decisión disminuyera o ninguneara al Jefe del Estado cubano. Prefirió conversar con el director de la Sección Latinoamericana del Departamento de Estado. Criticó la idea de que Machado asistiera al banquete del Gridiron Club, pero calorizó el propósito de que visitara a Coolidge y lo invitara a la Conferencia Panamericana de La Habana.
El funcionario se mostró de acuerdo con el embajador y corrió a dar cuenta del asunto al Secretario de Estado. Apenas una hora después, regresó con la aprobación del jefe del Departamento: Machado viajaría a Washington e invitaría al Presidente a la reunión. Lo que no se sabía era si Coolidge aceptaría o no. Eso era lo de menos en ese momento, pues aún faltaba casi un año para la conferencia de La Habana. En cuanto al banquete del Gridiron Club, cuya invitación ya había aceptado, Machado se declararía enfermo y delegaría en Ferrara su representación.
La visita del Presidente cubano a Washington se retardó más de lo previsto, circunstancia que Ferrara aprovechó para ultimar tranquila y juiciosamente los preparativos de su estancia. Permaneció tres o cuatro días en la capital norteamericana y se alojó en la Embajada de Cuba. Hubo cenas y recepciones, y sobresalió entre esos actos el banquete con el que Coolidge congratuló en la Casa Blanca al visitante. Como Machado había viajado sin su esposa, correspondió a María Luisa, la señora de Ferrara, sentarse a la derecha del Presidente norteamericano. Y fue a ella a la que comunicó que aceptaba la invitación de viajar a La Habana. Porque aquel hombre callado y reflexivo se explayó con la Embajadora al punto de que, casi al final de la comida, Alice Longworth, hija del expresidente Teodoro Roosevelt y esposa del Presidente de la Cámara de Representantes, que ocupaba la silla de la izquierda del mandatario, preguntó a María Luisa, por encima de Coolidge, qué había hecho para que el hombre hablara tanto cuando a ella no le había dirigido una sola palabra.
Coolidge asistió, en la Embajada de Cuba, a la cena con que Machado reciprocó la suya. El último día de la estancia del cubano en Washington, ambos mandatarios abordaron el tema de la Conferencia Panamericana. A instancias de Machado se tocó el tema azucarero y el de la crisis económica que se avecinaba. También, se dice, Machado pidió la derogación de la Enmienda Platt. La prensa refirió, atribuyéndolo al general Machado, que su conversación con Coolidge versó casi en su totalidad sobre las mutuas ventajas de rectificar la Enmienda, pero Coolidge diría que ese tema no fue aludido en la entrevista.
Ferrara se mostraba optimista en ese punto. Dice que le aseguraron que Coolidge derogaría la Enmienda si Cuba rebajaba la deuda pública y realizaba las elecciones presidenciales de 1928 sin agitaciones facciosas y sin fraude ni violencia. Esa noticia no compaginaba con lo que Coolidge dijo a la esposa de Ferrara durante la cena en la Casa Blanca: «Si hasta ahora les ha ido bien con la Enmienda Platt, ¿por qué suprimirla?».
Se plantea que Machado fue a Washington en procura de apoyo a su política de reelección y prórroga de poderes, y ofreció como garantía no pronunciarse contra la Enmienda Platt y dar, durante la conferencia, el más servil apoyo a la delegación norteamericana cuando las delegaciones latinoamericanas presentes enarbolaran la tesis de la no intervención. En su docilidad, el Gobierno cubano llegó a negar la invitación al presidente de la Liga de las Naciones y a representantes del Gobierno español que pidieron participar.

Corona de las frutas

La Habana se alistó para la celebración de la Sexta Conferencia Panamericana. Meses antes, el experimentado diplomático Manuel Márquez Sterling, devenido embajador especial, visitó todos los países de la América Latina recabando la presencia de sus gobiernos en el cónclave.
La respuesta fue unánime: todos enviaron su representación a la Isla; nunca antes una reunión de ese tipo había tenido tantos países participantes. Se erigió la Escalinata de la Universidad, se terminó el trazado de la Avenida de las Misiones y el viejo Campo de Marte quedó transformado en la Plaza de la Fraternidad Americana. En las raíces de la ceiba que allí fue trasplantada para la ocasión, se regó tierra de todas las repúblicas americanas, traída especialmente por los jefes de cada una de las delegaciones. A los jefes de delegación se les entregó una llave de oro con la que se abría la reja que protegía la ceiba. Por cierto, la llave de la delegación de México se conserva en el museo de la Cancillería de ese país.
Un brillante espectáculo dio inicio a la conferencia en el Teatro Nacional, y la sesión de apertura escuchó los discursos de Machado y Coolidge. La conferencia sesionaría en la Universidad. Pero no se permitió en esos días la entrada del alumnado a la casa de altos estudios, y más de 200 trabajadores y estudiantes que el Gobierno consideró como indeseables o subversivos fueron puestos tras las rejas. El día de la apertura de la reunión —26 de enero de 1928— fue declarado por el Gobierno como de Fiesta Nacional. En las jornadas finales, el 17 de febrero, Machado invitó a los delegados a que lo acompañaran a Isla de Pinos a fin de dejar inaugurada la primera galera del llamado Presidio Modelo. La reunión concluyó el día 20.
Durante sus días en Cuba, Calvin Coolidge se alojó en el Palacio Presidencial. Se le vio muy complacido en el almuerzo que en su honor Machado ofreció en su finca Nenita, en la carretera que corre entre Santiago de las Vegas y Managua. El visitante alteró toda la disposición del menú y comió en abundancia frutas cubanas, que lo deleitaron. La esposa de Ferrara, sentada a su izquierda y sirviéndole de traductora, se dio cuenta de su curiosidad y lo invitó a empezar por la fruta, con el permiso de Elvira, la esposa de Machado. El inmenso frutero fue vaciándose poco a poco, ya que Machado y los demás invitados imitaron a Coolidge. El jefe de comedor y los camareros, portando toda la clase de platos exquisitos, no sabían qué hacer; solo pudo organizarse la comida cuando empezaron a ser servidos los extremos de la mesa, para llegar luego, lentamente, hasta el personaje del centro. Machado le obsequió una columna confeccionada con metales que fueron parte del monumento al Maine, destruido por el ciclón del 20 de octubre de 1926.
«Durante su estancia en Cuba, Coolidge no cometió un solo error y cumplió con buena voluntad cuanto le fue indicado por los que prepararon el programa de los festejos, que siempre resultan excesivos, y sin manifestar un solo desagrado», escribió Orestes Ferrara en sus memorias, y añadió que cuando abandonó La Habana, lo que ocurrió mucho antes de que concluyera la reunión, el cónclave funcionó regularmente.
Cuando, en vísperas de la Sexta Conferencia Panamericana, Márquez Sterling se disponía a iniciar su periplo latinoamericano, el presidente Machado le dijo: «Márquez, necesito que usted visite aquellos países que están renuentes a tomar parte en la reunión y que nos ayuden hacer de la Enmienda Platt una pragmática obsoleta».
Vanas palabras. Resultó todo lo contrario. Aunque la agenda de la reunión estaba cargada de asuntos intrascendentes, se abría paso el tema de la no intervención. Estados Unidos había intervenido militarmente en México, Santo Domingo, Haití, Nicaragua… En Brasil, en 1927, la reunión de Jurisconsultos había proclamado: «Ningún Estado puede intervenir en los asuntos internos de otro». En La Habana la mayoría de las delegaciones no quiso oponerse a lo preceptuado por los Jurisconsultos en Brasil. Machado, sin embargo, se pasaba con fichas, y Ferrara, como jefe de la delegación cubana, daba la nota al proclamar cínicamente que Cuba no podía unirse al coro general de la no intervención, porque la intervención había significado para el país la independencia. Expresó entonces: «la palabra intervención, en mi país, ha sido palabra de gloria, ha sido palabra de honor, ha sido palabra de triunfo; ha sido palabra de libertad: ha sido la independencia».
El tema quedaría definitivamente aplazado para la Séptima Conferencia Panamericana, a celebrarse en Montevideo, en 1934.

Ciro Bianchi Ross