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martedì 9 giugno 2015

Inaugurata Cuba es Moda

Fonte: Futuro Europa

di Elvira Marasco | 08 giugno 2015

                                                                                         


Oggi si inaugura a L’Avana la prima Fiera della Moda Cuba es Moda. Il Grupo Palco, Ente Fiera di Cuba, promotore dell’evento, lo ha voluto nell’ottica dei cambiamenti in atto sull’isola dopo l’apertura ​del presidente Obama.
A Cuba non è facile trovare negozi forniti, per lo più sono desolatamente vuoti oppure espongono merce molto modesta. Ma ora con questi nuovi orizzonti, il governo vuole mettersi alla pari con il resto del mondo, anche perché il potere di acquisto dei cubani si sta modificando e sono sempre di più gli stranieri presenti sull’isola e non solo per turismo.
Questa Fiera, la prima, vuole essere l’inizio di un nuovo corso e per fare questo sono state invitate a esporre aziende di tutto il mondo. Gli italiani hanno risposto con 6 aziende e, in via del tutto eccezionale e stata chiamata a far parte del Comitato organizzatore la AIDDA Italia, Associazione imprenditrici e donne dirigenti di azienda.
Per l’occasione è arrivata a Cuba la sua Presidente nazionale Franca Audisio. Il legame tra il Grupo Palco e Aidda è solido e dura da almeno tre anni. Le imprenditrici di Aidda hanno già dalla prima missione nel 2013, individuato le potenzialità dell’Isola e iniziato rapporti di collaborazione.
Il nostro Ambasciatore Carmine Robustelli e il presidente del Grupo Palco Abraham Maciques hanno tagliato il nastro d’inaugurazione di Cuba es Moda insieme a Franca Audisio, certi di essere parte del nuovo corso della storia di questo Paese.

Peccato che la nostra ambasciata non abbia avvisato nessuno, nemmeno con una e-mail...


Sciagura

SCIAGURA: grave incidente sciistico

A qualcuno piace il caldo, ma se è troppo, è troppo...

Approfondimento sule tema clima pubblicato ieri e ricevuto, come il precedente, da Luca Lombroso


altro mio attrpofondimento su ondate di caldo e cambiamenti climatici, buona lettura, ogni feedback è benvenuto!
http://www.emiliaromagnameteo.com/ondate-di-caldo-e-globalwarming-i-fatti-e-i-miti/
Ondate di caldo e #globalwarming: i fatti e i miti
Ondate di caldo e #globalwarming: i fatti e i miti


anomalia di temperatura in Euroa e nel centro nord Italia durante l’estate del 2003, cortesia e fonte NASA
Ad ogni ondata di caldo si sprecano i commenti su siti, quotidiani e forum, e talvolta le liti e discussioni.
Proviamo a vedere quali sono i fatti, con una premessa: la vera domanda non è “l’ondata di caldo è dovuta al global warming?” ma un’altra: può il riscaldamento del pianeta e i conseguenti cambiamenti climatici aumentare la probabilità di ondate di caldo? Premetto che la risposta è si.
Vediamo come e perché attenendo alla bibliografia scientifica e ad analisi di veri esperti e ricercatori del settore.
Prima di tutto, i fatti: Europa, Asia e Australia in particolare stanno già vivendo un aumento della frequenza delle ondate di caldo (vedi sotto la bibliografia). Le ondate di caldo hanno conseguenze serie, anche peggio di alluvioni e nubifragi (e, indirettamente, li favoriscono all’arrivo dei fronti che le interrompono), e in particolare causano siccità, rischio di incendi, problemi di salute e di qualità dell’aria e incremento di mortalità. Non a caso, nel 2003 si è osservata, per la prima volta da decenni, una flessione dell’aspettitiva di vita in Italia e in Europa. Quell’ondata di caldo causò infatti un eccesso di mortalità di oltre 50000 vittime in Europa, circa 15000 in Italia, e 20000 in Francia. Notare che se è pur vero che “si muore comunque e che molte di queste erano persone malate o deboli”, questo argomento non regge. E’ come dire che se troviamo uno accoltellato, non è stato ucciso perché si è sempre morti naturalmente. E comunque, anche se malate, erano persone che in condizioni normali potevano vivere più a lungo.


come cambia la distribuzione delle temperature (adattato da #denial101x Licenza CC-By-SA fonte e cortesia Keah Schuenemann https://www.youtube.com/watch?v=POaVUAnp5j0)
E’ un fatto pubblicato in varia bibliografia che il riscaldamento globale aumenta di quattro volte la probabilità di ondate di caldo, ma paradossalmente cala solo di poco la probabilità di situazioni di freddo o perturbate. Insomma, è molto più frequente il caldo, ma non sparisce del tutto il freddo, che spesso però è di breve durata. Gli esempi negli ultimi anni e mesi sono innumerevoli. Lo possiamo spiegare in modo semplice divulgativo, vedi il mio “gioco dei dadi truccati del clima che cambia”

https://youtu.be/iWSISIaIek4
oppure, se avete dimestichezza con l’inglese (magari aiutatevi coi sottotitoli) qui trovate un dettagliato approfondimento dal corso on line “Make a sense to climate denial “, dare un senso al negazionismo climatico” dove è spiegato bene come la variabilità climatica influenza la distribuzione statistica delle temperature nonché come il fatto che aumentano le temperature minime più delle temperature massime (quindi notti più calde) è in accordo con l’impronta umana sui cambiamenti climatici dovuto all’aumento dei gas serra in atmosfera.

https://www.youtube.com/watch?v=POaVUAnp5j0

insomma, dire “le ondate di caldo ci sono sempre state e quindi non è colpa dei cambiamenti climatici” è “saltare alle conclusioni”, e un “fallimento di logica” delle affermazioni. Come dire, per fare un’analogia alla campagna che fecero le multinazionali del tabacco, che “si è sempre morti di cancro e quindi non ci sono prove che le sigarette causano il cancro

https://www.youtube.com/watch?v=gCMzjJjuxQI#action=share

E il futuro? Ne ho parlato in questo articolo “Estati ieri, oggi e domani”, meglio dunque prepararsi a combattere veramente il caldo, leggete anche l’approfondimento di Pierluigi Randi sugli effetti fisiologici e sugli indici di calore, spesso impropriamente detti “temperatura apparente”.


scenario delle estati 2070-2100 in Europa secondo uno scenario “BAU business as usuall)
Bibliografia tratta da #Denial101x:
Beniston, M. (2009), Decadal-scale changes in the tails of probability distribution functions of climate variables in Switzerland. Int. J. Climatol., 29: 1362–1368. doi: 10.1002/joc.1793. Link to Abstract
Della‐Marta, P. M., Haylock, M. R., Luterbacher, J., & Wanner, H. (2007). Doubled length of western European summer heat waves since 1880. Journal of Geophysical Research: Atmospheres (1984–2012), 112(D15). Link to PDF
Hartmann, D.L., A.M.G. Klein Tank, M. Rusticucci, L.V. Alexander, S. Brönnimann, Y. Charabi, F.J. Dentener, E.J. Dlugokencky, D.R. Easterling, A. Kaplan, B.J. Soden, P.W. Thorne, M. Wild and P.M. Zhai, 2013: Observations: Atmosphere and Surface. In: Climate Change 2013: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Stocker, T.F., D. Qin, G.-K. Plattner, M. Tignor, S.K. Allen, J. Boschung, A. Nauels, Y. Xia, V. Bex and P.M. Midgley (eds.)]. Cambridge University Press, Cambridge, United Kingdom and New York, NY, USA. Link to PDF, see pages 209-213, 218-219
IPCC, 2013: Summary for Policymakers. In: Climate Change 2013: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Stocker, T.F., D. Qin, G.-K. Plattner, M. Tignor, S.K. Allen, J. Boschung, A. Nauels, Y. Xia, V. Bex and P.M. Midgley (eds.)]. Cambridge University Press, Cambridge, United Kingdom and New York, NY, USA. Link to PDF, see pages 5, 7, 19, 20.
Stott, P. A., Stone, D. A., & Allen, M. R. (2004). Human contribution to the European heatwave of 2003. Nature, 432(7017), 610-614. Link to Abstract. Link to interview with Stott.


luca lombroso
www.lombroso.it
luca@lombroso.it

lunedì 8 giugno 2015

Il clima e il suo cambio: analisi e suggerimenti di Luca Lombroso

Estate ieri, oggi e domani: quando il caldo fa 40
Post di Luca Lombroso n.13 | 5 giugno 2015 L’estate sta partendo in quarta, o meglio ancora in quinta. L’anticiclone delle Azzorre di bernacchiana memoria negli ultimi anni lascia spesso lo spazio a un altro anticiclone, quello subtropicale africano, figura non del tutto nuova ma che comunque era piuttosto rara nello scenario meteorologico del Mediterraneo. E comunque, anche quando arrivano anticicloni “normali”, le temperature sono spesso più elevate del passato.
Guardiamo per esempio a cosa succedeva a Modena, presso l’Osservatorio Geofisico del DIEF UNIMORE, una cinquantina di anni fa, quando sono nato io, e cosa succede oggi. Se notate, negli anni 1960 le estati oscillavano, come temperatura media, attorno ai 23°C, negli anni 1980 sono comparse le prime estati calde che poi hanno caratterizzato sempre più spesso quella che era la nostra tranquilla estate mediterranea nel corso del XXI secolo, con i picchi, anche drammatici sotto certi versi, delle estati 2003 e 2012, in parte anche 2013. La scorsa estate del 2014 molti l’hanno vissuta come “fredda” ma nonostante le tante piogge l’estate 2014 negli anni 1960 sarebbe stata considerata calda.
Insomma, quello che sembrava un’ipotesi per il futuro, “chiamare fresco quello che oggi è il caldo più incallito” sta già avvenendo oggi, e in futuro, senza azioni, potrà andar solo peggio.
Se già sapevamo che le estati come quella del 2003, che, per inciso, è stato probabilmente l’evento meteoclimatico che ha causato più vittime in Europa ed Italia più di alluvioni, frane e tornado, tanto da essere considerato l’evento con il più alto rateo di mortalità in Europa negli ultimi 50 anni. Ora abbiamo anche indicazione che senza azione, in Italia già dal 2044 potremmo chiamare “fresco” quello che oggi consideriamo il caldo più incallito.
Con opportune azioni invece, avremo 30 anni di tempo in più circa prima che questo avvenga, e questo lasso di tempo è importante per adattarci, ovvero adeguare le nostre infrastrutture, e le nostre case in particolare, al nuovo clima.
Pensiamo all’ondata di caldo che sta attanagliando l’India in questi giorni: temperature di 45-48°C sono, comprenderete, come si dice in gergo “incompatibili con la civiltà globale interconnessa”. Potrà capitare da noi?
Proviamo, senza bisogno di sofisticati modelli climatici, a fare una semplice proiezione.
Già oggi nelle giornate più calde estive arriviamo attorno ai 38-40°C. gli scenari di cambiamenti climatici indicano, al 2100, un ulteriore riscaldamento fra i 2°C (scenario “accettabile”) e i 5°C (scenario a cui è meglio non pensare e che dobbiamo evitare “ad ogni costo”, dice la Banca Mondiale). Considerato che il Mediterraneo e l’Emilia Romagna sono zone particolarmente sensibili al global warming, dove il riscaldamento potrebbe essere anche maggiore, potremmo ipotizzare in uno scenario “soft”, di avere, nelle giornate più calde di fine secolo, temperature simili a quelle dell’attuale ondata di caldo in India, mentre meglio non pensare e lavorare per evitare lo scenario “catastrofico”.
Ora, qualcuno dirà, sto facendo “catastrofismo” ma a me piace più il termine “catastrofologo”, del resto occuparsi di clima è, inevitabilmente, occuparsi e prevedere, ma soprattutto prevenire, catastrofi.
Dunque, non mi sottraggo alla legittima richiesta che molti mi fanno alle conferenze, ovvero non parlare solo dei problemi ma anche delle soluzioni. Come combattere veramente il caldo non tanto oggi ma soprattutto quello di domani ?
Ovvio, sappiamo tutti di vestire leggero e fresco, mangiare cibi di stagione, non uscire nelle ore più calde, ecc, ma ecco alcune semplici indicazioni di “cosa fare in casa”, consigli di per quanto banali spesso dimenticati:
• Ripara le finestre e i balconi nelle ore più calde con tende o persiane
• Rinfresca la casa non appena si alzano venti freschi di sera o dopo un temporale
• Usa preferibilmente ventilatori e pale a soffitto
• Evita, o limita il più possibile, l’uso del condizionatore
• Se proprio lo usi, limita il raffrescamento a 2-4°C in meno che all’esterno, e comunque entro i 26-28°C; possibilmente dotati di impianto fotovoltaico
• Valuta se puoi isolare meglio la casa, possibilmente col cappotto, che ti darà risparmi anche d’inverno
• Se hai un balcone o terrazzo, metti piante possibilmente rampicanti
• Se puoi, nel soffitto metti delle piante (tetti verdi)
• In ogni caso, è bene isolare bene anche la copertura
• Quando ti lavi i capelli, se fa caldo evita l’uso dell’asciugacapelli: consuma e scalda casa!
• Anche i grandi elettrodomestici (lavatrice, lavastoviglie) scaldano l’ambiente
Per finire però a voi il vero decalogo anticaldo, per evitare che il caldo futuro diventi insopportabile per la nostra stessa società e civiltà:
• Riduci drasticamente le emissioni di gas serra
• Lascia i combustibili fossili sotto terra
• Usa fonti rinnovabili
• Ferma la deforestazione
• Pianta alberi ad alto fusto e con ampie foglie verdi nei viali e nelle piazze
• Meno auto, più biciclette
• Costruisci e ristruttura la casa portandola autosufficiente energeticamente
• Scegli prodotti e alimenti locali e biologici
• Limita i consumi superflui e scegli prodotti ecosostenibili


Andamento delle temperature medie estive a Modena (Osservatorio Geofisico DIEF UNIMORE presso Palazzo Ducale)


Quando si riesce a misurare la temperatura dell’aria col termometro da febbre, allora bisogna preoccuparsi del caldo!


L’incredibile anomalia termica dell’estate 2003 in Europa, ritenuta fino a quel momento “evento impossibile”


luca lombroso
www.lombroso.it






Si scopre sempre qualcosa: Fiat 1100 spyder "farfallina"

Appunti di viaggio: Baracoa, in un buon momento, di Ciro Bianchi ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/6/15

Si dice che chi si bagna nelle acque deli río Miel, non se ne andrà mai da Baracoa. L’affermazione, indubbiamente esagerata, serve per dare risalto a un fatto sicuro: colui che visiti questa città della regione orientale cubana, avrà sempre il desiderio di tornarci. Sono stato lì per l’ultima volta nel 1995 e senza che possa spiegare il motivo, avevo una voglia matta di tornare. Questo reportage è stato solo un pretesto. Situata a oltre mille chilometri all’est dell’Avana e a 250 da Santiago de Cuba Baracoa, fondata 504 anni fa, è la prima città di Cuba; come si legge nel suo scudo: “La prima nel tempo”. Il suo nome, nella lingua dei primi abitanti della regione, secondo alcuni vuol dire “terra alta” e per altri “esistenza del mare”.
Date le caratteristiche del luogo dove si edificò. Qualunque dei due significati potrebbe essere valido perché Baracoa è incastonata fra l’oceano e le montagne che esibiscono una vegetazione esuberante e lussureggiante.
Uno scenario che unito all’indolenza dei governanti coloniali e repubblicani, condizionò per secoli l’isolamento della zona, il suo ritardo culturale e un’economia agricola ridotta al taglio di alberi, coltivazione di banana e cocco, ma sopratutto il cacao.
Fino al 1965, quando si inaugurò il viadotto de La Farola, il territorio non aveva comunicazione via terra col resto del Paese, salvo quella che si poteva fare a piedi o col mulo per stretti sentieri di montagna. Come se si trattasse di una delle tante isolette dell’arcipelago cubano, vi si arrivava per mare, in una goletta che faceva il viaggio da Santiago de Cuba. Oppure in un aeroplano sgangherato che volava due volte al giorno, sempre che il tempo lo permettesse. Così dire Baracoa, come Cabo San Antonio, all’altro estremo occidentale dell’Isola, era come menzionare la fine del mondo.
Fu fondata nel 1511 e per quattro anni fu la capitale della Colonia, ma quando nel 1518 le si concesse il titolo di città, era già praticamente disabitata. A partire da lì e fino alla vittoria della Rivoluzione nel 1959, visse abbandonata alla sorte. Castigata dai cicloni, le sollevazioni indigene, gli attacchi di corsari e pirati e ancora, per l’indifferenza dei governanti, Baracoa si convertì nella Cenerentola di Oriente. La prima nel tempo era anche la città più abbandonata.

Da lontano del Yunque

La Farola è un’elevazione montagnosa imponente e il viadotto che l’attraversa, un’opera d’impegno: ha diviso nel centro il massiccio Sagua-Baracoa, il più folto e intricato di Cuba. Lo si inserisce fra le sette meraviglie dell’igegneria civile cubana.
Era urgente costruire il viadotto e per questo si adattò alla topografia del terreno. Si cercarono le pendenze meno pericolose e si seguirono per lunghi tratti i passaggi che utilizzavano i contadini. La soluzione finale fu quella di cominciare dal terrreno solido e approfittare dell’appoggio del fianco per collocare lastre aeree e gli 11 ponti che pendono dalla montagna sostenuti da colonne. L’opera si concluse in 18 mesi e da allora Baracoa, capitale del municipio omonimo – 921 km quadrati e 80.000 abitanti; il 57% dei quali vive in zone rurali – fu finalmente, come suol dirsi, a portata di mano.
El Yunque, da lontano, domina il paesaggio. È una montagna la cui forma si presume tracciata dall’erosione delle acque del fiume Toa – il più impetuoso di Cuba – e dei suoi affluenti. Cristoforo Colombo lo menziona nel suo Diario di bordo. Chiama El Yunque “montagna alta e quadrata che sembrava un’isola”.

Riserva e patrimonio mondiali

È, dicono i naviganti, un faro naturale. El Yunque si avvista a gran distanza dal mare e serve da guida ai marinai che cercano di arrivare a Baracoa. I suoi fianchi, coperti di boschi, sono l’habitat di non poche specie endemiche e in essi si sono trovati numerosi resti archeologici taínos, etnia con una forte presenza nella zona.
In una metafora visiva fatta conoscere da The Natura Conservancy, una pubblicazione scentifica nordamericana, si suppone che la dimensione di un Paese lo determinerebbe la sua biodiversità. Cuba allora avrebbe un’estensione territoriale maggiore che tutta l’America del nord e lascerebbe piccoli l’America Latina e i Caraibi. Il peso maggiore di questa affermazione ipotetica, secondo gli specialisti, lo deciderebbe Baracoa, regione che riporta la maggior endemicità di flora e fauna dell’arcipelago cubano. Per questo Baracoa e la regione geografica in cui si trova, le cosiddette Cuchillas del Toa, sono Riserva Mondiale della Biosfera e Patrimonio dell’Umanità.
Il bosco pluviale si alterna con il chascarral (pianta endemica) n.d.t.) e il pino cubano e conserva oltre cento specie autoctone, fra le altre alcune cocotrinas, l’ocuje colorado e tre dei quattro tipi di palme cubane. È l’ultimo rifugio del picchio reale, minacciato d’estinzione e dell’almiquì, fossile vivente ugualmente in pericolo. Molto ricca é la sua varietà di vertebrati. È anche l’ambiente esclusivo della polymita, piccola chiocciola di grande bellezza e colori senza uguali, unica al mondo.

La croce della vite

Un soggiorno a Santiago de Cuba propiziò che lo scriba saltasse a Baracoa. Un viaggio di quattro ore per strada. La prima città è lunga e stretta. Vista sulla carta fa l’impressione di una gronda che esce sul lungomare della città, per estensione la terza del Paese, superata dall’Avana e Cienfuegos. Le case, generalmente, sono dai soffitti alti, con tetti spioventi e tegole francesi. Le finestre sono spagnole. La maggior parte delle edificazioni non sono molto antiche, ma la città mantiene il tracciato coloniale della sue strade e piazze. Si sono ristrutturate molte abitazioni. Il boulevard dona nuova vita alla città, su di esso si affacciano commerci privati che assieme al turismo, contribuiscono al rinnovamento del territorio. Un albergo nuovo è stato costruito sul lungomare.
Ai due estremi della città sorgono imponenti fortezze coloniali. Quella di Matachín, nella baia de Miel e La Punta, nell’insenatura di Porto Santo. Entrambi baluardi sono complemento del castello di Seboruco, che si erge un po’ all’interno della costa, su una collina di una quarantina di metri di altezza.
Quando la capitale dell’Isola passò a Santiago de Cuba, Baracoa cadde in una dimenticanza dalla quale emerse nel XVIII quando, per ragioni di geopolitica, acquisì valore strategico. Fu allora, tra il 1739 e il 1743 che si costruirono i tre fortini menzionati e la città divenne, poi, il territorio meglio difeso della colonia dopo l’Avana.
Il Museo Municipale, installato nel forte Matachín, merita una visita. Come la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione di Baracoa. In questo tempio si conserva il simbolo più antico della cristianità in America, La cosiddetta Croce della Vite, una delle oltre venti che lasciò Colombo nel suo primo viaggio e l’unica che è giunta a noi. Fu confezionata in legno di uvetta, un albero americano e le prove di carbonio 14 le confermano un’antichità che corrisponde con la scoperta del Nuovo Mondo. Le sue quattro estremità si dovettero foderare con latta argentata per evitare che i fedeli strappassero delle schegge per tenerle di ricordo. Perfino il dittatore Fulgencio Batista, al suo momento, prese il suo pezzettino.

Riso col cocco

A Baracoa si ascoltano e si ballano ancora il nengón e il kiribá, due delle maniere più remote del son tradizionale cubano. Vi è unforte movimento della cultura popolare. È molto diffuso un artigianato che lavora esclusivamente risorse naturali. Abbondano gli intagliatori del legno e i pittori naif.
A Baracoa c’è una cucina originale che si conosce appena nel resto del Paese. Il riso col cocco i baracoensi lo hanno come piatto tipico anche se, come a Barranquilla, Cartagena de Indias e altre città dei Caraibi. È un piatto delicatissimo, così come lo sono i pesci e frutti di mare cucinati in salsa di cocco. Per confezionare detta salsa, si macina la polpa del frutto e poi si spreme con un panno sottile. Poi le si aggiunge prezzemolo, silantro, cipolla, peperoncino piccante, origano, sale e si mette a fuoco lento fino a che si ispessisce e si ottenga la salsa.
La suprema è la tortina in foglie di Santo Domingo, ma a Baracoa – e quì sta la differenza – si cucina con latte di cocco. È come un tamal tradizionale, ma si utilizza la banana invece del mais. Questo latte da un tocco peculiare al calalú, cibo dei santi e degli dei che si elabora come in qualsiasi parte, con i germogli di tutti i tubercoli. Il frangollo non è altro che polpa di banana verde tostata e macinata. Il cucurucho, un dolce finissimo, è di cocco macinato e mescolato con arancia, ananas, papaya o miele, pasta che si avvolge nella fibra vegetale del cocco. La bola de cañon è come la patata ripiena, ma di banana acerba o matura. E il chorote non è altro che il conosciuto e apprezzato cioccolato ingrassato, questo sì, con amidi naturali.
Lo scriba e sua moglie hanno fatto un pranzo memorabile al Rancho Toa, sulla riva del fiume di questo nome, il più impetuoso di Cuba: ajiaco criollo, maiale arrosto allo spiedo, riso congrí, malanga e banane bollite e condite con un sughetto di cipolla...

Tra il sogno e la realtà

Degno di apprezzarsi da vicino e il miscuglio dei baracoensi. A differenza del resto del Paese, a Baracoa non vi furono grandi dotazioni di schiavi. Il bianco si è mescolato con discendenti di aborigeni e la forte presenza francese, a partire della Rivoluzione Haitiana, dette un altro tocco singolare. Dopo, già nel XX secolo, arriva a Cuba oltre mezzo milione di caraibici in cerca di lavoro come tagliatori di canna. Questa immigrazione, però, non arriva a Baracoa. Tutto questo origina una immobilità centenaria nella mescolanza, con caratteristiche specifiche che la distinguono dall’Avana e Santiago de Cuba.
Nel territorio sono radicate oltre 60 famiglie dal cognome francese. I loro antenati imposero alla città le loro mode e i loro usi, la lor filosofia e la loro letteratura controllando l’economia locale. Rivitalizzarono l’industria zuccheriera, che sparirà col tempo e introdussero nuove varietà nella semina del caffè.
Con lo sviluppo della banana (1902-1946) Baracoa tornò a conoscere un certo rifiorire per sommergersi nuovamente nella miseria e la disperazione quando le piaghe della pintadilla e la sigatoca rovinarono la maggior parte delle coltivazioni.
Nel pieno splendore bananifero, nel 1929, giunse in città la russa Magdalena Menasses. Suo padre, uno dei consiglieri dello zar venne fucilato, come il suo re, dopo la vittoria dell Rivoluzione di Ottobre. Lei vagò per il mondo fino ad arrivare a Cuba con suo marito Albert, pure russo, che dovette fuggire dal Paese in seguito all’attentato a Lenin, protagonizzato dalla terrorista Kaplan. Nessuno seppe mai perché si stabilirono a Baracoa, forse per sfuggire alla mano lunga del KGB. Ci riuscirono e lì stabilirono primam un caffè e poi un albergo che si mantiene tutt’ora aperto.
La si ricorda ancora come una “donna bivalente, doppia, sospetta”, come un essere “tratenuto tra il sogno e la realtà”. Alejo Carpentier la pres come riferimento quando concepì Vera, de La consagración de la primavera, uno dei personaggi più intriganti delle lettere cubane.

In un buon momento

Baracoa è un gioiello. Cayamba, “il trovatore dalla voce più brutta del mondo”, come lui stesso si definiva, chiamò la sua città “tesoro nascosto in uno scrigno di montagne”. L’immagine è giusta, ma incompleta. Perchè il tesoro sono anche le colline; i fiumi impetuosi che è possibile attraversare in canoa; il mare, la gente...
Sorprende il calore col quale si accoglie il visitatore in casa di qualsiasi contadino o pescatore. All’appena sopraggiunto non si dice “buon giorno” né “molto piacere” o “incantato”. Gli si dice solo: “in buon momento”. Ciò significa che l’arrivo è opportuno, ben ricevuto e che l’anfitrione è disposto a dividere il poco o tanto con chi lo visita.



Apuntes de viaje: Baracoa a buen tiempo
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
6 de Junio del 2015 20:38:40 CDT

Se dice que quien se baña una vez en las aguas del río Miel, no se
marcha nunca más de Baracoa. La afirmación, sin duda exagerada, sirve
para resaltar un hecho cierto: el que visite una vez esa ciudad de la
región oriental cubana, sentirá siempre el deseo de regresar. Estuve
allí por última vez en 1995 y, sin que pueda explicar los motivos, me
mataban las ganas de volver. Este reportaje fue solo un pretexto.
Situada a más de mil kilómetros del este de La Habana y a 250 de
Santiago de Cuba, Baracoa, que tiene 504 años de fundada, es la ciudad
primada de Cuba; como se lee en su escudo: «La primera en el tiempo».
Su nombre, en lengua de los primitivos pobladores de la región, quiere
decir, según unos, «tierra alta», y, para otros, «existencia de mar».
Dadas las características del lugar donde se ubicó, cualquiera de los
dos significados podría ser válido porque Baracoa está encajonada
entre el océano y las montañas que exhiben una vegetación tan
exuberante y lujuriosa.
Un escenario que, unido a la indolencia de los gobernantes coloniales
y republicanos, condicionó durante siglos el aislamiento de la zona,
su atraso cultural y una economía agrícola asentada en la tala de
árboles y los cultivos del plátano, el coco y, sobre todo, el cacao.
Hasta 1965, cuando se inauguró el viaducto La Farola, el territorio no
tuvo comunicación terrestre con el resto del país, salvo aquella que
podía hacerse a pie o en mulo por estrechos caminos de montaña. Como
si se tratase de una de las tantas isletas del archipiélago cubano, se
llegaba allí por mar, en una goleta que hacía el viaje desde Santiago
de Cuba. O en un avión destartalado que volaba dos veces al día
siempre que el tiempo lo permitiera. Así, decir Baracoa, al igual que
el Cabo de San Antonio, en el extremo occidental de la Isla, era
mentar el fin del mundo.
Se fundó en 1511 y fue durante cuatro años la capital de la Colonia,
pero cuando en 1518 se le concedió el título de ciudad, estaba ya
prácticamente despoblada. A partir de ahí y hasta el triunfo de la
Revolución en 1959 vivió abandonada a su suerte. Castigada por los
ciclones, las sublevaciones indígenas, los ataques de corsarios y
piratas y, más aún, por la indiferencia de los gobernantes, Baracoa se
convirtió en la Cenicienta de Oriente. La primera en el tiempo era
también la ciudad más preterida.

A lo lejos, el Yunque

La Farola es una elevación montañosa que impone y el viaducto que la
atraviesa una obra de envergadura: partió por su centro el macizo
Sagua-Baracoa, el más abrupto e intrincado de Cuba. Se le conceptúa
entre las siete maravillas de la ingeniería civil cubana.
Urgía construir el viaducto y por eso se adaptó a la topografía del
terreno. Se buscaron las pendientes menos peligrosas y se siguieron en
muchos tramos los trillos que utilizaban los campesinos. La solución
final fue la de partir del firme y aprovechar el apoyo de la ladera
para colocar las placas voladizas y los 11 puentes que cuelgan de la
montaña sostenidos por columnas. La obra concluyó en 18 meses y desde
entonces Baracoa, capital del municipio del mismo nombre —921
kilómetros cuadrados y 80 000 habitantes; el 57 por ciento de los
cuales vive en zonas rurales— estuvo al fin, como quien dice, al
alcance de la mano.
El Yunque, a lo lejos, domina el paisaje. Es una montaña cuya forma se
supone trazada por la erosión de las aguas del río Toa —el más
caudaloso de Cuba— y sus afluentes. Cristóbal Colón lo menciona en su
Diario de navegación. Llama a El Yunque «montaña alta y cuadrada que
parecía isla».

Reserva y patrimonio mundiales

Es, dicen los navegantes, un faro natural. El Yunque se divisa a gran
distancia mar adentro y sirve de guía a los marinos que buscan llegar
a Baracoa. Sus laderas, cubiertas de bosques son el hábitat de no
pocas especies endémicas y en ellas se han encontrado numerosos restos
arqueológicos taínos, etnia con una fuerte presencia en la zona.
En una metáfora visual dada a conocer por The Natura Conservancy, una
publicación científica norteamericana, se sugiere que si el tamaño de
un país lo determinara su biodiversidad, Cuba tendría entonces una
extensión territorial mayor que toda Norteamérica y dejaría pequeños a
la América Latina y el Caribe. El peso mayor de esa afirmación
hipotética, según los especialistas, lo decidiría Baracoa, región que
reporta el endemismo mayor de la flora y la fauna del archipiélago
cubano. Por eso Baracoa y la región geográfica donde se encuentra, las
llamadas Cuchillas del Toa, son Reserva Mundial de la Biosfera y
Patrimonio de la Humanidad.
El bosque pluvial alterna allí con el chascarral y el pino cubano y
guarda más de cien especies autóctonas, entre otras, algunas
cocotrinas, el ocuje colorado y tres de los cuatro tipos de palmas
cubanas. Es el último reducto del carpintero real, amenazado de
extinción, y del almiquí, fósil viviente igualmente en peligro. Muy
rica es su variedad de vertebrados. Y es también el ámbito exclusivo
de la polymita, pequeño caracol de gran belleza y colorido sin igual,
único en el mundo.

La cruz de la parra

Una estancia en Santiago de Cuba propició que el escribidor saltara a
Baracoa. Un viaje de cuatro horas por carretera. La ciudad primada es
alargada y estrecha. Vista en el mapa, causa la impresión de un alero
que le sale al malecón de la ciudad, en extensión el tercero del país,
 superado por los de La Habana y Cienfuegos.  Las casas, por lo
general, son de puntal alto, con techos a dos aguas y tejas francesas.
Las ventanas son  españolas. La mayoría de las edificaciones no son
muy antiguas, pero la ciudad sí mantiene el trazado colonial de sus
calles y plazas. Se remozaron numerosas viviendas. Nueva vida otorga a
la ciudad el bulevar, al que se asoman comercios privados que, junto
con el turismo, contribuyen a la renovación del territorio. Un nuevo
hotel se construyó en el malecón.
En ambos extremos de la villa se levantan sendas fortalezas
coloniales. La de Matachín, en la bahía de Miel, y La Punta, en la
ensenada de Porto Santo. Ambos baluartes complementan al castillo de
Seboruco, que se erige un poco retirado de la costa, sobre una loma de
unos 40 metros de altura.
Cuando la capital de la Isla pasó a Santiago de Cuba, Baracoa cayó en
un olvido del que emergió en el siglo XVIII cuando, por razones de
geopolítica, adquirió valor estratégico. Fue entonces, entre 1739 y
1743, que se construyeron los tres fuertes antes mencionados y la
ciudad pasó a ser el territorio mejor defendido de la colonia después
de La Habana.
El Museo Municipal, instalado en el fuerte Matachín, merece una
visita. Al igual que la iglesia de Nuestra Señora de la Asunción de
Baracoa. En este templo se conserva el símbolo más antiguo de la
cristiandad en la América, la llamada Cruz de la Parra, una de las
veintitantas que dejó Colón en su primer viaje y la única que ha
llegado a nosotros. Fue confeccionada con madera de uvilla, un árbol
americano, y las pruebas de carbono 14 le confirman una antigüedad que
se corresponde con el descubrimiento del Nuevo Mundo. Sus cuatro
extremos hubo que forrarlos con latón plateado para evitar que los
feligreses arrancaran astillas para llevarlas de recuerdo. Hasta el
dictador Fulgencio  Batista, en su momento, agarró su pedacito.

Arroz con coco

Todavía se escuchan y se bailan en Baracoa el nengón y el kiribá, dos
de las formas más remotas del son tradicional cubano. Hay allí un
fuerte movimiento de cultura popular.  Es muy extendida una artesanía
que trabaja en exclusiva los recursos naturales. Abundan los
talladores de madera y los pintores naif.
Hay en Baracoa una cocina original que apenas se conoce en el resto
del país. Al arroz con coco los baracoesos lo tienen como un plato
típico, aunque se come además en Barranquilla,  Cartagena de Indias y
otras ciudades caribes. Es un plato delicadísimo como lo son asimismo
los pescados y mariscos cocinados en salsa de coco. Para confeccionar
dicha salsa, se muele la masa del fruto y se exprime luego con un paño
fino. Se le añade después  achote (bija),  culantro, cebolla, ají
picante, orégano y su punto de sal y se pone a fuego lento hasta que
espese y se obtenga la salsa.
El bacán es el pastel en hojas de Santo Domingo, pero en Baracoa —y en
eso está la diferencia— se cocina con leche de coco. Es como el tamal
tradicional, pero utiliza plátano en vez de maíz. Esa leche da un
toque peculiar al calalú, comida de santos y de dioses que se elabora
allí como en cualquier parte, con los tallos de todos los tubérculos.
El frangollo no es más que la masa de plátano verde tostado y molido.
El cucurucho, un dulce finísimo, es de coco molido y mezclado con
naranja, piña, papaya o miel, masa que se envuelve en la fibra vegetal
del coco. La bola de cañón es como la papa rellena, pero de plátano
pintón o maduro. Y el chorote no es más que el conocido y gustado
chocolate, engordado, eso sí, con almidones naturales.
El escribidor y su esposa hicieron un almuerzo memorable en Rancho
Toa, a orillas del río de ese nombre, el más caudaloso de Cuba: ajiaco
criollo, puerco asado en púa, arroz congrí, malanga y plátanos
hervidos y aliñados con un mojo de cebolla…

Entre el sueño y la vida

Digno de apreciarse de cerca es el mestizaje del baracoeso. A
diferencia del resto del país, no hubo en Baracoa grandes dotaciones
de esclavos. El blanco se mezcló con descendientes de aborígenes, y la
fuerte presencia francesa, a partir de la Revolución Haitiana, dio
otro toque singular. Luego, ya en el siglo XX, vienen a Cuba más de
medio millón de caribeños en busca de trabajo como macheteros en los
cortes de caña. Pero esa migración no llega a Baracoa. Todo eso
origina una inmovilidad centenaria en el mestizaje, con
características y especificidades que lo distinguen y diferencian del
de La Habana y Santiago de Cuba.
Más de 60 familias con apellidos franceses radican hoy en el
territorio. Sus antepasados impusieron en la villa sus modas y sus
costumbres, su filosofía y su literatura, y controlaron la economía
local. Revitalizaron la industria azucarera, que desaparecería con el
tiempo, e introdujeron nuevas variedades en la siembra del café.
Con el auge del banano (1902-1946) volvió Baracoa a conocer de cierto
florecimiento para sumirse de nuevo en la miseria y la desesperanza
cuando las plagas de la pintadilla y la sigatoca arruinaron la mayor
parte de los cultivos.
En pleno esplendor bananero, en 1929, llegó a la ciudad la rusa
Magdalena Menasses. Su padre, uno de los consejeros del zar, fue
fusilado, al igual que su rey, tras el triunfo de la Revolución de
Octubre. Peregrinó ella por el mundo hasta llegar a Cuba junto con su
esposo Albert, también ruso, que tuvo que huir de su país cuando fue
involucrado en el atentado a Lenin que protagonizó la terrorista
Kaplan. Nadie supo nunca por qué se asentaron en Baracoa, quizá para
librarse del brazo largo de la KGB. Lo lograron y allí establecieron
primero un café y luego un hotel que aún se mantiene abierto.
Todavía se le recuerda en la cuidad como una mujer «ambivalente, dual,
sospechosa», como un ser «detenido entre el sueño y la vida». Alejo
Carpentier la tomó de referente cuando concibió a la Vera de La
consagración de la primavera, uno de los personajes más subyugantes de
las letras cubanas.

A buen tiempo

Baracoa es una joya. Cayamba, «el trovador de la voz más fea del
mundo», como él mismo se identificaba, llamó a su ciudad «tesoro
escondido en un cofre de montañas». La imagen es justa, pero
incompleta. Porque el tesoro es también el lomerío; los ríos
caudalosos, que es posible transitar en cayuca; el mar y la gente…
Sorprende el calor con que se acoge al visitante en la casa de
cualquier campesino o pescador. No se le dice al recién llegado
«buenos días» ni «mucho gusto» ni «encantado». Se le dice solo: «A
buen tiempo». Lo que significa que la llegada es oportuna, bien
recibida y que el anfitrión está dispuesto a compartir lo mucho o lo
poco con quien lo visita.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/



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