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martedì 3 novembre 2020

Cellulari quasi inarrivabili

Ieri mi sono comprato un cellulare nuovo dato che il vecchio ha raggiunto limiti di età e limitazioni operative. Questi apparecchi si vendono in alcuni centri della Società Telefonica di Stato (Etecsa) abilitati alla vendita esclusivamente con POS e in moneta liberamente convertibile (leggi dollari). Queste unità, a differenza delle altre commerciali, hanno un orario che va dale 8.30 alle 16 e sono tre per tutta l’Avana. Pensando a quello che avrei trovato e credendo erroneamente che aprissero alle 8, vi sono arrivato alcuni minuti prima delle sette trovando in coda già 12 persone. Chiesto, come consuetudine, chi era l’ultima persona prima di me mi sono accinto ad attendere scoperndo la mezz’ora in più di quello che pensavo. Quando sono giunti gli impiegati ed hanno aperto il centro, dalla capienza limitata, hanno detto di mettersi in fila per ordine di arrive per distribuire I cartoncini numerati (fino a 50). Di botto ho scoperto cha dalla 13ma posizione ero passato alla 25ma e quello che era davanti a me era passato alla 10 dicendo che un amico gli aveva tenuto il posto più Avanti. Ma non poteva dirlo prima? Nelle ‘normali” code cubane ci si dirige in base alla persona giunta in precedenza. Alle 8 e un quarto circa arriva un’auto discretamente lussuosa per queste latitudini e la sua occupante aspetta l’apertura per inserirsi tra il gruppetto dei primi. Più tardi, verso le 11, sono arrivate separatamente due coppiette salutando attraverso i vetri il il personale Etecsa di cui solo due erano addette alla vendita. Chiesta ai presenti la cortesia di “salutare di persona” sono entrati ed usciti attendendo all’esterno dove pochi minuti dopo sono stati chiamati, senza avere il numeretto, ad accedere alla facci degli altri. Alla fine quasi a mezzogiorno sono riuscito a realizzare il mio (prezioso) acquisto con un’attesa di circa 5 ore. Quasi come un “tampone covid” in Italia…

venerdì 30 ottobre 2020

Libertà di opinione, abusi e terrorismo

Premesso che sono per l’assoluta libertà di espressione e che considero intollerabile che si uccida gente innocente per opinioni espresse da altri,mi sembra ingiusto anche che si faccia ironia a senso unico. Come mai non si fanno vignette con il Papa in mutande o Gesù Cristo ballando il twist? Come reagirebbero I “talebani” cristiani?

Al di là dei princìpi mi sembra superfluo e dannoso gettare benzina sul fuoco in un momento tanto difficile come quello che stiamo attraversando.

Il complesso di persecuzione dei musulmani, specie nelle frange estremiste, sarebbe meglio non coltivarlo. Ci sono mille modi di fare ironia su temi meno delicati.

Da parte sua Erdogan, Presidente turco, dopo aver accantonato in parte le idee progressiste di Kemal Pascià Atatürk fondatore della moderna Turchia, si è lasciato andare con un commento che poteva evitare dal momento che la presunta “persecuzione” dell’Islam non è nemmeno lontanamente paragonabile alla Shoàh.

sabato 24 ottobre 2020

70 anni della TV cubana

 Correva l'anno 1950 quando andavano in onda le prime emissioni della Televisione Cubana, assieme a Brasile e Messico sono stati i primi in America Latina. Quattro anni prima che in Italia...

giovedì 22 ottobre 2020

Riaperti i voli sull'Avana

L'aertoporto José Martí dell'Avana è tornato a operare completamente e American Airlines ha anticipato i voli previsti dal 4 di novembre. 

Anniversario del blocco Navale a Cuba

Oggi si compiono 58 anni da quando il Presidente “buono”, JFK aveva istituito un blocco navale attorno all’arcipelago cubano. Non contento di aver consentito lo sbarco alla Baia dei Porci (si chiamava così anche prima) e di aver fatto approvare la legge sull’embargo a Cuba, tutt’ora in vigore e inasprita con provvedimenti successivi con alloro per Strump.

Il blocco era stato costituito per impedire ai sovietici di sbarcare a Cuba un contingente di missili di corto e medio raggio che sarebbero serviti come mezzo dissuasivo e/o difensivo, visto come stavano le cose. Impensabile che Cuba potesse aggredire il gigante nordamericano. Dopo febbrili trattative, Khruscév cedette e ordinò il riritiro con imbarco di alcune unità già sbarcate sull’Isola. La prima minaccia di possibile guerra nucleare.


lunedì 19 ottobre 2020

Addio alle armi?, Figuriamoci!

Avete bisogno un’arma? Un mitragliatore? Un blindato? Un carro armato? Un caccia? Una corvetta? Nessun problema basta andare negli USA (anche prima di Strump) e risolvete il problema cercando nelle casa d’impegno, ma non solo. Magari non trovate missili o testate nucleari (forse), ma bisogna sapersi adattare.










sabato 17 ottobre 2020

Jet Blue torna all'Avana

La compagnia aerea statunitense Jet Blue ha annunciato di riannodare il suo operativo sulla capitale cubana a partire dal prossimo 2 novembre con tre frequenza settimanali da Fort Lauderdale, il lunedì, martedì e mercoledì. American Airlines il 4 da Miami.

giovedì 8 ottobre 2020

La situazione degli USA vista da un intellettuale nordamericano

Riflessioni di un intellettuale statunitense sullo stato attuale del suo Paese, magari da stampare, eventualmente tradurre e rileggere con calma.   


Indignación, frustración y miedo

Richard Ford

 

Arranca la carrera hacia la Casa Blanca. A un mes de las elecciones presidenciales, el novelista Richard Ford escribe este ensayo sobre el ánimo de un país sumido en la incertidumbre y preso de la fractura social: “En Estados Unidos se respira el peligro”.

Como escritor, dudo que mi manera de ver el mundo difiera mucho de la de otro ciudadano razonablemente comprometido o medianamente bien informado. Ciertamente, no sé más que nadie. De existir una diferencia entre mi visión y la de un fontanero, un vendedor de seguros o un profesor de primaria —y puede que en esto también me equivoque—, es que, como escritor de historias ficticias, me dedico a creer que todo es posible, que la experiencia plausible es mucho más amplia de lo que la historia, la lógica o la convención nos dicen. Me paso la mayor parte de los días evitando imaginar lo que podría o debería pasar en base a la lógica, queriendo imaginar qué puedo hacer que suceda y procurando que lo que suceda resulte interesante y útil. Al escribir novelas y relatos, o incluso ensayos como este, nada sucede necesariamente a otra cosa y cualquier cosa puede acontecer después de otra. Afortunadamente (y desafortunadamente a veces), esto también es cierto de la vida, donde se desarrolla la política.

Como ya deben saber, en Estados Unidos muy pronto votaremos para elegir a nuestro próximo presidente. También votaremos para averiguar qué tipo de país es y será Estados Unidos y qué tipo de personas somos los estadounidenses. Si les parece una situación incómoda, precaria, tal vez decisiva y no poco patética, es porque lo es. Que una gran nación se juegue tanto en un único ejercicio cívico, legalmente establecido y con su propio calendario, resulta alarmante.

Normalmente, en unas elecciones, en las que una parte promueve una visión del país y la otra promueve una visión distinta, quien sale victorioso se pone al servicio de los ciudadanos. A mucha gente le aburre esta relativa ausencia de emoción, pero a mí no. Si mi partido pierde, suelo pensar: “Que así sea”, ya que el propio acto de votar es lo que valida al país. Ambas visiones, después de todo, surgen de premisas sobre esta nación que una gran mayoría considera indiscutibles, premisas que emanan de las muchas creencias sobre las que se fundó, esto es, su mito de origen. En el caso de América, entre ellas encontramos que la obligación del poder legislativo y del judicial consiste en controlar y equilibrar el considerable poder que recae sobre el poder ejecutivo (el sistema de checks and balances). También el derecho de voto y la santidad de las elecciones; la certeza de que el poder ejecutivo no se lucrará económicamente desde su posición electa o la sencilla importancia de que exista un censo. Muchas de estas garantías operan como instituciones fundacionales, pero también como salvaguardas contra la tiranía y contra otros males que aquejan al liderazgo, como la ineptitud y el delito, ya que minan nuestra confianza en lo público.

Hoy siento un desconcertante silencio sobre esta tierra. Incluso en medio de una tormenta perfecta provocada por una peligrosa situación de tumulto nacional —ahí tenemos a un contumaz presidente que se dedica a avivar la violencia públicaa las protestas que han surgido en nuestras ciudades, a las tormentas monumentales y a los incendios forestales que roban vidas y engullen propiedades, a una economía desnortada y a una pandemia que crece de forma desenfrenada—, da la impresión de que estemos simplemente esperando. Esperando a ver quién gana, por supuesto, pero también impacientes por saber qué nos pasará después. Es como si un sustrato de hielo silente yaciera bajo la estrepitosa mezcolanza social que define a Estados Unidos, manteniéndonos quietos en nuestros sitios. Al fin y al cabo, la mayoría de los votantes ya han decidido su voto y ya no se molestan demasiado en leer los periódicos ni en seguir la actualidad por televisión. La covid-19 ha alterado por la fuerza nuestro sentido del tiempo, engendrando un presente largo y sobrecogedor. La arremetida constante de perfidias incomprensibles por parte del poder ejecutivo ha menoscabado nuestro sentido de autodeterminación. Siento al país en el que he pasado los 76 años de mi vida a una distancia extraña, y desde donde me encuentro no veo nada claro. Todo esto está aconteciendo a pocas semanas de que se celebren las elecciones más trascendentales de la vida de todos los estadounidenses. Desde esta distancia virtual y abrumadora, mi país se parece cada vez más a uno de esos países que pueden caer. Nunca me había sentido así, ni siquiera en lo más crudo de la guerra de Vietnam, ni siquiera tras los atentados del 11 de septiembre de 2001.

En otras palabras, en América se respira el peligro. Sentimos que no podemos seguir así indefinidamente, que deberíamos estar haciendo algo más para ayudarnos a nosotros mismos, pero estamos extrañamente constreñidos, clavados en el sitio.

Bien podría decirse que Estados Unidos se fundó sobre la premisa de los límites estratégicos, sobre un presunto respeto por las normas y las leyes; sobre la creencia de que 13, y luego 20, y después 30, y finalmente hasta 50 entidades geográficas diferenciadas (nuestros Estados) podían y debían buscar la manera de adecuarse los unos a los otros a lo largo y ancho de una vasta y diversa masa continental y así proclamar una nación; que los poderes gubernamentales serían transferidos de manera pacífica y puntual, y que desempeñarían sus funciones de forma gradual y atendiendo a los matices, reconociendo la ambigüedad y cultivando la paciencia ante la complejidad que entrañan el compromiso cívico y las tensiones provocadas por las inevitables discrepancias que surgen en su seno. Como la historiadora estadounidense Anne Applebaum ha dicho sobre nosotros, y sobre otros también, las democracias requieren tolerancia. Esas mismas premisas e instituciones fundacionales que nos protegen de la tiranía permanecen más allá de los Gobiernos sucesivos a través del requerimiento estricto a un sector constitucional del Gobierno (el legislativo, por ejemplo) que actúe como supervisor y guardián de otro. De nuevo, a este vaivén lo llamamos sistema de equilibrios y contrapoderes. Todo esto forma parte de la nave del Estado, una nave de tamaño considerable, difícil de manejar y erigida sobre un positivismo impracticable. En esta mole ingeniosa pero lenta, las instituciones han suscitado en los estadounidenses la confianza (cuestionable) en que los asuntos de Estado funcionan y deberían funcionar de una forma visible y predecible mientras los demás nos dedicamos a nuestros asuntos felizmente y sintiéndonos a salvo. Podría decirse que estamos ante una versión del “demasiado grande para caer”, pero ya sabemos cómo funciona eso. Mi esposa y yo tenemos un amigo canadiense que un día, bromeando, nos dijo: “Sois el único país que se tomó la democracia en serio”. (Y no era un cumplido). A lo que respondí: “Sí. Bueno, más o menos. Supongo. Sí, claro”.

“Supongo” porque esas certezas de la Ilustración que tenemos tan grabadas trajeron consigo una profunda desconfianza hacia el Gobierno, heredada de los británicos, y una obsesión concomitante por los derechos de propiedad, como si solo la tierra fuera merecedora de confianza. Relacionado con esto, también despertaron en nosotros una desconfianza hacia la mutualidad, una xenofobia rampante y endémica, una religiosidad empalagosa y poco convincente, y la creencia de que los complejos problemas de los humanos podían (y, probablemente, deberían) resolverse con solo trasladarse a otro lugar, ya que lugares a los que trasladarse había de sobra. La independencia, que para Estados Unidos comenzó siendo un mantra con el que nos liberamos de la opresión británica para ser aún más libres, de modo que pudiéramos vincularnos al mundo de una forma más fecunda, se ha anquilosado y ha pasado a convertirse en un término popular que denota banalidad, ignorancia y aislamiento. ¿Les resulta familiar? ¿Pueden ver un rostro humano formándose en un baño químico?

Las democracias pueden caer y lo hacen. Hay que leer a Cicerón, como hicieron nuestros padres fundadores. El declive de una gran nación no debería darse fácilmente. Pero Estados Unidos es un país joven que no ha estado sometido a la prueba del tiempo, y, en muchos sentidos, no es muy autocrítico ni muy consciente de sí mismo. Solo tres guerras, una salvaje contra nosotros mismos y otras dos contra nuestros vecinos más cercanos, se han librado dentro de nuestras fronteras (solemos no tener en cuenta las guerras genocidas que los blancos libramos contra nuestros predecesores indígenas). Así de desatentos, con nuestras libertades y nuestra riqueza tan desigualmente distribuida, tendemos de manera engañosa a dar por sentadas nuestra soberanía, nuestra estabilidad y nuestra rectitud (¡muchos estadounidenses aún piensan que ganamos la guerra de Vietnam!). Nuestros mimbres fundacionales, delicadamente compensados entre sí, han tejido un país magnífico cuando funcionan bien y todo el mundo acepta, conoce y respeta las reglas (menos gobierno y más libertad, igual a felicidad: el gran experimento estadounidense). Pero esas mismas geometrías se tornan precarias y susceptibles de sufrir distrofia cuando no se observan de manera estricta. Como sucede ahora.

Mis amigos europeos me dicen a menudo, aunque creo que no demasiado en serio, que “miran a Estados Unidos con esperanza”, como si alzaran la vista hacia la ahora famosa “ciudad sobre la colina” de John Winthrop. Sin embargo, les preocupa que nos estemos adentrando en zona de peligro. Pero mientras no se trate únicamente de flujos de caja o de reposiciones de Los días felices, cuestiono su inquietud. No es que nos deseen mal, necesariamente. Bastante tendrán de lo que preocuparse en sus países como para tener que ponerse a evaluar el mío. Pero también es posible que hayan probado el ponche de ácido lisérgico del “excepcionalismo estadounidense” y no hayan leído aún el sermón del pastor Winthrop. A los feligreses puritanos del Massachusetts del siglo XVII, los residentes putativos de la ciudad sobre la colina, Winthrop les dijo: “Los ojos de todas las gentes están sobre nosotros. Así que, si tratamos falsamente con nuestro Dios en esta labor que hemos emprendido y nos niega la ayuda que ahora nos brinda, nos convertiremos en una anécdota y en objeto de burla en todo mundo”. En términos seculares: no creas que estamos exentos de las calamidades a las que otros se han enfrentado y han padecido.

La historia estadounidense es una endeble novela en curso escrita con una certeza incómoda y provisional que tiene que ver con el lugar al que nos conducirá todo esto, un relato que precisa que muchas cosas vayan bien y que no demasiadas cosas importantes salgan mal para no desviarse mucho de su trama básica y optimista. Muchos creen que esta cualidad errática es buena. Pero existen otras opiniones.

Sumidos como estamos en un estado de ánimo un tanto preapocalíptico, se estila preguntarse en alto y por escrito qué dirían los historiadores sobre el mundo y sobre América en este momento. Como si a los historiadores por fin se les fuera a conceder lo que les corresponde y siempre han deseado, ser los depositarios de la verdad, los sacerdotes fúnebres del lío que hemos montado. Lo que sí creo que podrían decir en retrospectiva sobre estos días gélidos y tenebrosos que estamos viviendo es: “Vaya. Desde la perspectiva de la eternidad, Estados Unidos no ha durado tanto. Ni siquiera en comparación con sus peores enemigos. Pero le acuciaron los problemas. La esclavitud fue uno muy gordo. Como también lo fue su incapacidad de leer la historia (por supuesto que lo dirían). Y su fracaso a la hora de mirar fuera y ver lo que estaba sucediendo en el mundo, del cual fueron una parte importante durante un tiempo. Eso sumado a no haber mirado hacia dentro para ver lo que estaba sucediendo delante de sus narices. Y, claro, hacia el final las cosas se pusieron muy feas. Ya nadie sabía cómo funcionaba el Gobierno. Con todas esas armas, además, no podía ser un lugar seguro. Convirtieron el medio ambiente en algo tóxico. Para ser un país absurdamente rico, mucha gente estaba hambrienta, y las escuelas no eran mejores que las de Uzbekistán. Vistas las cosas como en realidad son, no es de extrañar que cayera”.

Intentar ver las cosas como son es lo que alguno de nosotros, que espero seamos mayoría, estamos haciendo durante este frío tiempo de espera. No siempre resulta sencillo, o a lo mejor es que no nos tomamos nuestra ciudadanía lo bastante en serio. He aquí la misma complacencia de siempre.

A veces pienso que los españoles y los uzbecos y los ciudadanos de Uganda entienden lo que sucede en Estados Unidos mejor que la mayoría de los estadounidenses, que lo ven todo de cerca. Necesitamos con urgencia usar esa desconcertante distancia en la que me he sentido últimamente a modo de lente amplificadora que nos ayude a esclarecer más las cosas. Porque, a veces, ese insólito silencio que yo y todos en este país sentimos se parece al silencio que precede a la batalla, y esa extraña confusión que levanta el polvo en torno a los hechos más simples de la existencia humana recuerda a la niebla de la guerra. Suena melodramático. Me gustaría estar equivocado porque soy un estadounidense patriota. Pero como Tolstói y todo gran cronista de guerra han dejado maravillosamente claro, todas las guerras se libran mucho antes de que las armas comiencen a disparar y el humo confunda a los soldados en el campo de batalla.

No sé mucho de autoritarismo protofascista, solo lo que leo en los libros, pero las palabras me asustan un poco. A diferencia del excepcionalismo estadounidense, sé que el autoritarismo no es un mito, y que una de sus características iniciales más siniestras y destructivas es que no se anuncia como lo que es, sino como una solución directa, rápida, racional e inevitable para todo lo que aqueja a la gente y a su país. En ese sentido, y en muchos otros también, funciona de manera opuesta a la democracia, ya que esta requiere tiempo y paciencia para funcionar lo mejor posible, y valora la tolerancia, la contención y la postergación de la gratificación a fin de que el mayor número posible de personas participe en ella y tenga voz, para que se sirvan de ella y les proteja.

Muchos creemos que el autoritarismo se encuentra a las puertas de la frágil democracia estadounidense, que tiende a plegarse una y otra vez, pero esta flexibilidad (que por lo general es una virtud) también puede permitir que la bestia entre espontáneamente en la sala. Las señales abundan y están a la vista de todos. Debemos retirar los ojos de la hoja de cálculo y dejar de mirarnos en ese espejo en el que a lo mejor vemos que las cosas no nos están yendo tan bien hoy. En efecto, el autoritarismo, la pseudoideología en la que todo el poder, la inteligencia y la intención pública fluyen de arriba abajo, donde los ciudadanos se encuentran —y que por lo general emana de algún actor masculino, déspota y mesiánico—, busca falsear y suprimir y, por tanto, “remediar” los sentimientos de descontento que como humanos experimentamos. Y lo hace a través de un chorro de desinformación sobre cuál es la causa de qué en el mundo, culpando a los demás de los males de la sociedad con una grandilocuencia tóxica, desasosegante y desconocida; a través de la falsa promesa de que un pasado indefinido era mejor que el presente; de la idea absurda de que la ley es para otros; y con la insolencia de que la dicción y la gramática que usamos y que nos une como nación significa de hecho lo contrario de lo que pensábamos que significaba. Que el descaro es honestidad. Y que la civilización que hemos creado y en la que nos sostenemos, por muy imperfecta que sea, es falsa y superficial y necesita ser derribada. Todo esto solo para que el déspota pueda mantener su puesto.

Debo preguntarles de nuevo: ¿les resulta familiar? ¿Comienza ya a flotar un rostro humano en el líquido naranja? ¿Nos hace creer esa cara que el hombre que se encuentra detrás piensa que absolutamente cualquier cosa puede suceder a otra solo porque él lo dice? Si no nos hace pensar eso, es que a lo mejor no estamos prestando suficiente atención.

De modo que sí, tengo miedo. A eso se reduce todo esto. No he bebido ni un sorbo de ponche de ácido lisérgico y me siento paralizado, ligeramente desorientado y enfadado conmigo mismo. Sentirme así aumenta mi empatía hacia los ciudadanos de países del Tercer Mundo y hacia lo que experimentan cuando salen del monte y caminan durante tres días para emitir un voto con el que derrocar a un dictador que durante décadas ha tenido todo el poder en sus manos. Pienso en la inmensa e improbable oportunidad que supuso poder crear Estados Unidos, en cuántas estrellas hubieron de alinearse; en cuántas personalidades mágicas, intelectos y espíritus tuvieron que juntarse; en cuánta historia aprendida y clarividencia reunida. Cuánto optimismo e imaginación, cuánta mesura desplegada. Si lo dejamos escapar, será imposible recuperarlo.

Donald Trump (fíjense que es la primera vez que lo menciono), tanto si es un protofascista como si es cualquiera otra cosa —un niño malvado, un Frankenstein dando tumbos en una habitación extraña y oscura (el propio Estados Unidos)—, es solo un síntoma desconcertante de una enfermedad más profunda que padece América alimentada por la indignación, la frustración, la desilusión, el miedo, una historia violenta, una constante indefensión e incluso una aversión hacia el estadounidense en el que nos hemos convertido. No nos sentimos así todo el tiempo, pero en un momento dado sí que podemos albergar alguno de estos sentimientos, y la gran mayoría de nosotros podemos gestionarlos sin querer destruir el país. Cuando al comienzo de este ensayo he dicho que estamos nerviosos, a la espera de descubrir qué tipo de personas somos y qué tipo de país tenemos, me refería a que queremos saber cómo vamos a gestionar lo que nosotros ni nuestro país no podemos ignorar más.

Alexis de Tocqueville, que conoció unos Estados Unidos jóvenes, escribió en 1839 que “la salud de una sociedad democrática puede medirse por la calidad de las funciones desempeñadas por los particulares”. Escribo en calidad de uno de esos particulares. Hay más personas que creen lo que yo creo que personas que no lo hacen. Así que espero que Tocqueville siga teniendo razón mientras aguardo a que llegue el día de las elecciones y con mi voto formar parte de este gran experimento. Esta vez vamos a necesitar suerte, de esto estoy seguro. Y recuerden una vez más…, nada sucede necesariamente a una cosa. La hemos liado parda, pero debo confiar en que no es demasiado tarde para deshacer el entuerto.

 

Traducción de Marta Caro.

 

domenica 4 ottobre 2020

Riparte il turismo a Varadero

Dal prossimo 15 ottobre Varadero si riapre al turismo internazionale. 

sabato 3 ottobre 2020

Agli albori degli e-books