Nella notte di domenica è mancato, a soli 64 anni, Daniel Diaz Torres, uno dei più prolifici e talentosi registi del cinema cubano. Lo scorso dicembre era venuto a trovarmi in ufficio dove abbiamo parlato della sua carriera e di cui ho pubblicato un post il giorno 27 di quel mese. Non ha accennato minimamente di essere malato e sicuramente non ne aveva l'aria. Ha accettato e assaporato con gusto un buon caffè. Che sia rimasto gelato dalla notizia è dire poco. Anche lui vittima di quella perfida malattia che pur non essendo incurabile in assoluto è ancora in molti casi inguaribile, specialmente se diagnosticata tardi o se colpisce determinate parti del corpo.
Daniel oltre che cineasta di lunga traiettoria, ha iniziato giovanissimo nel mondo della celluloide, era una persona squisita. Si penserà che sono i soliti luoghi comuni che si dicono e scrivono per chi lascia questa terra, ma nel suo caso è certo. Modesto, senza essere schivo, non ha mai fatto palesare i suoi lavori che hanno lasciato una profonda traccia nel cinema cubano. Cordiale, sempre col sorriso sulla bocca e una grande disponibilità. Quando l'ho rivisto, dopo molti anni, nel corso dell'ultimo Festival del Cinema, gli avevo chiesto di avere un colloquio con lui per pubblicare un post riguardante la sua persona e carriera. Dopo pochi giorni è venuto a trovarmi e ne abbiamo parlato, come se fossimo sempre rimasti in contatto. Anche gli allievi della scuola del Nuovo Cine Latinoamericano e TV di S. Antonio de Los Baños hanno perso un amico, più che un professore. Hasta siempre Daniel!
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martedì 17 settembre 2013
lunedì 16 settembre 2013
Lo ieri di oggi, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 15/09/13
Ieri di Oggi
Un paio d'anni fa, questo scriba identificò un luogo dove trovò un edificio in rovina. Senza il tetto, con le pareti che si sostenevano per miracolo e colonne di ferro ancora innalzate, l'immobile era adibito a deposito di materiali. Nonostante le sue dimensioni ridotte, una targa di bronzo era visibile sulla sua facciata. Diceva “Qua è stato J. M.”
J. M.? Julián Marrero forse? Jorge Menéndez? Chissá Juan Mendoza? Acqua, acqua. J.M. È nientemno che José Martí e l'edificio è la Caridad del Cerro, l'associazione che dette feste e ricevimenti di grido e sontuosi, le cui serate politiche e letterarie passarono ogni limite di aggettivazione. I suoi saloni, all'epoca, furono frequentati da figure del calibro di Nicolás Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafel Montoro e, naturalmente, José Martí, per dirlo in una sola frase. Dalla Caridad del Cerro passarono tutti quelli che nella Cuba del XIX secolo godevano di prestigio. Colà Enrique Varona dette non poche delle sue conferenze, far le quali quelle che dedicò a Emerson, Victor Hugo, Luz y Caballero e sopratutto, nella sera del 14 maggio 1887, al “poeta anonimo della Polonia”, le cui parole finali, dice la cronaca, furono coperte da una delle ovazioni più sonore che ebbero luogo in quella sala della Calzada del Cerro fra Santa Teresa e Saragoza che, d'altra parte, era anche la sede del Partito Autonomista.
La casa appartenne a un membro della nobiltà dell'Isola fino a che nel 1875 dette ospitalità alla società. Federico Villoch descrive il locale nelle sue vecchie cartoline scolorite. Dice che la sala delle funzioni era ampia e ben disposta, e i saloni che accoglievano la biblioteca e la sala da gioco, ben ventilati. Il patio, ampio e quadrato , un giardino frondoso offriva gratuitamente piacevoli angoli per poter ricreare ampiamente lo spirito. La carta che tappezzava le pareti della sala d'ingresso e di svago, illuminato dalla luce di ostentatrici lampade di cristallo, provocava una voluttuosa atmosfera da sogno nel visitatore. Saloni in cui rivaleggiavano, in bellezza e distinzione, Josefina Herrera, Contessa di Fernandina; Esperanza Navarrete sulla via di convertirsi nella Marchesa di Larrinaga, la Contessa di Montalvo, quella di Calderón...Ivi si fece le ossa Regino López, quello che poi fu l'applaudito attore del teatro vernacolo. Le finanze non andavano, alla Caridad del Cerro, di pari passo alla spinta culturale. Sopravvisse a malapena fino a poco dopo lo scoppio della Guerra d'Indipendenza , nel 1895. Problemi economici che non potevano essere risolti dai suoi protettori, la strangolarono fino a condurla quasi alla miseria. Allora i suoi vecchi custodi, per ordini superiori, ne chiusero le porte. In fase discendente, il nobile edificio, divenne casa d'affitto e poi fu la sala cinematografica “Cerro Garden”, fino a converstirsi appunto in deposito di materiali.
Quando il Generalissimo Máximo Gómez entrò al'Avana nel 1898, alla guida delle sue truppe, ordinò che un gruppo di combattenti “mambises” rendesse gli onori a qualla che fu “La Caridad del Cerro”.
23 y M; L y 25
L'isolato che occupa l'hotel Habana Libre, sita tra le “calles” 23 e 25, L e M, nel Vedado, era, alla fine degli anni '40 del secolo scorso, un terreno incolto o quasi.
All'angolo di 23 e M si ergeva la residenza di Carlos Manuel de Céspedes, ex presidente della Repubblica e figlio del Padre della Patria. All'angolo di L e 25 si trovava, a partire del 1939, la casa del dottor Kourí, la cui figlia Ada era sposta con Raúl Roa. All'angolo opposto, in 23 e L, c'era un parco di divertimenti con veri cavallini: i pony; i bambini si montavano e un addetto dell'installazione prendeva le redini dell'animale. Per 5 centesimi si faceva il giro del terreno. C'erano pony anche nel buco all'angolo di 21 e G, nello spazio che oggi occupa il bell'edificio progettato dall'architetto Rafael de Cárdenas, autore anche fra le molte sue opere, del centro commerciale La Rampa, all'inizio della calle 23.
Naturalmente, quando si progettò la costruzione di un albergo, si impose l'acquisizione della casa di Céspedes per procedere alla sua demolizione e approfittare, così, dello spazio che occupava. La vedova dell'ex presidente disse che non era interessata a vendere e facendosi pregare per farlo, ottenne un'offerta irresistibile per il suo immobile.
La casa dei Kourí, dice Raúl Roa nel suo libro Memoriedi Mondi Varii, “aveva una cupola blu, un grande patio posteriore con alberi da frutta e un bagno 'pompeiano' al secondo piano”. Il patio, spiega Roa, si trovava circa sotto a dove oggi c'è il bar “Las Cañitas” dell'Habana Libre.
Erano tempi in cui nella calle L si transitava a doppio senso, mentre nella calle 17 i veicoli viaggiavano in senso contrario rispetto a oggi. Dove oggi c'è l'edificio Focsa, si trovava il club Cubanaleco, di fronte, dove si trova il ristorante El Conejito, c'era un locale chiamato El Liro, rinomato per i polli e le uova che vendeva. La Roca allora era El Colonial, e la pizzeria di L e 21 non era una pizzeria, ma un ristorante caffetteria che portava il nome di Las Delicias de Medina. Non c'era la libreria in L e 27, ma una caffetteria con entrata da ambedue le strade. Il Caffè degli Artisti, locale bohemienne, di proprietà dell'attore Otto Sirgo, si trovava un'isolato più sotto, in 25 e il Mocambo Club occupava il luogo de Las Bulerías. C'era un Ristorante Viennese nella calle K e una casa di cibi francesi: Le Vendôme, in Calzada all'angolo di C, mentre il ristorante Gaviria, in Calzada e M, davanti al parcheggio dell'Ambasciata degli Stati Uniti, garantiva una vista spettacolare dell'Avana.
L y 23
La Moderna Poesía
L'angolo della libreria La Moderna Poesía, in Obispo e Bernaza, era occupata, prima del 1900, dal calzaturificio di Manuel Sánchez Cuétaro. Più o meno alla data segnalata, José López Rodríguez, che rese celebre il nome “El Pote”, comprò l'angolo, liquidò le scarpe vendendole a stock, e riempì il locale di libri vecchi.
Si dice che allora che La Moderna Poesía era arredata con lo stile di un baraccone da fiera. Tavole grezze, senza pittura, che appoggiavano su altrettanti blocchi di legno, servivano da banco, anche gli scaffali dei libri erano grezzi, strapieni di libri, generalmente vecchi, acquistati quasi tutti usati.
Nel marciapiedi di fronte apriva le sue porte la libreria di Ricoy. In questa si incontravano Varona, Zayas, Carlos de la Torre ed altre eminenze dell'epoca, frugando affannosamente fra montagne di libri e riviste che riempivano la piccola sala del negozio.
La cancillería
Il “Ministero di Stato” era, al trionfo della Rivoluzione, l'ente incaricato delle relazioni estere di Cuba. La sua sede si trovava nell'Avana Vecchia, calle Capdevila, numero 6, nell'antica residenza della famiglia Pérez de la Riva, dove oggi si trova il Museo nazionale della Musica, un immobile che se era ideale per cocktail e ricevimenti, risultava inadeguato per lavori d'ufficio. Il Ministero aveva bisogno di traslocare e, nel 1958, la dittatura batistiana decise di farlo verso l'isolato tra le strade Calzada, G, H, e Quinta, nel quartiere del Vedado. Per ciò avrebbe utilizzato una grande casa che vi si trovava, al numero 306 della Calle Calzada, e avrebbe approfittato del terreno sul retro per la costruzione di un edificio di otto piani con la facciata principale sulla Calle Quinta, dove sarebbero state installate le principali dipendenze del Ministero.
Si sarebbe guadagnato così in ampiezza e comodità per il daffare quotidiano e si garantiva ai diplomatici accreditati nel Paese un accesso comodo e veloce da qualunque parte della città.
Il Vedado si estende sull'antica zona vietata – di li il nome del quartiere – dove si proibiva vivere, seminare, falciare e allevare bestiame per l'interesse della difesa dell'Avana dagli attacchi di corsari e pirati. Nell'area occupata dal Ministero degli Esteri era esistito, dal 1832, un cimitero destinato a negri schiavi che morivano senza essere stati battezzati. Siccome si ebbero proteste per lo stato in cui versava la necropoli dove, dice la cronaca, si seppellivano i negri come animali, si risanò il luogo, si nominò un cappellano e si decise di riservare la maggior parte del terreno all'inumazione di stranieri protestanti. Da li il nome di Cimitero degli Inglesi che ricevette allora, e Cimitero degli Americani come si identificò man mano che cittadini degli Stati Uniti superavano per numero e influenza i sudditi della Gran Bretagna. Venne chiuso nel 1847.
Dopo la fine della guerra d'Indipendenza, nel 1898, e l'instaurazione della Repubblica nel 1902, il quartiere ebbe un'auge imprevisto. I ricchi abbandonarono la angusta e rumorosa Avana Vecchia, comprarono terreni e costruirono nel quartiere. Lo fecero anche i nuovi ricchi e non pochi alti ufficiali dell'Esercito Liberatore che riscuotevano quanto dovuto.
La famiglia Gómez Mena decise di installarsi nel Vedado. Il ramo capeggiato da Alfonso Gómez Mena Villa acquisì i terreni della Calle Calzada, dove edificò la magione dove ha sede la Direzione del Protocollo e Cerimoniale del Ministero degli Esteri.
Prima dell'esistenza del citato cimitero, questi terreni furono proprietà di Antonio de Frías, parente del Conte de Pozos Dulces, padrone della tenuta dove si stabilì il Vedado. Successivamente apparterranno alla Contessa di Loreto che, nel 1920, li vendette alla dominicana Blanca Maria Vicini Perdomo. Questa li ipotecò a favore di Alfonso Gómez Mena e terminò, cinque anni dopo, vendendoglieli quando la fastosa residenza, che divenne abitabile nel 1926, era già in costruzione. Per edificarla, Alfonso, fu autorizzato a demolire le cinque case che vi erano erette.
Alfonso Gómez Mena incaricò i piani della costruzione al famoso architetto Francisco Centurión, autore anche del padiglione cubano all'Esposizione Internazionale di San Francisco, in California e per l'esecuzione del progetto contrattò i servizi della ditta Morales & c.ia, diretta dall'importante architetto Leonardo Morales, graduatosi all'Università di Harvard, Stati Uniti, e allievo della Scuola delle Belle Arti di Parigi.
Alla morte di Alfonso Gómez Mena nel 1936, la casa passò a nome della sua vedova Maria Vivanco, che la abitò fino al 1953. Cinque anni prima, l'immobile di 1659 metri quadrati di superficie, fu valutato in 115.000 pesos e i terreni in 200.000. Nel 1958 lo Stato Cubano acquisì i terreni e la casa per 650.000 pesos; cifra equivalente a dollari. In quel periodo declinava la stella e la fortuna degli eredi di Alfonso. Suo figlio Alfonso Gómez Mena Vivanco si vide obbligato, quello stesso anno, a consegnare la terza parte delle sue azioni del Central Santa Teresa come garanzia per il debito di 700.000 pesos che aveva con una azienda commerciante di zucchero. Non potendolo saldare alla scadenza, i creditori gli fecero causa che terminò con l'ipoteca del Central.
L'edificio di otto piani della Calle Quinta fu terminato dopo il 1959. Quando alla metà dell'anno, il dottor Raúl Roa assunse il portafoglio degli Esteri, gli uffici non erano ancora finiti e li fece installare nell'edificio che occuperebbe, poco dopo, la Casa de Las Américas.
Ayer de hoy
Ciro Bianchi Ross •
14 de Septiembre del 2013 19:12:54 CDT
Hace un par de años este escribidor localizó el lugar y encontró un
edificio en ruinas. Sin techo, con alguna que otra pared sosteniéndose
a como diera lugar y columnas de hierro todavía enhiestas, el inmueble
daba cabida a un depósito de materias primas. Pese a sus reducidas
dimensiones, una tarja de bronce se hacía visible entonces en su
fachada. Advertía: «Aquí estuvo JM».
¿JM? ¿Julián Marrero, acaso? ¿Jorge Menéndez? ¿Juan Mendoza, tal vez?
Frío, frío. JM es nada más y nada menos que José Martí, y el edificio
es el de La Caridad del Cerro, la sociedad que auspició fiestas y
recepciones renombradas y suntuosas y cuyas veladas políticas y
literarias traspasaron los límites de toda adjetivación. Sus salones,
en su momento, fueron frecuentados por figuras de la talla de Nicolás
Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafael
Montoro y, por supuesto, José Martí. Para decirlo en una sola frase.
Por La Caridad del Cerro pasó todo lo que en la Cuba de fines del
siglo XIX gozaba de verdadero prestigio. Allí Enrique José Varona
pronunció no pocas de sus conferencias, entre estas las que dedicó a
Emerson, Víctor Hugo, Luz y Caballero y sobre todo, en la noche del 14
de mayo de 1887, al «poeta anónimo de Polonia», cuyas palabras
finales, dice la crónica, fueron ahogadas por una de las ovaciones más
estruendosas que tuvieron lugar en aquella sala de la Calzada del
Cerro entre Santa Teresa y Zaragoza que, por otra parte, servía de
sede a la dirección del Partido Autonomista.
La casa perteneció a un miembro de la nobleza de la Isla hasta que en
1875 dio albergue a la sociedad. Federico Villoch describe el local en
sus Viejas postales descoloridas. Dice que la sala de actos era amplia
y bien distribuida, y ventilados los salones que acogían la biblioteca
y la sala de juegos. En el patio, ancho y cuadrado, un frondoso jardín
ofrecía gratos rincones para que el espíritu se solazase a sus anchas.
El papel que tapizaba las paredes de las salas de recepción y de
recreo, iluminado por la luz de gas de ostentosas lámparas de cristal,
provocaba en el visitante la idea de una voluptuosa atmósfera de
ensueño. Salones en los que rivalizaban en belleza y distinción,
Josefina Herrera, Condesa de Fernandina; Esperanza Navarrete, en
camino de convertirse en la Marquesa de Larrinaga, la Condesa de
Montalvo, la de Calderón… Allí hizo sus primeras armas Regino López,
el después muy aplaudido y popular actor de nuestro teatro vernáculo.
Las finanzas no andaban en La Caridad del Cerro a la par de su empuje
cultural. A duras penas sobrevivió hasta poco después de estallar la
Guerra de Independencia, en 1895. Problemas económicos a los que sus
protectores no pudieron corresponder, fueron estrechándola hasta
llevarla casi a la indigencia. Entonces sus viejos conserjes, por
órdenes superiores, cerraron sus puertas. Cuesta abajo, la noble
mansión derivó en casa de inquilinato y fue luego la sala
cinematográfica Cerro Garden hasta servir de depósito de materias
primas.
Cuando el Generalísimo Máximo Gómez entró en La Habana en 1898, al
frente de sus tropas, se dispuso que un grupo de mambises rindiera
respeto y homenaje a lo que fue La Caridad del Cerro.
23 y M; L y 25
La manzana que ocupa el hotel Habana Libre, enmarcada por las calles
23 y 25, L y M, en el Vedado, era, a fines de los años 40 del siglo
pasado, un terreno yermo o casi.
En la esquina de 23 y M se erigía la residencia de Carlos Manuel de
Céspedes, ex presidente de la República e hijo del Padre de la Patria.
En la esquina de L y 25 se hallaba, a partir de 1939, la casa del
doctor Kourí, cuya hija Ada estaba casada con el doctor Raúl Roa. En
la esquina opuesta, en 23 y L, existía un parque de diversiones con
caballitos de verdad, los ponis; el niño se le encaramaba y un
empleado de la instalación llevaba de la rienda al animal. Por cinco
centavos se daba la vuelta al terreno. Había también ponis en el hueco
de la esquina de 21 y G, en el espacio que ocupa el hermoso edificio
proyectado por el arquitecto Rafael de Cárdenas, autor asimismo, entre
otras muchas obras, del centro comercial La Rampa, al comienzo de la
calle 23.
Por cierto, cuando se proyectaba la construcción del hotel, se imponía
la adquisición de la casa de Céspedes para proceder a su demolición y
aprovechar así el espacio que ocupaba. La viuda del ex mandatario dijo
que no estaba interesada en vender y haciéndose de rogar para que
vendiera, consiguió una oferta irresistible por su inmueble.
La casa de los Kourí, dice Raúl Roa hijo en su libro Memoria de mundos
varios, «tenía una cúpula azul, un gran traspatio con árboles frutales
y un baño “pompeyano” en el segundo piso». El patio, precisa Roa,
quedaba aproximadamente debajo de donde está el bar Las Cañitas del
Habana Libre.
Eran tiempos en que la calle L se transitaba en ambos sentidos, y por
la calle 17 los vehículos circulaban en dirección contraria a como lo
hacen hoy. Donde ahora está el edificio Focsa, se hallaba el club
Cubanaleco, y enfrente, donde se encuentra el restaurante El Conejito,
existía un establecimiento llamado El Liro, reputado por los pollos y
huevos que expedía. La Roca era entonces El Colonial, y la pizzería de
21 y L no era una pizzería, sino una cafetería-restaurante que llevaba
el nombre de Las Delicias de Medina. No había librería en L y 27, sino
una cafetería con entrada por ambas calles. El Café de Artistas, sitio
bohemio, propiedad del actor Otto Sirgo, se ubicada una cuadra más
abajo, en 25, y el Mocambo Club ocupaba el lugar de Las Bulerías.
Había un Restaurante Vienés en la calle K, y una casa de comidas
francesas; Le Vendome, en Calzada esquina a C, mientras que el
restaurante Gaviria, en Calzada y M, frente al parqueo de la embajada
de Estados Unidos, aseguraba una vista espectacular de La Habana.
La Moderna Poesía
La esquina de la librería La Moderna Poesía, en Obispo y Bernaza,
estaba ocupada, antes de 1900, por la peletería de Manuel Sánchez
Cuétaro. Más o menos en la fecha señalada José López Rodríguez, que
haría célebre el sobrenombre de «Pote», compró la esquina, liquidó los
zapatos, los vendió a lo que le dieron por ellos, y llenó el local de
libros viejos.
Entonces La Moderna Poesía, dicen, estaba montada a estilo de una
barraca de feria. Una cuantas tablas toscas y sin pintar, que
descansaban sobre otros tantos burros de madera, servían de mostrador,
y toscos también eran los estantes, abarrotados de libros, viejos por
lo general, comprados casi todos de relance.
En la acera de enfrente abría sus puertas la librería de Ricoy. En
esta se veía a Varona, a Zayas, a Carlos de la Torre y a otras
eminencias de la época, registrando afanosos las tongas de libros y
revistas que llenaban la pequeña sala del establecimiento.
La cancillería
El Ministerio de Estado era, al triunfo de la Revolución, la entidad
encargada de las relaciones exteriores de Cuba. Su sede radicaba en La
Habana Vieja, calle Capdevila número 6, en la antigua residencia de la
familia Pérez de la Riva, donde ahora se halla el Museo Nacional de la
Música, un inmueble que si bien resultaba ideal para cocteles y
recepciones, resultaba inapropiado como lugar de trabajo y oficinas.
El Ministerio necesitaba reubicarse, y, en 1958, la dictadura
batistiana decidió hacerlo en terrenos de la manzana enmarcada por las
calles Calzada, G, H y Quinta, en el barrio del Vedado. Para ello
utilizaría la casona que allí se erigía, en el número 360 de la calle
Calzada, y aprovecharía el terreno del fondo para la construcción de
un edificio de ocho plantas y con fachada principal sobre la calle
Quinta, donde quedarían instaladas las dependencias principales del
organismo.
Se ganaba así en amplitud y comodidad para las faenas cotidianas, y se
aseguraba a los diplomáticos acreditados en el país un acceso cómodo y
rápido desde cualquier punto de la ciudad.
El Vedado se extiende sobre la antigua zona vedada —de ahí el nombre
del barrio— donde se prohibía vivir, sembrar, talar y criar ganado
en interés de la defensa de La Habana ante ataques de corsarios y
piratas. En el área ocupada por el Ministerio de Relaciones Exteriores
existió, a partir de 1832, un cementerio destinado a negros esclavos
bozales que morían sin bautizar. Como hubo protestas por el estado de
dicha necrópolis donde, dicen las crónicas, se enterraba a los negros
como animales, se adecentó el lugar, se nombró a un capellán y se
decidió destinar la mejor parte del campo a la inhumación de
extranjeros protestantes. De ahí el nombre de Cementerio de los
Ingleses, que recibió entonces, y Cementerio de los Americanos, como
se le designó a medida que ciudadanos de Estados Unidos superaban en
número e influencia a los súbditos de Gran Bretaña. Lo clausuraron en
1847.
Tras el fin de la Guerra de Independencia, en 1898, y la instauración
de la República, en 1902, la barriada adquirió un auge inusitado. Los
ricos de abolengo abandonan la atestada y ruidosa Habana Vieja y
compran terrenos y construyen en la barriada. Lo hacen también los
nuevos ricos y no pocos altos oficiales del Ejército Libertador que
cobran sus haberes.
La familia Gómez Mena decide radicarse en el Vedado. La rama de ella
que encabezaba Alfonso Gómez Mena Vila adquirió los terrenos de la
calle Calzada, donde edificaría la mansión que sirve de sede a la
Dirección de Protocolo y Ceremonial del Ministerio de Relaciones
Exteriores.
Antes de la existencia en estos del cementerio aludido, esos terrenos
fueron propiedad de don Antonio de Frías, pariente del Conde de Pozos
Dulces, dueño de la finca donde se asentó el Vedado. Pertenecerían
después a la Condesa del Loreto, quien, en 1920, los vendió a la
dominicana Blanca María Vicini Perdomo. Esta los hipotecó a favor de
Alfonso Gómez Mena y terminó vendiéndoselos cinco años más tarde,
cuando la fastuosa residencia, que adquirió la condición de habitable
en 1926, estaba ya en construcción. Para edificarla, Alfonso fue
autorizado a demoler las cinco viviendas allí enclavadas.
Alfonso Gómez Mena Vila encargó los planos de la mansión al afamado
arquitecto Francisco Centurión, autor asimismo del pabellón cubano en
la Exposición Internacional de San Francisco, California, y para la
ejecución del proyecto contrató los servicios de la firma Morales y
Compañía, dirigida por el importante arquitecto Leonardo Morales,
graduado en la Universidad de Harvard, en Estados Unidos, y egresado
de la Escuela de Bellas Artes de París.
Al fallecer Alfonso Gómez Mena en 1936, la casa pasó a nombre de su
viuda, María Vivanco, que la habitó hasta 1953. Cinco años antes el
inmueble, de 1 659 metros cuadrados de superficie, fue valorado en 115
000 pesos y los terrenos en 200 000. En 1958 el Estado cubano
adquirió los terrenos y la casa por 650 000 pesos; cifras esas
equivalentes a dólares. En esa fecha declinaba la estrella y la
fortuna de los herederos de Alfonso. Su hijo Alfonso Gómez Mena
Vivanco se veía obligado a entregar, en ese año, las dos terceras
partes de sus acciones en el central Santa Teresa en garantía por la
deuda de 700 000 pesos que tenía con una firma corredora de azúcar. Al
no poder saldarla en fecha, los acreedores establecieron un
procedimiento judicial que concluyó con el embargo del central.
El edificio de ocho plantas de la calle Quinta fue terminado después
de 1959. Cuando a mediados de ese año el doctor Raúl Roa asumió la
cartera de Relaciones Exteriores, sus oficinas no estaban aún
concluidas y las instaló en el edificio que ocuparía poco después la
Casa de las Américas.
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
Un paio d'anni fa, questo scriba identificò un luogo dove trovò un edificio in rovina. Senza il tetto, con le pareti che si sostenevano per miracolo e colonne di ferro ancora innalzate, l'immobile era adibito a deposito di materiali. Nonostante le sue dimensioni ridotte, una targa di bronzo era visibile sulla sua facciata. Diceva “Qua è stato J. M.”
J. M.? Julián Marrero forse? Jorge Menéndez? Chissá Juan Mendoza? Acqua, acqua. J.M. È nientemno che José Martí e l'edificio è la Caridad del Cerro, l'associazione che dette feste e ricevimenti di grido e sontuosi, le cui serate politiche e letterarie passarono ogni limite di aggettivazione. I suoi saloni, all'epoca, furono frequentati da figure del calibro di Nicolás Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafel Montoro e, naturalmente, José Martí, per dirlo in una sola frase. Dalla Caridad del Cerro passarono tutti quelli che nella Cuba del XIX secolo godevano di prestigio. Colà Enrique Varona dette non poche delle sue conferenze, far le quali quelle che dedicò a Emerson, Victor Hugo, Luz y Caballero e sopratutto, nella sera del 14 maggio 1887, al “poeta anonimo della Polonia”, le cui parole finali, dice la cronaca, furono coperte da una delle ovazioni più sonore che ebbero luogo in quella sala della Calzada del Cerro fra Santa Teresa e Saragoza che, d'altra parte, era anche la sede del Partito Autonomista.
La casa appartenne a un membro della nobiltà dell'Isola fino a che nel 1875 dette ospitalità alla società. Federico Villoch descrive il locale nelle sue vecchie cartoline scolorite. Dice che la sala delle funzioni era ampia e ben disposta, e i saloni che accoglievano la biblioteca e la sala da gioco, ben ventilati. Il patio, ampio e quadrato , un giardino frondoso offriva gratuitamente piacevoli angoli per poter ricreare ampiamente lo spirito. La carta che tappezzava le pareti della sala d'ingresso e di svago, illuminato dalla luce di ostentatrici lampade di cristallo, provocava una voluttuosa atmosfera da sogno nel visitatore. Saloni in cui rivaleggiavano, in bellezza e distinzione, Josefina Herrera, Contessa di Fernandina; Esperanza Navarrete sulla via di convertirsi nella Marchesa di Larrinaga, la Contessa di Montalvo, quella di Calderón...Ivi si fece le ossa Regino López, quello che poi fu l'applaudito attore del teatro vernacolo. Le finanze non andavano, alla Caridad del Cerro, di pari passo alla spinta culturale. Sopravvisse a malapena fino a poco dopo lo scoppio della Guerra d'Indipendenza , nel 1895. Problemi economici che non potevano essere risolti dai suoi protettori, la strangolarono fino a condurla quasi alla miseria. Allora i suoi vecchi custodi, per ordini superiori, ne chiusero le porte. In fase discendente, il nobile edificio, divenne casa d'affitto e poi fu la sala cinematografica “Cerro Garden”, fino a converstirsi appunto in deposito di materiali.
Quando il Generalissimo Máximo Gómez entrò al'Avana nel 1898, alla guida delle sue truppe, ordinò che un gruppo di combattenti “mambises” rendesse gli onori a qualla che fu “La Caridad del Cerro”.
23 y M; L y 25
L'isolato che occupa l'hotel Habana Libre, sita tra le “calles” 23 e 25, L e M, nel Vedado, era, alla fine degli anni '40 del secolo scorso, un terreno incolto o quasi.
All'angolo di 23 e M si ergeva la residenza di Carlos Manuel de Céspedes, ex presidente della Repubblica e figlio del Padre della Patria. All'angolo di L e 25 si trovava, a partire del 1939, la casa del dottor Kourí, la cui figlia Ada era sposta con Raúl Roa. All'angolo opposto, in 23 e L, c'era un parco di divertimenti con veri cavallini: i pony; i bambini si montavano e un addetto dell'installazione prendeva le redini dell'animale. Per 5 centesimi si faceva il giro del terreno. C'erano pony anche nel buco all'angolo di 21 e G, nello spazio che oggi occupa il bell'edificio progettato dall'architetto Rafael de Cárdenas, autore anche fra le molte sue opere, del centro commerciale La Rampa, all'inizio della calle 23.
Naturalmente, quando si progettò la costruzione di un albergo, si impose l'acquisizione della casa di Céspedes per procedere alla sua demolizione e approfittare, così, dello spazio che occupava. La vedova dell'ex presidente disse che non era interessata a vendere e facendosi pregare per farlo, ottenne un'offerta irresistibile per il suo immobile.
La casa dei Kourí, dice Raúl Roa nel suo libro Memoriedi Mondi Varii, “aveva una cupola blu, un grande patio posteriore con alberi da frutta e un bagno 'pompeiano' al secondo piano”. Il patio, spiega Roa, si trovava circa sotto a dove oggi c'è il bar “Las Cañitas” dell'Habana Libre.
Erano tempi in cui nella calle L si transitava a doppio senso, mentre nella calle 17 i veicoli viaggiavano in senso contrario rispetto a oggi. Dove oggi c'è l'edificio Focsa, si trovava il club Cubanaleco, di fronte, dove si trova il ristorante El Conejito, c'era un locale chiamato El Liro, rinomato per i polli e le uova che vendeva. La Roca allora era El Colonial, e la pizzeria di L e 21 non era una pizzeria, ma un ristorante caffetteria che portava il nome di Las Delicias de Medina. Non c'era la libreria in L e 27, ma una caffetteria con entrata da ambedue le strade. Il Caffè degli Artisti, locale bohemienne, di proprietà dell'attore Otto Sirgo, si trovava un'isolato più sotto, in 25 e il Mocambo Club occupava il luogo de Las Bulerías. C'era un Ristorante Viennese nella calle K e una casa di cibi francesi: Le Vendôme, in Calzada all'angolo di C, mentre il ristorante Gaviria, in Calzada e M, davanti al parcheggio dell'Ambasciata degli Stati Uniti, garantiva una vista spettacolare dell'Avana.
L y 23
La Moderna Poesía
L'angolo della libreria La Moderna Poesía, in Obispo e Bernaza, era occupata, prima del 1900, dal calzaturificio di Manuel Sánchez Cuétaro. Più o meno alla data segnalata, José López Rodríguez, che rese celebre il nome “El Pote”, comprò l'angolo, liquidò le scarpe vendendole a stock, e riempì il locale di libri vecchi.
Si dice che allora che La Moderna Poesía era arredata con lo stile di un baraccone da fiera. Tavole grezze, senza pittura, che appoggiavano su altrettanti blocchi di legno, servivano da banco, anche gli scaffali dei libri erano grezzi, strapieni di libri, generalmente vecchi, acquistati quasi tutti usati.
Nel marciapiedi di fronte apriva le sue porte la libreria di Ricoy. In questa si incontravano Varona, Zayas, Carlos de la Torre ed altre eminenze dell'epoca, frugando affannosamente fra montagne di libri e riviste che riempivano la piccola sala del negozio.
La cancillería
Il “Ministero di Stato” era, al trionfo della Rivoluzione, l'ente incaricato delle relazioni estere di Cuba. La sua sede si trovava nell'Avana Vecchia, calle Capdevila, numero 6, nell'antica residenza della famiglia Pérez de la Riva, dove oggi si trova il Museo nazionale della Musica, un immobile che se era ideale per cocktail e ricevimenti, risultava inadeguato per lavori d'ufficio. Il Ministero aveva bisogno di traslocare e, nel 1958, la dittatura batistiana decise di farlo verso l'isolato tra le strade Calzada, G, H, e Quinta, nel quartiere del Vedado. Per ciò avrebbe utilizzato una grande casa che vi si trovava, al numero 306 della Calle Calzada, e avrebbe approfittato del terreno sul retro per la costruzione di un edificio di otto piani con la facciata principale sulla Calle Quinta, dove sarebbero state installate le principali dipendenze del Ministero.
Si sarebbe guadagnato così in ampiezza e comodità per il daffare quotidiano e si garantiva ai diplomatici accreditati nel Paese un accesso comodo e veloce da qualunque parte della città.
Il Vedado si estende sull'antica zona vietata – di li il nome del quartiere – dove si proibiva vivere, seminare, falciare e allevare bestiame per l'interesse della difesa dell'Avana dagli attacchi di corsari e pirati. Nell'area occupata dal Ministero degli Esteri era esistito, dal 1832, un cimitero destinato a negri schiavi che morivano senza essere stati battezzati. Siccome si ebbero proteste per lo stato in cui versava la necropoli dove, dice la cronaca, si seppellivano i negri come animali, si risanò il luogo, si nominò un cappellano e si decise di riservare la maggior parte del terreno all'inumazione di stranieri protestanti. Da li il nome di Cimitero degli Inglesi che ricevette allora, e Cimitero degli Americani come si identificò man mano che cittadini degli Stati Uniti superavano per numero e influenza i sudditi della Gran Bretagna. Venne chiuso nel 1847.
Dopo la fine della guerra d'Indipendenza, nel 1898, e l'instaurazione della Repubblica nel 1902, il quartiere ebbe un'auge imprevisto. I ricchi abbandonarono la angusta e rumorosa Avana Vecchia, comprarono terreni e costruirono nel quartiere. Lo fecero anche i nuovi ricchi e non pochi alti ufficiali dell'Esercito Liberatore che riscuotevano quanto dovuto.
La famiglia Gómez Mena decise di installarsi nel Vedado. Il ramo capeggiato da Alfonso Gómez Mena Villa acquisì i terreni della Calle Calzada, dove edificò la magione dove ha sede la Direzione del Protocollo e Cerimoniale del Ministero degli Esteri.
Prima dell'esistenza del citato cimitero, questi terreni furono proprietà di Antonio de Frías, parente del Conte de Pozos Dulces, padrone della tenuta dove si stabilì il Vedado. Successivamente apparterranno alla Contessa di Loreto che, nel 1920, li vendette alla dominicana Blanca Maria Vicini Perdomo. Questa li ipotecò a favore di Alfonso Gómez Mena e terminò, cinque anni dopo, vendendoglieli quando la fastosa residenza, che divenne abitabile nel 1926, era già in costruzione. Per edificarla, Alfonso, fu autorizzato a demolire le cinque case che vi erano erette.
Alfonso Gómez Mena incaricò i piani della costruzione al famoso architetto Francisco Centurión, autore anche del padiglione cubano all'Esposizione Internazionale di San Francisco, in California e per l'esecuzione del progetto contrattò i servizi della ditta Morales & c.ia, diretta dall'importante architetto Leonardo Morales, graduatosi all'Università di Harvard, Stati Uniti, e allievo della Scuola delle Belle Arti di Parigi.
Alla morte di Alfonso Gómez Mena nel 1936, la casa passò a nome della sua vedova Maria Vivanco, che la abitò fino al 1953. Cinque anni prima, l'immobile di 1659 metri quadrati di superficie, fu valutato in 115.000 pesos e i terreni in 200.000. Nel 1958 lo Stato Cubano acquisì i terreni e la casa per 650.000 pesos; cifra equivalente a dollari. In quel periodo declinava la stella e la fortuna degli eredi di Alfonso. Suo figlio Alfonso Gómez Mena Vivanco si vide obbligato, quello stesso anno, a consegnare la terza parte delle sue azioni del Central Santa Teresa come garanzia per il debito di 700.000 pesos che aveva con una azienda commerciante di zucchero. Non potendolo saldare alla scadenza, i creditori gli fecero causa che terminò con l'ipoteca del Central.
L'edificio di otto piani della Calle Quinta fu terminato dopo il 1959. Quando alla metà dell'anno, il dottor Raúl Roa assunse il portafoglio degli Esteri, gli uffici non erano ancora finiti e li fece installare nell'edificio che occuperebbe, poco dopo, la Casa de Las Américas.
Ayer de hoy
Ciro Bianchi Ross •
14 de Septiembre del 2013 19:12:54 CDT
Hace un par de años este escribidor localizó el lugar y encontró un
edificio en ruinas. Sin techo, con alguna que otra pared sosteniéndose
a como diera lugar y columnas de hierro todavía enhiestas, el inmueble
daba cabida a un depósito de materias primas. Pese a sus reducidas
dimensiones, una tarja de bronce se hacía visible entonces en su
fachada. Advertía: «Aquí estuvo JM».
¿JM? ¿Julián Marrero, acaso? ¿Jorge Menéndez? ¿Juan Mendoza, tal vez?
Frío, frío. JM es nada más y nada menos que José Martí, y el edificio
es el de La Caridad del Cerro, la sociedad que auspició fiestas y
recepciones renombradas y suntuosas y cuyas veladas políticas y
literarias traspasaron los límites de toda adjetivación. Sus salones,
en su momento, fueron frecuentados por figuras de la talla de Nicolás
Azcárate, Juan Gualberto Gómez, Manuel Sanguily, Alfredo Zayas, Rafael
Montoro y, por supuesto, José Martí. Para decirlo en una sola frase.
Por La Caridad del Cerro pasó todo lo que en la Cuba de fines del
siglo XIX gozaba de verdadero prestigio. Allí Enrique José Varona
pronunció no pocas de sus conferencias, entre estas las que dedicó a
Emerson, Víctor Hugo, Luz y Caballero y sobre todo, en la noche del 14
de mayo de 1887, al «poeta anónimo de Polonia», cuyas palabras
finales, dice la crónica, fueron ahogadas por una de las ovaciones más
estruendosas que tuvieron lugar en aquella sala de la Calzada del
Cerro entre Santa Teresa y Zaragoza que, por otra parte, servía de
sede a la dirección del Partido Autonomista.
La casa perteneció a un miembro de la nobleza de la Isla hasta que en
1875 dio albergue a la sociedad. Federico Villoch describe el local en
sus Viejas postales descoloridas. Dice que la sala de actos era amplia
y bien distribuida, y ventilados los salones que acogían la biblioteca
y la sala de juegos. En el patio, ancho y cuadrado, un frondoso jardín
ofrecía gratos rincones para que el espíritu se solazase a sus anchas.
El papel que tapizaba las paredes de las salas de recepción y de
recreo, iluminado por la luz de gas de ostentosas lámparas de cristal,
provocaba en el visitante la idea de una voluptuosa atmósfera de
ensueño. Salones en los que rivalizaban en belleza y distinción,
Josefina Herrera, Condesa de Fernandina; Esperanza Navarrete, en
camino de convertirse en la Marquesa de Larrinaga, la Condesa de
Montalvo, la de Calderón… Allí hizo sus primeras armas Regino López,
el después muy aplaudido y popular actor de nuestro teatro vernáculo.
Las finanzas no andaban en La Caridad del Cerro a la par de su empuje
cultural. A duras penas sobrevivió hasta poco después de estallar la
Guerra de Independencia, en 1895. Problemas económicos a los que sus
protectores no pudieron corresponder, fueron estrechándola hasta
llevarla casi a la indigencia. Entonces sus viejos conserjes, por
órdenes superiores, cerraron sus puertas. Cuesta abajo, la noble
mansión derivó en casa de inquilinato y fue luego la sala
cinematográfica Cerro Garden hasta servir de depósito de materias
primas.
Cuando el Generalísimo Máximo Gómez entró en La Habana en 1898, al
frente de sus tropas, se dispuso que un grupo de mambises rindiera
respeto y homenaje a lo que fue La Caridad del Cerro.
23 y M; L y 25
La manzana que ocupa el hotel Habana Libre, enmarcada por las calles
23 y 25, L y M, en el Vedado, era, a fines de los años 40 del siglo
pasado, un terreno yermo o casi.
En la esquina de 23 y M se erigía la residencia de Carlos Manuel de
Céspedes, ex presidente de la República e hijo del Padre de la Patria.
En la esquina de L y 25 se hallaba, a partir de 1939, la casa del
doctor Kourí, cuya hija Ada estaba casada con el doctor Raúl Roa. En
la esquina opuesta, en 23 y L, existía un parque de diversiones con
caballitos de verdad, los ponis; el niño se le encaramaba y un
empleado de la instalación llevaba de la rienda al animal. Por cinco
centavos se daba la vuelta al terreno. Había también ponis en el hueco
de la esquina de 21 y G, en el espacio que ocupa el hermoso edificio
proyectado por el arquitecto Rafael de Cárdenas, autor asimismo, entre
otras muchas obras, del centro comercial La Rampa, al comienzo de la
calle 23.
Por cierto, cuando se proyectaba la construcción del hotel, se imponía
la adquisición de la casa de Céspedes para proceder a su demolición y
aprovechar así el espacio que ocupaba. La viuda del ex mandatario dijo
que no estaba interesada en vender y haciéndose de rogar para que
vendiera, consiguió una oferta irresistible por su inmueble.
La casa de los Kourí, dice Raúl Roa hijo en su libro Memoria de mundos
varios, «tenía una cúpula azul, un gran traspatio con árboles frutales
y un baño “pompeyano” en el segundo piso». El patio, precisa Roa,
quedaba aproximadamente debajo de donde está el bar Las Cañitas del
Habana Libre.
Eran tiempos en que la calle L se transitaba en ambos sentidos, y por
la calle 17 los vehículos circulaban en dirección contraria a como lo
hacen hoy. Donde ahora está el edificio Focsa, se hallaba el club
Cubanaleco, y enfrente, donde se encuentra el restaurante El Conejito,
existía un establecimiento llamado El Liro, reputado por los pollos y
huevos que expedía. La Roca era entonces El Colonial, y la pizzería de
21 y L no era una pizzería, sino una cafetería-restaurante que llevaba
el nombre de Las Delicias de Medina. No había librería en L y 27, sino
una cafetería con entrada por ambas calles. El Café de Artistas, sitio
bohemio, propiedad del actor Otto Sirgo, se ubicada una cuadra más
abajo, en 25, y el Mocambo Club ocupaba el lugar de Las Bulerías.
Había un Restaurante Vienés en la calle K, y una casa de comidas
francesas; Le Vendome, en Calzada esquina a C, mientras que el
restaurante Gaviria, en Calzada y M, frente al parqueo de la embajada
de Estados Unidos, aseguraba una vista espectacular de La Habana.
La Moderna Poesía
La esquina de la librería La Moderna Poesía, en Obispo y Bernaza,
estaba ocupada, antes de 1900, por la peletería de Manuel Sánchez
Cuétaro. Más o menos en la fecha señalada José López Rodríguez, que
haría célebre el sobrenombre de «Pote», compró la esquina, liquidó los
zapatos, los vendió a lo que le dieron por ellos, y llenó el local de
libros viejos.
Entonces La Moderna Poesía, dicen, estaba montada a estilo de una
barraca de feria. Una cuantas tablas toscas y sin pintar, que
descansaban sobre otros tantos burros de madera, servían de mostrador,
y toscos también eran los estantes, abarrotados de libros, viejos por
lo general, comprados casi todos de relance.
En la acera de enfrente abría sus puertas la librería de Ricoy. En
esta se veía a Varona, a Zayas, a Carlos de la Torre y a otras
eminencias de la época, registrando afanosos las tongas de libros y
revistas que llenaban la pequeña sala del establecimiento.
La cancillería
El Ministerio de Estado era, al triunfo de la Revolución, la entidad
encargada de las relaciones exteriores de Cuba. Su sede radicaba en La
Habana Vieja, calle Capdevila número 6, en la antigua residencia de la
familia Pérez de la Riva, donde ahora se halla el Museo Nacional de la
Música, un inmueble que si bien resultaba ideal para cocteles y
recepciones, resultaba inapropiado como lugar de trabajo y oficinas.
El Ministerio necesitaba reubicarse, y, en 1958, la dictadura
batistiana decidió hacerlo en terrenos de la manzana enmarcada por las
calles Calzada, G, H y Quinta, en el barrio del Vedado. Para ello
utilizaría la casona que allí se erigía, en el número 360 de la calle
Calzada, y aprovecharía el terreno del fondo para la construcción de
un edificio de ocho plantas y con fachada principal sobre la calle
Quinta, donde quedarían instaladas las dependencias principales del
organismo.
Se ganaba así en amplitud y comodidad para las faenas cotidianas, y se
aseguraba a los diplomáticos acreditados en el país un acceso cómodo y
rápido desde cualquier punto de la ciudad.
El Vedado se extiende sobre la antigua zona vedada —de ahí el nombre
del barrio— donde se prohibía vivir, sembrar, talar y criar ganado
en interés de la defensa de La Habana ante ataques de corsarios y
piratas. En el área ocupada por el Ministerio de Relaciones Exteriores
existió, a partir de 1832, un cementerio destinado a negros esclavos
bozales que morían sin bautizar. Como hubo protestas por el estado de
dicha necrópolis donde, dicen las crónicas, se enterraba a los negros
como animales, se adecentó el lugar, se nombró a un capellán y se
decidió destinar la mejor parte del campo a la inhumación de
extranjeros protestantes. De ahí el nombre de Cementerio de los
Ingleses, que recibió entonces, y Cementerio de los Americanos, como
se le designó a medida que ciudadanos de Estados Unidos superaban en
número e influencia a los súbditos de Gran Bretaña. Lo clausuraron en
1847.
Tras el fin de la Guerra de Independencia, en 1898, y la instauración
de la República, en 1902, la barriada adquirió un auge inusitado. Los
ricos de abolengo abandonan la atestada y ruidosa Habana Vieja y
compran terrenos y construyen en la barriada. Lo hacen también los
nuevos ricos y no pocos altos oficiales del Ejército Libertador que
cobran sus haberes.
La familia Gómez Mena decide radicarse en el Vedado. La rama de ella
que encabezaba Alfonso Gómez Mena Vila adquirió los terrenos de la
calle Calzada, donde edificaría la mansión que sirve de sede a la
Dirección de Protocolo y Ceremonial del Ministerio de Relaciones
Exteriores.
Antes de la existencia en estos del cementerio aludido, esos terrenos
fueron propiedad de don Antonio de Frías, pariente del Conde de Pozos
Dulces, dueño de la finca donde se asentó el Vedado. Pertenecerían
después a la Condesa del Loreto, quien, en 1920, los vendió a la
dominicana Blanca María Vicini Perdomo. Esta los hipotecó a favor de
Alfonso Gómez Mena y terminó vendiéndoselos cinco años más tarde,
cuando la fastuosa residencia, que adquirió la condición de habitable
en 1926, estaba ya en construcción. Para edificarla, Alfonso fue
autorizado a demoler las cinco viviendas allí enclavadas.
Alfonso Gómez Mena Vila encargó los planos de la mansión al afamado
arquitecto Francisco Centurión, autor asimismo del pabellón cubano en
la Exposición Internacional de San Francisco, California, y para la
ejecución del proyecto contrató los servicios de la firma Morales y
Compañía, dirigida por el importante arquitecto Leonardo Morales,
graduado en la Universidad de Harvard, en Estados Unidos, y egresado
de la Escuela de Bellas Artes de París.
Al fallecer Alfonso Gómez Mena en 1936, la casa pasó a nombre de su
viuda, María Vivanco, que la habitó hasta 1953. Cinco años antes el
inmueble, de 1 659 metros cuadrados de superficie, fue valorado en 115
000 pesos y los terrenos en 200 000. En 1958 el Estado cubano
adquirió los terrenos y la casa por 650 000 pesos; cifras esas
equivalentes a dólares. En esa fecha declinaba la estrella y la
fortuna de los herederos de Alfonso. Su hijo Alfonso Gómez Mena
Vivanco se veía obligado a entregar, en ese año, las dos terceras
partes de sus acciones en el central Santa Teresa en garantía por la
deuda de 700 000 pesos que tenía con una firma corredora de azúcar. Al
no poder saldarla en fecha, los acreedores establecieron un
procedimiento judicial que concluyó con el embargo del central.
El edificio de ocho plantas de la calle Quinta fue terminado después
de 1959. Cuando a mediados de ese año el doctor Raúl Roa asumió la
cartera de Relaciones Exteriores, sus oficinas no estaban aún
concluidas y las instaló en el edificio que ocuparía poco después la
Casa de las Américas.
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
domenica 15 settembre 2013
sabato 14 settembre 2013
Premio Nobel per la guerra
In questo mio spazio cerco di non occuparmi strettamente di politica, però ogni tanto mi punge vaghezza di esprimere una mia modestissima opinione.
C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".
C'era una volta un Presidente degli Stati Uniti che aveva acceso molte speranza di cambiamento nella politica estera di quel Paese. Le speranze venivano, anche, dal fatto che si fossero rotti antichi schemi di pregiudizi e che la maggioranza degli aventi diritto e partecipanti al voto, avessero scelto un presidente etnicamente "diverso" da tutti i precedenti. Notoriamente negli USA gli afroamericani non sono molto evidenti nella politica, figuriamoci la sorpresa di vederne uno come presidente...
Le speranze dei pacifisti e della gente comune che stanca, stremata da guerre e terrorismo che colpiscono indirettamente anche chi non ne è coinvolto in prima persona, sono durate lo spazio di un mattino. Il Democratico Barak Obama, si è rivelato se non peggio, almeno allo stesso modo dei suoi predecessori repubblicani e certo non meglio dei suoi colleghi di partito saliti alla Casa bianca prima di lui.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia da interventisti, creando essi stessi dei pretesti per invadere altri popoli e Paesi. Cuba ne sa qualcosa con l'intervento nella sua, ormai vittoriosa, guerra d'indipendenza. Poi sono venuti il Viet Nam, l'Afganistan, l'Irak, la Libia, l'Egitto. Adesso c'è nel mirino la Siria, poi? l'Iran? E' probabile. Nel frattempo, queste "liberazioni" e "pacificazioni", si fanno notare per disordini, moti di ribellione, attentati, morti e fiumi di sangue quotidiani. Per non parlare delle "guerre sporche" scatenate in mezza Africa. Tutte aree dove la sicurezza nazionale, tanto sbandierata, non era minimamente in pericolo.
Nel caso della seconda guerra mondiale, dove il loro intervento è stato certamente determinante, guarda caso, non si erano sentiti in dovere di intervenire, per difendere un'Europa preda del nazismo e del fascismo, fino all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour. Un attacco annunciato che il Presidente Roosvelt aveva voluto ignorare non prendendo le misure preventive.
Hanno ignorato, segnali di presenza del terrorismo prima dell'attacco alle torri gemelle. Foraggiano e proteggono "combattenti per la libertà" che non sono altro che terroristi dal momento che che "combattono" contro obbiettivi civili e inermi.
Per contro, hanno condannato a pene spropositate 5 agenti cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristici di Miami allo scopo di allertare il loro Paese in vista di attacchi progettati. Si è anche dimostrato che queste presunte "spie", hanno invece fornito spesso materiale di aiuto all'FBI che evidentemente ne conosceva la presenza sul territorio e lo ha "tollerato" fino quando lo ha ritenuto utile e opportuno.
Ebbene, tutto ciò sembrava dovesse cambiare con l'avvento di un, credo troppo precoce, premio Nobel per la Pace. Invece non è cambiato niente se non, magari, in peggio. Un bel curriculum per un presidente progressista e pacifista, credo che nemmeno gli afroamericani abbiano più fiducia e rispetto per lui che, naturalmente, se ne frega così come se ne frega di opinioni e interventi ben più autorevoli di questo mio "sfogo".
Come ciliegina, leggo proprio adesso la notizia che il Presidente Obama ha ratificato per un altro anno le sanzioni economiche e commerciali verso cuba perché..."rispondono agli interessi nazionali di Washington".
venerdì 13 settembre 2013
giovedì 12 settembre 2013
mercoledì 11 settembre 2013
martedì 10 settembre 2013
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