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venerdì 9 settembre 2016

Torniamo a parlare di Cuba

Come avevo scritto, ho sospeso (temporaneamente) il blog per cause di connettività. Ultimamente ho notato che i momenti in cui si possa entrare in rete, lentamente e col rischio di restare a metà strada, sono leggermente migliorati nonostante, per esempio, l’urgenza che ieri mi ha costretto a servirmi dei “profumati” servigi del Melià (sic!) Habana Libre.
Da un po’ di tempo non faccio i miei personali e discutibili commenti su quanto, vengo a sapere, di ciò che succede a Cuba.
In questi ultimi tempi si stanno concretizzando gli annunciati voli commerciali delle linee nordamericane. Secondo dichiarazioni di un rappresentante dell’American Airlines, i voli potranno essere usufruiti non solo dai cubani e statunitensi in possesso dei requisiti richiesti dal Governo nordamericano, ma anche da cittadini di pesi terzi. In parole povere, per esempio, se un italiano volesse visitare entrambi i Paesi, lo potrebbe fare con relativo visto per Cuba ed ESTA per gli USA. Non solo, ma con un “piano voli” preorganizzato, potrebbe ottenere connessioni con altri Paesi. Direi che dissipato questo dubbio, la notizia non è solo buona, ma ottima.
Sempre restando nel campo “visite”, ma completamente turistiche, si prevede un buon incremento di crociere con base o scalo all’Avana e altri porti cubani. MSC, raddoppia, così come la consociata di Carnival Cruise ed a loro dovrebbero aggiungersi altre compagnie, di cui sembra certo, una tedesca.

In compenso, proprio oggi (venerdì), in un’affollata conferenza stampa, il Ministro degli esteri Bruno Rodriguez Parrilla ha annunciato il contenuto del nuovo ricorso all’Assemblea Generale dell’ONU, sottolinenando che seppure ci sono stati progressi nelle relazioni bilaterali, secondo il punto di vista cubano, il Presidente Obama non ha usato tutte le sue prerogative per “alleggerire” alcuni aspetti dell’embargo che in toto non potrebbe comunque eliminare. Non solo, l’annunciato consenso alle transazioni finanziarie in dollari USA da parte delle banche ed enti commerciali cubani, non è mai diventata effettiva.

lunedì 5 settembre 2016

Ma i vecchi, sono rimbecilliti o saggi?

Da che ho l’età della ragione, i vecchi hanno sempre avuto a che dire su tutto, cominciando dal tempo che “è (sempre) impazzito” i “miei” vecchi, molto prima delle attuali emergenze, davano la colpa alle bombe atomiche che, dopo Hiroshima e Nagasaki, si continuava a far esplodere in atmosfera per provarne i miglioramenti. Qualcuno invece, magari dei più vecchi (saggi) diceva: “El temp l’è cume el cü, el fa semper me voeur lü!”
Per i “vecchi”, la gioventù è sempre stata “perduta”, senza valori, morale, educazione, cultura, musica e chi più ne ha più ne metta. Vuoi al tempo dei “capelloni” che a quello dei “naziskin” pelati, al di la delle differenze socio politiche.
Poi c’erano i dualismi sportivi che partendo da Binda e Guerra, passavano poi a Coppi e Bartali o Moser e Adorni, nel ciclismo, solo per ricordare i più famosi, ma non unici.
Nel calcio ricordo Buffon (Lorenzo) e Giorgio Ghezzi, Pelé con la “meteora” Eusebio, Mazzola (Sandro) e Rivera, Baggio e Del Piero per arrivare oggi a Ronaldo (Cristiano) e Messi.
Nello spettacolo: Corrado Mantoni o Mike Bongiorno, Enzo Tortora o Pippo Baudo? Sempre per citare i più famosi.
Adesso che sono vecchio anch’io vengo portato ai dilemmi della politica che più che sporca mi sembra proprio lurida. Nel nostro stivale è indimenticabile la rivalità, prima tra Monarchia e Repubblica e poi, DC/PCI, questa, portata magistralmente nei libri e poi sugli schermi con Don Camillo  e Peppone.
Tra il dopoguerra e quella “fredda”, ricordo le divergenze tra paesi che dovevano essere “fratelli”: Cina e Urss, per esempio o Albania e URSS o il triangolo Jugoslavia/Albania/URSS. Per non parlare degli arabi che pur essendo dello stesso ceppo etnico avevano profonde differenze, sopratutto religiose, così come nel resto del mondo islamico non arabo.
Adesso, nel 21° secolo, io invece mi chiedo come possono esistere strane alleanze o complicità del tutto contrastanti.
URSS/USA: dopo essere passati dal disgelo del neoliberale Ronald Reagan col comunista Michail Gorbachëv sono tornati ad esser nemici seppure con la Russia non più comunista. Mentre sono culo e camicia con i comunisti cinesi e vietnamiti, che a suo tempo avevano invaso con una guerra dolorosa e perdente. Ma quello che più mi richiama l’attenzione è la situazione medio orientale e i suoi risvolti in altre aree. Tutti sanno che l’Arabia Saudita (modello di Democrazia e Dirirtti Umani, sic!!!!) è l’alleato d’acciaio degli Stati Uniti, mentre è acerrimo nemico dell’altro alleato, di titanio: Israele. La stessa Arabia Saudita è, in questi giorni, stata al centro di progetti di collaborazione con Cuba che nonostante tutto, non è proprio sorella di USA e Israele...La Turchia, altro alleato inossidabile dei nordamericani, pur essendo paese islamico e con il partito religioso al potere, è “amico” di Israele e nemico dell’Arabia Saudita. Il Paese del “popolo eletto”, da parte sua contro tutto e tutti, prosegue la sua politica repressiva contro i palestinesi e costruendo nuove colonie nei territori occupati e non cede un centimetro in favore di concedere uno Stato indipendente in terre nelle quali hanno coabitato per secoli. In più, è notizia recente, ha bombardato postazioni in Siria. Tutti sappiamo che nei momenti di tensione e di guerra tra Islam e Ebraismo, la Siria è stata una dei nemici più acerrimi e irriducibili, ma...se tra i due mali è meglio scegliere il minore, in questo particolare momento storico, non sarebbe meglio (per loro) se non sostenere, almeno non combattere il regime di Assad per far si che non cada in mano del cosiddetto Stato Islamico?
Afganistan, Iraq e Libia, non hanno insegnato proprio niente?
Certo le incongruenze non finiscono qua, nel mondo, ma io non sono certo uno studioso, sono solo un vecchio imbecille, saggio o semplicemente una persona normale? Ai postini l’ardua sentenza. (Perdonami Don Lisander, ma era lui?).

sabato 3 settembre 2016

3 settembre

Oggi sono 27 anni dal tragico incidente...

martedì 5 luglio 2016

Washington versus Madrid: pagine di guerra (III e fine), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 3/7/16

Washington vs. Madrid: Páginas de la guerra (III y final) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
2 de Julio del 2016 19:10:44 CDT

La derrota de la escuadra española, barrida total y en toda la línea por la flota norteamericana, no solo elimina la última de las esperanzas de España en su victoria en la guerra con EE.UU., sino que desmoraliza a los defensores de Santiago de Cuba. El Ejército Libertador, por su parte, mantiene cercada la ciudad y con su acerado despliegue impide que le lleguen refuerzos desde otras plazas militares de la provincia oriental, en tanto que en el resto de la Isla los mambises mayorean a sus adversarios.
Los días 10 y 11 de julio, una semana después del desastre naval, las tropas norteamericanas de mar y tierra abren fuego sobre las posiciones españolas en los límites de Santiago, y el general Shafter, jefe del ejército norteamericano en Cuba, amenaza con bombardear la ciudad si no se rinde.
Comienza el éxodo de la población civil atemorizada y hambrienta. Unos buscan amparo en los campamentos norteamericanos, otros se dirigen a las zonas controladas por los mambises. En el campo cubano, el mayor general Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, revisa las listas con los nombres de los refugiados. Se topa en una de ellas con el de Federico Capdevila, capitán retirado del ejército español.
Llama de inmediato a su ayudante Luis Rodolfo Miranda de la Rúa y le ordena que localice a Capdevila, le presente, en su nombre, sus respetos, y se entere de lo que quiera o pueda necesitar para él o su familia. Recalca el guerrero:
—Fíjese bien, Comandante, tengo especial interés en que no le ocurra a Capdevila nada desagradable. ¡Cuide a ese hombre que supo serlo cuando muchos no fueron capaces de ello!
Federico Capdevila fue, en 1871, el valiente defensor de los estudiantes de Medicina.

Circula un rumor

El 16 se rinden las tropas españolas que defienden Santiago. Al día siguiente entran en la ciudad los norteamericanos; solo los norteamericanos, pues el general Shafter prohíbe la entrada a las tropas cubanas.
Un hecho digno de tenerse en cuenta ocurre cuando en el Palacio de Gobierno es arriada la bandera española y se iza la de EE. UU.
Indignados y coléricos, los mambises destacados en el fuerte de La Socapa izan, en señal de protesta, la bandera de la estrella solitaria, que es rápidamente retirada para que la sustituya la de las barras y las estrellas.
José de Armas y Cárdenas, uno de los periodistas cubanos más destacados de todos los tiempos y que hizo célebre el seudónimo de Justo de Lara, escribe entonces desde el mismo teatro de operaciones donde asiste como corresponsal de guerra: «Mientras que el general Shafter necesitó del general García, se comunicaba con él, poniéndolo al corriente de todas las operaciones. Una vez que acordó con los españoles la rendición de la plaza, se apartó del general cubano, a quien llegó a ocultar la importante operación que iba a realizar».
Es el mismo Calixto García quien ofrece los elementos de juicio necesarios para comprender lo que pasa, cuando en la carta que dirige a Shafter y que dicta a Justo de Lara, afirma:
«Los importantes actos de la rendición del ejército español y de la toma de posesión de la ciudad por usted tuvieron lugar, y solo llegaron a mi conocimiento por rumores públicos. No fui tampoco honrado con una sola palabra de parte de usted, invitándome a mí, a los demás oficiales de Estado Mayor, para que representáramos al ejército cubano en ocasión tan solemne.
«Sé, por último, que usted ha dejado constituidas en Santiago a las mismas autoridades españolas contra las cuales he luchado tres años como enemigas de la independencia de Cuba. Yo debo informar a usted, que esas autoridades no fueron nunca electas por los habitantes residentes en Santiago de Cuba, sino nombradas por un decreto de la reina de España».
Expresa, por último, el mayor general Calixto García:
«Circula un rumor, que por lo absurdo no es digno de crédito general, de que la orden de impedir a mi ejército su entrada en Santiago ha obedecido al temor de venganza contra los españoles. Permítame usted que proteste contra la más ligera sombra de semejante pensamiento, porque no somos un pueblo de salvajes que desconoce los principios de la guerra civilizada, formamos un ejército pobre y harapiento como lo fue el ejército de sus antepasados en su guerra noble por la independencia de Estados Unidos de América, pero a semejanza de los héroes de Saratoga y Yorktown, respetamos demasiado nuestra causa para mancharla con la barbarie y la cobardía».

Shafter obedece instrucciones

Shafter sin embargo no actuaba por iniciativa propia. Lo deja muy claro en su respuesta a Calixto: «Yo no puedo discutir la política del Gobierno de Estados Unidos, al querer que continúen en sus puestos temporalmente las personas que los ocupaban. Para que usted se entere bien, le remito copia de las instrucciones del Presidente que recibí ayer, las cuales resuelven cualquier dificultad que pueda suscitarse en el Gobierno de este territorio mientras esté ocupado por Estados Unidos».
Cuando Calixto García logra entrar en la ciudad, son apoteósicos el entusiasmo y la alegría de los santiagueros que salen en masa a saludarlo, y lo mismo sucederá a su llegada a La Habana. En carta al mayor general Máximo Gómez presenta su renuncia irrevocable al cargo de Lugarteniente General «por no estar dispuesto a seguir obedeciendo las órdenes y cooperando a los planes del ejército americano». Informa que marcha a Jiguaní, con toda la tropa bajo su mando, en espera de la respuesta del jefe del Ejército Libertador. El 29 de julio ocupa Gibara y presta toda la ayuda posible a heridos y enfermos españoles que abarrotan los hospitales de guerra de esa localidad. Días después, derrota, en las inmediaciones de esa ciudad, a la tropa del general Luque, que intenta recuperar Gibara. No pasa mucho tiempo sin que Shafter sea relevado de su mando y sustituido por el general Lawton.
En Washington se tributaría a Calixto García una acogida que testigos cubanos califican de «grandiosa», si bien no se concedió carácter oficial a su visita.
«Se cometió el error de poner al general Shafter al frente de las tropas que vinieron a Santiago, y su ineptitud tenía que traer, como trajo, la protesta del mayor general García, quien no podía, por la dignidad y prestigio de su ejército, y del suyo propio de soldado, aceptar la preterición de que fuimos objeto, cuando el buen éxito de la campaña de Santiago corresponde en gran parte —como algún día próximo he de demostrar— al ejército cubano de Oriente y a sus valientes generales bajo el mando del propio general García».
Así lo declara a un semanario habanero, el 20 de octubre de 1898, el coronel Cosme de la Torriente, uno de los oficiales del Estado Mayor de Calixto y que andando el tiempo —falleció en 1956— llegaría a ser embajador y canciller de Cuba y presidente de la Asamblea de la Sociedad de Naciones, un distinguido jurista con bufete en Mercaderes número 26, en La Habana Vieja.
Escribe Torriente, el 11 de diciembre de 1899, en ocasión del primer aniversario de la muerte de Calixto:
«Cuando alguno de los que estuvieron con él en el sitio de Santiago de Cuba publique sus recuerdos de esa campaña… entonces, solo entonces se podrán apreciar sus grandes servicios al ejército americano; entonces se podrá conocer la participación principalísima que en tal campaña tuvo el ejército cubano, que tan criticado fue por los que tanto le debieron; entonces se podrán aquilatar el gran tacto y la gran pericia de Calixto García para tratar con aquel general inepto… y entonces se verán también las grandes virtudes de nuestro héroe, su gran patriotismo, su gran respeto a la ley y a la libertad».

Ochenta y seis corresponsales de guerra

Se dice que esta fue la primera guerra moderna. No por el armamento empleado, sino por su impacto mediático. Sucesos que antecedieron al estallido de la contienda fueron enfocados por la prensa norteamericana con un tinte «amarillo» y sensacionalista que en buena medida acondicionó para lo que vendría la mentalidad del norteamericano promedio.
Hubo hechos construidos por la propia prensa, como la fuga de la patriota cubana Evangelina Cossío de la Casa de Recogidas de La Habana, a quien, ya en EE. UU., se le tributó una recepción grandiosa en Madison Square, el Presidente la recibió en la Casa Blanca, la agasajaron en el Congreso y las familias más conspicuas, mientras se fundían en su honor cien mil monedas de plata para hacerle vivir sus 15 minutos de gloria, porque moriría olvidada y en la pobreza.
Para reportar el conflicto —algo insólito en la época— 86 periodistas se acreditaron y viajaron como corresponsales de guerra, entre ellos 20 fotógrafos y seis dibujantes. Con ellos vino el antes aludido Justo de Lara.
El cinematógrafo, recién inventado entonces, no quedó fuera y llegó asimismo para dar testimonio en las principales direcciones en que el cine habría de desarrollarse: la ficción y el documental. Fue entonces cuando se filmaron, por la Vitagraph Company, las primeras imágenes en movimiento de una guerra real. La historia del teniente Rowan, portador del célebre mensaje del Presidente norteamericano, a Calixto García, se ficcionó en una cinta de Hollywood protagonizada por Wallace Beary, uno de los adelantados del entonces incipiente sistema de estrellas.
¿Qué nombre dar a esta guerra? Durante años, mientras se daba al conflicto el nombre de guerra hispano-norteamericana, historiadores cubanos se empeñaron y consiguieron un nuevo nombre: guerra hispano-cubano-americana.
¿Cuál de los dos es más apropiado? El historiador Oscar Loyola se decide por el primero. La guerra que Cuba libró contra España entre 1895 y 1898 —guerra hispano-cubana— fue una clásica guerra anticolonial; la intervención norteamericana no introdujo un tercer elemento en esta guerra, dice Loyola, pues los sujetos sociales implicados se mantuvieron idénticos. Lo que sucedió es que a esa contienda anticolonial se le superpuso otra, la de EE. UU. contra España por el dominio de Cuba; un colonialismo nuevo que daba una batalla, ganada de antemano, por desplazar de la Isla a un viejo colonialismo.
Esa guerra, que debe denominarse hispano-norteamericana, se libra en el mismo escenario geográfico en que transcurría la guerra hispano-cubana. Apunta Loyola: «Los intereses que llevaron a Cuba, a España y a EE. UU. a la guerra eran tremendamente diferentes… Lo que determina el carácter de una guerra es el fin que persigue. A la guerra nacional liberadora del pueblo cubano le fue arrebatada, en los marcos de una guerra entre potencias, la primacía histórica.

Ciro Bianchi Ross


Washington vs. Madrid: Páginas de la guerra (III y final) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
2 de Julio del 2016 19:10:44 CDT

La derrota de la escuadra española, barrida total y en toda la línea por la flota norteamericana, no solo elimina la última de las esperanzas de España en su victoria en la guerra con EE.UU., sino que desmoraliza a los defensores de Santiago de Cuba. El Ejército Libertador, por su parte, mantiene cercada la ciudad y con su acerado despliegue impide que le lleguen refuerzos desde otras plazas militares de la provincia oriental, en tanto que en el resto de la Isla los mambises mayorean a sus adversarios.
Los días 10 y 11 de julio, una semana después del desastre naval, las tropas norteamericanas de mar y tierra abren fuego sobre las posiciones españolas en los límites de Santiago, y el general Shafter, jefe del ejército norteamericano en Cuba, amenaza con bombardear la ciudad si no se rinde.
Comienza el éxodo de la población civil atemorizada y hambrienta. Unos buscan amparo en los campamentos norteamericanos, otros se dirigen a las zonas controladas por los mambises. En el campo cubano, el mayor general Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, revisa las listas con los nombres de los refugiados. Se topa en una de ellas con el de Federico Capdevila, capitán retirado del ejército español.
Llama de inmediato a su ayudante Luis Rodolfo Miranda de la Rúa y le ordena que localice a Capdevila, le presente, en su nombre, sus respetos, y se entere de lo que quiera o pueda necesitar para él o su familia. Recalca el guerrero:
—Fíjese bien, Comandante, tengo especial interés en que no le ocurra a Capdevila nada desagradable. ¡Cuide a ese hombre que supo serlo cuando muchos no fueron capaces de ello!
Federico Capdevila fue, en 1871, el valiente defensor de los estudiantes de Medicina.

Circula un rumor

El 16 se rinden las tropas españolas que defienden Santiago. Al día siguiente entran en la ciudad los norteamericanos; solo los norteamericanos, pues el general Shafter prohíbe la entrada a las tropas cubanas.
Un hecho digno de tenerse en cuenta ocurre cuando en el Palacio de Gobierno es arriada la bandera española y se iza la de EE. UU.
Indignados y coléricos, los mambises destacados en el fuerte de La Socapa izan, en señal de protesta, la bandera de la estrella solitaria, que es rápidamente retirada para que la sustituya la de las barras y las estrellas.
José de Armas y Cárdenas, uno de los periodistas cubanos más destacados de todos los tiempos y que hizo célebre el seudónimo de Justo de Lara, escribe entonces desde el mismo teatro de operaciones donde asiste como corresponsal de guerra: «Mientras que el general Shafter necesitó del general García, se comunicaba con él, poniéndolo al corriente de todas las operaciones. Una vez que acordó con los españoles la rendición de la plaza, se apartó del general cubano, a quien llegó a ocultar la importante operación que iba a realizar».
Es el mismo Calixto García quien ofrece los elementos de juicio necesarios para comprender lo que pasa, cuando en la carta que dirige a Shafter y que dicta a Justo de Lara, afirma:
«Los importantes actos de la rendición del ejército español y de la toma de posesión de la ciudad por usted tuvieron lugar, y solo llegaron a mi conocimiento por rumores públicos. No fui tampoco honrado con una sola palabra de parte de usted, invitándome a mí, a los demás oficiales de Estado Mayor, para que representáramos al ejército cubano en ocasión tan solemne.
«Sé, por último, que usted ha dejado constituidas en Santiago a las mismas autoridades españolas contra las cuales he luchado tres años como enemigas de la independencia de Cuba. Yo debo informar a usted, que esas autoridades no fueron nunca electas por los habitantes residentes en Santiago de Cuba, sino nombradas por un decreto de la reina de España».
Expresa, por último, el mayor general Calixto García:
«Circula un rumor, que por lo absurdo no es digno de crédito general, de que la orden de impedir a mi ejército su entrada en Santiago ha obedecido al temor de venganza contra los españoles. Permítame usted que proteste contra la más ligera sombra de semejante pensamiento, porque no somos un pueblo de salvajes que desconoce los principios de la guerra civilizada, formamos un ejército pobre y harapiento como lo fue el ejército de sus antepasados en su guerra noble por la independencia de Estados Unidos de América, pero a semejanza de los héroes de Saratoga y Yorktown, respetamos demasiado nuestra causa para mancharla con la barbarie y la cobardía».

Shafter obedece instrucciones

Shafter sin embargo no actuaba por iniciativa propia. Lo deja muy claro en su respuesta a Calixto: «Yo no puedo discutir la política del Gobierno de Estados Unidos, al querer que continúen en sus puestos temporalmente las personas que los ocupaban. Para que usted se entere bien, le remito copia de las instrucciones del Presidente que recibí ayer, las cuales resuelven cualquier dificultad que pueda suscitarse en el Gobierno de este territorio mientras esté ocupado por Estados Unidos».
Cuando Calixto García logra entrar en la ciudad, son apoteósicos el entusiasmo y la alegría de los santiagueros que salen en masa a saludarlo, y lo mismo sucederá a su llegada a La Habana. En carta al mayor general Máximo Gómez presenta su renuncia irrevocable al cargo de Lugarteniente General «por no estar dispuesto a seguir obedeciendo las órdenes y cooperando a los planes del ejército americano». Informa que marcha a Jiguaní, con toda la tropa bajo su mando, en espera de la respuesta del jefe del Ejército Libertador. El 29 de julio ocupa Gibara y presta toda la ayuda posible a heridos y enfermos españoles que abarrotan los hospitales de guerra de esa localidad. Días después, derrota, en las inmediaciones de esa ciudad, a la tropa del general Luque, que intenta recuperar Gibara. No pasa mucho tiempo sin que Shafter sea relevado de su mando y sustituido por el general Lawton.
En Washington se tributaría a Calixto García una acogida que testigos cubanos califican de «grandiosa», si bien no se concedió carácter oficial a su visita.
«Se cometió el error de poner al general Shafter al frente de las tropas que vinieron a Santiago, y su ineptitud tenía que traer, como trajo, la protesta del mayor general García, quien no podía, por la dignidad y prestigio de su ejército, y del suyo propio de soldado, aceptar la preterición de que fuimos objeto, cuando el buen éxito de la campaña de Santiago corresponde en gran parte —como algún día próximo he de demostrar— al ejército cubano de Oriente y a sus valientes generales bajo el mando del propio general García».
Así lo declara a un semanario habanero, el 20 de octubre de 1898, el coronel Cosme de la Torriente, uno de los oficiales del Estado Mayor de Calixto y que andando el tiempo —falleció en 1956— llegaría a ser embajador y canciller de Cuba y presidente de la Asamblea de la Sociedad de Naciones, un distinguido jurista con bufete en Mercaderes número 26, en La Habana Vieja.
Escribe Torriente, el 11 de diciembre de 1899, en ocasión del primer aniversario de la muerte de Calixto:
«Cuando alguno de los que estuvieron con él en el sitio de Santiago de Cuba publique sus recuerdos de esa campaña… entonces, solo entonces se podrán apreciar sus grandes servicios al ejército americano; entonces se podrá conocer la participación principalísima que en tal campaña tuvo el ejército cubano, que tan criticado fue por los que tanto le debieron; entonces se podrán aquilatar el gran tacto y la gran pericia de Calixto García para tratar con aquel general inepto… y entonces se verán también las grandes virtudes de nuestro héroe, su gran patriotismo, su gran respeto a la ley y a la libertad».

Ochenta y seis corresponsales de guerra

Se dice que esta fue la primera guerra moderna. No por el armamento empleado, sino por su impacto mediático. Sucesos que antecedieron al estallido de la contienda fueron enfocados por la prensa norteamericana con un tinte «amarillo» y sensacionalista que en buena medida acondicionó para lo que vendría la mentalidad del norteamericano promedio.
Hubo hechos construidos por la propia prensa, como la fuga de la patriota cubana Evangelina Cossío de la Casa de Recogidas de La Habana, a quien, ya en EE. UU., se le tributó una recepción grandiosa en Madison Square, el Presidente la recibió en la Casa Blanca, la agasajaron en el Congreso y las familias más conspicuas, mientras se fundían en su honor cien mil monedas de plata para hacerle vivir sus 15 minutos de gloria, porque moriría olvidada y en la pobreza.
Para reportar el conflicto —algo insólito en la época— 86 periodistas se acreditaron y viajaron como corresponsales de guerra, entre ellos 20 fotógrafos y seis dibujantes. Con ellos vino el antes aludido Justo de Lara.
El cinematógrafo, recién inventado entonces, no quedó fuera y llegó asimismo para dar testimonio en las principales direcciones en que el cine habría de desarrollarse: la ficción y el documental. Fue entonces cuando se filmaron, por la Vitagraph Company, las primeras imágenes en movimiento de una guerra real. La historia del teniente Rowan, portador del célebre mensaje del Presidente norteamericano, a Calixto García, se ficcionó en una cinta de Hollywood protagonizada por Wallace Beary, uno de los adelantados del entonces incipiente sistema de estrellas.
¿Qué nombre dar a esta guerra? Durante años, mientras se daba al conflicto el nombre de guerra hispano-norteamericana, historiadores cubanos se empeñaron y consiguieron un nuevo nombre: guerra hispano-cubano-americana.
¿Cuál de los dos es más apropiado? El historiador Oscar Loyola se decide por el primero. La guerra que Cuba libró contra España entre 1895 y 1898 —guerra hispano-cubana— fue una clásica guerra anticolonial; la intervención norteamericana no introdujo un tercer elemento en esta guerra, dice Loyola, pues los sujetos sociales implicados se mantuvieron idénticos. Lo que sucedió es que a esa contienda anticolonial se le superpuso otra, la de EE. UU. contra España por el dominio de Cuba; un colonialismo nuevo que daba una batalla, ganada de antemano, por desplazar de la Isla a un viejo colonialismo.
Esa guerra, que debe denominarse hispano-norteamericana, se libra en el mismo escenario geográfico en que transcurría la guerra hispano-cubana. Apunta Loyola: «Los intereses que llevaron a Cuba, a España y a EE. UU. a la guerra eran tremendamente diferentes… Lo que determina el carácter de una guerra es el fin que persigue. A la guerra nacional liberadora del pueblo cubano le fue arrebatada, en los marcos de una guerra entre potencias, la primacía histórica.

Ciro Bianchi Ross



lunedì 4 luglio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BOCCA DI RANCIO: cavità orale dei militari

giovedì 30 giugno 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BOA: serpente galleggiante, a volte anche luminoso

I primi investimenti nordamericani dopo oltre un cinquantennio

Completamente ristrutturato, è stato riaperto l’ex Hotel Quinta Avenida, dell’impresa cubana Gaviota, con il nuovo nome di Four Points by Sheraton, è il primo caso di investimento nordamericano a Cuba dopo il 1959. Evidentemente tra le pieghe dei “decreti Obama”, una delle più grandi catene alberghiere del mondo, di proprietà statunitense è riuscita a realizzare questo investimento in qualità di gestore. Prossimo obbiettivo della Starwood Hotels and Resorts Worldwide è il centralissimo Hotel Inglaterra che aprirà in agosto col nuovo nome di Luxury Collection by Starwood.

mercoledì 29 giugno 2016

Ricordando Bud Spencer e la sua città preferita (dopo Napoli)

Mi  è giunta la notizia della scomparsa di Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli da Napoli, ex campione e primatista italiano di nuoto che fu componente della nostra squadra olimpica negli anni ’50 del secolo scorso. Il “gigante buono” del cinema di cassetta, protagonista di improbabili quanto divertenti, risse e scazzottate contro miriadi di “cattivi” condotte da solo o spesso in compagnia di Terence Hill, al secolo Mario Girotti che hanno fatto divertire giovani e meno giovani.
Carlo o Bud, a seconda di come si preferisce ricordarlo, era un grande frequentatore della Florida, in particolare di Miami, dove ha girato diversi film e serie televisive rendendo ‘popolari’ diversi scorci di questa località. Ci mancherà, come mancherà a Miami.
Pur senza avere elementi culturali di spicco, Miami, è indubbiamente una città che attira sempre più gli italiani. Particolarmente Miami Beach che è municipio indipendente e non fa parte amministrativa di Miami City.
Nei tempi che si stanno avvicinando potrebbe aumentare il suo traffico turistico con la possibilità di trasferimenti da o per l’Avana in settembre, infatti, dovrebbero iniziare i voli commerciali tra gli Stati Uniti e Cuba aperti a chiunque. Per il momento i voli diretti sono solo per cittadini in possesso di passaporto cubano o statunitensi autorizzati, compresi in dodici categorie previste da un recente decreto del presidente Obama.
Oggi per gli stranieri il viaggio non è dei più agevoli, ma non impossibile. Le due località sono unite da voli (con scalo) da Copa Airlines (Panama), Interjet e Cubana de Aviaciòn (Messico), Bahamas Air (Nassau) o Air Cayman. Per esperienza personale quest’ultima è la combinazione migliore per qualità/prezzo. Purtroppo il volo che se fosse diretto durerebbe circa 40 minuti diventa di 3 ore da Miami all’Avana e di 4 in senso inverso, per via della sosta a Gran Cayman. 
Se la città in sé non offre molte attrattive se non il clima e la spiaggia, bisogna ricordare che è la capitale delle crociere per i Caraibi a cui si è aggiunta anche quella, quindicinale che tocca anche Cuba, dopo oltre 50 anni di divieto imposto dalle autorità degli U.S.A. oltre a questa attrattiva si possono raggiungere località suggestive come le Everglades, territori in gran parte sede delle riserve “indiane” dei Mikkosukee e dei Seminole con la loro incredibile ricchezza di fauna, oppure la caratteristica Key West,  ultima delle isolette da cui parte la mitica U.S.1 che raggiunge il confine canadese, lungo la costa est degli U.S.A e punto più meridionale degli Stati Uniti continentali a solo 160 chilometri da Cuba e in cui, fra le altre attrattive si trova una delle case caraibiche che furono di proprietà dello scrittore Ernest Hemingway, molto simile, come caratteristiche, a quella che ebbe all’Avana. Entrambe oggi musei riguardanti la vita e le opere di Hemingway.

Per chi volesse avere maggiori informazioni su Miami e le sue possibilità può trovarle sul blog www.italianiamiami.it  redatto in modo scanzonato da due ragazze italiane che come Paolo Maldini e il compianto Bud, fra gli altri, sono o furono amanti di questa località.

martedì 28 giugno 2016

Washington versus Madrid, pagine di guerra (II), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 26/6/16

Fin da prima di rompere le ostilità, Washington aveva ordinato il blocco navale dell’Isola cosa che impediva alla Spagna, da una parte, di portare truppe fresche, armamenti e munizioni e dall’altra, muovere risorse tra i diversi porti del territorio. Navi da guerra statunitensi stazionate di fronte ai porti di Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos e l’Avana erano visibili dalla costa e impedivano l’entrata e l’uscita di imbarcazioni di qualunque bandiera. Non meno di dieci mercantili spagnoli furono sequestrati e portati a Key West. La misura aveva anche altri obbiettivi strategici: aspettare che le truppe regolari nordamericane destinate a sbarcare completassero le loro manovre durante l’estate, a New Orleans, Mobile e Tampa e lasciare che le forze cubane continuassero a dissanguare gli spagnoli.
Fu così che il capitano generale Ramón Blanco y Erenas, Marchese di Peña Plata, sollecitò a Madrid l’invio della truppa spagnola dell’Atlantico che in quel momento aspettava gli ordini di fronte alle isole di Cabo Verde, nell’Africa Occidentale.
Questa era comandata dall’ammiraglio Pascual Cervera, un marinaio di quasi 60 anni d’età – nato a Jerez de la Frontera il 18 febbraio del 1839 – che dopo essere uscito dalla scuola navale di San Fernando ascese grado a grado, grazie alla sua partecipazione ai fatti più importanti della storia del suo Paese nella seconda metà del XIX secolo, un’epoca il cui finale tragico sarebbe stato simbolizzato con l’affondamento della squadra che gli toccò comandare.
Cervera prese parte a, campagna del Marocco (1853), nella spedizione spagnola contro la Cocincina (1862) e già come capitano di vascello assunse, nel 1866, il pattugliamento delle coste del Perù. Durante la guerra dei dieci anni fu di vigilanza alle coste cubane. Partecipò inoltre alla guerra carlista distinguendosi nella difesa dell’arsenale de La Carraca. Nel 1891 presiedette la delegazione del suo Paese alla Conferenza Navale di Londra e l’anno seguente lo nominarono ministro della Marina nel  Governo di Madrid nel gabinetto del presidente Sagasta, incarico a cui rinunciò per protesta per la scrsa dotazione economica destinata al suo ministero come se prevedesse, come dicono gli storici, la tragedia che avrebbe sofferto la flotta spagnola quando le sarebbe toccato afffrontare forze superiori, più moderne e meglio equipaggiate.
Facevano parte della flotta dell’Atlantico quattro incrociatori corazzati e tre destroyer che stazzavano un complesso di 28.600 tonnellate e disponevano, almeno in teoria, di 120 cannoni, otto mitragliatrici pesanti e 24 tubi lancia siluri, installati nei piccoli destroyer.
Cervera fece quanto alla sua portata al fine di convincere il ministro della Marina e il Governo di Madrid che non mandassero la flotta a Cuba o a Portorico. Suggeriva che facesse base alle Canarie per proteggere, da quella posizione, le isole e il territorio della Penisola. Il fatto, secondo lui, era di evitare uno scontro frontale con i nordamericani nei Caraibi.

“Vado al sacrificio”

La flotta nordamericana dell’Atlantico, al comando dell’ammiraglio William T. Sampson, era molto superiore alla spagnola. Disponeva di nove incrociatori corazzati che stazzavano oltre 65.000 tonnellate e aveva installati quasi 300 cannoni, 22 mitragliatrici pesanti e 37 tubi lancia siluri. Non solo superava la spagnole per numero di imbarcazioni, tonnellaggio e potenza di fuoco, le navi erano più moderne, possedevano una blindatura più forte e la loro abilitazione era più completa. Inoltre c’era la questione del combustibile. L’armata statunitense poteva rifornirsi di tutto il carbone che ci fosse stato nelle sue basi che si trovavano a poche ore di distanza mentre gli spagnoli, con seri problemi in questo senso, avevano le loro basi di rifornimento a migliaia di chilometri dai Caraibi.
L’ammiraglio Cervera insistette invano. Conosceva la superiorità del suo nemico. Per questo, alla vigilia della sua partenza per Cuba, informò nuovamente il Ministro della Marina circa le condizioni delle sue navi che lasciavano molto a desiderare. La sua artiglieria era incompleta o difettosa, non contava con munizioni adeguate né sufficienti e non disponeva nemmeno di quantità di carbone di qualità. Nel suo rapporto, il marinaio diceva che la sua squadra si sarebbe messa in un vicolo cieco. Una situazione dalla quale non poteva aspettarsi altro che la distruzione delle sue navi o la demoralizzazione dei suoi uomini.
Alle porte del terribile inverno del 1898, le alte sfere spagnole sembravano vivere, senza dubbio, un’euforia trionfalista che raggiungeva anche la popolazione. Molti avaneri comuni non restavano indietro, nei caffè evocavano le battaglie di Lepanto o del Callao e incensavano fino allo sfinimento la superiorità dell’armata spagnola, mentre nel vestibolo del teatro Albisu, l’illustre comandante della marina spagnola don Pedro Peral, fratello di Isaac, l’inventore del sommergibile, si impegnava a dimostrare giustamente il contrario.
In una pagina deliziosa delle sue Viejas postales descoloridas, l’osservatore dei costumi Federico Villoch dice che a Cuba, in quel momento, si parlò di Cabo Verde come mai prima né dopo e che c’era chi osservava le mappe per vaticinare da che parti le due squadre si sarebbero distrutte a cannonate. “Gli yankee hanno paura del terribile abbordaggio spagnolo”, dicevano alcuni. Le immaginazioni surriscaldate tracciavano quadri raccapriccianti di pirateria, col sollevare le maniche dei marinai armati di grandi e affilati coltelli, il sangue scorrendo a bordo.
Lo stesso Ministro della Marina spagnolo, con la testa fra le nuvole, dava a Cervera prima di partire verso i Caraibi, la seguente missione: Andare negli Stati Uniti, difendere le isole di Cuba e Portorico, bloccare i porti americani del Golfo del Messico, distruggere la base navale di Key West, sede della flotta dell’Atlantico e se possibile bloccare porti nell’est...”
Alcuni vaporetti riuscirono, dal porto avanero, burlare l’accerchiamento nordamericano o, entravano e uscivano col permesso degli assedianti. Con autorizzazione lo fece Lafayette, della Compagnia Transatlantica Francese, traboccante di passeggeri che abbandonavano la città per paura delle future contingenze, gli seguì il brigantino messicano Arturo, carico di fuggitivi. Gli speculatori di sempre fecero i soldi con l’affare improvvisato di convertire golette scalcagnate in navi per passeggeri che per 50 o 100 pesos a biglietto, trasportavano dall’Avana a Vera Cruz.
Ma le corazzate Brooklyn, Texas, Iowa, Luisiana..., dice Villoch, continuavano imperturbabili all’orizzonte, fermi come se avessero messo le radici nelle rocce del fondo, forando le notti coi loro potenti fari elettrici. Questa vigilanza non fu sufficiente perché il vapore spagnolo Monserrat, con tutte le luci spente burlasse il blocco, arrivando due giorni dopo, a un vicino porto del Messico per poter, a sua volta, rifornire di viveri l’Avana. Una nave da guerra spagnbole chiamata Conde de Venadito, un pomeriggio si arrischiò a uscire dal porto per provocare l’aggressione delle navi nordamericane e obbligarle ad avvicinarsi alla costa perché fossero cannoneggiate dal Morro, cosa che risultò vana in quanto quello che fecero gli yankee fu di scaricargli poderose bordate e rimanere impavidi sulle lo ricevette gli ordini di  ro linee. Fra le altre cose si verificò l’ingresso spettacolare della goletta Santiago che uscì una mattina a tutta vela da Bahía Honda e penetrò  salva nel nostro porto, sotto le cannonate che si incrociavano tra una delle corazzate americane e la batteria di Santa Clara, piazzata dove si costruì l’Hotel Nacional de Cuba.
Il 24 di aprile, Cervera ricevette l’ordine di muoversi verso i Caraibi e si dispose a compierli non senza avvertire i suoi superiori che andava al sacrificio con la coscienza tranquilla. Il giorno seguente, gli Stati Uniti dichiararono formalmente la guerra alla Spagna. Una settimana più tardi, nella baia di Cavite, Filippine, la flotta nordamericana del Pacifico distruggeva, in poche ore, la squadra spagnola lì concentrata. La notizia provocò la commozione che c’era da aspettarsi in Spagna. Il 12 maggio, il Ministro della Marina inviò un telegramma a Fort de France, in Martinica, autorizzando Cervera a tornare in Spagna. Ma Cervera non vide mai questo messaggio. Il giorno prima, lasciava indietro Fort de France dirigendo la prora verso Cuba.

Il tragico eroe

Il 14 maggio, navi nordamericane bombardarono, con totale impunità, San Juan di Portorico. Cinque giorni dopo, il 19, la flotta di Cervera entrava nella baia di Santiago de Cuba. All’inizio di giugno, la squadra dell’ammiraglio Sampson bombardava questa città. Con oggetto di imbottigliare Cervera, i suoi avversari affondarono il pontone Merrimac nella bocca santiaghera. A partire da lì se le navi spagnole volevano uscire, dovevano farlo una alla volta, trasformate in una sorta di tiro al bersaglio per i nordamericani.
Si intervistarono col maggior generale Calixto García, luogotenente generale dell’ Esercito di Liberazione, l’ammiraglio Sampson, capo della flotta, il generale Shafter, capo dell’ Esrcito di terra. Le truppe nordamericanesbarcarono avanzando verso Santiago. Il generale Linares, capo di quella piazza militare, non si fece illusioni sulla vittoria spagnola e sapeva che la sconfitta avrebbe messo in grave rischio la flotta ancorata nella baia. Il capitano generale Ramón Blanco che ricevette da madrid la potestà di decidere su tutte le forze militari staccate sull’Isola, inclusa la squadra e che sapeva come pensava Cervera, telegrafò all’ammiraglio: “Lei dice che la caduta di Santiago è certa, in quel caso lei dovrà distruggere le sue navi e questa è una ragione di più per tentare una sortita, già che è preferibile, per l’onore delle armi, soccombere combattendo...”. Allora Cervera scrisse a Linares: “...affermo con la magior enfasi che non sarò mai chi decida l’orribile e inutile ecatombe...Compete a Blanco decidere se devo andare al suicidio trascinando con me questi 2.000 spagnoli”.
Prima dell’attacco imminente, i marinai di Cervera si aggiunsero alla difesa terrestre di Santiago. Il 1° di luglio occorsero le battaglie di El Caney e di San Juan dove, in un tentativo disperato di recuperare le posizioni, il generale Linares risultò gravemente ferito. Il giorno 2, dall’Avana, il Capitano Generale ordinò a Cervera di uscire dalla baia santiaghera con le sue navi. Il giorno dopo, alle 9.45 del mattino, sparando all’impazzata da entrambi i lati, la squadra spagnola cominciò a uscire in direzione est. Un’ora più tardi, la flotta dell’Atlantico soccombeva davanti alla potenza nordamericana e lo stesso ammiraglio Pascual Cervera, il tragico eroe, raggiungeva a nuoto la costa dove venne fatto prigioniero. In Spagna dovette affrontare un consiglio di guerra accusato per la perdita della squadra. Fu assolto e rimase in servizio attivo ancora diversi anni. Morì il 3 aprile del1909.
La battaglia navale di Santiago ebbe, per la Spagna, il saldo di 326 morti, 215 feriti e 1.720 prigionieri. I nordamericani ebbero un morto e un ferito. “Non sempre al valore si accompagna la fortuna” diceva il Capitano Generale nel suo messaggio agli abitanti dell’Isola e “fermi e risoluti davanti al pericolo” li chiamava a confidare in Dio “e nel nostro diritto a lasciare incolumi l’onore e l’integrità della patria”. Il generale Shafter, da parte sua, presentava un ultimatum: Se Santiago de Cuba non si fosse arresa, sarebbe stata bombardata. Ma questo lo vedremo domenica prossima.


Washington vs. Madrid: páginas de la guerra (II) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
25 de Junio del 2016 19:51:56 CDT

Desde antes de romperse las hostilidades, Washington había ordenado el bloqueo naval de la Isla, lo que impedía a España, por una parte, traer tropas frescas, pertrechos y municiones, y por otra, mover recursos entre diferentes puertos del territorio. Barcos de guerra estadounidenses surtos frente a los puertos de Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos y La Habana se hacían visibles desde la costa e impedían la entrada y la salida de embarcaciones de cualquier bandera. No menos de diez mercantes españoles fueron apresados y conducidos a Cayo Hueso. La medida tenía otros objetivos estratégicos:
esperar a que las tropas regulares norteamericanas destinadas a desembarcar completaran durante el verano su entrenamiento en Nueva Orleans, Mobile y Tampa, y dejar que las fuerzas cubanas continuaran desangrado a las españolas.
Fue así que el capitán general Ramón Blanco y Erenas, Marqués de Peña Plata, solicitó a Madrid el envío a Cuba de la flota española del Atlántico, que en esos momentos esperaba órdenes frente a las islas de Cabo Verde, en África occidental.
Esta era mandada por el almirante Pascual Cervera, un marino de casi
60 años de edad —nacido en Jerez de la Frontera, el 18 de febrero de 1839— y que luego de egresar de la escuela naval de San Fernando ascendió grado a grado, gracias a su participación en los más importantes sucesos de la historia de su país durante la segunda mitad del siglo XIX, una época cuyo trágico final sería simbolizado justamente con el hundimiento de la escuadra que le tocó comandar.
Tomó parte Cervera en la campaña de Marruecos (1853), en la expedición española contra la Conchinchina (1862) y ya como capitán de navío asumió en 1866 el patrullaje de las costas de Perú. Durante la Guerra de los Diez Años estuvo en la vigilancia de las costas cubanas.
Participó además en la guerra carlista, distinguiéndose en la defensa del arsenal de La Carraca. Presidió en 1891 la delegación de su país a la Conferencia Naval de Londres y, al año siguiente, lo nombraron ministro de Marina en el gabinete del presidente Sagasta, cargo al que renunció en protesta por la escasa dotación económica destinada a su ministerio, como si previera desde entonces, dicen historiadores, la tragedia que sufriría la flota española cuando le tocara enfrentarse a fuerzas superiores, más modernas y mejor dotadas.
Conformaban la flota del Atlántico cuatro cruceros acorazados y tres destructores, que desplazaban en conjunto 28 600 toneladas, y disponían, en teoría al menos, de 120 cañones, ocho ametralladoras pesadas y 24 tubos lanzatorpedos, además de unos pocos cañones de tiro rápido y algunos tubos lanzatorpedos instalados en los pequeños destructores.
Hizo Cervera cuanto estuvo a su alcance a fin de convencer al Ministro de Marina y al Gobierno de Madrid de que no mandaran la flota a Cuba o a Puerto Rico. Sugería que la basaran en Canarias, para proteger desde esa posición las islas y el territorio de la Península. El asunto, a su juicio, era evitar un encuentro frontal con los norteamericanos en el Caribe.

«Voy al sacrificio»

La flota norteamericana del Atlántico, al mando del almirante William T. Sampson, era muy superior a la española. Disponía de nueve cruceros acorazados, que desplazaban más de 65 000 toneladas y tenía instalados casi 300 cañones, 22 ametralladoras pesadas y 37 tubos lanzatorpedos.
No solo superaba a la española en número de embarcaciones, tonelaje y potencia de fuego, sino que los buques eran más modernos, poseían un blindaje más fuerte y su habilitación era más completa. Estaba además la cuestión del combustible. La armada estadounidense podía contar con cuanto carbón quisiera estando sus bases como estaban a pocas horas de distancia, mientras que los españoles, con serios problemas en este campo, tenían sus fuentes de abasto a miles de kilómetros del Caribe.
En vano insistió el almirante Pascual Cervera. Conocía la superioridad de su enemigo. Por eso, en la víspera de su partida hacia Cuba, informó nuevamente al Ministro de Marina acerca de las condiciones de sus barcos, que dejaban mucho que desear. Su artillería estaba incompleta o defectuosa, no contaba con municiones adecuadas ni suficientes y tampoco disponía de carbón de calidad. En su informe, el marino decía que su escuadra se colocaría en un callejón sin salida; una situación de la que no podía esperarse más que la destrucción de sus barcos o la desmoralización de sus hombres.
A las puertas del terrible verano de 1898, las altas autoridades españolas parecían vivir, sin embargo, en una borrachera triunfalista que alcanzaba también a la población. No se quedaban atrás muchos habaneros de a pie que en los cafés evocaban las batallas de Lepanto y El Callao y pregonaban hasta el cansancio la superioridad de la armada española, mientras que en el vestíbulo del teatro Albisu, el ilustrado comandante de la marina española don Pedro Peral, hermano de Isaac, el inventor del submarino, se empeñaba en demostrar justamente lo contrario.
En una página deliciosa de sus Viejas postales descoloridas, el costumbrista Federico Villoch dice que en Cuba por aquel entonces se habló de Cabo Verde como nunca antes ni después y que había quien escrutaba los mapas para vaticinar en qué paraje ambas escuadras se desbaratarían a cañonazos. «Los yanquis le tienen un miedo terrible al abordaje español», decían algunos. Y las imaginaciones calenturientas trazaban cuadros espeluznantes de piratería, remangados los puños de los marineros armados de grandes y afilados cuchillos, y la sangre corriendo a bordo.
El propio Ministro de Marina español, con la cabeza en las nubes, daba a Cervera, antes de su partida hacia el Caribe, la misión siguiente:
«Ir a EE. UU., defender las islas de Cuba y Puerto Rico, bloquear los puertos norteamericanos del golfo de México, destruir la base naval de Cayo Hueso, sede de la flota del Atlántico, y de ser posible bloquear puertos del este…».
Algunos vapores lograron burlar, desde el puerto habanero, el cerco norteamericano, o salían y entraban con permiso de los sitiadores. Con autorización lo hizo el Lafayette, de la Compañía Trasatlántica Francesa, atestado de viajeros que abandonaban la ciudad por miedo a las futuras contingencias, y le siguió el bergantín mexicano Arturo, cargado de fugitivos. Los especuladores de siempre hicieron dinero con el improvisado negocio de convertir goletas desvencijadas en barcos de pasajeros que, por 50 o 100 pesos el boleto, transportaban pasaje desde La Habana a Veracruz.
Pero los acorazados Brooklyn, Texas, Iowa, Louisana…, dice Villoch, continuaban imperturbables en el horizonte, firmes como si hubiesen echado raíces en las rocas del fondo, bañando las noches con sus potentes focos eléctricos. Esa vigilancia no fue obstáculo para que el vapor español Monserrat, con todas sus luces apagadas, burlase una noche el bloqueo y arribase sin novedad, dos días después, a un cercano puerto de México para, a su vuelta, abastecer de víveres a La Habana. Un barco de guerra español llamado Conde de Venadito se arriesgó una tarde a salir del puerto para provocar la agresión de los acorazados americanos y obligarlos a acercarse a la costa para que fueran cañoneados desde el Morro, lo que resultó en vano, pues el yanqui lo que hizo fue largarle una andanada de tiros y permanecer impávido en su línea. Se dio también, entre otros casos, la entrada espectacular de la goleta Santiago, que a todo trapo salió una mañana de buen viento de Bahía Honda y penetró sana y salva en nuestro puerto, bajo los cañonazos que se cruzaban uno de los acorazados norteamericanos y la batería de Santa Clara, emplazada donde se edificó el Hotel Nacional de Cuba.
El 24 de abril recibía Cervera la orden de moverse hacia el Caribe y se dispuso a cumplirla no sin antes advertir a sus superiores que iba al sacrificio con la conciencia tranquila. Al día siguiente, Estados Unidos declaró formalmente la guerra a España. Una semana más tarde, en la bahía de Cavite, Filipinas, la flota norteamericana del Pacífico destruía, en cuestión de horas, la escuadra española concentrada allí.
La noticia provocó en España la conmoción que era de esperar. El 12 de mayo, el Ministro de Marina dirigió un telegrama a Fort de France, en Martinica, autorizando a Cervera a regresar a España. Pero Cervera jamás vio ese mensaje. El día anterior dejaba atrás Fort de France y ponía proa a Cuba.

El héroe trágico

El 14 de mayo barcos norteamericanos bombardearon con total impunidad San Juan de Puerto Rico. Cinco días después, el 19, la flota de Cervera entraba en la bahía de Santiago de Cuba. A comienzos de junio la escuadra del almirante Sampson bombardeaba esa ciudad. Con objeto de embotellar a Cervera, sus adversarios hundieron el pontón Merrimac en la boca de la rada santiaguera. A partir de ahí, si los barcos españoles querían salir, debían hacerlo de uno en uno, convertidos en una suerte de tiro al blanco para los norteamericanos.
Se entrevistan con el mayor general Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, el almirante Sampson, jefe de la flota, y el general Shafter, jefe del Ejército de tierra. Desembarcan las tropas norteamericanas y avanzan hacia Santiago. El general Linares, jefe de esa plaza militar, no se hace ilusiones respecto a la victoria española y sabe que la derrota pondría en grave riesgo a la flota anclada en la bahía. El capitán general Ramón Blanco, que recibió de Madrid la potestad de decidir sobre todas las fuerzas militares destacadas en la Isla, incluso la escuadra, y que sabe cómo piensa Cervera, telegrafía al Almirante: «Dice usted que la caída de Santiago es segura, en cuyo caso tendrá usted que destruir sus barcos, y esta es una razón más para intentar una salida, ya que es preferible para el honor de las armas sucumbir combatiendo…».
Cervera escribe entonces a Linares: «… afirmo con el mayor énfasis que nunca seré quien decida la horrible e inútil hecatombe… A Blanco incumbe decidir si debo ir al suicidio, arrastrando conmigo a estos 2
000 españoles».
Ante el ataque inminente, los marinos de Cervera se suman a la defensa terrestre de Santiago. Ocurren el 1ro. de julio de 1898 las batallas de El Caney y de San Juan, donde, en un intento desesperado por recuperar la posición, resulta gravemente herido el general Linares.
El día 2, desde La Habana, el Capitán General ordena a Cervera que salga con sus barcos de la bahía santiaguera. Al día siguiente, a las
9:45 de la mañana, disparando sin cesar por ambas bandas, empezó a salir, con rumbo este, la escuadra española. Una hora más tarde la flota del Atlántico sucumbía ante el poderío norteamericano, y el propio almirante Pascual Cervera, el héroe trágico, alcanzaba la costa a nado y era hecho prisionero. Debió enfrentar en España un consejo de guerra acusado de la pérdida de la escuadra. Fue absuelto y permaneció durante unos cuantos años más en servicio activo. Murió el 3 de abril de 1909.
La batalla naval de Santiago tuvo para España el saldo de 326 muertos,
215 heridos y 1 720 prisioneros. Los norteamericanos tuvieron un muerto y un herido. «No siempre al valor acompaña la fortuna», decía el Capitán General en su mensaje a los habitantes de la Isla, y «firmes y resueltos ante el peligro», los llamaba a confiar en Dios «y en nuestro derecho a dejar incólumes el honor y la integridad de la patria». El general Shafter, por su parte, presentaba un ultimátum:
Si Santiago de Cuba no se rendía, sería bombardeada. Pero eso lo veremos el próximo domingo.

Ciro Bianchi Ross




lunedì 20 giugno 2016

Ciao Fossili, di Luca Lombroso

Dai primi di luglio in libreria il mio nuovo libro, qui le anticipazioni della scheda dell’Editore:


CIAO FOSSILI - Cambiamenti Climatici, Resilienza e Futuro Post Carbon

Il 2015 è stato un anno di svolta per i cambiamenti climatici. Da un lato le concentrazioni di CO2 in atmosfera hanno per la prima volta nella storia dell’evoluzione umana superato le 400 ppm. Siamo entrati, letteralmente, in un territorio nuovo, sconosciuto, mai vissuto dall’homo sapiens. 
Ondate di caldo, siccità, alluvioni, nubifragi, tornado, uragani sono ormai in una fase di “nuova normalità” con cui volenti o nolenti dobbiamo adattarci e convivere con resilienza.
Dall’altro, sappiamo che oltre una certa soglia non potremmo convivere. Qual è questa soglia e quale strada tracciare dunque per “salvare il mondo”? Siamo ancora in tempo? 
Ormai non ci sono più dubbi: per evitare cambiamenti climatici inauditi dobbiamo limitare il riscaldamento planetario ben al di sotto di 2°C, meglio ancora di 1.5°C, rispetto all’era preindustriale. È giunto il momento di avviarci alla definitiva decarbonizzazione della nostra società nel corso di questo stesso secolo. 
In questo ultimo libro, Luca Lombroso traccia nuovi scenari possibili di un futuro post carbon. A ispirare il suo percorso, due documenti di straordinario valore: l’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco sulla cura della Casa Comune e l’Accordo di Parigi approvato alla storica conferenza sul clima COP 21 tenutasi nella capitale francese a dicembre 2015.


La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma ci è stata data in prestito dai nostri figli
Proverbio  indiano
Noi siamo la prima generazione a subire l’impatto del cambiamento climatico e l’ultima a poter fare qualcosa” 
Barack Obama,
COP 21, Parigi 2015
Non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi
i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile
per l’umanità che verrà dopo di noi” 
Papa Francesco,
Enciclica Laudato si’, 2015
Le generazioni future e le altre specie, che condividono la biosfera con noi, non hanno voce per chiederci compassione, saggezza e autorità. Dobbiamo ascoltare il loro silenzio, dobbiamo essere la loro voce e agire per loro” 
Dichiarazione Buddhista
sui cambiamenti climatici, 2009
Cosa diranno le future generazioni di noi, che lasciamo loro in eredità un pianeta degradato?
Come ci presenteremo al nostro Signore e Creatore?” 
Dichiarazione islamica
sul cambiamento climatico globale, 2015







“L'uomo, danneggiando l'ambiente, si comporta proprio come le cellule cancerogene quando si espandono danneggiando l'organismo stesso dove vivono, ma quando l'organismo muore, muoiono anche loro” Cosa c’è oggi di più odiato delle cellule cancerogene che tutti direttamente o indirettamente abbiamo avuto modo di conoscere? Possiamo accettare di essere paragonate a loro? Certamente no. Allora non perdiamo tempo e corriamo ai ripari. Questo libro ci può certamente aiutare. Ci apre la mente, ci aggiorna sulla situazione attuale della nostra “casa comune” ma si offre a noi anche come una sorta di “istruzione per l’uso” utile a non distruggere noi stessi e i nostri figli.
(Dalla prefazione di Licia Colò)


Della stessa serie:




luca lombroso

La risposta alle mail potrebbe non essere immediata, la reperibilità telefonica potrebbe non essere continua. Questo per ottimizzare i tempi di vita e lavoro, perché non vengano sacrificati all'invasività delle comunicazioni.   
Ma anche perchè i sistemi tecnologi sono poco affidabili: email importanti possono, indipendentemente dalla nostra volontà, essere marcate come indesiderata dai software automatici, ai cellulari può mancare campo o scaricarsi la batteria... e anch'essi risentiranno, inevitabilmente, dell'impatto dei cambiamenti climatici e delle conseguenze del peak oil