Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/6/15
Si dice che chi si bagna
nelle acque deli río Miel, non se ne andrà mai da Baracoa. L’affermazione,
indubbiamente esagerata, serve per dare risalto a un fatto sicuro: colui che
visiti questa città della regione orientale cubana, avrà sempre il desiderio di
tornarci. Sono stato lì per l’ultima volta nel 1995 e senza che possa spiegare
il motivo, avevo una voglia matta di tornare. Questo reportage è stato solo un
pretesto. Situata a oltre mille chilometri all’est dell’Avana e a 250 da
Santiago de Cuba Baracoa, fondata 504 anni fa, è la prima città di Cuba; come
si legge nel suo scudo: “La prima nel tempo”. Il suo nome, nella lingua dei
primi abitanti della regione, secondo alcuni vuol dire “terra alta” e per altri
“esistenza del mare”.
Date le caratteristiche del
luogo dove si edificò. Qualunque dei due significati potrebbe essere valido
perché Baracoa è incastonata fra l’oceano e le montagne che esibiscono una
vegetazione esuberante e lussureggiante.
Uno scenario che unito
all’indolenza dei governanti coloniali e repubblicani, condizionò per secoli
l’isolamento della zona, il suo ritardo culturale e un’economia agricola
ridotta al taglio di alberi, coltivazione di banana e cocco, ma sopratutto il
cacao.
Fino al 1965, quando si
inaugurò il viadotto de La Farola, il territorio non aveva comunicazione via
terra col resto del Paese, salvo quella che si poteva fare a piedi o col mulo
per stretti sentieri di montagna. Come se si trattasse di una delle tante
isolette dell’arcipelago cubano, vi si arrivava per mare, in una goletta che
faceva il viaggio da Santiago de Cuba. Oppure in un aeroplano sgangherato che
volava due volte al giorno, sempre che il tempo lo permettesse. Così dire
Baracoa, come Cabo San Antonio, all’altro estremo occidentale dell’Isola, era
come menzionare la fine del mondo.
Fu fondata nel 1511 e per
quattro anni fu la capitale della Colonia, ma quando nel 1518 le si concesse il
titolo di città, era già praticamente disabitata. A partire da lì e fino alla
vittoria della Rivoluzione nel 1959, visse abbandonata alla sorte. Castigata
dai cicloni, le sollevazioni indigene, gli attacchi di corsari e pirati e
ancora, per l’indifferenza dei governanti, Baracoa si convertì nella
Cenerentola di Oriente. La prima nel tempo era anche la città più abbandonata.
Da
lontano del Yunque
La Farola è un’elevazione
montagnosa imponente e il viadotto che l’attraversa, un’opera d’impegno: ha
diviso nel centro il massiccio Sagua-Baracoa, il più folto e intricato di Cuba.
Lo si inserisce fra le sette meraviglie dell’igegneria civile cubana.
Era urgente costruire il
viadotto e per questo si adattò alla topografia del terreno. Si cercarono le
pendenze meno pericolose e si seguirono per lunghi tratti i passaggi che
utilizzavano i contadini. La soluzione finale fu quella di cominciare dal
terrreno solido e approfittare dell’appoggio del fianco per collocare lastre
aeree e gli 11 ponti che pendono dalla montagna sostenuti da colonne. L’opera
si concluse in 18 mesi e da allora Baracoa, capitale del municipio omonimo –
921 km quadrati e 80.000 abitanti; il 57% dei quali vive in zone rurali – fu
finalmente, come suol dirsi, a portata di mano.
El Yunque, da lontano,
domina il paesaggio. È una montagna la cui forma si presume tracciata
dall’erosione delle acque del fiume Toa – il più impetuoso di Cuba – e dei suoi
affluenti. Cristoforo Colombo lo menziona nel suo Diario di bordo. Chiama El
Yunque “montagna alta e quadrata che sembrava un’isola”.
Riserva
e patrimonio mondiali
È, dicono i naviganti, un
faro naturale. El Yunque si avvista a gran distanza dal mare e serve da guida
ai marinai che cercano di arrivare a Baracoa. I suoi fianchi, coperti di
boschi, sono l’habitat di non poche specie endemiche e in essi si sono trovati
numerosi resti archeologici taínos, etnia con una forte presenza nella zona.
In una metafora visiva fatta
conoscere da The Natura Conservancy, una pubblicazione scentifica
nordamericana, si suppone che la dimensione di un Paese lo determinerebbe la
sua biodiversità. Cuba allora avrebbe un’estensione territoriale maggiore che
tutta l’America del nord e lascerebbe piccoli l’America Latina e i Caraibi. Il
peso maggiore di questa affermazione ipotetica, secondo gli specialisti, lo
deciderebbe Baracoa, regione che riporta la maggior endemicità di flora e fauna
dell’arcipelago cubano. Per questo Baracoa e la regione geografica in cui si
trova, le cosiddette Cuchillas del Toa, sono Riserva Mondiale della Biosfera e
Patrimonio dell’Umanità.
Il bosco pluviale si alterna
con il chascarral (pianta endemica)
n.d.t.) e il pino cubano e conserva oltre cento specie autoctone, fra le altre
alcune cocotrinas, l’ocuje
colorado e tre dei quattro tipi di palme cubane. È l’ultimo rifugio del
picchio reale, minacciato d’estinzione e dell’almiquì, fossile vivente ugualmente in pericolo. Molto ricca é la
sua varietà di vertebrati. È anche l’ambiente esclusivo della polymita, piccola chiocciola di grande
bellezza e colori senza uguali, unica al mondo.
La
croce della vite
Un soggiorno a Santiago de
Cuba propiziò che lo scriba saltasse a Baracoa. Un viaggio di quattro ore per
strada. La prima città è lunga e stretta. Vista sulla carta fa l’impressione di
una gronda che esce sul lungomare della città, per estensione la terza del
Paese, superata dall’Avana e Cienfuegos. Le case, generalmente, sono dai
soffitti alti, con tetti spioventi e tegole francesi. Le finestre sono
spagnole. La maggior parte delle edificazioni non sono molto antiche, ma la
città mantiene il tracciato coloniale della sue strade e piazze. Si sono
ristrutturate molte abitazioni. Il boulevard dona nuova vita alla città, su di
esso si affacciano commerci privati che assieme al turismo, contribuiscono al
rinnovamento del territorio. Un albergo nuovo è stato costruito sul lungomare.
Ai due estremi della città
sorgono imponenti fortezze coloniali. Quella di Matachín, nella baia de Miel e
La Punta, nell’insenatura di Porto Santo. Entrambi baluardi sono complemento
del castello di Seboruco, che si erge un po’ all’interno della costa, su una
collina di una quarantina di metri di altezza.
Quando la capitale
dell’Isola passò a Santiago de Cuba, Baracoa cadde in una dimenticanza dalla
quale emerse nel XVIII quando, per ragioni di geopolitica, acquisì valore
strategico. Fu allora, tra il 1739 e il 1743 che si costruirono i tre fortini
menzionati e la città divenne, poi, il territorio meglio difeso della colonia
dopo l’Avana.
Il Museo Municipale,
installato nel forte Matachín, merita una visita. Come la chiesa di Nostra
Signora dell’Assunzione di Baracoa. In questo tempio si conserva il simbolo più
antico della cristianità in America, La cosiddetta Croce della Vite, una delle
oltre venti che lasciò Colombo nel suo primo viaggio e l’unica che è giunta a
noi. Fu confezionata in legno di uvetta, un albero americano e le prove di
carbonio 14 le confermano un’antichità che corrisponde con la scoperta del
Nuovo Mondo. Le sue quattro estremità si dovettero foderare con latta argentata
per evitare che i fedeli strappassero delle schegge per tenerle di ricordo.
Perfino il dittatore Fulgencio Batista, al suo momento, prese il suo
pezzettino.
Riso
col cocco
A Baracoa si ascoltano e si
ballano ancora il nengón e il kiribá, due delle maniere più remote del son tradizionale cubano. Vi è unforte movimento della cultura
popolare. È molto diffuso un artigianato che lavora esclusivamente risorse
naturali. Abbondano gli intagliatori del legno e i pittori naif.
A Baracoa c’è una cucina
originale che si conosce appena nel resto del Paese. Il riso col cocco i
baracoensi lo hanno come piatto tipico anche se, come a Barranquilla, Cartagena
de Indias e altre città dei Caraibi. È un piatto delicatissimo, così come lo
sono i pesci e frutti di mare cucinati in salsa di cocco. Per confezionare
detta salsa, si macina la polpa del frutto e poi si spreme con un panno
sottile. Poi le si aggiunge prezzemolo, silantro, cipolla, peperoncino
piccante, origano, sale e si mette a fuoco lento fino a che si ispessisce e si
ottenga la salsa.
La suprema è la tortina in
foglie di Santo Domingo, ma a Baracoa – e quì sta la differenza – si cucina con
latte di cocco. È come un tamal
tradizionale, ma si utilizza la banana invece del mais. Questo latte da un
tocco peculiare al calalú, cibo dei
santi e degli dei che si elabora come in qualsiasi parte, con i germogli di
tutti i tubercoli. Il frangollo non
è altro che polpa di banana verde tostata e macinata. Il cucurucho, un dolce finissimo, è di cocco macinato e mescolato con
arancia, ananas, papaya o miele, pasta che si avvolge nella fibra vegetale del
cocco. La bola de cañon è come la
patata ripiena, ma di banana acerba o matura. E il chorote non è altro che il conosciuto e apprezzato cioccolato
ingrassato, questo sì, con amidi naturali.
Lo scriba e sua moglie hanno
fatto un pranzo memorabile al Rancho Toa, sulla riva del fiume di questo nome,
il più impetuoso di Cuba: ajiaco criollo,
maiale arrosto allo spiedo, riso congrí,
malanga e banane bollite e condite
con un sughetto di cipolla...
Tra
il sogno e la realtà
Degno di apprezzarsi da
vicino e il miscuglio dei baracoensi. A differenza del resto del Paese, a
Baracoa non vi furono grandi dotazioni di schiavi. Il bianco si è mescolato con
discendenti di aborigeni e la forte presenza francese, a partire della
Rivoluzione Haitiana, dette un altro tocco singolare. Dopo, già nel XX secolo,
arriva a Cuba oltre mezzo milione di caraibici in cerca di lavoro come
tagliatori di canna. Questa immigrazione, però, non arriva a Baracoa. Tutto
questo origina una immobilità centenaria nella mescolanza, con caratteristiche
specifiche che la distinguono dall’Avana e Santiago de Cuba.
Nel territorio sono radicate
oltre 60 famiglie dal cognome francese. I loro antenati imposero alla città le
loro mode e i loro usi, la lor filosofia e la loro letteratura controllando
l’economia locale. Rivitalizzarono l’industria zuccheriera, che sparirà col
tempo e introdussero nuove varietà nella semina del caffè.
Con lo sviluppo della banana
(1902-1946) Baracoa tornò a conoscere un certo rifiorire per sommergersi
nuovamente nella miseria e la disperazione quando le piaghe della pintadilla e la sigatoca rovinarono la maggior parte delle coltivazioni.
Nel pieno splendore
bananifero, nel 1929, giunse in città la russa Magdalena Menasses. Suo padre,
uno dei consiglieri dello zar venne fucilato, come il suo re, dopo la vittoria
dell Rivoluzione di Ottobre. Lei vagò per il mondo fino ad arrivare a Cuba con
suo marito Albert, pure russo, che dovette fuggire dal Paese in seguito all’attentato
a Lenin, protagonizzato dalla terrorista Kaplan. Nessuno seppe mai perché si
stabilirono a Baracoa, forse per sfuggire alla mano lunga del KGB. Ci
riuscirono e lì stabilirono primam un caffè e poi un albergo che si mantiene
tutt’ora aperto.
La si ricorda ancora come
una “donna bivalente, doppia, sospetta”, come un essere “tratenuto tra il sogno
e la realtà”. Alejo Carpentier la pres come riferimento quando concepì Vera, de
La consagración de la primavera, uno
dei personaggi più intriganti delle lettere cubane.
In un buon momento
Baracoa è un gioiello.
Cayamba, “il trovatore dalla voce più brutta del mondo”, come lui stesso si
definiva, chiamò la sua città “tesoro nascosto in uno scrigno di montagne”.
L’immagine è giusta, ma incompleta. Perchè il tesoro sono anche le colline; i
fiumi impetuosi che è possibile attraversare in canoa; il mare, la gente...
Sorprende il calore col
quale si accoglie il visitatore in casa di qualsiasi contadino o pescatore.
All’appena sopraggiunto non si dice “buon giorno” né “molto piacere” o
“incantato”. Gli si dice solo: “in buon momento”. Ciò significa che l’arrivo è
opportuno, ben ricevuto e che l’anfitrione è disposto a dividere il poco o
tanto con chi lo visita.
Apuntes de viaje:
Baracoa a buen tiempo
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
6 de Junio del 2015 20:38:40 CDT
Se dice que quien se baña una vez en las aguas
del río Miel, no se
marcha nunca más de Baracoa. La afirmación, sin
duda exagerada, sirve
para resaltar un hecho cierto: el que visite una
vez esa ciudad de la
región oriental cubana, sentirá siempre el deseo
de regresar. Estuve
allí por última vez en 1995 y, sin que pueda
explicar los motivos, me
mataban las ganas de volver. Este reportaje fue
solo un pretexto.
Situada a más de mil kilómetros del este de La
Habana y a 250 de
Santiago de Cuba, Baracoa, que tiene 504 años de
fundada, es la ciudad
primada de Cuba; como se lee en su escudo: «La
primera en el tiempo».
Su nombre, en lengua de los primitivos
pobladores de la región, quiere
decir, según unos, «tierra alta», y, para otros,
«existencia de mar».
Dadas las características del lugar donde se
ubicó, cualquiera de los
dos significados podría ser válido porque
Baracoa está encajonada
entre el océano y las montañas que exhiben una
vegetación tan
exuberante y lujuriosa.
Un escenario que, unido a la indolencia de los
gobernantes coloniales
y republicanos, condicionó durante siglos el
aislamiento de la zona,
su atraso cultural y una economía agrícola
asentada en la tala de
árboles y los cultivos del plátano, el coco y,
sobre todo, el cacao.
Hasta 1965, cuando se inauguró el viaducto La
Farola, el territorio no
tuvo comunicación terrestre con el resto del
país, salvo aquella que
podía hacerse a pie o en mulo por estrechos
caminos de montaña. Como
si se tratase de una de las tantas isletas del
archipiélago cubano, se
llegaba allí por mar, en una goleta que hacía el
viaje desde Santiago
de Cuba. O en un avión destartalado que volaba
dos veces al día
siempre que el tiempo lo permitiera. Así, decir
Baracoa, al igual que
el Cabo de San Antonio, en el extremo occidental
de la Isla, era
mentar el fin del mundo.
Se fundó en 1511 y fue durante cuatro años la
capital de la Colonia,
pero cuando en 1518 se le concedió el título de
ciudad, estaba ya
prácticamente despoblada. A partir de ahí y
hasta el triunfo de la
Revolución en 1959 vivió abandonada a su suerte.
Castigada por los
ciclones, las sublevaciones indígenas, los
ataques de corsarios y
piratas y, más aún, por la indiferencia de los
gobernantes, Baracoa se
convirtió en la Cenicienta de Oriente. La
primera en el tiempo era
también la ciudad más preterida.
A lo
lejos, el Yunque
La Farola es una elevación montañosa que impone
y el viaducto que la
atraviesa una obra de envergadura: partió por su
centro el macizo
Sagua-Baracoa, el más abrupto e intrincado de
Cuba. Se le conceptúa
entre las siete maravillas de la ingeniería
civil cubana.
Urgía construir el viaducto y por eso se adaptó
a la topografía del
terreno. Se buscaron las pendientes menos
peligrosas y se siguieron en
muchos tramos los trillos que utilizaban los
campesinos. La solución
final fue la de partir del firme y aprovechar el
apoyo de la ladera
para colocar las placas voladizas y los 11
puentes que cuelgan de la
montaña sostenidos por columnas. La obra
concluyó en 18 meses y desde
entonces Baracoa, capital del municipio del mismo
nombre —921
kilómetros cuadrados y 80 000 habitantes; el 57
por ciento de los
cuales vive en zonas rurales— estuvo al fin,
como quien dice, al
alcance de la mano.
El Yunque, a lo lejos, domina el paisaje. Es una
montaña cuya forma se
supone trazada por la erosión de las aguas del
río Toa —el más
caudaloso de Cuba— y sus afluentes. Cristóbal
Colón lo menciona en su
Diario de navegación. Llama a El Yunque «montaña
alta y cuadrada que
parecía isla».
Reserva y
patrimonio mundiales
Es, dicen los navegantes, un faro natural. El Yunque se divisa a gran
distancia mar adentro y sirve de guía a los
marinos que buscan llegar
a Baracoa. Sus laderas, cubiertas de bosques son
el hábitat de no
pocas especies endémicas y en ellas se han
encontrado numerosos restos
arqueológicos taínos, etnia con una fuerte
presencia en la zona.
En una metáfora visual dada a conocer por The
Natura Conservancy, una
publicación científica norteamericana, se
sugiere que si el tamaño de
un país lo determinara su biodiversidad, Cuba
tendría entonces una
extensión territorial mayor que toda
Norteamérica y dejaría pequeños a
la América Latina y el Caribe. El peso mayor de
esa afirmación
hipotética, según los especialistas, lo
decidiría Baracoa, región que
reporta el endemismo mayor de la flora y la
fauna del archipiélago
cubano. Por eso Baracoa y la región geográfica
donde se encuentra, las
llamadas Cuchillas del Toa, son Reserva Mundial
de la Biosfera y
Patrimonio de la Humanidad.
El bosque pluvial alterna allí con el chascarral
y el pino cubano y
guarda más de cien especies autóctonas, entre
otras, algunas
cocotrinas, el ocuje colorado y tres de los
cuatro tipos de palmas
cubanas. Es el último reducto del carpintero
real, amenazado de
extinción, y del almiquí, fósil viviente
igualmente en peligro. Muy
rica es su variedad de vertebrados. Y es también
el ámbito exclusivo
de la polymita, pequeño caracol de gran belleza
y colorido sin igual,
único en el mundo.
La cruz
de la parra
Una estancia en Santiago de Cuba propició que el
escribidor saltara a
Baracoa. Un viaje de cuatro horas por carretera.
La ciudad primada es
alargada y estrecha. Vista en el mapa, causa la
impresión de un alero
que le sale al malecón de la ciudad, en
extensión el tercero del país,
superado por los de La Habana y
Cienfuegos. Las casas, por lo
general, son de puntal alto, con techos a dos
aguas y tejas francesas.
Las ventanas son españolas. La mayoría de
las edificaciones no son
muy antiguas, pero la ciudad sí mantiene el
trazado colonial de sus
calles y plazas. Se remozaron numerosas
viviendas. Nueva vida otorga a
la ciudad el bulevar, al que se asoman comercios
privados que, junto
con el turismo, contribuyen a la renovación del
territorio. Un nuevo
hotel se construyó en el malecón.
En ambos extremos de la villa se levantan sendas
fortalezas
coloniales. La de Matachín, en la bahía de Miel,
y La Punta, en la
ensenada de Porto Santo. Ambos baluartes
complementan al castillo de
Seboruco, que se erige un poco retirado de la
costa, sobre una loma de
unos 40 metros de altura.
Cuando la capital de la Isla pasó a Santiago de
Cuba, Baracoa cayó en
un olvido del que emergió en el siglo XVIII
cuando, por razones de
geopolítica, adquirió valor estratégico. Fue
entonces, entre 1739 y
1743, que se construyeron los tres fuertes antes
mencionados y la
ciudad pasó a ser el territorio mejor defendido
de la colonia después
de La Habana.
El Museo Municipal, instalado en el fuerte
Matachín, merece una
visita. Al igual que la iglesia de Nuestra
Señora de la Asunción de
Baracoa. En este templo se conserva el símbolo
más antiguo de la
cristiandad en la América, la llamada Cruz de la
Parra, una de las
veintitantas que dejó Colón en su primer viaje y
la única que ha
llegado a nosotros. Fue confeccionada con madera
de uvilla, un árbol
americano, y las pruebas de carbono 14 le
confirman una antigüedad que
se corresponde con el descubrimiento del Nuevo
Mundo. Sus cuatro
extremos hubo que forrarlos con latón plateado
para evitar que los
feligreses arrancaran astillas para llevarlas de
recuerdo. Hasta el
dictador Fulgencio Batista, en su momento,
agarró su pedacito.
Arroz con
coco
Todavía se escuchan y se bailan en Baracoa el
nengón y el kiribá, dos
de las formas más remotas del son tradicional
cubano. Hay allí un
fuerte movimiento de cultura popular. Es
muy extendida una artesanía
que trabaja en exclusiva los recursos naturales.
Abundan los
talladores de madera y los pintores naif.
Hay en Baracoa una cocina original que apenas se
conoce en el resto
del país. Al arroz con coco los baracoesos lo
tienen como un plato
típico, aunque se come además en
Barranquilla, Cartagena de Indias y
otras ciudades caribes. Es un plato delicadísimo
como lo son asimismo
los pescados y mariscos cocinados en salsa de
coco. Para confeccionar
dicha salsa, se muele la masa del fruto y se
exprime luego con un paño
fino. Se le añade después achote
(bija), culantro, cebolla, ají
picante, orégano y su punto de sal y se pone a
fuego lento hasta que
espese y se obtenga la salsa.
El bacán es el pastel en hojas de Santo Domingo,
pero en Baracoa —y en
eso está la diferencia— se cocina con leche de
coco. Es como el tamal
tradicional, pero utiliza plátano en vez de
maíz. Esa leche da un
toque peculiar al calalú, comida de santos y de
dioses que se elabora
allí como en cualquier parte, con los tallos de
todos los tubérculos.
El frangollo no es más que la masa de plátano
verde tostado y molido.
El cucurucho, un dulce finísimo, es de coco
molido y mezclado con
naranja, piña, papaya o miel, masa que se
envuelve en la fibra vegetal
del coco. La bola de cañón es como la papa
rellena, pero de plátano
pintón o maduro. Y el chorote no es más que el
conocido y gustado
chocolate, engordado, eso sí, con almidones
naturales.
El escribidor y su esposa hicieron un almuerzo
memorable en Rancho
Toa, a orillas del río de ese nombre, el más
caudaloso de Cuba: ajiaco
criollo, puerco asado en púa, arroz congrí,
malanga y plátanos
hervidos y aliñados con un mojo de cebolla…
Entre el sueño y la vida
Digno de apreciarse de cerca es el mestizaje del
baracoeso. A
diferencia del resto del país, no hubo en
Baracoa grandes dotaciones
de esclavos. El blanco se mezcló con
descendientes de aborígenes, y la
fuerte presencia francesa, a partir de la
Revolución Haitiana, dio
otro toque singular. Luego, ya en el siglo XX,
vienen a Cuba más de
medio millón de caribeños en busca de trabajo
como macheteros en los
cortes de caña. Pero esa migración no llega a
Baracoa. Todo eso
origina una inmovilidad centenaria en el
mestizaje, con
características y especificidades que lo
distinguen y diferencian del
de La Habana y Santiago de Cuba.
Más de 60 familias con apellidos franceses
radican hoy en el
territorio. Sus antepasados impusieron en la
villa sus modas y sus
costumbres, su filosofía y su literatura, y
controlaron la economía
local. Revitalizaron la industria azucarera, que
desaparecería con el
tiempo, e introdujeron nuevas variedades en la
siembra del café.
Con el auge del banano (1902-1946) volvió
Baracoa a conocer de cierto
florecimiento para sumirse de nuevo en la
miseria y la desesperanza
cuando las plagas de la pintadilla y la sigatoca
arruinaron la mayor
parte de los cultivos.
En pleno esplendor bananero, en 1929, llegó a la
ciudad la rusa
Magdalena Menasses. Su padre, uno de los
consejeros del zar, fue
fusilado, al igual que su rey, tras el triunfo
de la Revolución de
Octubre. Peregrinó ella por el mundo hasta
llegar a Cuba junto con su
esposo Albert, también ruso, que tuvo que huir
de su país cuando fue
involucrado en el atentado a Lenin que
protagonizó la terrorista
Kaplan. Nadie supo nunca por qué se asentaron en
Baracoa, quizá para
librarse del brazo largo de la KGB. Lo lograron
y allí establecieron
primero un café y luego un hotel que aún se
mantiene abierto.
Todavía se le recuerda en la cuidad como una
mujer «ambivalente, dual,
sospechosa», como un ser «detenido entre el
sueño y la vida». Alejo
Carpentier la tomó de referente cuando concibió
a la Vera de La
consagración de la primavera, uno de los
personajes más subyugantes de
las letras cubanas.
A buen
tiempo
Baracoa es una joya. Cayamba, «el trovador de la
voz más fea del
mundo», como él mismo se identificaba, llamó a
su ciudad «tesoro
escondido en un cofre de montañas». La imagen es
justa, pero
incompleta. Porque el tesoro es también el
lomerío; los ríos
caudalosos, que es posible transitar en cayuca;
el mar y la gente…
Sorprende el calor con que se acoge al visitante
en la casa de
cualquier campesino o pescador. No se le dice al
recién llegado
«buenos días» ni «mucho gusto» ni «encantado».
Se le dice solo: «A
buen tiempo». Lo que significa que la llegada es
oportuna, bien
recibida y que el anfitrión está dispuesto a
compartir lo mucho o lo
poco con quien lo visita.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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