Ieri di Oggi
Un paio d'anni fa, questo scriba identificò un luogo dove trovò un edificio in rovina. Senza il tetto, con le pareti che si sostenevano per miracolo e colonne di ferro ancora innalzate, l'immobile era adibito a deposito di materiali. Nonostante le sue dimensioni ridotte, una targa di bronzo era visibile sulla sua facciata. Diceva “Qua è stato J. M.”
J. M.? Julián Marrero forse? Jorge Menéndez? Chissá Juan Mendoza? Acqua, acqua. J.M. È nientemno che José Martí e l'edificio è la Caridad del Cerro, l'associazione che dette feste e ricevimenti di grido e sontuosi, le cui serate politiche e letterarie passarono ogni limite di aggettivazione. I suoi saloni, all'epoca, furono frequentati da figure del calibro di Nicolás Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafel Montoro e, naturalmente, José Martí, per dirlo in una sola frase. Dalla Caridad del Cerro passarono tutti quelli che nella Cuba del XIX secolo godevano di prestigio. Colà Enrique Varona dette non poche delle sue conferenze, far le quali quelle che dedicò a Emerson, Victor Hugo, Luz y Caballero e sopratutto, nella sera del 14 maggio 1887, al “poeta anonimo della Polonia”, le cui parole finali, dice la cronaca, furono coperte da una delle ovazioni più sonore che ebbero luogo in quella sala della Calzada del Cerro fra Santa Teresa e Saragoza che, d'altra parte, era anche la sede del Partito Autonomista.
La casa appartenne a un membro della nobiltà dell'Isola fino a che nel 1875 dette ospitalità alla società. Federico Villoch descrive il locale nelle sue vecchie cartoline scolorite. Dice che la sala delle funzioni era ampia e ben disposta, e i saloni che accoglievano la biblioteca e la sala da gioco, ben ventilati. Il patio, ampio e quadrato , un giardino frondoso offriva gratuitamente piacevoli angoli per poter ricreare ampiamente lo spirito. La carta che tappezzava le pareti della sala d'ingresso e di svago, illuminato dalla luce di ostentatrici lampade di cristallo, provocava una voluttuosa atmosfera da sogno nel visitatore. Saloni in cui rivaleggiavano, in bellezza e distinzione, Josefina Herrera, Contessa di Fernandina; Esperanza Navarrete sulla via di convertirsi nella Marchesa di Larrinaga, la Contessa di Montalvo, quella di Calderón...Ivi si fece le ossa Regino López, quello che poi fu l'applaudito attore del teatro vernacolo. Le finanze non andavano, alla Caridad del Cerro, di pari passo alla spinta culturale. Sopravvisse a malapena fino a poco dopo lo scoppio della Guerra d'Indipendenza , nel 1895. Problemi economici che non potevano essere risolti dai suoi protettori, la strangolarono fino a condurla quasi alla miseria. Allora i suoi vecchi custodi, per ordini superiori, ne chiusero le porte. In fase discendente, il nobile edificio, divenne casa d'affitto e poi fu la sala cinematografica “Cerro Garden”, fino a converstirsi appunto in deposito di materiali.
Quando il Generalissimo Máximo Gómez entrò al'Avana nel 1898, alla guida delle sue truppe, ordinò che un gruppo di combattenti “mambises” rendesse gli onori a qualla che fu “La Caridad del Cerro”.
23 y M; L y 25
L'isolato che occupa l'hotel Habana Libre, sita tra le “calles” 23 e 25, L e M, nel Vedado, era, alla fine degli anni '40 del secolo scorso, un terreno incolto o quasi.
All'angolo di 23 e M si ergeva la residenza di Carlos Manuel de Céspedes, ex presidente della Repubblica e figlio del Padre della Patria. All'angolo di L e 25 si trovava, a partire del 1939, la casa del dottor Kourí, la cui figlia Ada era sposta con Raúl Roa. All'angolo opposto, in 23 e L, c'era un parco di divertimenti con veri cavallini: i pony; i bambini si montavano e un addetto dell'installazione prendeva le redini dell'animale. Per 5 centesimi si faceva il giro del terreno. C'erano pony anche nel buco all'angolo di 21 e G, nello spazio che oggi occupa il bell'edificio progettato dall'architetto Rafael de Cárdenas, autore anche fra le molte sue opere, del centro commerciale La Rampa, all'inizio della calle 23.
Naturalmente, quando si progettò la costruzione di un albergo, si impose l'acquisizione della casa di Céspedes per procedere alla sua demolizione e approfittare, così, dello spazio che occupava. La vedova dell'ex presidente disse che non era interessata a vendere e facendosi pregare per farlo, ottenne un'offerta irresistibile per il suo immobile.
La casa dei Kourí, dice Raúl Roa nel suo libro Memoriedi Mondi Varii, “aveva una cupola blu, un grande patio posteriore con alberi da frutta e un bagno 'pompeiano' al secondo piano”. Il patio, spiega Roa, si trovava circa sotto a dove oggi c'è il bar “Las Cañitas” dell'Habana Libre.
Erano tempi in cui nella calle L si transitava a doppio senso, mentre nella calle 17 i veicoli viaggiavano in senso contrario rispetto a oggi. Dove oggi c'è l'edificio Focsa, si trovava il club Cubanaleco, di fronte, dove si trova il ristorante El Conejito, c'era un locale chiamato El Liro, rinomato per i polli e le uova che vendeva. La Roca allora era El Colonial, e la pizzeria di L e 21 non era una pizzeria, ma un ristorante caffetteria che portava il nome di Las Delicias de Medina. Non c'era la libreria in L e 27, ma una caffetteria con entrata da ambedue le strade. Il Caffè degli Artisti, locale bohemienne, di proprietà dell'attore Otto Sirgo, si trovava un'isolato più sotto, in 25 e il Mocambo Club occupava il luogo de Las Bulerías. C'era un Ristorante Viennese nella calle K e una casa di cibi francesi: Le Vendôme, in Calzada all'angolo di C, mentre il ristorante Gaviria, in Calzada e M, davanti al parcheggio dell'Ambasciata degli Stati Uniti, garantiva una vista spettacolare dell'Avana.
L y 23
La Moderna Poesía
L'angolo della libreria La Moderna Poesía, in Obispo e Bernaza, era occupata, prima del 1900, dal calzaturificio di Manuel Sánchez Cuétaro. Più o meno alla data segnalata, José López Rodríguez, che rese celebre il nome “El Pote”, comprò l'angolo, liquidò le scarpe vendendole a stock, e riempì il locale di libri vecchi.
Si dice che allora che La Moderna Poesía era arredata con lo stile di un baraccone da fiera. Tavole grezze, senza pittura, che appoggiavano su altrettanti blocchi di legno, servivano da banco, anche gli scaffali dei libri erano grezzi, strapieni di libri, generalmente vecchi, acquistati quasi tutti usati.
Nel marciapiedi di fronte apriva le sue porte la libreria di Ricoy. In questa si incontravano Varona, Zayas, Carlos de la Torre ed altre eminenze dell'epoca, frugando affannosamente fra montagne di libri e riviste che riempivano la piccola sala del negozio.
La cancillería
Il “Ministero di Stato” era, al trionfo della Rivoluzione, l'ente incaricato delle relazioni estere di Cuba. La sua sede si trovava nell'Avana Vecchia, calle Capdevila, numero 6, nell'antica residenza della famiglia Pérez de la Riva, dove oggi si trova il Museo nazionale della Musica, un immobile che se era ideale per cocktail e ricevimenti, risultava inadeguato per lavori d'ufficio. Il Ministero aveva bisogno di traslocare e, nel 1958, la dittatura batistiana decise di farlo verso l'isolato tra le strade Calzada, G, H, e Quinta, nel quartiere del Vedado. Per ciò avrebbe utilizzato una grande casa che vi si trovava, al numero 306 della Calle Calzada, e avrebbe approfittato del terreno sul retro per la costruzione di un edificio di otto piani con la facciata principale sulla Calle Quinta, dove sarebbero state installate le principali dipendenze del Ministero.
Si sarebbe guadagnato così in ampiezza e comodità per il daffare quotidiano e si garantiva ai diplomatici accreditati nel Paese un accesso comodo e veloce da qualunque parte della città.
Il Vedado si estende sull'antica zona vietata – di li il nome del quartiere – dove si proibiva vivere, seminare, falciare e allevare bestiame per l'interesse della difesa dell'Avana dagli attacchi di corsari e pirati. Nell'area occupata dal Ministero degli Esteri era esistito, dal 1832, un cimitero destinato a negri schiavi che morivano senza essere stati battezzati. Siccome si ebbero proteste per lo stato in cui versava la necropoli dove, dice la cronaca, si seppellivano i negri come animali, si risanò il luogo, si nominò un cappellano e si decise di riservare la maggior parte del terreno all'inumazione di stranieri protestanti. Da li il nome di Cimitero degli Inglesi che ricevette allora, e Cimitero degli Americani come si identificò man mano che cittadini degli Stati Uniti superavano per numero e influenza i sudditi della Gran Bretagna. Venne chiuso nel 1847.
Dopo la fine della guerra d'Indipendenza, nel 1898, e l'instaurazione della Repubblica nel 1902, il quartiere ebbe un'auge imprevisto. I ricchi abbandonarono la angusta e rumorosa Avana Vecchia, comprarono terreni e costruirono nel quartiere. Lo fecero anche i nuovi ricchi e non pochi alti ufficiali dell'Esercito Liberatore che riscuotevano quanto dovuto.
La famiglia Gómez Mena decise di installarsi nel Vedado. Il ramo capeggiato da Alfonso Gómez Mena Villa acquisì i terreni della Calle Calzada, dove edificò la magione dove ha sede la Direzione del Protocollo e Cerimoniale del Ministero degli Esteri.
Prima dell'esistenza del citato cimitero, questi terreni furono proprietà di Antonio de Frías, parente del Conte de Pozos Dulces, padrone della tenuta dove si stabilì il Vedado. Successivamente apparterranno alla Contessa di Loreto che, nel 1920, li vendette alla dominicana Blanca Maria Vicini Perdomo. Questa li ipotecò a favore di Alfonso Gómez Mena e terminò, cinque anni dopo, vendendoglieli quando la fastosa residenza, che divenne abitabile nel 1926, era già in costruzione. Per edificarla, Alfonso, fu autorizzato a demolire le cinque case che vi erano erette.
Alfonso Gómez Mena incaricò i piani della costruzione al famoso architetto Francisco Centurión, autore anche del padiglione cubano all'Esposizione Internazionale di San Francisco, in California e per l'esecuzione del progetto contrattò i servizi della ditta Morales & c.ia, diretta dall'importante architetto Leonardo Morales, graduatosi all'Università di Harvard, Stati Uniti, e allievo della Scuola delle Belle Arti di Parigi.
Alla morte di Alfonso Gómez Mena nel 1936, la casa passò a nome della sua vedova Maria Vivanco, che la abitò fino al 1953. Cinque anni prima, l'immobile di 1659 metri quadrati di superficie, fu valutato in 115.000 pesos e i terreni in 200.000. Nel 1958 lo Stato Cubano acquisì i terreni e la casa per 650.000 pesos; cifra equivalente a dollari. In quel periodo declinava la stella e la fortuna degli eredi di Alfonso. Suo figlio Alfonso Gómez Mena Vivanco si vide obbligato, quello stesso anno, a consegnare la terza parte delle sue azioni del Central Santa Teresa come garanzia per il debito di 700.000 pesos che aveva con una azienda commerciante di zucchero. Non potendolo saldare alla scadenza, i creditori gli fecero causa che terminò con l'ipoteca del Central.
L'edificio di otto piani della Calle Quinta fu terminato dopo il 1959. Quando alla metà dell'anno, il dottor Raúl Roa assunse il portafoglio degli Esteri, gli uffici non erano ancora finiti e li fece installare nell'edificio che occuperebbe, poco dopo, la Casa de Las Américas.
Ayer de hoy
Ciro Bianchi Ross •
14 de Septiembre del 2013 19:12:54 CDT
Hace un par de años este escribidor localizó el lugar y encontró un
edificio en ruinas. Sin techo, con alguna que otra pared sosteniéndose
a como diera lugar y columnas de hierro todavía enhiestas, el inmueble
daba cabida a un depósito de materias primas. Pese a sus reducidas
dimensiones, una tarja de bronce se hacía visible entonces en su
fachada. Advertía: «Aquí estuvo JM».
¿JM? ¿Julián Marrero, acaso? ¿Jorge Menéndez? ¿Juan Mendoza, tal vez?
Frío, frío. JM es nada más y nada menos que José Martí, y el edificio
es el de La Caridad del Cerro, la sociedad que auspició fiestas y
recepciones renombradas y suntuosas y cuyas veladas políticas y
literarias traspasaron los límites de toda adjetivación. Sus salones,
en su momento, fueron frecuentados por figuras de la talla de Nicolás
Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafael
Montoro y, por supuesto, José Martí. Para decirlo en una sola frase.
Por La Caridad del Cerro pasó todo lo que en la Cuba de fines del
siglo XIX gozaba de verdadero prestigio. Allí Enrique José Varona
pronunció no pocas de sus conferencias, entre estas las que dedicó a
Emerson, Víctor Hugo, Luz y Caballero y sobre todo, en la noche del 14
de mayo de 1887, al «poeta anónimo de Polonia», cuyas palabras
finales, dice la crónica, fueron ahogadas por una de las ovaciones más
estruendosas que tuvieron lugar en aquella sala de la Calzada del
Cerro entre Santa Teresa y Zaragoza que, por otra parte, servía de
sede a la dirección del Partido Autonomista.
La casa perteneció a un miembro de la nobleza de la Isla hasta que en
1875 dio albergue a la sociedad. Federico Villoch describe el local en
sus Viejas postales descoloridas. Dice que la sala de actos era amplia
y bien distribuida, y ventilados los salones que acogían la biblioteca
y la sala de juegos. En el patio, ancho y cuadrado, un frondoso jardín
ofrecía gratos rincones para que el espíritu se solazase a sus anchas.
El papel que tapizaba las paredes de las salas de recepción y de
recreo, iluminado por la luz de gas de ostentosas lámparas de cristal,
provocaba en el visitante la idea de una voluptuosa atmósfera de
ensueño. Salones en los que rivalizaban en belleza y distinción,
Josefina Herrera, Condesa de Fernandina; Esperanza Navarrete, en
camino de convertirse en la Marquesa de Larrinaga, la Condesa de
Montalvo, la de Calderón… Allí hizo sus primeras armas Regino López,
el después muy aplaudido y popular actor de nuestro teatro vernáculo.
Las finanzas no andaban en La Caridad del Cerro a la par de su empuje
cultural. A duras penas sobrevivió hasta poco después de estallar la
Guerra de Independencia, en 1895. Problemas económicos a los que sus
protectores no pudieron corresponder, fueron estrechándola hasta
llevarla casi a la indigencia. Entonces sus viejos conserjes, por
órdenes superiores, cerraron sus puertas. Cuesta abajo, la noble
mansión derivó en casa de inquilinato y fue luego la sala
cinematográfica Cerro Garden hasta servir de depósito de materias
primas.
Cuando el Generalísimo Máximo Gómez entró en La Habana en 1898, al
frente de sus tropas, se dispuso que un grupo de mambises rindiera
respeto y homenaje a lo que fue La Caridad del Cerro.
23 y M; L y 25
La manzana que ocupa el hotel Habana Libre, enmarcada por las calles
23 y 25, L y M, en el Vedado, era, a fines de los años 40 del siglo
pasado, un terreno yermo o casi.
En la esquina de 23 y M se erigía la residencia de Carlos Manuel de
Céspedes, ex presidente de la República e hijo del Padre de la Patria.
En la esquina de L y 25 se hallaba, a partir de 1939, la casa del
doctor Kourí, cuya hija Ada estaba casada con el doctor Raúl Roa. En
la esquina opuesta, en 23 y L, existía un parque de diversiones con
caballitos de verdad, los ponis; el niño se le encaramaba y un
empleado de la instalación llevaba de la rienda al animal. Por cinco
centavos se daba la vuelta al terreno. Había también ponis en el hueco
de la esquina de 21 y G, en el espacio que ocupa el hermoso edificio
proyectado por el arquitecto Rafael de Cárdenas, autor asimismo, entre
otras muchas obras, del centro comercial La Rampa, al comienzo de la
calle 23.
Por cierto, cuando se proyectaba la construcción del hotel, se imponía
la adquisición de la casa de Céspedes para proceder a su demolición y
aprovechar así el espacio que ocupaba. La viuda del ex mandatario dijo
que no estaba interesada en vender y haciéndose de rogar para que
vendiera, consiguió una oferta irresistible por su inmueble.
La casa de los Kourí, dice Raúl Roa hijo en su libro Memoria de mundos
varios, «tenía una cúpula azul, un gran traspatio con árboles frutales
y un baño “pompeyano” en el segundo piso». El patio, precisa Roa,
quedaba aproximadamente debajo de donde está el bar Las Cañitas del
Habana Libre.
Eran tiempos en que la calle L se transitaba en ambos sentidos, y por
la calle 17 los vehículos circulaban en dirección contraria a como lo
hacen hoy. Donde ahora está el edificio Focsa, se hallaba el club
Cubanaleco, y enfrente, donde se encuentra el restaurante El Conejito,
existía un establecimiento llamado El Liro, reputado por los pollos y
huevos que expedía. La Roca era entonces El Colonial, y la pizzería de
21 y L no era una pizzería, sino una cafetería-restaurante que llevaba
el nombre de Las Delicias de Medina. No había librería en L y 27, sino
una cafetería con entrada por ambas calles. El Café de Artistas, sitio
bohemio, propiedad del actor Otto Sirgo, se ubicada una cuadra más
abajo, en 25, y el Mocambo Club ocupaba el lugar de Las Bulerías.
Había un Restaurante Vienés en la calle K, y una casa de comidas
francesas; Le Vendome, en Calzada esquina a C, mientras que el
restaurante Gaviria, en Calzada y M, frente al parqueo de la embajada
de Estados Unidos, aseguraba una vista espectacular de La Habana.
La Moderna Poesía
La esquina de la librería La Moderna Poesía, en Obispo y Bernaza,
estaba ocupada, antes de 1900, por la peletería de Manuel Sánchez
Cuétaro. Más o menos en la fecha señalada José López Rodríguez, que
haría célebre el sobrenombre de «Pote», compró la esquina, liquidó los
zapatos, los vendió a lo que le dieron por ellos, y llenó el local de
libros viejos.
Entonces La Moderna Poesía, dicen, estaba montada a estilo de una
barraca de feria. Una cuantas tablas toscas y sin pintar, que
descansaban sobre otros tantos burros de madera, servían de mostrador,
y toscos también eran los estantes, abarrotados de libros, viejos por
lo general, comprados casi todos de relance.
En la acera de enfrente abría sus puertas la librería de Ricoy. En
esta se veía a Varona, a Zayas, a Carlos de la Torre y a otras
eminencias de la época, registrando afanosos las tongas de libros y
revistas que llenaban la pequeña sala del establecimiento.
La cancillería
El Ministerio de Estado era, al triunfo de la Revolución, la entidad
encargada de las relaciones exteriores de Cuba. Su sede radicaba en La
Habana Vieja, calle Capdevila número 6, en la antigua residencia de la
familia Pérez de la Riva, donde ahora se halla el Museo Nacional de la
Música, un inmueble que si bien resultaba ideal para cocteles y
recepciones, resultaba inapropiado como lugar de trabajo y oficinas.
El Ministerio necesitaba reubicarse, y, en 1958, la dictadura
batistiana decidió hacerlo en terrenos de la manzana enmarcada por las
calles Calzada, G, H y Quinta, en el barrio del Vedado. Para ello
utilizaría la casona que allí se erigía, en el número 360 de la calle
Calzada, y aprovecharía el terreno del fondo para la construcción de
un edificio de ocho plantas y con fachada principal sobre la calle
Quinta, donde quedarían instaladas las dependencias principales del
organismo.
Se ganaba así en amplitud y comodidad para las faenas cotidianas, y se
aseguraba a los diplomáticos acreditados en el país un acceso cómodo y
rápido desde cualquier punto de la ciudad.
El Vedado se extiende sobre la antigua zona vedada —de ahí el nombre
del barrio— donde se prohibía vivir, sembrar, talar y criar ganado
en interés de la defensa de La Habana ante ataques de corsarios y
piratas. En el área ocupada por el Ministerio de Relaciones Exteriores
existió, a partir de 1832, un cementerio destinado a negros esclavos
bozales que morían sin bautizar. Como hubo protestas por el estado de
dicha necrópolis donde, dicen las crónicas, se enterraba a los negros
como animales, se adecentó el lugar, se nombró a un capellán y se
decidió destinar la mejor parte del campo a la inhumación de
extranjeros protestantes. De ahí el nombre de Cementerio de los
Ingleses, que recibió entonces, y Cementerio de los Americanos, como
se le designó a medida que ciudadanos de Estados Unidos superaban en
número e influencia a los súbditos de Gran Bretaña. Lo clausuraron en
1847.
Tras el fin de la Guerra de Independencia, en 1898, y la instauración
de la República, en 1902, la barriada adquirió un auge inusitado. Los
ricos de abolengo abandonan la atestada y ruidosa Habana Vieja y
compran terrenos y construyen en la barriada. Lo hacen también los
nuevos ricos y no pocos altos oficiales del Ejército Libertador que
cobran sus haberes.
La familia Gómez Mena decide radicarse en el Vedado. La rama de ella
que encabezaba Alfonso Gómez Mena Vila adquirió los terrenos de la
calle Calzada, donde edificaría la mansión que sirve de sede a la
Dirección de Protocolo y Ceremonial del Ministerio de Relaciones
Exteriores.
Antes de la existencia en estos del cementerio aludido, esos terrenos
fueron propiedad de don Antonio de Frías, pariente del Conde de Pozos
Dulces, dueño de la finca donde se asentó el Vedado. Pertenecerían
después a la Condesa del Loreto, quien, en 1920, los vendió a la
dominicana Blanca María Vicini Perdomo. Esta los hipotecó a favor de
Alfonso Gómez Mena y terminó vendiéndoselos cinco años más tarde,
cuando la fastuosa residencia, que adquirió la condición de habitable
en 1926, estaba ya en construcción. Para edificarla, Alfonso fue
autorizado a demoler las cinco viviendas allí enclavadas.
Alfonso Gómez Mena Vila encargó los planos de la mansión al afamado
arquitecto Francisco Centurión, autor asimismo del pabellón cubano en
la Exposición Internacional de San Francisco, California, y para la
ejecución del proyecto contrató los servicios de la firma Morales y
Compañía, dirigida por el importante arquitecto Leonardo Morales,
graduado en la Universidad de Harvard, en Estados Unidos, y egresado
de la Escuela de Bellas Artes de París.
Al fallecer Alfonso Gómez Mena en 1936, la casa pasó a nombre de su
viuda, María Vivanco, que la habitó hasta 1953. Cinco años antes el
inmueble, de 1 659 metros cuadrados de superficie, fue valorado en 115
000 pesos y los terrenos en 200 000. En 1958 el Estado cubano
adquirió los terrenos y la casa por 650 000 pesos; cifras esas
equivalentes a dólares. En esa fecha declinaba la estrella y la
fortuna de los herederos de Alfonso. Su hijo Alfonso Gómez Mena
Vivanco se veía obligado a entregar, en ese año, las dos terceras
partes de sus acciones en el central Santa Teresa en garantía por la
deuda de 700 000 pesos que tenía con una firma corredora de azúcar. Al
no poder saldarla en fecha, los acreedores establecieron un
procedimiento judicial que concluyó con el embargo del central.
El edificio de ocho plantas de la calle Quinta fue terminado después
de 1959. Cuando a mediados de ese año el doctor Raúl Roa asumió la
cartera de Relaciones Exteriores, sus oficinas no estaban aún
concluidas y las instaló en el edificio que ocuparía poco después la
Casa de las Américas.
Ciro Bianchi Ross
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lunedì 16 settembre 2013
domenica 15 settembre 2013
sabato 14 settembre 2013
Premio Nobel per la guerra
In questo mio spazio cerco di non occuparmi strettamente di politica, però ogni tanto mi punge vaghezza di esprimere una mia modestissima opinione.
C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".
C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".
venerdì 13 settembre 2013
giovedì 12 settembre 2013
mercoledì 11 settembre 2013
martedì 10 settembre 2013
lunedì 9 settembre 2013
A 80 anni dal "golpe". Di Ciro Bianchi Ross publicato su Juventud Rebelde dell'8/9/13
La cosa diventava peggiore ogni giorno. Si era installato il caos, dopo la caduta di Machado il 12 agosto del 1933. Carlos Manuel de Céspedes presiedeva il Governo, ma non governava e la combattività dei cubani spaventava l’ambasciatore statunitense. C’era fame, disoccupazione e scioperi. La fiammata popolare ardeva l’Isola: operai e studenti erano sul piede di guerra. Nel porto dell’Avana, due navi da guerra statunitensi stazionavano con i cannoni sfoderati e i marines pronti a sbarcare.
Il clima di indisciplina e insubordinazione cresceva nell’esercito. Gli ufficiali, demoralizzati per la loro complicità con la dittatura appena abbattuta, erano sulla difensiva e il complotto dei sergenti riuniti nella cosiddetta Giunta della Difesa o degli Otto, guadagnava discepoli fra i coscritti. Di questa Giunta facevano parte i sergenti Pablo Rodríguez, che la dirigeva, José Eleuterio Pedraza e Manuel López Migoya, il sergente stenografo Fulgencio Batista, il soldato Mario Alfonso Hernández...Chiedavono benefici per la categoria dei sottufficiali e soldati, che non gli si riducesse la paga e che si aumentasse la cifra della pensione. Chiedevano copricapi piatti, due bottoni in più nella giacca e di non essere più utilizzati come attendenti da parte degli ufficiali. Però, molto presto, il 4 di settembre, il movimento rivelerà la sua matrice politica: non era necessario chiedere quello che essi stessi potevano procurarsi.
La mattina di quel giorno, il capitano Mario Torres Menier, del corpo di Aviazione, si presentò al comando del Sesto Distretto Militare, con sede nel campo di Columbia. Portava il messaggio del colonnello Julio Sanguily, capo dello Stato Maggiore di riunirsi con sottufficiali e soldati per conoscere le loro richieste, dal momento che il comando sapeva delle agitazioni presenti nella truppa e dell’assemblea che era in progetto. Spiegò il motivo della su visita al tenente colonnello José Perdomo. Ma Perdomo non era in grado di ascoltare. Era appena stato sollevato dal comando del Distretto, che rimase sotto il comando provvisorio del comandante Antonio Pineda e non avrebbe tardato a partire per Santiago di Cuba per occupare il suo nuovo incarico... Volle abbassare il tono alle preoccupazioni di Torres Menier: “Questa riunione, che non ha la maggior importanza, è autorizzata; dirò di più, mi sembra giusto che i ragazzi presentino le loro richieste”, disse e ricordò che poco prima aveva espresso a Batista, dopo aver ascoltato le lamentele dei soldati, che non voleva più essere il tenente colonnello Perdomo, ma il sergente Perdomo. Nonostante ciò, il capitano volle insistere per riunirsi con qualcuno dei caporioni del movimento. Lo fece con Batista che era appena entrato nel campo Si incontrarono nel portico del Club degli Arruolati.
Una volta dentro al Club Batista, cauto, parlò di sua moglie e della figlioletta per le quali vegliava come faceva il resto di quelli riuniti, colà, per i propri famigliari. Fece un sacco di giri di parole senza entrare nel merito, fino a che il soldato Mario Alfonso Hernández gli tolse la parola con un: “Guarda, Batista, non dire più cretinate e di che quello che vogliamo è un cambio di regime”.
E basta!
Al sergente dava fastidio l’insistenza di Torres Menier perché ponesse per iscritto le richieste della truppa per portarle a Sanguily. Il documento poteva essere usato contro di lui. Per questo, quando il capitano lasciò il Club, uscì velocemente da Columbia senza prima tralasciare di avvisare alcuni dei complottanti che la cospirazione era stata scoperta. Andò a casa sua, nel “cuchillo” di Toyo con due compagni. Elisa, sua moglie, preparò qualcosa da mangiare per il gruppo e fu lei a tranquillizzarlo quando commentò che alla radio avevano parlato di “qualcosa” che era successo a Columbia, ma che si era risolto.
Allora Batista decise di tornare al campo. Col presetsto di redigere le richieste, riunì la sua gente. Tutte le unità furono convocate per le 8 di sera. A quell’ora circa 800 unità di aderenti, in rappresentanza dell’esercito e la marina di stanza all’Avana e Matanzas, si dettero appuntamento nel cinema del campo. Parteciparono anche alcuni ufficiali.
Quello che successe fu raccontanto in diversi modi. All’ora convenuta, Batista, salì sul palco. I presenti cominciarono a parlare delle richieste e non si sa chi lanciò il grido di guerra. Alcune fonti riferiscono che qualcuno gridò all’improvviso: “E basta! Da questio momento noi coscrittici facciamo carico della situazione. I signori ufficiali possono ritirarsi nelle loro case e aspettare ordini”. Si dice che a partire da quello, Batista seguì l’onda e si impadronì della situazione. Altri autori gli attribuiscono tutto il protagonismo. Assicurano che il sergente stenografo dichiarò che non si sarebbero più eseguiti altri ordini che i suoi e che i sergenti maggiori si sarebbero fatti carico delle rispettive unità. Chiese rispetto e considerazione per gli ufficiali...Disse ai suoi compagni. “Adesso andate alle vostre unità, prendete le armi e mantenetevi entro la maggior disciplina fino a che riceviate da me gli ordini dettati dal nuovo Stato Maggiore”.
Mentre i sergenti maggiori uscivano per prendere i comandi, i sergenti del quartier generale si presentavano per ricevere ordini. Batista passò all’edificio del Comando e occupò l’ufficio del colonnello comandante. Aveva urgenza di comunicarsi con le caserme delle province al fine di ottenere l’appoggio di sottufficiali e soldati. Prontamente si aggiunsero le forze distaccate nella fortezza de la Cabaña, il bastione militare avanero più importante dopo di Columbia. Anche la caserma Sant’Ambrogio, sede dell’intendenza dell’esercito, si era aggiunta alla sollevazione e lo stesso sucesse con la caserma di Dragones, sede del Quinto Distretto, preso da un solo sergente. Alle due del mattino del 5 settembre, le truppe della capitale del Paese rinsaldavano fermamenti il colpo di Stato, e nel resto della nazione non si tardò a imitarle. Alle 5, il Governo di Céspedes non esisteva più. A quest’ora, l’ordine numero 1, dettato a Columbia, informava che Batista era al comando del movimento golpista.
Si dice che Batista venne invitato a incorporarsi alla Giunta della Difesa perché era l’unico sergente che avesse un’automobile e i cospiratori avevano bisogno di un veicolo. Certamente fu il più audace del gruppo e si impadronì del movimento. Nominò Rodríguez comandante di Columbia e López Migoya aiutante di Rodríguez. Ma non firmò il documento. Lo fece Migoya come aiutante di Rodríguez che ne era all’oscuro. Si dice che i soldati protestarono per la decisione di Batista, ma Rodríguez lasciò le cose come stavano.
Se vuole vada, se no non vada
I civili arrivavano poco a poco al campo militare. Alcuni non poterono entrare perché le guardie, accusandoli di politicanti, lo impedirono. Arrivarono, tra gli altri, Ramiro Valdés Daussá, dell’orgnizzazione Pro Legge e Giustizia, “Pepelín” Leyva e “Willy” Barrientos del Direttivo Studentesco. Si ritenne prudente avvisare anche Rubén de León e Carlos Prío, anch’essi dell’organizzazione universitaria e Batista chiese che si avvertisse il giornalista Sergio Carbó, direttore della rivista “La Semana”. “Pepelín” fu ad avvisarlo nella sua casa di 17 e I, nel Vedado. Suonò il camapanello della porta del piano terreno e quando Carbó si affacciò al balcone, grido dal marciapiede che Batista gli chiedeva che andasse a Columbia perché il “golpe” era già in marcia.. “Senta, ma lei sa cosa mi sta dicendo?”, rispose Carbó. E Pepelín: “Vabbè, se vuole vada, se no non vada. Da parte mia glie l’ho detto”.
Fu Prío che convinse Batista che l’obbiettivo immediato di quel movimento era di prendere il potere, ebbene il fascio di domande dei coscritti, che era nel frattempo aumentato, non era più l’espressione di una rivolta senza contenuto politico. Ne conseguì che il sergente stenografo e i suoi compagni assumessero il programma del Direttivo e, presieduta da Prío, si costituì il Raggruppamento Rivoluzionario di Cuba conosciuto anche come Giunta Rivoluzionaria di Columbia. Il “Proclama della rivoluzione del popolo di Cuba”, firmato da quasi tutti i membri di questa organizzazione presenti al campo e da Fulgencio batista come “sergente delle Forze Armate della Repubblica”, tracciò le linee di condotta e annunciò la presa del potere.
Il Raggruppamento, diceva il documento redatto da Sergio Carbó, nasceva per impulsare, in modo integrale, le rivendicazioni rivoluzionarie per le quali lottava il popolo di Cuba dentro ampie linee di democrazia e su basi di sovranità nazionale. Queste rivendicazioni erano: la ricostruzione economica della nazione, la convocazione di un’assemblea costituente, il castigo dei grandi colpevoli della dittatura machadista e il rispetto dei debiti contratti dalla Repubblica.
Il Proclama precisava: “Considerando che l’attuale Governo (di Céspedes) non risponde alla domanda urgente delle Rivoluzione, nonostante la buona fede e il patriottismo dei suoi componenti, il Raggruppamento si fa carico delle redini del potere come Governo Rivoluzionario Provvisorio, che rimetterà il sacro comando conferito dal popolo appena l’Assemblea Costituente, che si deve convocare, designi il Governo costituzionale che reggerà il nostro destino fino alle prossime elezioni generali”.
Per allontanare il fantasma del “caudillismo” si optò per un Governo collegiale. Batista assicurò che l’Esercito e la Marina erano d’accordo di appoggiare il Governo che decidesse il Raggruppamento. La Commissione Esecutiva fu conformata da cinque persone e venne chiamata popolarmente “la Pentarchia”. Di questi, in quel momento erano già a Columbia Sergio Carbò e José Miguel Irísarri e si decise invitare i professori universitari Ramón Grau San Martín, di Medicina e Guillermo Portela, di Diritto, che si aggiunsero al gruppo. Irísarri propose che batista fosse il quinto “pentarca”, ma il sergente prudentemente disse che preferiva rimanere nell’esercito. Ci furono altre due proposte: Carlos de la Torre, il saggio delle lumache e il banchiere Porfírio Franca, che vinse per maggioranza.
Il Quartier Generale di Columbia
E Céspedes?
A questo punto rimaneva solo la sostituzione formale di un Governo che aveva cessato di esistere. Il Presidente Céspedes fu sorpreso dagli avvenimenti fuori dall’Avana. Stava tornando dalle province centrali, dove aveva valutato i danni dell’uragano del primo settembre, quando il suo segretario raggiunse il corteo del suo presidente a San Francisco de Paula e lo aggiornò sui fatti di Columbia. Erano le 11 di mattina del giorno 5. Gli disse: “Summer Welles dice di non fare niente fin che non abbia parlato con lui”. Perché era l’Ambasciatore nordamericano che, alla caduta di Machado, aveva imposto alla presidenza quell’uomo di 62 anni di età, figlio del Padre della Patria e che, come diplomatico, aveva passato buona parte della sua vita fuori da Cuba, alieno ai problemi del Paese.
La stampa, una volta nel Palazzo, volle interrogarlo, ma Céspedes ignorò le domande. “Il ciclone è stata una vera catastrofe”, dichiarò e salì al suo ufficio accompagnato da alcuni dei suoi ministri. Successivamente, Batista, ancora con i suoi galloni da sergente, e i “pentarchi” entrarono nell’ufficio del Presidente accompagnati anche da alcuni membri del Direttivo. Prío che giunse al Palazzo in maniche di camicia, dovette chiedere in prestito una giacca.
Silenzio. Attesa. Seguì un dialogo teso tra Grau San Martín e il Presidente che abbandonò il palazzo senza dimettersi.
(Fonti: Testi di N. Briones Montoto, E. De la Osa e L. Soto)
A 80 años del golpe
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Septiembre del 2013 19:08:54 CDT
La cosa estaba cada día peor. El caos se entronizó tras la caída de
Machado, el 12 de agosto de 1933. Carlos Manuel de Céspedes presidía
el Gobierno, pero no gobernaba y la combatividad de los cubanos
asustaba al Embajador estadounidense. Había hambre y desempleo y
huelgas. La llamarada popular quemaba la Isla y obreros y estudiantes
estaban en pie de lucha. En el puerto habanero dos buques de guerra
estadounidenses permanecían con los cañones desenfundados y los
marines prestos al desembarco.
El clima de indisciplina e insubordinación crecía en el Ejército. Los
oficiales, desmoralizados por su complicidad con la recién derrocada
dictadura, estaban a la defensiva y el complot de los sargentos
agrupados en la llamada Junta de Defensa o de los Ocho ganaba adeptos
entre los alistados. Formaban parte de esa Junta los sargentos Pablo
Rodríguez, que la encabezaba, José Eleuterio Pedraza y Manuel López
Migoya, el sargento taquígrafo Fulgencio Batista, el soldado Mario
Alfonso Hernández... Demandaban beneficios para clases y soldados, que
no se les rebajara el sueldo y que se aumentara el monto de las
pensiones; reclamaban gorras de plato y dos botones más en la guerrera
y que dejaran de ser utilizados como sirvientes por parte de la
oficialidad. Pero bien pronto, el 4 de septiembre, el movimiento
revelaría su matiz político: no era menester pedir lo que ellos mismos
podrían agenciarse.
En la mañana de ese día, el capitán Mario Torres Menier, del cuerpo de
Aviación, se personó en la jefatura del Sexto Distrito Militar, con
sede en el campamento de Columbia. Llevaba el encargo del coronel
Julio Sanguily, jefe del Estado Mayor, de reunirse con clases y
soldados y enterarse de sus peticiones ya que el mando tenía
conocimiento de la agitación que reinaba entre la tropa y de la
asamblea que proyectaba. Al teniente coronel José Perdomo explicó el
propósito de su visita. Pero Perdomo no estaba para el paso. Acababa
de ser relevado de la jefatura del Distrito, que quedó bajo el mando
provisional del comandante Antonio Pineda, y no demoraría en partir
para Santiago de Cuba a ocupar su nuevo destino. Quiso bajar el tono a
las preocupaciones de Torres Menier. «Esa reunión, que no tiene la
mayor importancia, está autorizada; es más, me parece que los
“muchachos” hacen bien en plantear sus demandas», dijo, y recordó que
poco antes había expresado a Batista que luego de conocer las quejas
de los soldados, no quería seguir siendo el teniente coronel Perdomo,
sino el sargento Perdomo. Aun así insistió el capitán en reunirse con
alguno de los cabecillas del movimiento. Lo haría con Batista, que
acababa de entrar en el campamento. Se encontraron en el portal del
Club de Alistados.
Ya dentro del Club, Batista, cauteloso, habló sobre su esposa y su
hijita, por las que, dijo, velaba al igual que lo hacían por sus
familiares el resto de los allí reunidos. Dio vueltas y más vueltas a
sus palabras, sin tocar lo esencial, hasta que el soldado Mario
Alfonso Hernández le cortó la perorata con un: «Mira, Batista, no
hables más mierda y di que lo que queremos es un cambio de régimen».
¡Basta ya!
Al sargento le daba mala espina la insistencia de Torres Menier de que
pusiera por escrito las peticiones de la tropa para trasladarlas a
Sanguily. El documento podía utilizarse en su contra. Por eso, en
cuanto el capitán abandonó el Club, salió él también disparado de
Columbia no sin avisar antes a algunos de los complotados que la
conspiración estaba descubierta. Con dos compañeros, se fue a su casa
en el cuchillo de Toyo. Elisa, su esposa, preparó para el grupo algo
de comer y fue ella la que los tranquilizó cuando comentó que por
radio hablaron sobre «algo» que sucedió en Columbia, pero que estaba
resuelto.
Decidió Batista entonces volver al campamento. Con el pretexto de
redactar el petitorio, reuniría a su gente. Todas las unidades fueron
convocadas para las ocho de la noche. A esa hora unos 800 alistados,
en representación de unidades del ejército y la marina destacadas en
La Habana y Matanzas, se daban cita en el cine del campamento.
Concurrían además algunos oficiales.
Lo que allí sucedió ha sido contado de muy diversas maneras. A la hora
convenida, Batista subió al estrado. Comenzaron los reunidos a hablar
sobre las demandas y no se sabe ya quién dio el grito de guerra.
Algunas fuentes refieren que alguien gritó de pronto: «¡Basta ya!
Desde este momento los alistados nos hacemos cargo de la situación.
Los señores oficiales pueden retirarse a sus casas y esperar órdenes».
Se cuenta que a partir de ahí Batista siguió la rima y se adueñó de la
situación. Otros autores le atribuyen todo el protagonismo. Aseguran
que el sargento taquígrafo expresó que no se obedecerían más órdenes
que las suyas y añadió que los sargentos primeros se harían cargo de
sus unidades respectivas. Pidió respeto y consideración para los
oficiales… Dijo a sus compañeros: «Ahora vayan a sus unidades, tomen
las armas y manténganse dentro de la mayor disciplina hasta que
reciban de mí las órdenes que dicte el nuevo Estado Mayor».
Mientras los sargentos primeros salían a ocupar los mandos y los
sargentos cuartel maestre se presentaban a recibir órdenes, Batista
pasaba al edificio de la jefatura del distrito y ocupaba el despacho
del coronel jefe. Le urgía comunicarse con los cuarteles de provincia
a fin de recabar el apoyo de clases y soldados. De inmediato se
sumaban las fuerzas destacadas en la fortaleza de La Cabaña, el
baluarte militar habanero más importante después de Columbia. El
cuartel de San Ambrosio, sede de la intendencia del ejército, se
sumaba también a la sublevación, y lo mismo sucedía con el cuartel de
Dragones, sede del Quinto Distrito, tomado por un solo sargento. A las
dos de la mañana del día 5 de septiembre las tropas de la capital del
país hacían firme su respaldo al golpe de Estado, y no tardaban en
imitarlas las del resto de la nación. A las cinco el Gobierno de
Céspedes no existía. A esa hora la Orden General número 1, dictada en
Columbia, daba cuenta de que Batista estaba al mando del movimiento
golpista.
Se dice que a Batista lo invitaron a incorporarse a la Junta de
Defensa porque era el único sargento que tenía automóvil y los
conspiradores necesitaban de un vehículo. Fue, sí, el más audaz del
grupo; se adueñó del movimiento. Protagonizó la asonada en el mismo
campamento de Columbia, y, antes, envió a Rodríguez a Matanzas. En
ausencia de Rodríguez, Batista dictó la orden en la que se designaba a
sí mismo jefe del movimiento. Nombró a Rodríguez jefe de Columbia y a
López Migoya, ayudante de Rodríguez. Pero no firmó el documento. Lo
hizo Migoya como ayudante de Rodríguez, que desconocía el asunto. Se
dice que los soldados protestaron la decisión de Batista, pero
Rodríguez dejó las cosas como estaban.
Si quiere va y si no, no va
Los civiles arribaban poco a poco al campamento militar. Algunos no
pudieron entrar porque los guardias, tachándolos de politiqueros, lo
impidieron. Llegaron, entre otros, Ramiro Valdés Daussá, de la
organización Pro Ley y Justicia, y «Pepelín» Leyva y «Willy»
Barrientos, del Directorio Estudiantil. Se creyó prudente avisar a
Rubén de León y a Carlos Prío, también de la organización
universitaria, y Batista pidió que se le avisara al periodista Sergio
Carbó, director de la revista La Semana. «Pepelín» fue a avisarle a su
casa de 17 e I, en el Vedado. Tocó el timbre de la puerta de los bajos
y cuando Carbó se asomó al balcón, gritó desde la acera que Batista le
pedía que fuera a Columbia porque ya el golpe estaba andando. «Oiga,
¿usted sabe lo que me está diciendo?», ripostó Carbó. Y Pepelín:
«Bueno, si quiere va y si no, no va. Ya yo se lo dije».
Fue Prío quien convenció a Batista de que el objetivo inmediato de
aquel movimiento debía ser la toma del poder, pues el pliego de
demandas de los alistados, que había seguido engrosándose, no era más
que expresión de una rebeldía sin contenido político. Se consiguió que
el sargento taquígrafo y sus compañeros asumieran el programa del
Directorio y, presidida por Prío, se constituía la Agrupación
Revolucionaria de Cuba, conocida también como Junta Revolucionaria de
Columbia. La «Proclama de la revolución al pueblo de Cuba» firmada por
casi todos los miembros de esa organización presentes en el campamento
y por Fulgencio Batista como «sargento jefe de las Fuerzas Armadas de
la República» fijó líneas de conducta y anunció la toma del poder.
La Agrupación, decía el documento redactado por Sergio Carbó, surgía
para impulsar, de manera integral, las reivindicaciones
revolucionarias por las que luchaba el pueblo de Cuba dentro de líneas
amplias de democracia y sobre principios de soberanía nacional. Esas
reivindicaciones eran la reconstrucción económica de la nación, la
convocatoria de una asamblea constituyente, el castigo de los grandes
culpables de la dictadura machadista y el respeto a las deudas
contraídas por la República.
Precisaba la Proclama: «Por considerar que el actual Gobierno (el de
Céspedes) no responde a la demanda urgente de la Revolución, no
obstante la buena fe y el patriotismo de sus componentes, la
Agrupación se hace cargo de las riendas del poder como Gobierno
Provisional Revolucionario, que reasignará el mando sagrado que le
confiere el pueblo tan pronto la Asamblea Constituyente, que se ha de
convocar, designe el Gobierno constitucional que regirá nuestros
destinos hasta las primeras elecciones generales».
Para alejar el fantasma del caudillismo, se optó por el Gobierno
colegiado. Batista aseguró que el Ejército y la Marina acordaban
apoyar el Gobierno que decidiera la Agrupación. Cinco figuras
conformarían la Comisión Ejecutiva —llamada popularmente Pentarquía—.
De estas, a esa hora, estaban ya en Columbia Sergio Carbó y José
Miguel Irisarri, y se decidió invitar a los profesores universitarios
Ramón Grau San Martín, de Medicina, y Guillermo Portela, de Derecho, a
que se sumaran al grupo. Irisarri propuso que Batista fuera el quinto
pentarca, pero el prudente sargento dijo que prefería mantenerse en el
ejército. Hubo dos propuestas más: Carlos de la Torre, el sabio de los
caracoles, y el banquero Porfirio Franca, que ganó por mayoría.
¿Y Céspedes?
A esa altura solo quedaba la sustitución formal de un Gobierno que
había ya dejado de existir. Al presidente Céspedes lo sorprendieron
los acontecimientos fuera de La Habana. Regresaba de las provincias
centrales, donde evaluó los destrozos del huracán del primero de
septiembre, cuando su secretario interceptó la caravana del mandatario
en San Francisco de Paula y lo impuso de los sucesos de Columbia. Eran
las 11 de la mañana del día 5. Le dijo: «Dice Summer Welles que no
haga nada hasta que no hable con él». Porque era el Embajador
norteamericano quien, a la caída de Machado, había impuesto en la
presidencia a aquel hombre de 62 años de edad, hijo del Padre de la
Patria y que, como diplomático, había pasado buena parte de su vida
fuera de Cuba, desconectado de los problemas del país.
La prensa, ya en Palacio, quiso interrogarlo, pero Céspedes rehuyó las
preguntas. «El ciclón ha sido una verdadera catástrofe», declaró y
subió a su despacho acompañado de algunos de sus ministros. Luego
Batista, aún con sus galones de sargento, y los pentarcas entraron en
la oficina del Presidente y penetraron además algunos miembros del
Directorio. Prío, que acudió a Palacio en mangas de camisa, tuvo que
pedir una chaqueta prestada.
Silencio. Expectación. Siguió un diálogo tenso entre Grau San Martín y
el mandatario que, sin renunciar, abandonó Palacio.
(Fuentes: Textos de N. Briones Montoto, E. de la Osa y L. Soto)
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
Il clima di indisciplina e insubordinazione cresceva nell’esercito. Gli ufficiali, demoralizzati per la loro complicità con la dittatura appena abbattuta, erano sulla difensiva e il complotto dei sergenti riuniti nella cosiddetta Giunta della Difesa o degli Otto, guadagnava discepoli fra i coscritti. Di questa Giunta facevano parte i sergenti Pablo Rodríguez, che la dirigeva, José Eleuterio Pedraza e Manuel López Migoya, il sergente stenografo Fulgencio Batista, il soldato Mario Alfonso Hernández...Chiedavono benefici per la categoria dei sottufficiali e soldati, che non gli si riducesse la paga e che si aumentasse la cifra della pensione. Chiedevano copricapi piatti, due bottoni in più nella giacca e di non essere più utilizzati come attendenti da parte degli ufficiali. Però, molto presto, il 4 di settembre, il movimento rivelerà la sua matrice politica: non era necessario chiedere quello che essi stessi potevano procurarsi.
La mattina di quel giorno, il capitano Mario Torres Menier, del corpo di Aviazione, si presentò al comando del Sesto Distretto Militare, con sede nel campo di Columbia. Portava il messaggio del colonnello Julio Sanguily, capo dello Stato Maggiore di riunirsi con sottufficiali e soldati per conoscere le loro richieste, dal momento che il comando sapeva delle agitazioni presenti nella truppa e dell’assemblea che era in progetto. Spiegò il motivo della su visita al tenente colonnello José Perdomo. Ma Perdomo non era in grado di ascoltare. Era appena stato sollevato dal comando del Distretto, che rimase sotto il comando provvisorio del comandante Antonio Pineda e non avrebbe tardato a partire per Santiago di Cuba per occupare il suo nuovo incarico... Volle abbassare il tono alle preoccupazioni di Torres Menier: “Questa riunione, che non ha la maggior importanza, è autorizzata; dirò di più, mi sembra giusto che i ragazzi presentino le loro richieste”, disse e ricordò che poco prima aveva espresso a Batista, dopo aver ascoltato le lamentele dei soldati, che non voleva più essere il tenente colonnello Perdomo, ma il sergente Perdomo. Nonostante ciò, il capitano volle insistere per riunirsi con qualcuno dei caporioni del movimento. Lo fece con Batista che era appena entrato nel campo Si incontrarono nel portico del Club degli Arruolati.
Una volta dentro al Club Batista, cauto, parlò di sua moglie e della figlioletta per le quali vegliava come faceva il resto di quelli riuniti, colà, per i propri famigliari. Fece un sacco di giri di parole senza entrare nel merito, fino a che il soldato Mario Alfonso Hernández gli tolse la parola con un: “Guarda, Batista, non dire più cretinate e di che quello che vogliamo è un cambio di regime”.
E basta!
Al sergente dava fastidio l’insistenza di Torres Menier perché ponesse per iscritto le richieste della truppa per portarle a Sanguily. Il documento poteva essere usato contro di lui. Per questo, quando il capitano lasciò il Club, uscì velocemente da Columbia senza prima tralasciare di avvisare alcuni dei complottanti che la cospirazione era stata scoperta. Andò a casa sua, nel “cuchillo” di Toyo con due compagni. Elisa, sua moglie, preparò qualcosa da mangiare per il gruppo e fu lei a tranquillizzarlo quando commentò che alla radio avevano parlato di “qualcosa” che era successo a Columbia, ma che si era risolto.
Allora Batista decise di tornare al campo. Col presetsto di redigere le richieste, riunì la sua gente. Tutte le unità furono convocate per le 8 di sera. A quell’ora circa 800 unità di aderenti, in rappresentanza dell’esercito e la marina di stanza all’Avana e Matanzas, si dettero appuntamento nel cinema del campo. Parteciparono anche alcuni ufficiali.
Quello che successe fu raccontanto in diversi modi. All’ora convenuta, Batista, salì sul palco. I presenti cominciarono a parlare delle richieste e non si sa chi lanciò il grido di guerra. Alcune fonti riferiscono che qualcuno gridò all’improvviso: “E basta! Da questio momento noi coscrittici facciamo carico della situazione. I signori ufficiali possono ritirarsi nelle loro case e aspettare ordini”. Si dice che a partire da quello, Batista seguì l’onda e si impadronì della situazione. Altri autori gli attribuiscono tutto il protagonismo. Assicurano che il sergente stenografo dichiarò che non si sarebbero più eseguiti altri ordini che i suoi e che i sergenti maggiori si sarebbero fatti carico delle rispettive unità. Chiese rispetto e considerazione per gli ufficiali...Disse ai suoi compagni. “Adesso andate alle vostre unità, prendete le armi e mantenetevi entro la maggior disciplina fino a che riceviate da me gli ordini dettati dal nuovo Stato Maggiore”.
Mentre i sergenti maggiori uscivano per prendere i comandi, i sergenti del quartier generale si presentavano per ricevere ordini. Batista passò all’edificio del Comando e occupò l’ufficio del colonnello comandante. Aveva urgenza di comunicarsi con le caserme delle province al fine di ottenere l’appoggio di sottufficiali e soldati. Prontamente si aggiunsero le forze distaccate nella fortezza de la Cabaña, il bastione militare avanero più importante dopo di Columbia. Anche la caserma Sant’Ambrogio, sede dell’intendenza dell’esercito, si era aggiunta alla sollevazione e lo stesso sucesse con la caserma di Dragones, sede del Quinto Distretto, preso da un solo sergente. Alle due del mattino del 5 settembre, le truppe della capitale del Paese rinsaldavano fermamenti il colpo di Stato, e nel resto della nazione non si tardò a imitarle. Alle 5, il Governo di Céspedes non esisteva più. A quest’ora, l’ordine numero 1, dettato a Columbia, informava che Batista era al comando del movimento golpista.
Si dice che Batista venne invitato a incorporarsi alla Giunta della Difesa perché era l’unico sergente che avesse un’automobile e i cospiratori avevano bisogno di un veicolo. Certamente fu il più audace del gruppo e si impadronì del movimento. Nominò Rodríguez comandante di Columbia e López Migoya aiutante di Rodríguez. Ma non firmò il documento. Lo fece Migoya come aiutante di Rodríguez che ne era all’oscuro. Si dice che i soldati protestarono per la decisione di Batista, ma Rodríguez lasciò le cose come stavano.
Se vuole vada, se no non vada
I civili arrivavano poco a poco al campo militare. Alcuni non poterono entrare perché le guardie, accusandoli di politicanti, lo impedirono. Arrivarono, tra gli altri, Ramiro Valdés Daussá, dell’orgnizzazione Pro Legge e Giustizia, “Pepelín” Leyva e “Willy” Barrientos del Direttivo Studentesco. Si ritenne prudente avvisare anche Rubén de León e Carlos Prío, anch’essi dell’organizzazione universitaria e Batista chiese che si avvertisse il giornalista Sergio Carbó, direttore della rivista “La Semana”. “Pepelín” fu ad avvisarlo nella sua casa di 17 e I, nel Vedado. Suonò il camapanello della porta del piano terreno e quando Carbó si affacciò al balcone, grido dal marciapiede che Batista gli chiedeva che andasse a Columbia perché il “golpe” era già in marcia.. “Senta, ma lei sa cosa mi sta dicendo?”, rispose Carbó. E Pepelín: “Vabbè, se vuole vada, se no non vada. Da parte mia glie l’ho detto”.
Fu Prío che convinse Batista che l’obbiettivo immediato di quel movimento era di prendere il potere, ebbene il fascio di domande dei coscritti, che era nel frattempo aumentato, non era più l’espressione di una rivolta senza contenuto politico. Ne conseguì che il sergente stenografo e i suoi compagni assumessero il programma del Direttivo e, presieduta da Prío, si costituì il Raggruppamento Rivoluzionario di Cuba conosciuto anche come Giunta Rivoluzionaria di Columbia. Il “Proclama della rivoluzione del popolo di Cuba”, firmato da quasi tutti i membri di questa organizzazione presenti al campo e da Fulgencio batista come “sergente delle Forze Armate della Repubblica”, tracciò le linee di condotta e annunciò la presa del potere.
Il Raggruppamento, diceva il documento redatto da Sergio Carbó, nasceva per impulsare, in modo integrale, le rivendicazioni rivoluzionarie per le quali lottava il popolo di Cuba dentro ampie linee di democrazia e su basi di sovranità nazionale. Queste rivendicazioni erano: la ricostruzione economica della nazione, la convocazione di un’assemblea costituente, il castigo dei grandi colpevoli della dittatura machadista e il rispetto dei debiti contratti dalla Repubblica.
Il Proclama precisava: “Considerando che l’attuale Governo (di Céspedes) non risponde alla domanda urgente delle Rivoluzione, nonostante la buona fede e il patriottismo dei suoi componenti, il Raggruppamento si fa carico delle redini del potere come Governo Rivoluzionario Provvisorio, che rimetterà il sacro comando conferito dal popolo appena l’Assemblea Costituente, che si deve convocare, designi il Governo costituzionale che reggerà il nostro destino fino alle prossime elezioni generali”.
Per allontanare il fantasma del “caudillismo” si optò per un Governo collegiale. Batista assicurò che l’Esercito e la Marina erano d’accordo di appoggiare il Governo che decidesse il Raggruppamento. La Commissione Esecutiva fu conformata da cinque persone e venne chiamata popolarmente “la Pentarchia”. Di questi, in quel momento erano già a Columbia Sergio Carbò e José Miguel Irísarri e si decise invitare i professori universitari Ramón Grau San Martín, di Medicina e Guillermo Portela, di Diritto, che si aggiunsero al gruppo. Irísarri propose che batista fosse il quinto “pentarca”, ma il sergente prudentemente disse che preferiva rimanere nell’esercito. Ci furono altre due proposte: Carlos de la Torre, il saggio delle lumache e il banchiere Porfírio Franca, che vinse per maggioranza.
Il Quartier Generale di Columbia
E Céspedes?
A questo punto rimaneva solo la sostituzione formale di un Governo che aveva cessato di esistere. Il Presidente Céspedes fu sorpreso dagli avvenimenti fuori dall’Avana. Stava tornando dalle province centrali, dove aveva valutato i danni dell’uragano del primo settembre, quando il suo segretario raggiunse il corteo del suo presidente a San Francisco de Paula e lo aggiornò sui fatti di Columbia. Erano le 11 di mattina del giorno 5. Gli disse: “Summer Welles dice di non fare niente fin che non abbia parlato con lui”. Perché era l’Ambasciatore nordamericano che, alla caduta di Machado, aveva imposto alla presidenza quell’uomo di 62 anni di età, figlio del Padre della Patria e che, come diplomatico, aveva passato buona parte della sua vita fuori da Cuba, alieno ai problemi del Paese.
La stampa, una volta nel Palazzo, volle interrogarlo, ma Céspedes ignorò le domande. “Il ciclone è stata una vera catastrofe”, dichiarò e salì al suo ufficio accompagnato da alcuni dei suoi ministri. Successivamente, Batista, ancora con i suoi galloni da sergente, e i “pentarchi” entrarono nell’ufficio del Presidente accompagnati anche da alcuni membri del Direttivo. Prío che giunse al Palazzo in maniche di camicia, dovette chiedere in prestito una giacca.
Silenzio. Attesa. Seguì un dialogo teso tra Grau San Martín e il Presidente che abbandonò il palazzo senza dimettersi.
(Fonti: Testi di N. Briones Montoto, E. De la Osa e L. Soto)
A 80 años del golpe
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Septiembre del 2013 19:08:54 CDT
La cosa estaba cada día peor. El caos se entronizó tras la caída de
Machado, el 12 de agosto de 1933. Carlos Manuel de Céspedes presidía
el Gobierno, pero no gobernaba y la combatividad de los cubanos
asustaba al Embajador estadounidense. Había hambre y desempleo y
huelgas. La llamarada popular quemaba la Isla y obreros y estudiantes
estaban en pie de lucha. En el puerto habanero dos buques de guerra
estadounidenses permanecían con los cañones desenfundados y los
marines prestos al desembarco.
El clima de indisciplina e insubordinación crecía en el Ejército. Los
oficiales, desmoralizados por su complicidad con la recién derrocada
dictadura, estaban a la defensiva y el complot de los sargentos
agrupados en la llamada Junta de Defensa o de los Ocho ganaba adeptos
entre los alistados. Formaban parte de esa Junta los sargentos Pablo
Rodríguez, que la encabezaba, José Eleuterio Pedraza y Manuel López
Migoya, el sargento taquígrafo Fulgencio Batista, el soldado Mario
Alfonso Hernández... Demandaban beneficios para clases y soldados, que
no se les rebajara el sueldo y que se aumentara el monto de las
pensiones; reclamaban gorras de plato y dos botones más en la guerrera
y que dejaran de ser utilizados como sirvientes por parte de la
oficialidad. Pero bien pronto, el 4 de septiembre, el movimiento
revelaría su matiz político: no era menester pedir lo que ellos mismos
podrían agenciarse.
En la mañana de ese día, el capitán Mario Torres Menier, del cuerpo de
Aviación, se personó en la jefatura del Sexto Distrito Militar, con
sede en el campamento de Columbia. Llevaba el encargo del coronel
Julio Sanguily, jefe del Estado Mayor, de reunirse con clases y
soldados y enterarse de sus peticiones ya que el mando tenía
conocimiento de la agitación que reinaba entre la tropa y de la
asamblea que proyectaba. Al teniente coronel José Perdomo explicó el
propósito de su visita. Pero Perdomo no estaba para el paso. Acababa
de ser relevado de la jefatura del Distrito, que quedó bajo el mando
provisional del comandante Antonio Pineda, y no demoraría en partir
para Santiago de Cuba a ocupar su nuevo destino. Quiso bajar el tono a
las preocupaciones de Torres Menier. «Esa reunión, que no tiene la
mayor importancia, está autorizada; es más, me parece que los
“muchachos” hacen bien en plantear sus demandas», dijo, y recordó que
poco antes había expresado a Batista que luego de conocer las quejas
de los soldados, no quería seguir siendo el teniente coronel Perdomo,
sino el sargento Perdomo. Aun así insistió el capitán en reunirse con
alguno de los cabecillas del movimiento. Lo haría con Batista, que
acababa de entrar en el campamento. Se encontraron en el portal del
Club de Alistados.
Ya dentro del Club, Batista, cauteloso, habló sobre su esposa y su
hijita, por las que, dijo, velaba al igual que lo hacían por sus
familiares el resto de los allí reunidos. Dio vueltas y más vueltas a
sus palabras, sin tocar lo esencial, hasta que el soldado Mario
Alfonso Hernández le cortó la perorata con un: «Mira, Batista, no
hables más mierda y di que lo que queremos es un cambio de régimen».
¡Basta ya!
Al sargento le daba mala espina la insistencia de Torres Menier de que
pusiera por escrito las peticiones de la tropa para trasladarlas a
Sanguily. El documento podía utilizarse en su contra. Por eso, en
cuanto el capitán abandonó el Club, salió él también disparado de
Columbia no sin avisar antes a algunos de los complotados que la
conspiración estaba descubierta. Con dos compañeros, se fue a su casa
en el cuchillo de Toyo. Elisa, su esposa, preparó para el grupo algo
de comer y fue ella la que los tranquilizó cuando comentó que por
radio hablaron sobre «algo» que sucedió en Columbia, pero que estaba
resuelto.
Decidió Batista entonces volver al campamento. Con el pretexto de
redactar el petitorio, reuniría a su gente. Todas las unidades fueron
convocadas para las ocho de la noche. A esa hora unos 800 alistados,
en representación de unidades del ejército y la marina destacadas en
La Habana y Matanzas, se daban cita en el cine del campamento.
Concurrían además algunos oficiales.
Lo que allí sucedió ha sido contado de muy diversas maneras. A la hora
convenida, Batista subió al estrado. Comenzaron los reunidos a hablar
sobre las demandas y no se sabe ya quién dio el grito de guerra.
Algunas fuentes refieren que alguien gritó de pronto: «¡Basta ya!
Desde este momento los alistados nos hacemos cargo de la situación.
Los señores oficiales pueden retirarse a sus casas y esperar órdenes».
Se cuenta que a partir de ahí Batista siguió la rima y se adueñó de la
situación. Otros autores le atribuyen todo el protagonismo. Aseguran
que el sargento taquígrafo expresó que no se obedecerían más órdenes
que las suyas y añadió que los sargentos primeros se harían cargo de
sus unidades respectivas. Pidió respeto y consideración para los
oficiales… Dijo a sus compañeros: «Ahora vayan a sus unidades, tomen
las armas y manténganse dentro de la mayor disciplina hasta que
reciban de mí las órdenes que dicte el nuevo Estado Mayor».
Mientras los sargentos primeros salían a ocupar los mandos y los
sargentos cuartel maestre se presentaban a recibir órdenes, Batista
pasaba al edificio de la jefatura del distrito y ocupaba el despacho
del coronel jefe. Le urgía comunicarse con los cuarteles de provincia
a fin de recabar el apoyo de clases y soldados. De inmediato se
sumaban las fuerzas destacadas en la fortaleza de La Cabaña, el
baluarte militar habanero más importante después de Columbia. El
cuartel de San Ambrosio, sede de la intendencia del ejército, se
sumaba también a la sublevación, y lo mismo sucedía con el cuartel de
Dragones, sede del Quinto Distrito, tomado por un solo sargento. A las
dos de la mañana del día 5 de septiembre las tropas de la capital del
país hacían firme su respaldo al golpe de Estado, y no tardaban en
imitarlas las del resto de la nación. A las cinco el Gobierno de
Céspedes no existía. A esa hora la Orden General número 1, dictada en
Columbia, daba cuenta de que Batista estaba al mando del movimiento
golpista.
Se dice que a Batista lo invitaron a incorporarse a la Junta de
Defensa porque era el único sargento que tenía automóvil y los
conspiradores necesitaban de un vehículo. Fue, sí, el más audaz del
grupo; se adueñó del movimiento. Protagonizó la asonada en el mismo
campamento de Columbia, y, antes, envió a Rodríguez a Matanzas. En
ausencia de Rodríguez, Batista dictó la orden en la que se designaba a
sí mismo jefe del movimiento. Nombró a Rodríguez jefe de Columbia y a
López Migoya, ayudante de Rodríguez. Pero no firmó el documento. Lo
hizo Migoya como ayudante de Rodríguez, que desconocía el asunto. Se
dice que los soldados protestaron la decisión de Batista, pero
Rodríguez dejó las cosas como estaban.
Si quiere va y si no, no va
Los civiles arribaban poco a poco al campamento militar. Algunos no
pudieron entrar porque los guardias, tachándolos de politiqueros, lo
impidieron. Llegaron, entre otros, Ramiro Valdés Daussá, de la
organización Pro Ley y Justicia, y «Pepelín» Leyva y «Willy»
Barrientos, del Directorio Estudiantil. Se creyó prudente avisar a
Rubén de León y a Carlos Prío, también de la organización
universitaria, y Batista pidió que se le avisara al periodista Sergio
Carbó, director de la revista La Semana. «Pepelín» fue a avisarle a su
casa de 17 e I, en el Vedado. Tocó el timbre de la puerta de los bajos
y cuando Carbó se asomó al balcón, gritó desde la acera que Batista le
pedía que fuera a Columbia porque ya el golpe estaba andando. «Oiga,
¿usted sabe lo que me está diciendo?», ripostó Carbó. Y Pepelín:
«Bueno, si quiere va y si no, no va. Ya yo se lo dije».
Fue Prío quien convenció a Batista de que el objetivo inmediato de
aquel movimiento debía ser la toma del poder, pues el pliego de
demandas de los alistados, que había seguido engrosándose, no era más
que expresión de una rebeldía sin contenido político. Se consiguió que
el sargento taquígrafo y sus compañeros asumieran el programa del
Directorio y, presidida por Prío, se constituía la Agrupación
Revolucionaria de Cuba, conocida también como Junta Revolucionaria de
Columbia. La «Proclama de la revolución al pueblo de Cuba» firmada por
casi todos los miembros de esa organización presentes en el campamento
y por Fulgencio Batista como «sargento jefe de las Fuerzas Armadas de
la República» fijó líneas de conducta y anunció la toma del poder.
La Agrupación, decía el documento redactado por Sergio Carbó, surgía
para impulsar, de manera integral, las reivindicaciones
revolucionarias por las que luchaba el pueblo de Cuba dentro de líneas
amplias de democracia y sobre principios de soberanía nacional. Esas
reivindicaciones eran la reconstrucción económica de la nación, la
convocatoria de una asamblea constituyente, el castigo de los grandes
culpables de la dictadura machadista y el respeto a las deudas
contraídas por la República.
Precisaba la Proclama: «Por considerar que el actual Gobierno (el de
Céspedes) no responde a la demanda urgente de la Revolución, no
obstante la buena fe y el patriotismo de sus componentes, la
Agrupación se hace cargo de las riendas del poder como Gobierno
Provisional Revolucionario, que reasignará el mando sagrado que le
confiere el pueblo tan pronto la Asamblea Constituyente, que se ha de
convocar, designe el Gobierno constitucional que regirá nuestros
destinos hasta las primeras elecciones generales».
Para alejar el fantasma del caudillismo, se optó por el Gobierno
colegiado. Batista aseguró que el Ejército y la Marina acordaban
apoyar el Gobierno que decidiera la Agrupación. Cinco figuras
conformarían la Comisión Ejecutiva —llamada popularmente Pentarquía—.
De estas, a esa hora, estaban ya en Columbia Sergio Carbó y José
Miguel Irisarri, y se decidió invitar a los profesores universitarios
Ramón Grau San Martín, de Medicina, y Guillermo Portela, de Derecho, a
que se sumaran al grupo. Irisarri propuso que Batista fuera el quinto
pentarca, pero el prudente sargento dijo que prefería mantenerse en el
ejército. Hubo dos propuestas más: Carlos de la Torre, el sabio de los
caracoles, y el banquero Porfirio Franca, que ganó por mayoría.
¿Y Céspedes?
A esa altura solo quedaba la sustitución formal de un Gobierno que
había ya dejado de existir. Al presidente Céspedes lo sorprendieron
los acontecimientos fuera de La Habana. Regresaba de las provincias
centrales, donde evaluó los destrozos del huracán del primero de
septiembre, cuando su secretario interceptó la caravana del mandatario
en San Francisco de Paula y lo impuso de los sucesos de Columbia. Eran
las 11 de la mañana del día 5. Le dijo: «Dice Summer Welles que no
haga nada hasta que no hable con él». Porque era el Embajador
norteamericano quien, a la caída de Machado, había impuesto en la
presidencia a aquel hombre de 62 años de edad, hijo del Padre de la
Patria y que, como diplomático, había pasado buena parte de su vida
fuera de Cuba, desconectado de los problemas del país.
La prensa, ya en Palacio, quiso interrogarlo, pero Céspedes rehuyó las
preguntas. «El ciclón ha sido una verdadera catástrofe», declaró y
subió a su despacho acompañado de algunos de sus ministros. Luego
Batista, aún con sus galones de sargento, y los pentarcas entraron en
la oficina del Presidente y penetraron además algunos miembros del
Directorio. Prío, que acudió a Palacio en mangas de camisa, tuvo que
pedir una chaqueta prestada.
Silencio. Expectación. Siguió un diálogo tenso entre Grau San Martín y
el mandatario que, sin renunciar, abandonó Palacio.
(Fuentes: Textos de N. Briones Montoto, E. de la Osa y L. Soto)
Ciro Bianchi Ross
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