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lunedì 30 settembre 2013

Mosaico della domenica, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 29/09/13

Mosaico della domenica

Il cine Fedora si trovava all’angolo di Belascoaín e San Miguel, in Centro Avana. Ma non è proprio la sua programmazione quello che fa interessante e degna di memoria questa sala cinematografica. Se la rievochiamo adesso è perché li ci lavorò, per un certo tempo, il pianista e compositore Ernesto Lecuona.
Si dice che, dopo la morte di suo padre, il musicista si vide obbligato a guadagnarsi la vita suonando in questo cine dove, inoltre, dirigeva l’orchestra e tra una pellicola e l’altra faceva qualche “a solo” di piano. La faccenda più interessante è che questo succedeva quando l’artista aveva solo 12 anni.
Lecuona non suonò solo nel Fedora. Lo fece anche in altre sale cinematografiche come Parisién, Norma, Turín Téstar...tutte all’Avana. Era il periodo in cui cominciava a farsi conoscere con piccole messe in scena che debuttavano nel teatro Martí.
Ebbene, Hubert de Blanck, che fu suo professore, cominciò a preoccuparsi per quelle attività di Lecuona. Pensava, giustamente, che sprecasse il suo talento. Aveva paura che l’adolescente, dotato di doti straordinarie per la musica e che poteva avere una grande carriera pianistica, si sminuisse e svilisse in quei lavoretti. Hubert de Blanck parlò con la madre di Lecuona. Le disse che era necessario distoglierlo da quelle attività triviali. La madre comprese la situazione e, a costo di grandi sacrifici, accettò il suggerimento del famoso compositore e pianista.
Dicono che molti anni dopo, già al vertice della sua fama, Lecuona ricordava emozionato la fede di sua madre e insisteva ad affermare che tutto ciò che lui era, lo doveva a lei.

Rita e il pepe di Guinea

Lo raccontava il compositore Gilberto Valdés.
Si rappresentava un concerto con la sua musica e invitò Rita Montaner perché intrpretasse qualcuno dei suoi pezzi, però lei si rifiutò dato che nel programma, che era già stato fatto, c’era una figura che le dava fastidio. Scrisse una lettera a Valdés esprimendo il suo rifiuto. Il compositore cercò di convincerla, ma lei mantenne il suo no. Pertanto non rimase come alternativa che contrattare un’altra interprete.
Valdés volle che fosse Hortensia Coalla, ma la Coalla si fece pregare perché, nonostante fosse mulatta, le dava fastidio la pronuncia che esigevano certi passaggi della composizione di Valdés. Per esempio dire “los negros están de fieta...” invece che “los negros están de fiesta...”, ecc. La Coalla, ricordava Valdés, voleva essere bianca, più bianca di chiunque, aveva ossessione di ciò, ma alla fine si convinse e decise di partecipare al concerto interpretando Tambor.
Rita fu alla funzione come spettatrice. Giunse e si sedette in una poltroncina vicina al posto che occupavano Antonio Beruff Mendieta, sindaco dell’Avana, e il musicologo spagnolo Adolfo Salazar che lo accompagnava. E qua viene il bello. Venne il momento di Hortensia Coalla. Uscì sulla scena e l’orchestra, con direzione di Gilberto Valdés iniziò le prime battute di Tambor. Rita, dalla sua poltrona, disse. “Adesso vedrete come si canta questo”. Si dette questa situazione: Valdés con l’orchestra da una parte, Rita cantando dalla platea e la Coalla sulla scena senza poter articolare una parola.
Beruff Mendieta disse a Rita: “Signora, se non si tranquillizza la faccio cacciare dalla sala”.
Rita rispose: “Guarda, se ci provi, mi tolgo la scarpa e vi prendo a colpi di tacco a te, a questo qua - Salazar - e a Maria Santissima”.
La cosa sembrava finita li, ma no. L’orchestra cominciò a insubordinarsi e Gilberto Valdés dovette irrigidirsi e richiamare all’ordine i musicisti. Si ristabilì l’ordine, ma quando Rita uscì dalla sala, i tamburi si rifiutarono di continuare. Dissero che Rita avesse gettato pepe di Guinea perché litigassero fra loro.
Concludeva il suo racconto Gilberto Valdés: “Ed era vero che lo aveva gettato”.

Modestia di Caignet

Negli anni ’40, quando Orlando Quiroga che all’epoca era un bambino passando, preso per mano da suo padre, di fronte all’edifico della CMQ in Monte e Prado, vide due persone che riconobbe immediatamente. Lei con lo sguardo assente e verde, il neo sulla fronte e un turbante originale con l’adorno di perle. Era Rita Montaner. Lui, Carlos Badías, niente più e nientemeno che Albertico Limonta, l’attor giovane di El derecho de nacér.
Quasi 20 anni dopo, Quiroga, già affermato giornalista, visitò Caignet nella sua casa di Santa Maria del Mar e ricordò quell’incontro. Li, in quell’angolo, disse, conversavano Rita Montaner e Carlos Badías. E Caignet con la sua caratteristica “modestia” commentò: “Di sicuro stavano parlando di me”.
Come nacque il “suspence” alla radio
Lo racconta lo stesso Fèlix B. Caignet, suo creatore.
“Nella mia infanzia a Santiago, non c’era la radio, men che meno la televisione e il cine era una cosa appena inventata.
Allora arrivavano i contafavole come qualcosa di magico, ogni bambino pagava un centesimo e i contafavole cominciavano un racconto. Dopo 20 o 30 minuti, nel più bello del racconto, il contafavole interrompeva la narrazione fino al giorno successivo quando, naturalmente, tutti i bambini tornavano col centesimo per ascoltare il seguito.
Molti anni dopo, nella Catena Radio Orientale, ho applicato questa tecnica per la prima volta nei miei capitoli. Nel momento più emozionante o terribile, usciva l’annunciatore e diceva:
Fui il primo a farlo in radio ed ebbe presa, non ti dico quanto, tanto che cominciai a scrivere cose per i bambini: Le avventure di Chelín, Bebita e il naneto Cavolfiore, e dopo mi misi in pieno con questa tecnica dei finali di tensione”.

Il grido di Dolores

La messicana Dolores del Río era un “animale” cinematografico. Però per niente di televisione, niente, nemmeno in Messico. Un giorno la portarono all’Avana e la CMQ le offrì un capitale per una scena di dieci minuti in un programma musicale prodotto da Carballido Rey.
Dolores accettò. Arrivò il giorno fatidico. La TV, allora, era in diretta e l’attrice, nervosissima, passeggiava per lo studio inseguita dall’obbiettivo implacabile del fotografo Osvaldo Salas. Finì il numero musicale che serviva da prologo alla sua attuazione, venne un intermezzo commerciale e apparse un annunciatore che disse meraviglie dell’attrice invitata. La scena era semplice. Seduta su un sofà di raso, una figlia si lamentava con la madre che non accettava il suo fidanzato. Dolores appariva in piedi, senza minimamente accennare a dare la sua opinione per quanto la “figlia” trattasse di aiutarla porgendole la battuta.
“Si, so quello che vuoi dirmi, che sono una figlia disobbediente, che sono una svergognata, che senti odio verso di lui e verso di me...”
Niente. Carballido camminava dietro le telecamere con le mani tra i capelli e Dolores non se ne dava nemmeno per intesa, come se avesse dimenticato quello che doveva dire, senza nemmeno captare i gesti. Non reagì fino a che emise un forte gemito e guardando di sottecchi il mobile cadde svenuta sul sofà. Il coordinatore, su indicazione del regista, ordinò al balletto di proseguire il programma mentre Dolores rimaneva svenuta.
Il giorno seguente, tuuta Cuba parlava dello svenimento dell’attrice. Carballido Reyu e un rappresentante degli sponsor andarono a trovarla in albergo. Li ricevette il marito, con fare vergognoso. Non c’era bisogno di dirlo, l’attrice non avrebbe ricevuto compenso per un lavoro che non aveva svolto.
“Ma per niente - rispose Carballido, sventolando il congruo assegno -. Accettatelo, lo svenimento ha fatto parlare più che se avesse recitato. È stato un grande successo!”

Il sorriso furbesco di Rodney

Quelli che lo conobbero, lo rievocano come un personaggio affascinante. La lebbra che gli deformò le mani, non frenò le sue ambizioni di diventare famoso. Quando la discapacità fisica, accentuata dal passare degli anni si fece sempre più evidente, cambiò l’attuazione per la coreografia.
Roderico Neyra, “Rodney”, fu coreografo del teatro Shanghai, nel quartiere cinese, una sala famosa per i suoi spettacoli di nudo e fu l’organizzatore delle mitiche Mulatas de fuego. Lavorò nel cabaret Sans Soucì e dopo, a partire dal 1° giugno del 1952, fece idiventare il Tropicana all’altezza delle migliori sale di spettacolo del mondo. Andò a Caracas all’inizio degli anni ’60. Passò a Porto Rico e si fece applaudire senza riserve nel Waldorf Astoria di New York. Trionfò ad Acapulco e a Città del Messico. La morte lo sorprese in piena effervescenza creatrice quando tentava di conquistare Hollywood. Nel 1957, la rivista Show affermava, in un servizio che dedicò all’artista, che Rodney aveva dato più visibilità a Cuba che tutti i suoi diplomatici messi assieme.
Era un mulatto di bassa statura, pelle chiara e baffi sottili. Aveva un sorriso furbesco. Negli anni ’40 soleva viaggiare per l’Isola con una valigia piena di immaginete di santi que poi spargeva nelle camere d’albergo in cui si ospitava.

Se diminuisci i tuoi prezzi...

Anni fa, ricordava Enrique Nuñez Rodríguez in questa pagina: Rodney mi incaricò del copione per lo spettacolo del Tropicana. Mi affacciai per la prima volta a quel mondo fantastico. Compii il mio dovere. Rodney mi portò all’ufficio del signor Ardura che era l’amministratore del cabaret. Nel tragitto mi chiese quanto avrei fatto pagare per il mio “libretto”. Gli dissi 500 pesos. Giungendo all’ufficio di Ardura, gli spiegò che ero l’autore del copione dello spettacolo che si stava allestendo e che ero li per riscuotere il compenso del lavoro. Ardura domandò a Rodney quanto avrei dovuto avere. Rodney gli rispose impassibile che erano 5000 pesos. Ardura, anch’egli impassibile, compilò l’assegno. All’uscita, nervosamente, dissi a Rodney che si era sbagliato, che io gli avevo detto 500 pesos.
Brontolò: “Quello che si è sbagliato sei stato tu. Se abbassi i tuoi prezzi penserebbero che io gli costo troppo. Tienti il resto”.


Mosaico dominical

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
28 de Septiembre del 2013 19:30:08 CDT

El cine Fedora se hallaba en la esquina de Belascoaín y San Miguel, en
Centro Habana. No es precisamente su programación lo que hace
interesante y digna de memoria a esta sala cinematográfica. Si ahora
la evocamos es porque allí laboró durante un tiempo el gran pianista y
compositor Ernesto Lecuona.
Se dice que después de la muerte de su padre, el músico se vio
obligado a ganarse la vida tocando en este cine, donde además dirigía
la orquesta y entre película y película acometía algún solo de piano.
Lo más interesante del asunto es que esto ocurría cuando el artista
apenas tenía 12 años de edad.
No solo en el Fedora tocó Lecuona. Lo hizo también en otras salas
cinematográficas como Parisién, Norma, Turín Téstar… todas en La
Habana. Era la época en que comenzaba a darse a conocer con pequeñas
obras escénicas que estrenaba en el teatro Martí.
Pues bien, Hubert de Blanck, que había sido su profesor, empezó a
preocuparse por aquellas ocupaciones de Lecuona. Pensaba, con razón,
que desperdiciaba su talento. Tenía miedo de que el adolescente,
dotado de condiciones extraordinarias para la música y que podía hacer
una verdadera carrera pianística, se abaratara y malgastara en
aquellos trajines. Hubert de Blanck habló con la madre de Lecuona. Le
dijo que era necesario separarlo de aquellas actividades triviales. La
madre comprendió la situación y, a costa de grandes sacrificios,
aceptó la sugerencia del afamado compositor y pianista.
Dicen que muchos años después, ya en el apogeo de su fama, Lecuona
recordaba emocionado aquella fe de su madre e insistía en afirmar que
todo lo que era se lo debía a ella.

Rita y la pimienta de Guinea

Lo contó el compositor Gilberto Valdés. Se presentaría un concierto
con su música, e invitó a Rita Montaner para que interpretara alguna
que otra pieza, pero ella se negó porque en el programa, que ya estaba
hecho, había una figura que le molestaba. Le escribió una carta a
Valdés en la que expresa su negativa. Trató el compositor de
convencerla, pero ella se mantuvo en su no. De manera que no quedó
otra alternativa que contratar a otra intérprete.
Quiso Valdés que fuera Hortensia Coalla, pero la Coalla se hizo de
rogar porque, pese a ser mulata, le molestaba la pronunciación que
exigían ciertos pasajes de la música de Valdés. Decir, por ejemplo:
«Lo negro están de fieta…» en lugar de Los negros, etc. La Coalla,
recordaba Valdés, quería ser blanca, más blanca que nadie, tenía
delirio de eso, pero se convenció y decidió participar en el concierto
e interpretar Tambor.
Rita fue al concierto como espectadora. Llegó y se sentó en una butaca
próxima al lugar que ocupaban Antonio Beruff Mendieta, alcalde de La
Habana, y el musicólogo español Adolfo Salazar, que lo acompañaba. Y
aquí viene lo interesante. Tocó el turno a Hortensia Coalla. Salió a
escena y la orquesta, bajo la conducción de Gilberto Valdés, acometió
los compases iniciales de Tambor. Dijo Rita desde su butaca: «Ahora
verán ustedes cómo se canta eso». Se dio esta situación: Valdés con la
orquesta por allá, Rita cantando desde el público y la Coalla en el
escenario sin poder articular palabra.
Beruff Mendieta dijo a Rita: «Señora, si usted no se comporta, la
mando a sacar de la sala». Rita respondió: «Mira, si te atreves, me
quito el zapato y les entro a taconazos a ti, a ese —a Salazar— y a
María Santísima».
La cosa parecía que quedaría ahí, pero no. La orquesta empezó a
insubordinarse y Gilberto Valdés tuvo que ponerse duro y llamar a
capítulo a los músicos. Se restableció el orden, pero cuando Rita
salió de la sala, los tamboreros se negaron a seguir. Dijeron que Rita
les había echado pimienta de Guinea para que se fajaran entre ellos.
Concluía Gilberto Valdés su relato: «Y era verdad que se las había echado».

Modestia de Caignet

En los años 40, Orlando Quiroga, que entonces era un niño, pasaba, de
la mano de su padre, frente al edificio de la CMQ, en Monte y Prado,
cuando vio a dos personas a las que reconoció de inmediato. Ella, con
la mirada ausente y verde, el lunar en la frente y un turbante
legítimo sujeto con un pasador de perlas. Era Rita Montaner. Él,
Carlos Badías, nada más y nada menos que Albertico Limonta, el galán
de El derecho de nacer.
Casi 20 años después, Quiroga, ya un periodista reconocido, visitó a
Caignet en su casa de Santa María del Mar y recordó aquel encuentro.
Allí, en la esquina, dijo, conversaban Rita Montaner y Carlos Badías.
Y Caignet, con su «modestia» característica, comentó:
—Seguramente estaban hablando de mí.
Cómo surgió el suspenso en la radio
Lo cuenta el mismo Félix B. Caignet, su creador.
«En mi infancia santiaguera no había radio, mucho menos televisión y
el cine era un invento acabado de inventar.
«Entonces llegaban los cuenteros, como algo mágico, cada niño pagaba
un centavo y empezaba el cuentero a hacer un cuento. Cuando habían
pasado 20, 30 minutos, en lo mejor de la narración, el cuentero
interrumpía su relato hasta el día siguiente, cuando, por supuesto,
todos los niños volvían con su centavo para escuchar el desenlace.
«Muchos años después, en la Cadena Oriental de Radio, apliqué esa
técnica por primera vez en mis capítulos. En lo más emocionante, en lo
más horrible, salía el locutor y decía: “¿Se enterará fulana del
engaño de mengano? ¿Qué pasará con la pobre tía inválida? ¿Cuál será
la reacción de Alfredo cuando sepa la terrible verdad?”.
«Fui el primero en hacerlo en la radio y pegó, no digo yo si pegó,
aunque empecé escribiendo cosas para niños: Las aventuras de Chelín,
Bebita y el enanito Coliflor, y después me fui metiendo con esa
técnica de los finales de tensión».

El grito de Dolores

La mexicana Dolores del Río era un «animal» del cine. Pero de
televisión, nada, ni siquiera en México. Un día la trajeron a La
Habana y CMQ le ofreció un dineral por una escena de diez minutos en
un programa musical que producía Carballido Rey.
Dolores aceptó. Llegó el día en cuestión. La TV era entonces en vivo y
la actriz, muy nerviosa, se paseaba por el estudio perseguida por el
lente implacable del fotógrafo Osvaldo Salas. Terminó el número
musical que servía de preámbulo a su actuación, vino un comercial y
apareció un locutor que dijo maravillas de la artista invitada.
La escena era sencilla. Junto a su sofá forrado de raso, una hija
reprochaba a su madre que no aceptara a su novio. Dolores aparecía de
pie, sin atinar a decir su parlamento por más que la «hija» trataba de
ayudarla dándole el pie.
—Sí, ya sé lo que me vas a decir, que soy una hija desobediente, que
soy una sinvergüenza, que sientes odio hacia él y hacia mí…
Nada. Carballido se paseaba tras las cámaras con las manos en la
cabeza y Dolores ni por aludida se daba, como si hubiese olvidado lo
que debía decir, sin captar la seña siquiera. No reaccionaba hasta que
por fin metió un gritico distinguido y mirando de reojo el mueble cayó
desmayada en el sofá. El coordinador, por indicación del director,
ordenó al ballet que continuara el programa mientras Dolores
permanecía desmayada.
Al día siguiente, toda Cuba hablaba del desvanecimiento de la actriz.
Carballido Rey y un representante de los patrocinadores fueron a verla
al hotel. Los recibió el marido, muy apenado. No faltaba más, la
actriz no cobraría por un trabajo que no había hecho.
—Nada de eso —respondió Carballido enarbolando el jugoso cheque—.
Acéptelo. El desmayo ha dado que hablar más que si hubiese actuado.
¡Ha sido todo un éxito!

La sonrisa pícara de Rodney

Los que lo conocieron, lo evocan como un personaje fascinante. La
lepra, que le deformó las manos, no frenó su ambición de hacerse
famoso. Cuando la discapacidad física, acentuada por el paso de los
años, se fue haciendo cada vez más evidente, cambió la actuación por
la coreografía.
Roderico Neyra, «Rodney», fue coreógrafo del teatro Shanghai, en el
barrio chino habanero, una sala famosa por sus espectáculos de
desnudos, y organizó las míticas Mulatas de fuego. Trabajó en el
cabaré Sans Souci y luego, a partir del 1ro. de junio de 1952, puso a
Tropicana a la altura de las mejores salas de fiesta del mundo. Se va
a Caracas a comienzos de los años 60. Pasa a Puerto Rico y se hace
aplaudir sin reservas en el Waldorf Astoria, de Nueva York. Triunfa en
Acapulco y en la Ciudad de México. La muerte lo sorprende, en plena
efervescencia creadora, cuando intentaba conquistar Hollywood. En
1957, la revista Show afirmaba en un reportaje que dedicó al artista
que Rodney había dado más lustre a Cuba que todos sus diplomáticos
juntos.
Era un mulato de baja estatura, piel clara y bigote fino. Tenía una
sonrisa pícara. En los años 40 solía viajar por la Isla con una maleta
llena de imágenes de santos que desplegaba luego en la habitación del
hotel donde se alojaba.

Si abaratas tu trabajo...

Recordaba hace años Enrique Núñez Rodríguez en esta misma página:
Rodney me encargó el guión para un espectáculo de Tropicana. Me asomé
por primera vez a aquel mundo fantástico. Cumplí con mi trabajo.
Rodney me llevó a la oficina del señor Ardura, que era el
administrador del cabaré. En el trayecto me preguntó cuánto iba a
cobrar por mi libreto. Le dije que 500 pesos. Al llegar al despacho de
Ardura, le explicó que yo era el guionista del show que se estaba
ensayando y que venía a cobrar mi trabajo. Ardura preguntó a Rodney
cuánto iba a cobrar. Rodney le respondió, sin inmutarse, que 5 000
pesos. Ardura hizo el cheque también sin inmutarse. A la salida, todo
nervioso, dije a Rodney que se había equivocado, que yo le había dicho
500. Rezongó:
—El que te equivocaste fuiste tú. Si abaratas tu trabajo van a pensar
que yo les cobro demasiado. Guárdate el resto.


--
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/



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CADENTE: alloggio del dente, gengiva

domenica 29 settembre 2013

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CADAUNO: e gli altri stiano in piedi

sabato 28 settembre 2013

Gli atleti cubani potranno gareggiare all'estero

Da tempo avevo anticipato che c'era aria di cambio anche nella sfera dello sport a Cuba (In vista aperture all'economia nello sport cubano, post del 22 agosto 2012). Finalmente, con buona pace di Alberto Juantorena, strenuo difensore del dilettantismo (magari di Stato), è arrivata la disposizione che permette agli atleti cubani, di qualsiasi disciplina, di competere per club stranieri all'estero. Una principio anche questo che, seppur atteso nella speranza, era inaspettato dai più. Le difficoltà maggiori saranno per i potenziali giocatori delle Grandes Ligas del baseball nordamericano, ma anche di qualunque altro sport, che troveranno difficoltà ad essere contrattati legalmente fino a che risiedano a Cuba, in virtù dell'assurda legge sull'embargo. Questo continuerà ad essere un problema, perché se tutti gli atleti potranno essere contrattati in ogni parte del mondo, negli Stati Uniti, no, almeno sotto il profilo legale e quindi il pericolo di fughe, nel settore del baseball non è scongiurato. Si aspettavano "aperture"? Piano piano arrivano.

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CACOFONIA: discorsi di merda

venerdì 27 settembre 2013

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CACHESSIA: studio delle feci

giovedì 26 settembre 2013

Lecciones cubanas

È in commercio l'edizione in spagnolo del romanzo "Lezioni cubane" di luca Tognaccini. "Lecciones cubanas" delle Edizioni Sandron di Firenze è disponibile sia in e-book che in formato tradizionale e si aggiunge all'originale in lingua italiana. Buona lettura.

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CACCIUCCO: allontana l'ubriaco

mercoledì 25 settembre 2013

Il Decreto sulla Zona Speciale del Mariel

Ho dato una rapida scorsa ai decreti riguardanti questo provvedimento che entrerà in vigore dal prossimo 1° novembre. Non sono un tecnico né un esperto in Legge, per cui quasi 240 pagine di "burocratichese" sono abbastanza indigeste. Per quello che ho potuto vedere le novità importanti sono: che la concessione per l'investimento ha una durata di 50 anni prorogabili e non è soggetta alla "Legge 50" per cui la gestione può essere anche straniera al 100% e gli eventuali utili possono essere riesportati nella valuta convertibile preferita dal titolare del convegno che può essere "persona fisica" o "persona giuridica". In questa ottica, il titolare della concessione potrà avere agevolazioni migratorie per gestire l'azienda o potrà avvalersi di personale straniero, non residente, di sua fiducia e che avrà a sua volta agevolazioni migratorie per lo svolgimento del suo lavoro. La mano d'opera comune, invece è soggetta, come assunzione; alle "vecchie" norme per cui è soggetta all'ufficio di collocamento locale. Altre agevolazioni sono previste per le importazioni delle merci (Dogana) e i trasporti aerei, navali, su strada o per ferrovia. Questo per sommi capi il contenuto che naturalmente deve poi essere valutato da esperti per i dettagli. In sostanza la futura Zona Speciale sarà un'area prettamente industriale, dove anche la mano d'opera locale formata da cittadini cubani o residenti permanenti avrà a sua volta benefici salariali e contrattuali rispetto alla media del Paese.

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CACCIARE: manda via il sovrano

martedì 24 settembre 2013

Pubblicate le norme di attuazione della Zona del Mariel

Il Granma di oggi informa che è uscita la Gazzetta Ufficiale n° 26 contenente le norme di attuazione della Zona Speciale del Mariel con le specificazioni per l'attuazione, il funzionamento e tutto ciò che concerne gli investimenti, proprietà, trattamento del personale, norme doganali eccetera. Decreto Legge n. 313 e 316. http://www.gacetaoficial.cu

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BURRONE: grosso panetto di condimento latteo

lunedì 23 settembre 2013

El Mayoral di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 22/09/13

EL MAYORAL

(Specie di sovrintendente che si dedicava in particolare alla “cura” dei lavoratori e degli schiavi nelle tenute agricole e campi da canna da zucchero. n.d.t)

Al contrario di quello che pensavano in molti vedendolo in fotografia, non era né alto né prestante. La giornalista Loló de la Torriente, che lo conobbe, ricordava che ciò che colpiva del maggior generale Mario García Menocal y Deop, terzo Presidente della Repubblica di Cuba, era il suo viso enigmatico, misterioso dalla barba ispida e occhi accesi come tizzoni.
Questo “condottiero rurale”, come lo chiamava un'altro giornalista: Ramón Vasconcelos, prese il potere il 20 maggio del 1913 dopo aver sconfitto il dottor Alfredo Zayas y Alfonso nelle elezioni dell'anno prima. Doveva poi lasciarlo il 20 maggio del 1917, ma sempre nelle liste del Partito Conservatore, decise di presentarsi a quelle del 1916 e sconfisse ancora, stavolta in modo fraudolento, il suo antico rivale. Nonostante la rielezione del Presidente fosse un diritto consacrato dalla Costituzione del 1901 – non più così in quella del 1940, che lo proibì -, il suo antecedente fu nefasto. L'ostinazione di Tomás Estrada Palma di prolungare la presidenza fece scoppiare la “piccola guerra” di agosto nel 1906 ed ebbe come conseguenza il secondo intervento militare nordamericano. Si dice che Menocal, al principio, non era intenzionato a ricandidarsi, ma cedette alle pressioni della combriccola e l'assemblea nazionale del suo partito lo nominò candidato presidenziale con 92 voti contro 71. Con le risorse del potere a sua disposizione, i conservatori consideravano sicuro il suo successo contro un Partito Liberale disgregato che senza dubbio si era messo d'accordo per ricandidare Zayas. Così come la rielezione di Estrada Palma causò la “piccola guerra” di agosto, quella di Menocal provocò nel febbraio 1917, la cosiddetta rivoluzione del Lecca lecca, quando i liberali, guidati dal maggior generale José Miguel Gómez, si sollevarono in armi contro il Governo di Menocal.

Senza busto e senza giardino

Oggi lo scriba, torna su questa figura del passato su suggerimento del lettore Noel Barrera che si impegna a costruire la presenza del capoccia nella località matanzera di Jagüey Grande. L'autore di questa pagina vorrebbe dire qualcosa innanzitutto. Se Zayas e Estrada Palma ebbero i loro rispettivi monumenti nell'Avana di prima del 1959, e José Miguel conserva il suo, fastoso nell'Avenida dei Presidenti, Menocal il massimo che raggiunse fu un busto, modesto, eretto a sua memoria nel giardino compreso fra le calles 17 e 19, 6 e 8, nel quartiere del Vedado. Ormai nemmeno quello. Il busto è sparito e John Lennon occupa tranquillamente una delle panchine del giardino che un giorno portò il nome dell'ex Presidente.
Qualcosa in più. Nonostante debba aver fatto qualcosa nei suoi 8 anni di gestione presidenziale, lo scrittore non ricorda una sola, sua, opera pubblica. Il vecchio Palazzo Presidenziale fu “cosa” sua fino a un certo punto. Né a Menocal né a sua moglie, Mariana Seba, piaceva il Palazzo dei Capitani Generali come sede del Governo. Da li le loro stagioni nel Palazzo di Durañona nella Calzada Real - Avenida 51 – di Marianao, che figurava come una specie di residenza estiva presidenziale. Doña Mariana si innamorò dell'edificio che il generale Ernesto Asbert, governatore dell'Avana, stava costruendo per il Governo provinciale e pensò che sarebbe stata l'ideale come ufficio e residenza dei presidenti cubani. Menocal volle compiacere sua moglie e, per decreto, confiscò e pagò al Governo dell'Avana il suo palazzo. L'Edificio della calle Rafugio n°1 fu inaugurato come uffici e residenza dell'Esecutivo il 31 dicembre del 1920 e il ballo con cui si aprì la cerimonia fu uno degli avvenimenti più importanti e di grido dell'Avana. La celebre Casa Tiffany, di New York, fu incaricata della decorazione dell'immobile e nei suoi mobili e ornamenti si investirono oltre un milione e mezzo di dollari. Oro, avorio e marmo risaltano il suo stile. Il vasellame, preziosissimo, aveva inciso lo scudo della Repubblica su ogni suo pezzo. Fra i mandatari cubani Menocal fu, probabilmente, quello dalle mani più bucate. Loló de la Torriente affermava: “Dopo otto anni di imposizione, lasciava la Repubblica, esauusta e senza protezione, ma lui, salvando i suoi beni, consegnava il potere andando all'estero per risvegliare, a Parigi, l'ammirazione e l'entusiasmo dei francesi abituati ai potentati generosi e splendidi. In quel senso, il generale cubano, ex presidente di una repubblica di banane, imitava la generosità più sorprendente dei gradi reami”.
Lo chiamarono “El Mayoral”, sia per la mano dura da governante che per esserlo stato realmente nell'azienda zuccheriera Chaparra, di proprietà nordamericana, nell'antica provincia di Oriente. Per la campagna elettorale del 1924, questa volta contro il liberale Gerardo Machado, il Re di Spagna Alfonso XIII, inviò per regalo a Menocal un cavallo. I liberali allora si lanciarono per le strade al grido. “A piedi, a piedi, a piedi/ son finiti i cavalli./ A piedi, a piedi, a piedi, non mi fanno male i calli”. Quando Machado, vincendo in cinque delle sei province cubane di allora, lo sconfisse su tutta la linea, i versi divennero infamanti per il militare e politico cubano. I liberali cantavano: “Il Re di Spagna ha mandato un messaggio,/ il Re di Spagna ha mandato un messaggio/ dicendo a Menocal: restituiscimi il cavallo che tu non sai montare”.

La biografia

Mario García Menocal nacque il 17 dicembre del 1866 nel Central Australia, Jagüey Grande, Matanzas. Suo padre, dopo l'inzio della Guerra dei Dieci Anni, si sollevò contro la Spagna e questa circostanza obbligò la famiglia ad uscire da Cuba. Fece i suoi primi studi negli Stati Uniti e, sempre in quel Paese, l'Università di Cornell, dove eccelse come studente, diplomandosi ingegnere civile nel 1888 Successivamente lavorò in Nicaragua e nel 1895, a Cuba, dirigeva gli studi per il tracciato della ferrovia Camagüey-Santa Cruz del Sur. Specialisti del Centro di Studi Militari del Minfar hanno costanza che Menocal si sollevò a Jagüey Grande, il 26 febbraio del 1895 che sarebbe stato due giorni dopo l'inizio della Guerra d'Indipendenza nella quale prese parte nell'azione dell'allevamento equino de La Yuca, comandata dal colonnello Martín Marrero. Nonostante questo, il suo ingresso ufficiale nell'Esercito di Liberazione è registrato il 13 di giugno dello stesso anno, a Santa Cruz. I suoi fratelli, Pedro Pablo e Tomás si incorporarono anch'essi alla lotta raggiungendo il grado di colonnello. Anche suo cugino il pittore Armando G. Menocal, lo fece, arrivando ad essere comandante. Da principio e con l'idea di trarre il maggior beneficio dalla conoscenza del giovane ingegnere, Máximo Gómez gli affidò la missione di distruggere, nel territorio camagüeyano, le strade ferrate ed il sistema di fognature, compito che svolse con il maggior successo con la distruzione della linea di Nuevitas. Il capitano Menocal si dedicò a ciò tra agosto e ottobre del 1895. Il mese seguente, assieme ad integranti del Governo in armi – lo nominarono Sottosegretario alla Guerra - accompagnò la colonna d'invasione comandata da Maceo da Mangos de Baraguá fino a Colmenar, quasi all'entrata di Las Villas. A Bayamo e Manzanillo effettuò compiti di organizzazione che gli aveva incaricato il Governo. Nel 1896 combatté in Los Moscones, Yerba de Guinea, La Piedra, La Aguada, Belleza, La Gloria, Loma de Hierro, Alto de Conchita, Lugones, Tuabeque, Barrancas e Jucaibama. In quell'anno ascese da ufficiale inferiore a comandante, tenente colonnello, colonnello e generale di brigata, gardo che riceve su proposta di Gómez per a sua attuazione nel combattimento e presa del paese di Guáimaro, che pianificò e diresse.
Nel marzo del '97 è nell'attacco a Jiguaní e nel combattimento de La Ratonera e appoggia nella rada di Jucaro, a Banes, il terzo viaggio del vapore Laurada, che arrivò al comando del generale polacco Carlos Roloff. Tra il 28 e il 30 di agosto si distingue nell'attacco di Las Tunas, dove risultò gravemente ferito e perciò fu promosso generale di divisione. Suo nipote, il monsignor Carlos Manuel de Céspedes e García Menocal, conserva come suo maggior tesoro la bandiera cubana che suo zio portava in quell'azione. Nel maggio del 1898 riceve l'ordine di formare una colonna e marciare verso l'Avana al fine di assumere il comando del 5to Corpo d'Armata. Così passò una volta di più la linea difensiva posta tra Júcaro e Morón, arrivando all'accampamento del generale Mayía Rodríguez, comandante della zona occidentale, il 14 di agosto, due giorni dopo che la Spagna e gli Stati Uniti firmarono la pace. Fu promosso allora a maggior generale. Si congedò il 24 di agosto.

Prigioniero in Rio Verde

Una volta all'Avana, si accampò con le sue truppe nella spiaggia di Marianao e stabilì il suo quartier generale nell'edificio dell'Avana Yacht Club. Fu uno dei nove generali cubani che, invitati dal comando dell'esercito nordamericano, assistettero, il 1° gennaio 1899, all'atto di cessazione della sovranità spagnola a Cuba che ebbe luogo nel Salone del Trono del Palazzo dei Capitani Generali. Organizzò un corpo di polizia avanera, fu ispettore generale delle Opere Pubbliche e successivamente capo della Commissione dei Fari, prima di dedicarsi allo sviluppo del Central Chaparra. Per sua iniziativa si creò l'Associazione Nazionale dei Veterani dell'Esercito di Liberazione, che lo designò per mediare tra le parti in conflitto durante la “piccola guerra” di agosto, gestione che fallì per l'intransigenza del Presidente Estrada Palma. Nei giorni del secondo intervento nordamericano, organizzò il Partito Conservatore.
Alla sua uscita dal potere, nel 1921, viaggiò per l'Europa. Si oppose a Machado e nell'agosto del 1931 guidò una sollevamento contro di lui. Fu ftto prigioniero in Rio Verde, Pínar del Río e fu poi internato, dapprima alla Cabaña e poi al Presidio Modelo. Una volta liberato, fu ancora oggetto di persecuzioni che lo obbligarono a lasciare il Paese. Tornò dagli Stati Uniti alla caduta della dittatura di Machado e tornò a inserirsi nella politica nazionale. Nel 1936, per l'ultima volta, fu sconfitto da Miguel Mariano Gómez, il figlio di José Miguel, suo vecchio avversario.
Si oppose anche al colonnello Batista, che reggeva i destini del Paese dal campo Columbia e organizzò l'Unità Nazionale Cubana, con la quale pretendeva radunare le forze, disperse, dei conservatori i cui delegati parteciparono come oppositori alla convenzione che avrebbe elaborato la Costituzione del 1940. Però batista , desideroso di assicurarsi la presidenza nelle prossime elezioni generali, offrì ai “menocalisti”, se appoggiavano la sua candidatura, la vice presidenza della Repubblica, il posto di sindaco dell'Avana, tre governi provinciali e 12 collegi senatoriali. Menocal virò la sua rotta, accettò la proposta e i suoi delegati all'Assemblea Costituente passarono a formar parte delle fila del Governo perché, diceva il vecchio timoniere ai suoi colleghi di partito che giudicavano troppo amaro il calice di patteggio: “propiziare a Batista una via di uscita costituzionale al fine di liberare Cuba dal dominio militare che impersona, è fare un piacere al paese”.
Mario García Menocal morì all'Avana il 7 settembre del 1941. Lasciò il suo nome a una ricatta di fagioli neri “alla Menocal” e due dei cocktail cubani emblematici: il Presidente e il Chaparra.



El Mayoral

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
21 de Septiembre del 2013 18:57:32 CDT

Contrario a lo que muchos suponen al verlo en fotografías, no era alto
ni fornido. La periodista Loló de la Torriente, que lo conoció,
recordaba que la órbita de atracción del mayor general Mario García
Menocal y Deop, tercer presidente de la República de Cuba, era su
rostro algo enigmático, misterioso, de barba rala y ojos encendidos
como fulgores.
Este «hidalgo rural», como le llamaba el también periodista Ramón
Vasconcelos, ocupó el poder el 20 de mayo de 1913 tras derrotar al
licenciado Alfredo Zayas y Alfonso en las elecciones del año anterior.
Debía abandonarlo el 20 de mayo de 1917 pero, siempre en la boleta del
Partido Conservador, decidió presentarse en los comicios de 1916 y
volvió a derrotar, esta vez de manera fraudulenta, a su antiguo rival.
Aunque la reelección del Presidente era un derecho consagrado por la
Constitución de 1901 —no así en la de 1940, que la prohibió—, su
antecedente había sido funesto. La tozudez de Tomás Estrada Palma de
prorrogarse en la presidencia desató la guerrita de agosto de 1906 y
trajo como consecuencia la segunda intervención militar
norteamericana. Se dice que Menocal, en un inicio, no se mostró
decidido a reelegirse, pero cedió a las presiones de la camarilla
áulica y la asamblea nacional de su partido lo nominó como candidato
presidencial por 92 votos contra 71. Con los recursos del poder a su
alcance, los conservadores consideraron seguro su triunfo contra un
Partido Liberal atomizado que, sin embargo, se puso de acuerdo para
postular a Zayas. Así como la reelección de Estrada Palma dio pie a la
guerrita de agosto, la de Menocal provocó, en febrero de 1917, la
llamada revolución de La Chambelona, cuando los liberales,
acaudillados por el mayor general José Miguel Gómez, se alzaron en
armas contra el Gobierno de Menocal.

Sin busto y sin parque

Vuelve hoy el escribidor sobre esta figura del pasado a sugerencia del
lector Noel Barrera, que se empeña en reconstruir en Jagüey Grande la
presencia del caudillo conservador en esa localidad matancera.
Algo quiere decir de inicio el autor de esta página. Si Zayas y
Estrada Palma tuvieron sus respectivos monumentos en La Habana de
antes de 1959, y José Miguel conserva el suyo, fastuoso, en la Avenida
de los Presidentes, Menocal lo más que alcanzó fue el busto modesto
erigido a su memoria en el parque que enmarcan las calles 17 y 19, 6 y
8, en la barriada del Vedado. Ya ni eso. El busto desapareció, y John
Lennon ocupa tranquilamente uno de los bancos del parque que un día
llevó el nombre del ex mandatario.
Algo más. Aunque algo debió hacer durante sus ocho años de gestión
presidencial, no recuerda quien esto escribe una sola de sus obras
públicas. El viejo Palacio Presidencial fue cosa suya. Hasta cierto
punto. Ni a Menocal ni a su esposa, Mariana Seba, les gustaba el
Palacio de los Capitanes Generales como casa de Gobierno. De ahí sus
temporadas en el Palacio de Durañona, en la Calzada Real —Avenida 51—
de Marianao, que oficiaba como una especie de mansión presidencial de
verano. Doña Mariana se enamoró del edificio que el general Ernesto
Asbert, gobernador de La Habana, construía para el Gobierno Provincial
y pensó que resultaría ideal como residencia y despacho de los
mandatarios cubanos. Quiso Menocal complacer a su esposa y, por
decreto, confiscó y pagó al Gobierno habanero su palacio. El edificio
de Refugio No. 1 fue inaugurado como oficinas y residencia del
Ejecutivo el 31 de diciembre de 1920 y el baile con que se abrió es
uno de los acontecimientos sociales más importantes y sonados de La
Habana. La conocida Casa Tiffany, de Nueva York, tuvo a su cargo la
decoración del inmueble y en su mobiliario y adornos se invirtieron
más de millón y medio de dólares. Oro, marfil y mármol resaltan su
estilo. La vajilla, valiosísima, tenía grabado el escudo de la
República en cada una de sus piezas.
Porque entre los mandatarios cubanos, Menocal fue quizá el más
manirroto. Loló de la Torriente afirmaba: «Después de ocho años de
imposición dejaba la República exhausta y desamparada, pero él,
salvando sus reductos, entregaba el poder y salía al extranjero listo
para despertar en París la admiración y el entusiasmo de los franceses
acostumbrados a los potentados dadivosos y espléndidos. En tal sentido
el general cubano, ex presidente de una república agrícola, iba a
emular las generosidades más sorprendentes de los grandes rajaes».
Le llamaron El Mayoral, tanto por su mano dura de gobernante como por
haberlo sido realmente en el central azucarero Chaparra, de propiedad
norteamericana, en la antigua provincia de Oriente. Para la campaña
electoral de 1924, cuando aspiró a la presidencia, esta vez contra el
liberal Gerardo Machado, el rey de España, Alfonso XIII, envió a
Menocal un caballo de regalo. Los liberales entonces se lanzaron a la
calle y al grito de «A pie» cantaban: «A pie, a pie, a pie / se
acabaron los caballos. / A pie, a pie, a pie / no me duelen ni los
callos». Cuando Machado, al ganar cinco de las seis provincias cubanas
de entonces, lo derrotó en toda la línea, los versos se tornaron
infamantes para el militar y político cubano. Coreaban los liberales:
«El rey de España mandó un mensaje, / el rey de España mandó un
mensaje / diciéndole a Menocal: devuélveme mi caballo que tú no sabes
montar».

La biografía

Mario García Menocal nació el 17 de diciembre de 1866 en el central
Australia, Jagüey Grande, Matanzas. Su padre, ya iniciada la Guerra de
los Diez Años, se alzó en armas contra España y esa circunstancia
obligó a la familia a salir de Cuba. Cursó sus primeros estudios en
Estados Unidos y en ese país, en la Universidad de Cornell, donde
sobresalió como estudiante, se diplomó como ingeniero civil en 1888.
Trabajó entonces en Nicaragua y en 1895 dirigía en Cuba los estudios
para el trazado del ferrocarril Camagüey-Santa Cruz del Sur.
Especialistas del Centro de Estudios Militares del Minfar tienen
referencias de que Menocal se alzó en Jagüey Grande, el 26 de febrero
de 1895, esto es, dos días después de iniciada la Guerra de
Independencia y que participó en la acción del potrero de La Yuca,
mandada por el coronel Martín Marrero. No obstante, su ingreso oficial
al Ejército Libertador se registra el 13 de junio del mismo año, en
Santa Cruz. Sus hermanos Pedro Pablo y Tomás se incorporaron asimismo
a la lucha y alcanzaron el grado de coronel. También lo hizo su primo,
el pintor Armando G. Menocal, que llegó a comandante.
De inicio, y con el propósito de sacar el mayor partido a los
conocimientos del joven ingeniero, Máximo Gómez le confió la misión de
destruir en territorio camagüeyano las vías férreas y su sistema de
alcantarillas, tarea en la que alcanzó su mayor éxito con la
destrucción de las líneas del ferrocarril de Nuevitas. En eso estuvo
el capitán Menocal entre agosto y octubre del 95. Al mes siguiente,
junto con integrantes del Gobierno en armas —lo nombraron
subsecretario de Guerra— acompañó a la columna invasora mandada por
Maceo desde Mangos de Baraguá hasta Colmenar, casi a la entrada de Las
Villas. Cumplió en Bayamo y Manzanillo tareas de organización que le
encomendó el Gobierno. Durante 1896 combatió en Los Moscones, Yerba de
Guinea, La Piedra, La Aguada, Belleza, La Gloria, Loma de Hierro, Alto
de Conchita, Lugones, Tuabeque, Barrancas y Jucaibama. En ese año
asciende de pegueta a comandante, teniente coronel, coronel y general
de brigada, grado este que recibe, a propuesta de Gómez, por su
actuación en el ataque y toma del poblado de Guáimaro, que planeó y
dirigió.
En marzo del 97 está en el ataque a Jiguaní y en el combate de La
Ratonera y apoya, en el estero de Júcaro, en Banes, el tercer viaje
del vapor Laurada, que llega bajo el mando del general polaco Carlos
Roloff. Entre el 28 y el 30 de agosto sobresale en el ataque a Las
Tunas, donde resultó herido de gravedad y por el que fue ascendido a
general de división. Su sobrino, monseñor Carlos Manuel de Céspedes y
García Menocal, conserva como su mayor tesoro la bandera cubana que su
tío llevara en esa acción. En mayo de 1898 recibe la orden de formar
una columna y marchar hacia La Habana a fin de asumir la jefatura del
5to. Cuerpo de Ejército. Así, pasó una vez más la trocha de Júcaro a
Morón y llegó al campamento del mayor general Mayía Rodríguez, jefe
del Departamento Occidental, el 14 de agosto, dos días después de que
España y Estados Unidos firmaran la paz. Fue ascendido entonces a
mayor general. Se licenció el 24 de agosto.

Prisionero en Río Verde

Ya en La Habana, acampó con sus tropas en la playa de Marianao y
estableció su cuartel general en el edificio del Havana Yacht Club.
Fue uno de los nueve generales cubanos que, invitado por el mando del
ejército norteamericano, asistió el 1ro. de enero de 1899 al acto por
el cese de la soberanía española en Cuba que tuvo lugar en el Salón
del Trono del Palacio de los Capitanes Generales. Organizó el cuerpo
de la Policía habanera, fue inspector general de Obras Públicas y
luego jefe de la Comisión de Faros, antes de dedicarse al fomento del
central Chaparra. Por iniciativa suya se creó la Asociación Nacional
de Veteranos del Ejército Libertador, que lo designó para mediar entre
las partes en conflicto durante la guerrita de agosto, gestión que
fracasó por la intransigencia del presidente Estrada Palma. Organizó,
en los días de la segunda intervención norteamericana, el Partido
Conservador.
A su salida del poder, en 1921, viajó por Europa. Se opuso a Machado y
en agosto de 1931 lideró una sublevación en su contra. Fue hecho
prisionero en Río Verde, Pinar del Río, e internado primero en La
Cabaña y luego en el Presidio Modelo. Liberado, fue de nuevo objeto de
persecuciones que lo obligaron a abandonar el país. Regresó de Estados
Unidos a la caída de la dictadura machadista y volvió a insertarse en
la política nacional. En 1936 aspiró a la presidencia por última vez y
fue derrotado por Miguel Mariano Gómez, el hijo de José Miguel, su
viejo adversario.
Se opuso asimismo al coronel Batista, que regía los destinos del país
desde el campamento de Columbia, y organizó el Conjunto Nacional
Cubano, con el que pretendía nuclear las dispersas fuerzas
conservadoras y cuyos delegados concurrieron en calidad de
oposicionistas a la convención que elaboraría la Constitución de 1940.
Pero Batista, deseoso de asegurarse la presidencia en los comicios
generales que venían, ofreció a los menocalistas, si apoyaban su
aspiración, la vicepresidencia de la República, la alcaldía de La
Habana, tres gobiernos provinciales y 12 senadurías. Menocal se viró
con fichas, aceptó la propuesta y sus delegados en la Asamblea
Constituyente pasaron a formar parte de las filas del Gobierno porque,
decía el viejo caudillo a sus partidarios que juzgaban demasiado
amargo el brebaje pactista, «es hacerle un servicio al país
propiciarle a Batista una salida constitucional a fin de librar a Cuba
del predominio militar que él personifica».
Mario García Menocal falleció en La Habana el 7 de septiembre de 1941.
Dejó unos frijoles negros a lo Menocal y dos de los tragos
emblemáticos de la coctelería cubana: el Presidente y el Chaparra.







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Ciro Bianchi Ross
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Per una città migliore...

È incredibile che un Paese che guarda tanto lontano, non pensi alle cose più vicine. Da diversi giorni c'è un container abbandonato nella calzada di Ayestarán a pochi metri dall'incrocio con la calle 20 de Mayo, occupando una corsia di canalizzazione del traffico. L'ostacolo crea disagi nell'ora di punta, senza trascurare il pericolo di un incidente, tenendo anche presente che spesso la calzada di Ayestarán è immersa nel buio più assoluto durante le ore serali e notturne. Non si sa di chi sia e cosa faccia in quel luogo, ma quello che ci si chiede è: Non era forse meglio "parcheggiarlo" nell'attigua, certamente meno trafficata, calle Acosta? Con la scusa di questo parcheggio abusivo, anche i bidoni dell'immondizia vengono lasciati fuori dal loro posto, per comodità degli addetti alla raccolta.




Dizionario demenziale

BRIGANTINO: furfantello

domenica 22 settembre 2013

Dizionario demenziale

BOVINO: distillato di ruminanti

sabato 21 settembre 2013

Dizionario demenziale

BOCCAPORTO: cavità orale usata dalle navi per l'attracco

venerdì 20 settembre 2013

Zona Speciale di Sviluppo del Mariel

Dal primo novembre entrerà in vigore la Zona Speciale di Sviluppo del Mariel, nella provincia di Artemisa ad occidente della capitale e godrà di uno Statuto Speciale per promuovere nuove forme economiche. Il fulcro sarà il costruendo porto industriale che prende appunto il nome dalla località che sarà il più importante porto commerciale di Cuba. Il primo molo, di 700 metri di lunghezza, sarà inaugurato il prossimo gennaio e il complesso verrà ultimato entro il 2015. Nell'opera sono impegnati ingenti capitali, mezzi e tecnici brasiliani. L'area, distribuita su 465 km. quadrati, comprende diversi centri abitati della provincia. Vi si avvieranno attività a Statuto Speciale dove potranno investire anche gli stranieri senza obbligo di residenza, attenendosi naturalmente alle Leggi cubane, fra cui il Decreto di approvazione di questa Zona Speciale, che verrà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nei prossimi giorni e conterrà i dettagli di come poter accedere agli investimenti e in quale misura dovranno o potranno essere. Anche per i lavoratori di questa "zona franca" ci sarà un regime speciale di trattamento. Indubbiamente un'altra spinta riformista, dopo anni di immobilismo.

Dizionario demenziale

BISCIONE: Internazionale Football Club

giovedì 19 settembre 2013

Dizionario demenziale

BIGATTO: doppio felino

mercoledì 18 settembre 2013

Dizionario demenziale

BIANCASTRO: eviro quello bianco

martedì 17 settembre 2013

Torneo Hemingway 2014

L'edizione 2014 del Torneo di pesca al marlin si terrà dal 9 al 14 giugno, maggiori dettagli sul sito

Daniel Diaz Torres, un duro colpo per la cultura cubana

Nella notte di domenica è mancato, a soli 64 anni, Daniel Diaz Torres, uno dei più prolifici e talentosi registi del cinema cubano. Lo scorso dicembre era venuto a trovarmi in ufficio dove abbiamo parlato della sua carriera e di cui ho pubblicato un post il giorno 27 di quel mese. Non ha accennato minimamente di essere malato e sicuramente non ne aveva l'aria. Ha accettato e assaporato con gusto un buon caffè. Che sia rimasto gelato dalla notizia è dire poco. Anche lui vittima di quella perfida malattia che pur non essendo incurabile in assoluto è ancora in molti casi inguaribile, specialmente se diagnosticata tardi o se colpisce determinate parti del corpo.
Daniel oltre che cineasta di lunga traiettoria, ha iniziato giovanissimo nel mondo della celluloide, era una persona squisita. Si penserà che sono i soliti luoghi comuni che si dicono e scrivono per chi lascia questa terra, ma nel suo caso è certo. Modesto, senza essere schivo, non ha mai fatto palesare i suoi lavori che hanno lasciato una profonda traccia nel cinema cubano. Cordiale, sempre col sorriso sulla bocca e una grande disponibilità. Quando l'ho rivisto, dopo molti anni, nel corso dell'ultimo Festival del Cinema, gli avevo chiesto di avere un colloquio con lui per pubblicare un post riguardante la sua persona e carriera. Dopo pochi giorni è venuto a trovarmi e ne abbiamo parlato, come se fossimo sempre rimasti in contatto. Anche gli allievi della scuola del Nuovo Cine Latinoamericano e TV di S. Antonio de Los Baños hanno perso un amico, più che un professore. Hasta siempre Daniel!


lunedì 16 settembre 2013

Lo ieri di oggi, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 15/09/13

Ieri di Oggi

Un paio d'anni fa, questo scriba identificò un luogo dove trovò un edificio in rovina. Senza il tetto, con le pareti che si sostenevano per miracolo e colonne di ferro ancora innalzate, l'immobile era adibito a deposito di materiali. Nonostante le sue dimensioni ridotte, una targa di bronzo era visibile sulla sua facciata. Diceva “Qua è stato J. M.”
J. M.? Julián Marrero forse? Jorge Menéndez? Chissá Juan Mendoza? Acqua, acqua. J.M. È nientemno che José Martí e l'edificio è la Caridad del Cerro, l'associazione che dette feste e ricevimenti di grido e sontuosi, le cui serate politiche e letterarie passarono ogni limite di aggettivazione. I suoi saloni, all'epoca, furono frequentati da figure del calibro di Nicolás Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafel Montoro e, naturalmente, José Martí, per dirlo in una sola frase. Dalla Caridad del Cerro passarono tutti quelli che nella Cuba del XIX secolo godevano di prestigio. Colà Enrique Varona dette non poche delle sue conferenze, far le quali quelle che dedicò a Emerson, Victor Hugo, Luz y Caballero e sopratutto, nella sera del 14 maggio 1887, al “poeta anonimo della Polonia”, le cui parole finali, dice la cronaca, furono coperte da una delle ovazioni più sonore che ebbero luogo in quella sala della Calzada del Cerro fra Santa Teresa e Saragoza che, d'altra parte, era anche la sede del Partito Autonomista.
La casa appartenne a un membro della nobiltà dell'Isola fino a che nel 1875 dette ospitalità alla società. Federico Villoch descrive il locale nelle sue vecchie cartoline scolorite. Dice che la sala delle funzioni era ampia e ben disposta, e i saloni che accoglievano la biblioteca e la sala da gioco, ben ventilati. Il patio, ampio e quadrato , un giardino frondoso offriva gratuitamente piacevoli angoli per poter ricreare ampiamente lo spirito. La carta che tappezzava le pareti della sala d'ingresso e di svago, illuminato dalla luce di ostentatrici lampade di cristallo, provocava una voluttuosa atmosfera da sogno nel visitatore. Saloni in cui rivaleggiavano, in bellezza e distinzione, Josefina Herrera, Contessa di Fernandina; Esperanza Navarrete sulla via di convertirsi nella Marchesa di Larrinaga, la Contessa di Montalvo, quella di Calderón...Ivi si fece le ossa Regino López, quello che poi fu l'applaudito attore del teatro vernacolo. Le finanze non andavano, alla Caridad del Cerro, di pari passo alla spinta culturale. Sopravvisse a malapena fino a poco dopo lo scoppio della Guerra d'Indipendenza , nel 1895. Problemi economici che non potevano essere risolti dai suoi protettori, la strangolarono fino a condurla quasi alla miseria. Allora i suoi vecchi custodi, per ordini superiori, ne chiusero le porte. In fase discendente, il nobile edificio, divenne casa d'affitto e poi fu la sala cinematografica “Cerro Garden”, fino a converstirsi appunto in deposito di materiali.
Quando il Generalissimo Máximo Gómez entrò al'Avana nel 1898, alla guida delle sue truppe, ordinò che un gruppo di combattenti “mambises” rendesse gli onori a qualla che fu “La Caridad del Cerro”.

23 y M; L y 25

L'isolato che occupa l'hotel Habana Libre, sita tra le “calles” 23 e 25, L e M, nel Vedado, era, alla fine degli anni '40 del secolo scorso, un terreno incolto o quasi.
All'angolo di 23 e M si ergeva la residenza di Carlos Manuel de Céspedes, ex presidente della Repubblica e figlio del Padre della Patria. All'angolo di L e 25 si trovava, a partire del 1939, la casa del dottor Kourí, la cui figlia Ada era sposta con Raúl Roa. All'angolo opposto, in 23 e L, c'era un parco di divertimenti con veri cavallini: i pony; i bambini si montavano e un addetto dell'installazione prendeva le redini dell'animale. Per 5 centesimi si faceva il giro del terreno. C'erano pony anche nel buco all'angolo di 21 e G, nello spazio che oggi occupa il bell'edificio progettato dall'architetto Rafael de Cárdenas, autore anche fra le molte sue opere, del centro commerciale La Rampa, all'inizio della calle 23.
Naturalmente, quando si progettò la costruzione di un albergo, si impose l'acquisizione della casa di Céspedes per procedere alla sua demolizione e approfittare, così, dello spazio che occupava. La vedova dell'ex presidente disse che non era interessata a vendere e facendosi pregare per farlo, ottenne un'offerta irresistibile per il suo immobile.
La casa dei Kourí, dice Raúl Roa nel suo libro Memoriedi Mondi Varii, “aveva una cupola blu, un grande patio posteriore con alberi da frutta e un bagno 'pompeiano' al secondo piano”. Il patio, spiega Roa, si trovava circa sotto a dove oggi c'è il bar “Las Cañitas” dell'Habana Libre.
Erano tempi in cui nella calle L si transitava a doppio senso, mentre nella calle 17 i veicoli viaggiavano in senso contrario rispetto a oggi. Dove oggi c'è l'edificio Focsa, si trovava il club Cubanaleco, di fronte, dove si trova il ristorante El Conejito, c'era un locale chiamato El Liro, rinomato per i polli e le uova che vendeva. La Roca allora era El Colonial, e la pizzeria di L e 21 non era una pizzeria, ma un ristorante caffetteria che portava il nome di Las Delicias de Medina. Non c'era la libreria in L e 27, ma una caffetteria con entrata da ambedue le strade. Il Caffè degli Artisti, locale bohemienne, di proprietà dell'attore Otto Sirgo, si trovava un'isolato più sotto, in 25 e il Mocambo Club occupava il luogo de Las Bulerías. C'era un Ristorante Viennese nella calle K e una casa di cibi francesi: Le Vendôme, in Calzada all'angolo di C, mentre il ristorante Gaviria, in Calzada e M, davanti al parcheggio dell'Ambasciata degli Stati Uniti, garantiva una vista spettacolare dell'Avana.


L y 23


La Moderna Poesía

L'angolo della libreria La Moderna Poesía, in Obispo e Bernaza, era occupata, prima del 1900, dal calzaturificio di Manuel Sánchez Cuétaro. Più o meno alla data segnalata, José López Rodríguez, che rese celebre il nome “El Pote”, comprò l'angolo, liquidò le scarpe vendendole a stock, e riempì il locale di libri vecchi.
Si dice che allora che La Moderna Poesía era arredata con lo stile di un baraccone da fiera. Tavole grezze, senza pittura, che appoggiavano su altrettanti blocchi di legno, servivano da banco, anche gli scaffali dei libri erano grezzi, strapieni di libri, generalmente vecchi, acquistati quasi tutti usati.
Nel marciapiedi di fronte apriva le sue porte la libreria di Ricoy. In questa si incontravano Varona, Zayas, Carlos de la Torre ed altre eminenze dell'epoca, frugando affannosamente fra montagne di libri e riviste che riempivano la piccola sala del negozio.

La cancillería

Il “Ministero di Stato” era, al trionfo della Rivoluzione, l'ente incaricato delle relazioni estere di Cuba. La sua sede si trovava nell'Avana Vecchia, calle Capdevila, numero 6, nell'antica residenza della famiglia Pérez de la Riva, dove oggi si trova il Museo nazionale della Musica, un immobile che se era ideale per cocktail e ricevimenti, risultava inadeguato per lavori d'ufficio. Il Ministero aveva bisogno di traslocare e, nel 1958, la dittatura batistiana decise di farlo verso l'isolato tra le strade Calzada, G, H, e Quinta, nel quartiere del Vedado. Per ciò avrebbe utilizzato una grande casa che vi si trovava, al numero 306 della Calle Calzada, e avrebbe approfittato del terreno sul retro per la costruzione di un edificio di otto piani con la facciata principale sulla Calle Quinta, dove sarebbero state installate le principali dipendenze del Ministero.
Si sarebbe guadagnato così in ampiezza e comodità per il daffare quotidiano e si garantiva ai diplomatici accreditati nel Paese un accesso comodo e veloce da qualunque parte della città.
Il Vedado si estende sull'antica zona vietata – di li il nome del quartiere – dove si proibiva vivere, seminare, falciare e allevare bestiame per l'interesse della difesa dell'Avana dagli attacchi di corsari e pirati. Nell'area occupata dal Ministero degli Esteri era esistito, dal 1832, un cimitero destinato a negri schiavi che morivano senza essere stati battezzati. Siccome si ebbero proteste per lo stato in cui versava la necropoli dove, dice la cronaca, si seppellivano i negri come animali, si risanò il luogo, si nominò un cappellano e si decise di riservare la maggior parte del terreno all'inumazione di stranieri protestanti. Da li il nome di Cimitero degli Inglesi che ricevette allora, e Cimitero degli Americani come si identificò man mano che cittadini degli Stati Uniti superavano per numero e influenza i sudditi della Gran Bretagna. Venne chiuso nel 1847.
Dopo la fine della guerra d'Indipendenza, nel 1898, e l'instaurazione della Repubblica nel 1902, il quartiere ebbe un'auge imprevisto. I ricchi abbandonarono la angusta e rumorosa Avana Vecchia, comprarono terreni e costruirono nel quartiere. Lo fecero anche i nuovi ricchi e non pochi alti ufficiali dell'Esercito Liberatore che riscuotevano quanto dovuto.
La famiglia Gómez Mena decise di installarsi nel Vedado. Il ramo capeggiato da Alfonso Gómez Mena Villa acquisì i terreni della Calle Calzada, dove edificò la magione dove ha sede la Direzione del Protocollo e Cerimoniale del Ministero degli Esteri.
Prima dell'esistenza del citato cimitero, questi terreni furono proprietà di Antonio de Frías, parente del Conte de Pozos Dulces, padrone della tenuta dove si stabilì il Vedado. Successivamente apparterranno alla Contessa di Loreto che, nel 1920, li vendette alla dominicana Blanca Maria Vicini Perdomo. Questa li ipotecò a favore di Alfonso Gómez Mena e terminò, cinque anni dopo, vendendoglieli quando la fastosa residenza, che divenne abitabile nel 1926, era già in costruzione. Per edificarla, Alfonso, fu autorizzato a demolire le cinque case che vi erano erette.
Alfonso Gómez Mena incaricò i piani della costruzione al famoso architetto Francisco Centurión, autore anche del padiglione cubano all'Esposizione Internazionale di San Francisco, in California e per l'esecuzione del progetto contrattò i servizi della ditta Morales & c.ia, diretta dall'importante architetto Leonardo Morales, graduatosi all'Università di Harvard, Stati Uniti, e allievo della Scuola delle Belle Arti di Parigi.
Alla morte di Alfonso Gómez Mena nel 1936, la casa passò a nome della sua vedova Maria Vivanco, che la abitò fino al 1953. Cinque anni prima, l'immobile di 1659 metri quadrati di superficie, fu valutato in 115.000 pesos e i terreni in 200.000. Nel 1958 lo Stato Cubano acquisì i terreni e la casa per 650.000 pesos; cifra equivalente a dollari. In quel periodo declinava la stella e la fortuna degli eredi di Alfonso. Suo figlio Alfonso Gómez Mena Vivanco si vide obbligato, quello stesso anno, a consegnare la terza parte delle sue azioni del Central Santa Teresa come garanzia per il debito di 700.000 pesos che aveva con una azienda commerciante di zucchero. Non potendolo saldare alla scadenza, i creditori gli fecero causa che terminò con l'ipoteca del Central.
L'edificio di otto piani della Calle Quinta fu terminato dopo il 1959. Quando alla metà dell'anno, il dottor Raúl Roa assunse il portafoglio degli Esteri, gli uffici non erano ancora finiti e li fece installare nell'edificio che occuperebbe, poco dopo, la Casa de Las Américas.


Ayer de hoy

Ciro Bianchi Ross •
14 de Septiembre del 2013 19:12:54 CDT

Hace un par de años este escribidor localizó el lugar y encontró un
edificio en ruinas. Sin techo, con alguna que otra pared sosteniéndose
a como diera lugar y columnas de hierro todavía enhiestas, el inmueble
daba cabida a un depósito de materias primas. Pese a sus reducidas
dimensiones, una tarja de bronce se hacía visible entonces en su
fachada. Advertía: «Aquí estuvo JM».
¿JM? ¿Julián Marrero, acaso? ¿Jorge Menéndez? ¿Juan Mendoza, tal vez?
Frío, frío. JM es nada más y nada menos que José Martí, y el edificio
es el de La Caridad del Cerro, la sociedad que auspició fiestas y
recepciones renombradas y suntuosas y cuyas veladas políticas y
literarias traspasaron los límites de toda adjetivación. Sus salones,
en su momento, fueron frecuentados por figuras de la talla de Nicolás
Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafael
Montoro y, por supuesto, José Martí. Para decirlo en una sola frase.
Por La Caridad del Cerro pasó todo lo que en la Cuba de fines del
siglo XIX gozaba de verdadero prestigio. Allí Enrique José Varona
pronunció no pocas de sus conferencias, entre estas las que dedicó a
Emerson, Víctor Hugo, Luz y Caballero y sobre todo, en la noche del 14
de mayo de 1887, al «poeta anónimo de Polonia», cuyas palabras
finales, dice la crónica, fueron ahogadas por una de las ovaciones más
estruendosas que tuvieron lugar en aquella sala de la Calzada del
Cerro entre Santa Teresa y Zaragoza que, por otra parte, servía de
sede a la dirección del Partido Autonomista.
La casa perteneció a un miembro de la nobleza de la Isla hasta que en
1875 dio albergue a la sociedad. Federico Villoch describe el local en
sus Viejas postales descoloridas. Dice que la sala de actos era amplia
y bien distribuida, y ventilados los salones que acogían la biblioteca
y la sala de juegos. En el patio, ancho y cuadrado, un frondoso jardín
ofrecía gratos rincones para que el espíritu se solazase a sus anchas.
El papel que tapizaba las paredes de las salas de recepción y de
recreo, iluminado por la luz de gas de ostentosas lámparas de cristal,
provocaba en el visitante la idea de una voluptuosa atmósfera de
ensueño. Salones en los que rivalizaban en belleza y distinción,
Josefina Herrera, Condesa de Fernandina; Esperanza Navarrete, en
camino de convertirse en la Marquesa de Larrinaga, la Condesa de
Montalvo, la de Calderón… Allí hizo sus primeras armas Regino López,
el después muy aplaudido y popular actor de nuestro teatro vernáculo.
Las finanzas no andaban en La Caridad del Cerro a la par de su empuje
cultural. A duras penas sobrevivió hasta poco después de estallar la
Guerra de Independencia, en 1895. Problemas económicos a los que sus
protectores no pudieron corresponder, fueron estrechándola hasta
llevarla casi a la indigencia. Entonces sus viejos conserjes, por
órdenes superiores, cerraron sus puertas. Cuesta abajo, la noble
mansión derivó en casa de inquilinato y fue luego la sala
cinematográfica Cerro Garden hasta servir de depósito de materias
primas.
Cuando el Generalísimo Máximo Gómez entró en La Habana en 1898, al
frente de sus tropas, se dispuso que un grupo de mambises rindiera
respeto y homenaje a lo que fue La Caridad del Cerro.

23 y M; L y 25

La manzana que ocupa el hotel Habana Libre, enmarcada por las calles
23 y 25, L y M, en el Vedado, era, a fines de los años 40 del siglo
pasado, un terreno yermo o casi.
En la esquina de 23 y M se erigía la residencia de Carlos Manuel de
Céspedes, ex presidente de la República e hijo del Padre de la Patria.
En la esquina de L y 25 se hallaba, a partir de 1939, la casa del
doctor Kourí, cuya hija Ada estaba casada con el doctor Raúl Roa. En
la esquina opuesta, en 23 y L, existía un parque de diversiones con
caballitos de verdad, los ponis; el niño se le encaramaba y un
empleado de la instalación llevaba de la rienda al animal. Por cinco
centavos se daba la vuelta al terreno. Había también ponis en el hueco
de la esquina de 21 y G, en el espacio que ocupa el hermoso edificio
proyectado por el arquitecto Rafael de Cárdenas, autor asimismo, entre
otras muchas obras, del centro comercial La Rampa, al comienzo de la
calle 23.
Por cierto, cuando se proyectaba la construcción del hotel, se imponía
la adquisición de la casa de Céspedes para proceder a su demolición y
aprovechar así el espacio que ocupaba. La viuda del ex mandatario dijo
que no estaba interesada en vender y haciéndose de rogar para que
vendiera, consiguió una oferta irresistible por su inmueble.
La casa de los Kourí, dice Raúl Roa hijo en su libro Memoria de mundos
varios, «tenía una cúpula azul, un gran traspatio con árboles frutales
y un baño “pompeyano” en el segundo piso». El patio, precisa Roa,
quedaba aproximadamente debajo de donde está el bar Las Cañitas del
Habana Libre.
Eran tiempos en que la calle L se transitaba en ambos sentidos, y por
la calle 17 los vehículos circulaban en dirección contraria a como lo
hacen hoy. Donde ahora está el edificio Focsa, se hallaba el club
Cubanaleco, y enfrente, donde se encuentra el restaurante El Conejito,
existía un establecimiento llamado El Liro, reputado por los pollos y
huevos que expedía. La Roca era entonces El Colonial, y la pizzería de
21 y L no era una pizzería, sino una cafetería-restaurante que llevaba
el nombre de Las Delicias de Medina. No había librería en L y 27, sino
una cafetería con entrada por ambas calles. El Café de Artistas, sitio
bohemio, propiedad del actor Otto Sirgo, se ubicada una cuadra más
abajo, en 25, y el Mocambo Club ocupaba el lugar de Las Bulerías.
Había un Restaurante Vienés en la calle K, y una casa de comidas
francesas; Le Vendome, en Calzada esquina a C, mientras que el
restaurante Gaviria, en Calzada y M, frente al parqueo de la embajada
de Estados Unidos, aseguraba una vista espectacular de La Habana.

La Moderna Poesía

La esquina de la librería La Moderna Poesía, en Obispo y Bernaza,
estaba ocupada, antes de 1900, por la peletería de Manuel Sánchez
Cuétaro. Más o menos en la fecha señalada José López Rodríguez, que
haría célebre el sobrenombre de «Pote», compró la esquina, liquidó los
zapatos, los vendió a lo que le dieron por ellos, y llenó el local de
libros viejos.
Entonces La Moderna Poesía, dicen, estaba montada a estilo de una
barraca de feria. Una cuantas tablas toscas y sin pintar, que
descansaban sobre otros tantos burros de madera, servían de mostrador,
y toscos también eran los estantes, abarrotados de libros, viejos por
lo general, comprados casi todos de relance.
En la acera de enfrente abría sus puertas la librería de Ricoy. En
esta se veía a Varona, a Zayas, a Carlos de la Torre y a otras
eminencias de la época, registrando afanosos las tongas de libros y
revistas que llenaban la pequeña sala del establecimiento.

La cancillería

El Ministerio de Estado era, al triunfo de la Revolución, la entidad
encargada de las relaciones exteriores de Cuba. Su sede radicaba en La
Habana Vieja, calle Capdevila número 6, en la antigua residencia de la
familia Pérez de la Riva, donde ahora se halla el Museo Nacional de la
Música, un inmueble que si bien resultaba ideal para cocteles y
recepciones, resultaba inapropiado como lugar de trabajo y oficinas.
El Ministerio necesitaba reubicarse, y, en 1958, la dictadura
batistiana decidió hacerlo en terrenos de la manzana enmarcada por las
calles Calzada, G, H y Quinta, en el barrio del Vedado. Para ello
utilizaría la casona que allí se erigía, en el número 360 de la calle
Calzada, y aprovecharía el terreno del fondo para la construcción de
un edificio de ocho plantas y con fachada principal sobre la calle
Quinta, donde quedarían instaladas las dependencias principales del
organismo.
Se ganaba así en amplitud y comodidad para las faenas cotidianas, y se
aseguraba a los diplomáticos acreditados en el país un acceso cómodo y
rápido desde cualquier punto de la ciudad.
El Vedado se extiende sobre la antigua zona vedada —de ahí el nombre
del barrio— donde se prohibía vivir, sembrar, talar y criar ganado
en interés de la defensa de La Habana ante ataques de corsarios y
piratas. En el área ocupada por el Ministerio de Relaciones Exteriores
existió, a partir de 1832, un cementerio destinado a negros esclavos
bozales que morían sin bautizar. Como hubo protestas por el estado de
dicha necrópolis donde, dicen las crónicas, se enterraba a los negros
como animales, se adecentó el lugar, se nombró a un capellán y se
decidió destinar la mejor parte del campo a la inhumación de
extranjeros protestantes. De ahí el nombre de Cementerio de los
Ingleses, que recibió entonces, y Cementerio de los Americanos, como
se le designó a medida que ciudadanos de Estados Unidos superaban en
número e influencia a los súbditos de Gran Bretaña. Lo clausuraron en
1847.
Tras el fin de la Guerra de Independencia, en 1898, y la instauración
de la República, en 1902, la barriada adquirió un auge inusitado. Los
ricos de abolengo abandonan la atestada y ruidosa Habana Vieja y
compran terrenos y construyen en la barriada. Lo hacen también los
nuevos ricos y no pocos altos oficiales del Ejército Libertador que
cobran sus haberes.
La familia Gómez Mena decide radicarse en el Vedado. La rama de ella
que encabezaba Alfonso Gómez Mena Vila adquirió los terrenos de la
calle Calzada, donde edificaría la mansión que sirve de sede a la
Dirección de Protocolo y Ceremonial del Ministerio de Relaciones
Exteriores.
Antes de la existencia en estos del cementerio aludido, esos terrenos
fueron propiedad de don Antonio de Frías, pariente del Conde de Pozos
Dulces, dueño de la finca donde se asentó el Vedado. Pertenecerían
después a la Condesa del Loreto, quien, en 1920, los vendió a la
dominicana Blanca María Vicini Perdomo. Esta los hipotecó a favor de
Alfonso Gómez Mena y terminó vendiéndoselos cinco años más tarde,
cuando la fastuosa residencia, que adquirió la condición de habitable
en 1926, estaba ya en construcción. Para edificarla, Alfonso fue
autorizado a demoler las cinco viviendas allí enclavadas.
Alfonso Gómez Mena Vila encargó los planos de la mansión al afamado
arquitecto Francisco Centurión, autor asimismo del pabellón cubano en
la Exposición Internacional de San Francisco, California, y para la
ejecución del proyecto contrató los servicios de la firma Morales y
Compañía, dirigida por el importante arquitecto Leonardo Morales,
graduado en la Universidad de Harvard, en Estados Unidos, y egresado
de la Escuela de Bellas Artes de París.
Al fallecer Alfonso Gómez Mena en 1936, la casa pasó a nombre de su
viuda, María Vivanco, que la habitó hasta 1953. Cinco años antes el
inmueble, de 1 659 metros cuadrados de superficie, fue valorado en 115
000 pesos y los terrenos en 200 000. En 1958 el Estado cubano
adquirió los terrenos y la casa por 650 000 pesos; cifras esas
equivalentes a dólares. En esa fecha declinaba la estrella y la
fortuna de los herederos de Alfonso. Su hijo Alfonso Gómez Mena
Vivanco se veía obligado a entregar, en ese año, las dos terceras
partes de sus acciones en el central Santa Teresa en garantía por la
deuda de 700 000 pesos que tenía con una firma corredora de azúcar. Al
no poder saldarla en fecha, los acreedores establecieron un
procedimiento judicial que concluyó con el embargo del central.
El edificio de ocho plantas de la calle Quinta fue terminado después
de 1959. Cuando a mediados de ese año el doctor Raúl Roa asumió la
cartera de Relaciones Exteriores, sus oficinas no estaban aún
concluidas y las instaló en el edificio que ocuparía poco después la
Casa de las Américas.


Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/







Dizionario demenziale

BERGAMOTTO: indicazione stradale a pochi km dal capoluogo orobico

domenica 15 settembre 2013

Dizionario demenziale

BENEVOLO: felice viaggio aereo

sabato 14 settembre 2013

Premio Nobel per la guerra

In questo mio spazio cerco di non occuparmi strettamente di politica, però ogni tanto mi punge vaghezza di esprimere una mia modestissima opinione.

C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".

Dizionario demenziale

BENEFATTORE: dato matematico inserito correttamente

venerdì 13 settembre 2013

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BENEDIZIONE: affetto del grande zio

giovedì 12 settembre 2013

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BELLUINO: la zona migliore di una ridente località sul Lago Maggiore

mercoledì 11 settembre 2013

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BELLIMBUSTO: attraente conduttore televisivo

martedì 10 settembre 2013

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BELLETTO: giaciglio dall'aspetto invitante

lunedì 9 settembre 2013

A 80 anni dal "golpe". Di Ciro Bianchi Ross publicato su Juventud Rebelde dell'8/9/13

La cosa diventava peggiore ogni giorno. Si era installato il caos, dopo la caduta di Machado il 12 agosto del 1933. Carlos Manuel de Céspedes presiedeva il Governo, ma non governava e la combattività dei cubani spaventava l’ambasciatore statunitense. C’era fame, disoccupazione e scioperi. La fiammata popolare ardeva l’Isola: operai e studenti erano sul piede di guerra. Nel porto dell’Avana, due navi da guerra statunitensi stazionavano con i cannoni sfoderati e i marines pronti a sbarcare.
Il clima di indisciplina e insubordinazione cresceva nell’esercito. Gli ufficiali, demoralizzati per la loro complicità con la dittatura appena abbattuta, erano sulla difensiva e il complotto dei sergenti riuniti nella cosiddetta Giunta della Difesa o degli Otto, guadagnava discepoli fra i coscritti. Di questa Giunta facevano parte i sergenti Pablo Rodríguez, che la dirigeva, José Eleuterio Pedraza e Manuel López Migoya, il sergente stenografo Fulgencio Batista, il soldato Mario Alfonso Hernández...Chiedavono benefici per la categoria dei sottufficiali e soldati, che non gli si riducesse la paga e che si aumentasse la cifra della pensione. Chiedevano copricapi piatti, due bottoni in più nella giacca e di non essere più utilizzati come attendenti da parte degli ufficiali. Però, molto presto, il 4 di settembre, il movimento rivelerà la sua matrice politica: non era necessario chiedere quello che essi stessi potevano procurarsi.
La mattina di quel giorno, il capitano Mario Torres Menier, del corpo di Aviazione, si presentò al comando del Sesto Distretto Militare, con sede nel campo di Columbia. Portava il messaggio del colonnello Julio Sanguily, capo dello Stato Maggiore di riunirsi con sottufficiali e soldati per conoscere le loro richieste, dal momento che il comando sapeva delle agitazioni presenti nella truppa e dell’assemblea che era in progetto. Spiegò il motivo della su visita al tenente colonnello José Perdomo. Ma Perdomo non era in grado di ascoltare. Era appena stato sollevato dal comando del Distretto, che rimase sotto il comando provvisorio del comandante Antonio Pineda e non avrebbe tardato a partire per Santiago di Cuba per occupare il suo nuovo incarico... Volle abbassare il tono alle preoccupazioni di Torres Menier: “Questa riunione, che non ha la maggior importanza, è autorizzata; dirò di più, mi sembra giusto che i ragazzi presentino le loro richieste”, disse e ricordò che poco prima aveva espresso a Batista, dopo aver ascoltato le lamentele dei soldati, che non voleva più essere il tenente colonnello Perdomo, ma il sergente Perdomo. Nonostante ciò, il capitano volle insistere per riunirsi con qualcuno dei caporioni del movimento. Lo fece con Batista che era appena entrato nel campo Si incontrarono nel portico del Club degli Arruolati.
Una volta dentro al Club Batista, cauto, parlò di sua moglie e della figlioletta per le quali vegliava come faceva il resto di quelli riuniti, colà, per i propri famigliari. Fece un sacco di giri di parole senza entrare nel merito, fino a che il soldato Mario Alfonso Hernández gli tolse la parola con un: “Guarda, Batista, non dire più cretinate e di che quello che vogliamo è un cambio di regime”.

E basta!

Al sergente dava fastidio l’insistenza di Torres Menier perché ponesse per iscritto le richieste della truppa per portarle a Sanguily. Il documento poteva essere usato contro di lui. Per questo, quando il capitano lasciò il Club, uscì velocemente da Columbia senza prima tralasciare di avvisare alcuni dei complottanti che la cospirazione era stata scoperta. Andò a casa sua, nel “cuchillo” di Toyo con due compagni. Elisa, sua moglie, preparò qualcosa da mangiare per il gruppo e fu lei a tranquillizzarlo quando commentò che alla radio avevano parlato di “qualcosa” che era successo a Columbia, ma che si era risolto.
Allora Batista decise di tornare al campo. Col presetsto di redigere le richieste, riunì la sua gente. Tutte le unità furono convocate per le 8 di sera. A quell’ora circa 800 unità di aderenti, in rappresentanza dell’esercito e la marina di stanza all’Avana e Matanzas, si dettero appuntamento nel cinema del campo. Parteciparono anche alcuni ufficiali.
Quello che successe fu raccontanto in diversi modi. All’ora convenuta, Batista, salì sul palco. I presenti cominciarono a parlare delle richieste e non si sa chi lanciò il grido di guerra. Alcune fonti riferiscono che qualcuno gridò all’improvviso: “E basta! Da questio momento noi coscrittici facciamo carico della situazione. I signori ufficiali possono ritirarsi nelle loro case e aspettare ordini”. Si dice che a partire da quello, Batista seguì l’onda e si impadronì della situazione. Altri autori gli attribuiscono tutto il protagonismo. Assicurano che il sergente stenografo dichiarò che non si sarebbero più eseguiti altri ordini che i suoi e che i sergenti maggiori si sarebbero fatti carico delle rispettive unità. Chiese rispetto e considerazione per gli ufficiali...Disse ai suoi compagni. “Adesso andate alle vostre unità, prendete le armi e mantenetevi entro la maggior disciplina fino a che riceviate da me gli ordini dettati dal nuovo Stato Maggiore”.
Mentre i sergenti maggiori uscivano per prendere i comandi, i sergenti del quartier generale si presentavano per ricevere ordini. Batista passò all’edificio del Comando e occupò l’ufficio del colonnello comandante. Aveva urgenza di comunicarsi con le caserme delle province al fine di ottenere l’appoggio di sottufficiali e soldati. Prontamente si aggiunsero le forze distaccate nella fortezza de la Cabaña, il bastione militare avanero più importante dopo di Columbia. Anche la caserma Sant’Ambrogio, sede dell’intendenza dell’esercito, si era aggiunta alla sollevazione e lo stesso sucesse con la caserma di Dragones, sede del Quinto Distretto, preso da un solo sergente. Alle due del mattino del 5 settembre, le truppe della capitale del Paese rinsaldavano fermamenti il colpo di Stato, e nel resto della nazione non si tardò a imitarle. Alle 5, il Governo di Céspedes non esisteva più. A quest’ora, l’ordine numero 1, dettato a Columbia, informava che Batista era al comando del movimento golpista.
Si dice che Batista venne invitato a incorporarsi alla Giunta della Difesa perché era l’unico sergente che avesse un’automobile e i cospiratori avevano bisogno di un veicolo. Certamente fu il più audace del gruppo e si impadronì del movimento. Nominò Rodríguez comandante di Columbia e López Migoya aiutante di Rodríguez. Ma non firmò il documento. Lo fece Migoya come aiutante di Rodríguez che ne era all’oscuro. Si dice che i soldati protestarono per la decisione di Batista, ma Rodríguez lasciò le cose come stavano.

Se vuole vada, se no non vada

I civili arrivavano poco a poco al campo militare. Alcuni non poterono entrare perché le guardie, accusandoli di politicanti, lo impedirono. Arrivarono, tra gli altri, Ramiro Valdés Daussá, dell’orgnizzazione Pro Legge e Giustizia, “Pepelín” Leyva e “Willy” Barrientos del Direttivo Studentesco. Si ritenne prudente avvisare anche Rubén de León e Carlos Prío, anch’essi dell’organizzazione universitaria e Batista chiese che si avvertisse il giornalista Sergio Carbó, direttore della rivista “La Semana”. “Pepelín” fu ad avvisarlo nella sua casa di 17 e I, nel Vedado. Suonò il camapanello della porta del piano terreno e quando Carbó si affacciò al balcone, grido dal marciapiede che Batista gli chiedeva che andasse a Columbia perché il “golpe” era già in marcia.. “Senta, ma lei sa cosa mi sta dicendo?”, rispose Carbó. E Pepelín: “Vabbè, se vuole vada, se no non vada. Da parte mia glie l’ho detto”.
Fu Prío che convinse Batista che l’obbiettivo immediato di quel movimento era di prendere il potere, ebbene il fascio di domande dei coscritti, che era nel frattempo aumentato, non era più l’espressione di una rivolta senza contenuto politico. Ne conseguì che il sergente stenografo e i suoi compagni assumessero il programma del Direttivo e, presieduta da Prío, si costituì il Raggruppamento Rivoluzionario di Cuba conosciuto anche come Giunta Rivoluzionaria di Columbia. Il “Proclama della rivoluzione del popolo di Cuba”, firmato da quasi tutti i membri di questa organizzazione presenti al campo e da Fulgencio batista come “sergente delle Forze Armate della Repubblica”, tracciò le linee di condotta e annunciò la presa del potere.
Il Raggruppamento, diceva il documento redatto da Sergio Carbó, nasceva per impulsare, in modo integrale, le rivendicazioni rivoluzionarie per le quali lottava il popolo di Cuba dentro ampie linee di democrazia e su basi di sovranità nazionale. Queste rivendicazioni erano: la ricostruzione economica della nazione, la convocazione di un’assemblea costituente, il castigo dei grandi colpevoli della dittatura machadista e il rispetto dei debiti contratti dalla Repubblica.
Il Proclama precisava: “Considerando che l’attuale Governo (di Céspedes) non risponde alla domanda urgente delle Rivoluzione, nonostante la buona fede e il patriottismo dei suoi componenti, il Raggruppamento si fa carico delle redini del potere come Governo Rivoluzionario Provvisorio, che rimetterà il sacro comando conferito dal popolo appena l’Assemblea Costituente, che si deve convocare, designi il Governo costituzionale che reggerà il nostro destino fino alle prossime elezioni generali”.
Per allontanare il fantasma del “caudillismo” si optò per un Governo collegiale. Batista assicurò che l’Esercito e la Marina erano d’accordo di appoggiare il Governo che decidesse il Raggruppamento. La Commissione Esecutiva fu conformata da cinque persone e venne chiamata popolarmente “la Pentarchia”. Di questi, in quel momento erano già a Columbia Sergio Carbò e José Miguel Irísarri e si decise invitare i professori universitari Ramón Grau San Martín, di Medicina e Guillermo Portela, di Diritto, che si aggiunsero al gruppo. Irísarri propose che batista fosse il quinto “pentarca”, ma il sergente prudentemente disse che preferiva rimanere nell’esercito. Ci furono altre due proposte: Carlos de la Torre, il saggio delle lumache e il banchiere Porfírio Franca, che vinse per maggioranza.


Il Quartier Generale di Columbia


E Céspedes?

A questo punto rimaneva solo la sostituzione formale di un Governo che aveva cessato di esistere. Il Presidente Céspedes fu sorpreso dagli avvenimenti fuori dall’Avana. Stava tornando dalle province centrali, dove aveva valutato i danni dell’uragano del primo settembre, quando il suo segretario raggiunse il corteo del suo presidente a San Francisco de Paula e lo aggiornò sui fatti di Columbia. Erano le 11 di mattina del giorno 5. Gli disse: “Summer Welles dice di non fare niente fin che non abbia parlato con lui”. Perché era l’Ambasciatore nordamericano che, alla caduta di Machado, aveva imposto alla presidenza quell’uomo di 62 anni di età, figlio del Padre della Patria e che, come diplomatico, aveva passato buona parte della sua vita fuori da Cuba, alieno ai problemi del Paese.
La stampa, una volta nel Palazzo, volle interrogarlo, ma Céspedes ignorò le domande. “Il ciclone è stata una vera catastrofe”, dichiarò e salì al suo ufficio accompagnato da alcuni dei suoi ministri. Successivamente, Batista, ancora con i suoi galloni da sergente, e i “pentarchi” entrarono nell’ufficio del Presidente accompagnati anche da alcuni membri del Direttivo. Prío che giunse al Palazzo in maniche di camicia, dovette chiedere in prestito una giacca.
Silenzio. Attesa. Seguì un dialogo teso tra Grau San Martín e il Presidente che abbandonò il palazzo senza dimettersi.
(Fonti: Testi di N. Briones Montoto, E. De la Osa e L. Soto)



A 80 años del golpe

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Septiembre del 2013 19:08:54 CDT

La cosa estaba cada día peor. El caos se entronizó tras la caída de
Machado, el 12 de agosto de 1933. Carlos Manuel de Céspedes presidía
el Gobierno, pero no gobernaba y la combatividad de los cubanos
asustaba al Embajador estadounidense. Había hambre y desempleo y
huelgas. La llamarada popular quemaba la Isla y obreros y estudiantes
estaban en pie de lucha. En el puerto habanero dos buques de guerra
estadounidenses permanecían con los cañones desenfundados y los
marines prestos al desembarco.
El clima de indisciplina e insubordinación crecía en el Ejército. Los
oficiales, desmoralizados por su complicidad con la recién derrocada
dictadura, estaban a la defensiva y el complot de los sargentos
agrupados en la llamada Junta de Defensa o de los Ocho ganaba adeptos
entre los alistados. Formaban parte de esa Junta los sargentos Pablo
Rodríguez, que la encabezaba, José Eleuterio Pedraza y Manuel López
Migoya, el sargento taquígrafo Fulgencio Batista, el soldado Mario
Alfonso Hernández... Demandaban beneficios para clases y soldados, que
no se les rebajara el sueldo y que se aumentara el monto de las
pensiones; reclamaban gorras de plato y dos botones más en la guerrera
y que dejaran de ser utilizados como sirvientes por parte de la
oficialidad. Pero bien pronto, el 4 de septiembre, el movimiento
revelaría su matiz político: no era menester pedir lo que ellos mismos
podrían agenciarse.
En la mañana de ese día, el capitán Mario Torres Menier, del cuerpo de
Aviación, se personó en la jefatura del Sexto Distrito Militar, con
sede en el campamento de Columbia. Llevaba el encargo del coronel
Julio Sanguily, jefe del Estado Mayor, de reunirse con clases y
soldados y enterarse de sus peticiones ya que el mando tenía
conocimiento de la agitación que reinaba entre la tropa y de la
asamblea que proyectaba. Al teniente coronel José Perdomo explicó el
propósito de su visita. Pero Perdomo no estaba para el paso. Acababa
de ser relevado de la jefatura del Distrito, que quedó bajo el mando
provisional del comandante Antonio Pineda, y no demoraría en partir
para Santiago de Cuba a ocupar su nuevo destino. Quiso bajar el tono a
las preocupaciones de Torres Menier. «Esa reunión, que no tiene la
mayor importancia, está autorizada; es más, me parece que los
“muchachos” hacen bien en plantear sus demandas», dijo, y recordó que
poco antes había expresado a Batista que luego de conocer las quejas
de los soldados, no quería seguir siendo el teniente coronel Perdomo,
sino el sargento Perdomo. Aun así insistió el capitán en reunirse con
alguno de los cabecillas del movimiento. Lo haría con Batista, que
acababa de entrar en el campamento. Se encontraron en el portal del
Club de Alistados.
Ya dentro del Club, Batista, cauteloso, habló sobre su esposa y su
hijita, por las que, dijo, velaba al igual que lo hacían por sus
familiares el resto de los allí reunidos. Dio vueltas y más vueltas a
sus palabras, sin tocar lo esencial, hasta que el soldado Mario
Alfonso Hernández le cortó la perorata con un: «Mira, Batista, no
hables más mierda y di que lo que queremos es un cambio de régimen».

¡Basta ya!

Al sargento le daba mala espina la insistencia de Torres Menier de que
pusiera por escrito las peticiones de la tropa para trasladarlas a
Sanguily. El documento podía utilizarse en su contra. Por eso, en
cuanto el capitán abandonó el Club, salió él también disparado de
Columbia no sin avisar antes a algunos de los complotados que la
conspiración estaba descubierta. Con dos compañeros, se fue a su casa
en el cuchillo de Toyo. Elisa, su esposa, preparó para el grupo algo
de comer y fue ella la que los tranquilizó cuando comentó que por
radio hablaron sobre «algo» que sucedió en Columbia, pero que estaba
resuelto.
Decidió Batista entonces volver al campamento. Con el pretexto de
redactar el petitorio, reuniría a su gente. Todas las unidades fueron
convocadas para las ocho de la noche. A esa hora unos 800 alistados,
en representación de unidades del ejército y la marina destacadas en
La Habana y Matanzas, se daban cita en el cine del campamento.
Concurrían además algunos oficiales.
Lo que allí sucedió ha sido contado de muy diversas maneras. A la hora
convenida, Batista subió al estrado. Comenzaron los reunidos a hablar
sobre las demandas y no se sabe ya quién dio el grito de guerra.
Algunas fuentes refieren que alguien gritó de pronto: «¡Basta ya!
Desde este momento los alistados nos hacemos cargo de la situación.
Los señores oficiales pueden retirarse a sus casas y esperar órdenes».
Se cuenta que a partir de ahí Batista siguió la rima y se adueñó de la
situación. Otros autores le atribuyen todo el protagonismo. Aseguran
que el sargento taquígrafo expresó que no se obedecerían más órdenes
que las suyas y añadió que los sargentos primeros se harían cargo de
sus unidades respectivas. Pidió respeto y consideración para los
oficiales… Dijo a sus compañeros: «Ahora vayan a sus unidades, tomen
las armas y manténganse dentro de la mayor disciplina hasta que
reciban de mí las órdenes que dicte el nuevo Estado Mayor».
Mientras los sargentos primeros salían a ocupar los mandos y los
sargentos cuartel maestre se presentaban a recibir órdenes, Batista
pasaba al edificio de la jefatura del distrito y ocupaba el despacho
del coronel jefe. Le urgía comunicarse con los cuarteles de provincia
a fin de recabar el apoyo de clases y soldados. De inmediato se
sumaban las fuerzas destacadas en la fortaleza de La Cabaña, el
baluarte militar habanero más importante después de Columbia. El
cuartel de San Ambrosio, sede de la intendencia del ejército, se
sumaba también a la sublevación, y lo mismo sucedía con el cuartel de
Dragones, sede del Quinto Distrito, tomado por un solo sargento. A las
dos de la mañana del día 5 de septiembre las tropas de la capital del
país hacían firme su respaldo al golpe de Estado, y no tardaban en
imitarlas las del resto de la nación. A las cinco el Gobierno de
Céspedes no existía. A esa hora la Orden General número 1, dictada en
Columbia, daba cuenta de que Batista estaba al mando del movimiento
golpista.
Se dice que a Batista lo invitaron a incorporarse a la Junta de
Defensa porque era el único sargento que tenía automóvil y los
conspiradores necesitaban de un vehículo. Fue, sí, el más audaz del
grupo; se adueñó del movimiento. Protagonizó la asonada en el mismo
campamento de Columbia, y, antes, envió a Rodríguez a Matanzas. En
ausencia de Rodríguez, Batista dictó la orden en la que se designaba a
sí mismo jefe del movimiento. Nombró a Rodríguez jefe de Columbia y a
López Migoya, ayudante de Rodríguez. Pero no firmó el documento. Lo
hizo Migoya como ayudante de Rodríguez, que desconocía el asunto. Se
dice que los soldados protestaron la decisión de Batista, pero
Rodríguez dejó las cosas como estaban.

Si quiere va y si no, no va

Los civiles arribaban poco a poco al campamento militar. Algunos no
pudieron entrar porque los guardias, tachándolos de politiqueros, lo
impidieron. Llegaron, entre otros, Ramiro Valdés Daussá, de la
organización Pro Ley y Justicia, y «Pepelín» Leyva y «Willy»
Barrientos, del Directorio Estudiantil. Se creyó prudente avisar a
Rubén de León y a Carlos Prío, también de la organización
universitaria, y Batista pidió que se le avisara al periodista Sergio
Carbó, director de la revista La Semana. «Pepelín» fue a avisarle a su
casa de 17 e I, en el Vedado. Tocó el timbre de la puerta de los bajos
y cuando Carbó se asomó al balcón, gritó desde la acera que Batista le
pedía que fuera a Columbia porque ya el golpe estaba andando. «Oiga,
¿usted sabe lo que me está diciendo?», ripostó Carbó. Y Pepelín:
«Bueno, si quiere va y si no, no va. Ya yo se lo dije».
Fue Prío quien convenció a Batista de que el objetivo inmediato de
aquel movimiento debía ser la toma del poder, pues el pliego de
demandas de los alistados, que había seguido engrosándose, no era más
que expresión de una rebeldía sin contenido político. Se consiguió que
el sargento taquígrafo y sus compañeros asumieran el programa del
Directorio y, presidida por Prío, se constituía la Agrupación
Revolucionaria de Cuba, conocida también como Junta Revolucionaria de
Columbia. La «Proclama de la revolución al pueblo de Cuba» firmada por
casi todos los miembros de esa organización presentes en el campamento
y por Fulgencio Batista como «sargento jefe de las Fuerzas Armadas de
la República» fijó líneas de conducta y anunció la toma del poder.
La Agrupación, decía el documento redactado por Sergio Carbó, surgía
para impulsar, de manera integral, las reivindicaciones
revolucionarias por las que luchaba el pueblo de Cuba dentro de líneas
amplias de democracia y sobre principios de soberanía nacional. Esas
reivindicaciones eran la reconstrucción económica de la nación, la
convocatoria de una asamblea constituyente, el castigo de los grandes
culpables de la dictadura machadista y el respeto a las deudas
contraídas por la República.
Precisaba la Proclama: «Por considerar que el actual Gobierno (el de
Céspedes) no responde a la demanda urgente de la Revolución, no
obstante la buena fe y el patriotismo de sus componentes, la
Agrupación se hace cargo de las riendas del poder como Gobierno
Provisional Revolucionario, que reasignará el mando sagrado que le
confiere el pueblo tan pronto la Asamblea Constituyente, que se ha de
convocar, designe el Gobierno constitucional que regirá nuestros
destinos hasta las primeras elecciones generales».
Para alejar el fantasma del caudillismo, se optó por el Gobierno
colegiado. Batista aseguró que el Ejército y la Marina acordaban
apoyar el Gobierno que decidiera la Agrupación. Cinco figuras
conformarían la Comisión Ejecutiva —llamada popularmente Pentarquía—.
De estas, a esa hora, estaban ya en Columbia Sergio Carbó y José
Miguel Irisarri, y se decidió invitar a los profesores universitarios
Ramón Grau San Martín, de Medicina, y Guillermo Portela, de Derecho, a
que se sumaran al grupo. Irisarri propuso que Batista fuera el quinto
pentarca, pero el prudente sargento dijo que prefería mantenerse en el
ejército. Hubo dos propuestas más: Carlos de la Torre, el sabio de los
caracoles, y el banquero Porfirio Franca, que ganó por mayoría.

¿Y Céspedes?

A esa altura solo quedaba la sustitución formal de un Gobierno que
había ya dejado de existir. Al presidente Céspedes lo sorprendieron
los acontecimientos fuera de La Habana. Regresaba de las provincias
centrales, donde evaluó los destrozos del huracán del primero de
septiembre, cuando su secretario interceptó la caravana del mandatario
en San Francisco de Paula y lo impuso de los sucesos de Columbia. Eran
las 11 de la mañana del día 5. Le dijo: «Dice Summer Welles que no
haga nada hasta que no hable con él». Porque era el Embajador
norteamericano quien, a la caída de Machado, había impuesto en la
presidencia a aquel hombre de 62 años de edad, hijo del Padre de la
Patria y que, como diplomático, había pasado buena parte de su vida
fuera de Cuba, desconectado de los problemas del país.
La prensa, ya en Palacio, quiso interrogarlo, pero Céspedes rehuyó las
preguntas. «El ciclón ha sido una verdadera catástrofe», declaró y
subió a su despacho acompañado de algunos de sus ministros. Luego
Batista, aún con sus galones de sargento, y los pentarcas entraron en
la oficina del Presidente y penetraron además algunos miembros del
Directorio. Prío, que acudió a Palacio en mangas de camisa, tuvo que
pedir una chaqueta prestada.
Silencio. Expectación. Siguió un diálogo tenso entre Grau San Martín y
el mandatario que, sin renunciar, abandonó Palacio.
(Fuentes: Textos de N. Briones Montoto, E. de la Osa y L. Soto)


Ciro Bianchi Ross
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