Pubblicato su Juventud Rebelde del 15/3/15
Solo la morte riuscì a strapparlo agli scenari. L’età non influì sulle sue facoltà vocali nnella sua capacità lavorativa. La sua popolarità si mantenne alta fino alla fine, scrive il suo biografo José Luis Pérez Machado. Anche da vecchio faceva in modo che il pubblico riempisse i teatri e gli piovevano i contratti per i casinò più esclusivi e gli spazi più popolari di radio e televisione.
Solo la morte riuscì a strapparlo agli scenari. L’età non influì sulle sue facoltà vocali nnella sua capacità lavorativa. La sua popolarità si mantenne alta fino alla fine, scrive il suo biografo José Luis Pérez Machado. Anche da vecchio faceva in modo che il pubblico riempisse i teatri e gli piovevano i contratti per i casinò più esclusivi e gli spazi più popolari di radio e televisione.
Giunse così il 7 giugno del
1977. Il suo recital di quella sera in un teatro dell’Anadalusia si svolse nel
modo previsto. Dopo aver interpretato gli ultimi due pezzi previsti dal
programma, soddisfò le richieste degli spettatori. Scese il telone e il
cantante cubano Antonio Machín rimase in attesa di uscire a salutare il
pubblico che continuava ad applaudirlo calorosamente. Non gli fu possibile. Una
stanchezza imensa lo avvolse al’improvviso e gli impedì di farlo. A partire da
lì, la sua salute andò di male in peggio. Solo due mesi più tardi, il 4 agosto,
la notizia della sua morte a Madrid occupava spazi da prima pagina nella stampa
spagnola e motivava programmi radiofonici e televisivi speciali che risaltavano
il significato della sua arte.
“È morto il re del bolero”.
“Il bolero è in lutto”, “Addio al grande Machín”, ripetevano i mezzi di
comunicazione della Penisola, mentre il suo funerale nella necropoli di San
Fernando di Siviglia – luogo scelto dal cantante perché vi riposassero i suoi
resti – si convertiva in una manifestazione impressionante di lutto popolare.
Dopo la sua morte, la fama
di Machín continuò a spirale, dice il già citato Pérez Machado. Gli si
dedicarono molteplici spettacoli musicali, si evocò il suo nome nelle più
diverse maniere si affondò in sfaccettature della sua arte e si cercò l’uomo,
nelle testimonianze che porsero su di lui familiari e amici. Un omaggio
formidabile lo costituì, al Palazzo dello Sport di Barcellona, il concerto dove
Juan Manuel Serrat, Moncho, Peret e Jaime Sisa, fra altri cantanti,
interpretarono davanti a quattromila spettatori, il repertorio cubano più
significativo. L’incasso di questo spettacolo fu destinata ad erigere un
monumento ad Antonio Machín, nel cimitero di Siviglia. Una lapide di marmo nero
dove si legge il suo nome, copre la sua tomba e su di essa, in un dado, si
apprezza l’effigie del cantante. Sopra questo dado si alza la figura di un
angelo; sicuramente quello è l’angelo protettore che gli ispirò una delle sue
composizioni.
Lì succede qualcosa di
significativo. Quando artisti cubani provenienti dall’Isola visitano Siviglia,
si recano alla necropoli di San Fernando. Cantano son e boleri vicino alla
tomba di Machín e versano grappa su di essa in segno di omaggio fraterno a un
esponente imprescindibile della musica cubana.
El manisero
Antonio Abad Lugo Machín. Chi
è quest’uomo che nacque a Sagua la Grande, nell’antica provincia di Las Villas,
il 17 gennaio del 1903, da madre cubana e padre spagnolo e fece fuori da Cuba
la maggior parte della sua carriera?
A parere di Alejo
Carpentier, la musiva cubana trovò in Machín un interprete coscienzioso e
conoscitore che sapeva eseguire con la stessa sorte una rumba trepidante o un
teme pieno di nostalgia. Dopo aver elogiato il suo repertorio, “vasto e
diverso”. L’autore de Els siglo de las
luces fa risaltare che l’artista, pieno di curiosità e amore per la sua terra,toglieva dal dimenticatoio
decime e canzoni antiche il cui ricordo cominciava a cancellarsi, trasferendogli
una nuova vita. Fa presente carpentier, infine: “Pieno di gravità e unzione,
interpreta le melodie del tropico con un’eloquenza irresistibile. Buona prova
del suo talento è che sia riuscito a convincere due pubblici tanto differenti
come gli inglesi e i francesi”.
L’erudito Radamés Giro
precisa che la carriera di Machín cominciò con il suo ingresso, come
clarinettista, nella banda municipale del suo paese natale. Nel 1924 è già
all’Avana, dove compose un duo con Miguel Zaballa e come prima voce e suonatore
di maracas, fece parte del trio Luna e più tardi del settetto Agabama. Nel 1926
si inserì nell’orchestra di Don Azpiazu,
con cui nel 1930 si recò a New York. Lì incise la sua prima versione de El
manisero, di Moisés Simons, fra altri numeri. Il suo passaggio nella catena
di teatri del RKO fece si che il pezzo citato, uno dei primi successi
internazionali della musica cubana, diventasse popolare negli Stati Uniti.
Prima, con Don Azpiazu aveva lavorato nell’esclusivo Casinò Nazionale del
Country Club dell’Avana.
Il musicologo cubano
residente a Porto Rico, Cristóbal Ayala asserisce: “Gran parte del successo di
Azpiazu si dovette al suo cantante Antonio Machín...Il coraggioso Antonio,
sorto in un ambiente molto umile, era arrivato ad essere il primo negro a
cantare nel lussuoso Casinò Nazionale...La sua voce e la sua presenza fisica,
cantando El manisero erano state
decisive a New York. Ma Machín aveva ambizioni. Parallelamente alle incisioni
con l’orchestra nel 1930 e 1931, organizzò un quartetto con tre compagni del
gruppo di Azpiazu e conseguì che la Victor li facesse incidere. Se Azpiazu era
un successo fra i “gringos”, Machín non fu da meno fra gli ispano americani. Già
nel 1932 non era più con l’orchestra e fra luglio del 1930 e novembre del 1935,
quando si imbarcò definitivamente per l’Europa, aveva inciso oltre 150 numeri
col suo quartetto e varie orchestre, per la Victor e altre marche.
Probabilmente nemmeno Bing Crosby che era già una stella, negli Stati Uniti,
incise tanto in quel periodo che fu precisamente di depressione economica in
quel Paese. Non si tratta solo di avere talento, bisogna anche sapersi
vendere”.
Angioletti
negri
In quei giorni dichiarò: “Io
baso i miei successi su due buoni pilastri: i testi delle mie canzoni e il modo
in cui li dico. Tutti li capiscono e vibrano con essi...Un prete rurale
argentino ha fatto dipingere nella sua chiesa degli angioletti scuri, dopo aver
sentito Angelitos negros”.
Ha successo nel teatro
musicale, genere molto gradito in Spagna. Partecipa in non poche pellicole ivi
prodotte nelle quali interpreta le sue canzoni e svolge ruoli di caratterista.
Si ascolta anche in decine di colonne sonore di film spagnoli. È autore di un
centinaio di canzoni.
Si è detto che fu il
cantante preferito dal generalissimo Francisco Franco. Il suo biografo José
Luis Pérez Machado afferma che Machíin fu un coltivatore della canzone
romantica e che la sua arte non fu una rottura col franchismo, ma nemmeno una
riaffermazione. Nel suo repertorio esistevano pezzi di contenuto sociale -Negrito de qué, Tabú, Del mismo color,
Angelitos negros...- che
denunciavano “vecchie sequele razziali”. Senza dubbio questo cantante mulatto e
straniero per giunta,non fu censurato né limitato nel progetto culturale
spagnolo. Era arrivato in Spagna pima che finisse la Guerra Civile e aveva
condiviso con gli spagnoli i cosiddetti Anni della Fame in un Paese distrutto
dalla guerra, divorato dall’incertezza e asfissiato dall’embargo economico.
Pérez Machado scrive;
“Apparentemente, Machín fu uno dei ‘capriccetti’ di Franco perché la sua
proposta artistica poté coesistere e sopravvivere i 39 anni della dittatura. Il
suo repertorio allegro, di temi amorosi, domestici, intimisti e felici non
“disturbarono” il dittatore che fece sparire centinaia di creatori, di diverse
manifestazioni artistiche, dallo scenario culturale iberico. Machín fu rifugio
spirituale per lo sconforto degli spagnoli, perché cantò all’amore, alla
speranza, allla fede e anche all’uguaglianza, alla sincerità e la fedeltà. Fu, a
detta di molti, un buffetto angelico in quelle guance meste.
Con
Cuba
Di Isolina Carrillo interpretò Dos gardenias; di Osvaldo Farrés, Madrecita e Tres palabras;
di Julio Brito. Mira que eres linda…Altri
compositori cubani presenti nel repertorio di Machín sono Juan Arrondo, Luis
Marquetti, René Márquez, Orlando de la Rosa, Adolfo Guzmán, Ignacio Piñeiro. Leopoldo
Ulloa e Margarita Lecuona, fra molti altri di cui intrpretò le opere con la sua
voce leggera e carezzevole, fatta di zucchero e di mare. Fu quello che
introdusse il cha cha cha in Spagna.
Nel 1958 venne a Cuba e
condivise con familiari e amici a Sagua la Grande. Anche se venne in visita
privata accettò volentieri il riconoscimento che la CMQ, Canale 6 e altre
importanti emittenti gli fecero per il suo lavoro di diffusione della musica
cubana all’estero.
Nel 1943 si sposò, in
Spagna, con una spagnola e lì nacque la sua unica figlia. Si considerò un uomo
con due patrie e la sua fedeltà ad entrambe fece che si che lo si qualificasse
come “il più spagnolo dei cubani e il più cubano degli spagnoli”.
Nel 1972 riaffermò alla
stampa la sua condizione di cubano quando, senza che nessuno se lo aspettasse,
si presentò al Padiglione di Cuba della Fiera Internazionale di Barcellona e
si presentò col duo Los Compadres. Un anno dopo condivise la scena con una
delegazione artistica dell’Isola di cui facevano parte Pacho Alonso e la sua
orchestra, Los Papines e l’interprete Ela Calvo che stavano effettuando una
tournée in Spagna. Nel febbraio 1977, poco prima della sua morte, si recò a
Barcellona per condividere con Carlos Puebla.
Machín diceva che nessuno
gli aveva insegnato a cantare. Las sua musica fu sempre cubana e lasciò in
Spagna un’immagine artistica permanente. Di lui, dirà il famoso regista
spagnolo Pedro Almodóvar: “Fu lui che mi mise il bolero nel sangue”.
Machín
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
14 de Marzo del 2015 21:26:41 CDT
Solo la muerte logró arrancarlo de los escenarios. La edad no melló
sus facultades vocales ni su capacidad de trabajo, y su popularidad
se mantuvo “arriba” hasta el final, escribe su biógrafo José Luis
Pérez Machado. Viejo ya seguía haciendo que el público abarrotara los
teatros y le llovían los contratos para los casinos más exclusivos y
los más populares espacios de radio y televisión.
Llegó así el 7 de junio de 1977. Su recital de esa noche en un teatro
de Andalucía transcurrió de la manera prevista. Tras interpretar la
última de las piezas contempladas en el programa, complació peticiones
de los espectadores. Cayó el telón y el cantante cubano Antonio Machín
quedó a la espera para salir a saludar al público que seguía
aplaudiéndolo a rabiar. No le fue posible. Un cansancio insuperable lo
invadió de improviso y le imposibilitó hacerlo. A partir de ahí su
salud fue de mal en peor. Apenas dos meses más tarde, el 4 de agosto,
la noticia de su muerte, en Madrid, ocupaba espacios de primera plana
en la prensa española y motivaba programaciones radiales y televisivas
especiales que resaltaban la significación de su quehacer.
“Ha muerto el rey del bolero”, “El bolero está de luto”, “Adiós al
gran Machín”, repetían los medios de comunicación de la Península,
mientras que su entierro en la necrópolis de San Fernando de Sevilla
--sitio escogido por el cantante para que reposaran sus restos-- se
convertía en una manifestación de luto popular impresionante.
Después de su muerte, la fama de Machín siguió en espiral, dice el ya
aludido Pérez Machado. Se le dedicaron múltiples espectáculos
musicales, se evocó su nombre de disímiles maneras, se ahondó en
facetas de su arte y se buscó al hombre en los testimonios que sobre
él brindaron familiares y amigos. Un homenaje formidable lo
constituyó, en el Palacio de los Deportes, de Barcelona, el concierto
donde Joan Manuel Serrat, Moncho, Peret y Jaime Sisa, entre otros
cantantes, interpretaron, ante cuatro mil espectadores, lo más
representativo del repertorio del cubano.
La recaudación de ese espectáculo se destinó a erigirle un monumento a
Antonio Machín en el cementerio de Sevilla. Una lápida de mármol negro
donde se lee su nombre cubre su tumba, y sobre ella, en un dado, se
aprecia la efigie del cantante. Encima de ese dado se alza la figura
de un ángel; de seguro ese ángel protector que le inspiró una de sus
composiciones.
Ocurre allí algo significativo. Cuando artistas cubanos provenientes
de la Isla visitan Sevilla, acuden a la necrópolis de San Fernando.
Cantan sones y boleros junto a la tumba de Machín y vierten
aguardiente sobre ella en señal de fraterno homenaje a un exponente
imprescindible de la música cubana.
El manisero
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
14 de Marzo del 2015 21:26:41 CDT
Solo la muerte logró arrancarlo de los escenarios. La edad no melló
sus facultades vocales ni su capacidad de trabajo, y su popularidad
se mantuvo “arriba” hasta el final, escribe su biógrafo José Luis
Pérez Machado. Viejo ya seguía haciendo que el público abarrotara los
teatros y le llovían los contratos para los casinos más exclusivos y
los más populares espacios de radio y televisión.
Llegó así el 7 de junio de 1977. Su recital de esa noche en un teatro
de Andalucía transcurrió de la manera prevista. Tras interpretar la
última de las piezas contempladas en el programa, complació peticiones
de los espectadores. Cayó el telón y el cantante cubano Antonio Machín
quedó a la espera para salir a saludar al público que seguía
aplaudiéndolo a rabiar. No le fue posible. Un cansancio insuperable lo
invadió de improviso y le imposibilitó hacerlo. A partir de ahí su
salud fue de mal en peor. Apenas dos meses más tarde, el 4 de agosto,
la noticia de su muerte, en Madrid, ocupaba espacios de primera plana
en la prensa española y motivaba programaciones radiales y televisivas
especiales que resaltaban la significación de su quehacer.
“Ha muerto el rey del bolero”, “El bolero está de luto”, “Adiós al
gran Machín”, repetían los medios de comunicación de la Península,
mientras que su entierro en la necrópolis de San Fernando de Sevilla
--sitio escogido por el cantante para que reposaran sus restos-- se
convertía en una manifestación de luto popular impresionante.
Después de su muerte, la fama de Machín siguió en espiral, dice el ya
aludido Pérez Machado. Se le dedicaron múltiples espectáculos
musicales, se evocó su nombre de disímiles maneras, se ahondó en
facetas de su arte y se buscó al hombre en los testimonios que sobre
él brindaron familiares y amigos. Un homenaje formidable lo
constituyó, en el Palacio de los Deportes, de Barcelona, el concierto
donde Joan Manuel Serrat, Moncho, Peret y Jaime Sisa, entre otros
cantantes, interpretaron, ante cuatro mil espectadores, lo más
representativo del repertorio del cubano.
La recaudación de ese espectáculo se destinó a erigirle un monumento a
Antonio Machín en el cementerio de Sevilla. Una lápida de mármol negro
donde se lee su nombre cubre su tumba, y sobre ella, en un dado, se
aprecia la efigie del cantante. Encima de ese dado se alza la figura
de un ángel; de seguro ese ángel protector que le inspiró una de sus
composiciones.
Ocurre allí algo significativo. Cuando artistas cubanos provenientes
de la Isla visitan Sevilla, acuden a la necrópolis de San Fernando.
Cantan sones y boleros junto a la tumba de Machín y vierten
aguardiente sobre ella en señal de fraterno homenaje a un exponente
imprescindible de la música cubana.
El manisero
Antonio Abad Lugo Machín. ¿Quién es este hombre que nació en Sagua la
Grande, en la antigua provincia de Las Villas, el 17 de enero de 1903,
de madre cubana y padre español, e hizo fuera de Cuba la mayor parte
de su carrera?
En opinión de Alejo Carpentier, la música cubana halló en Machín un
intérprete concienzudo y conocedor que sabía acometer con igual
fortuna una rumba trepidante que un tema lleno de nostalgia. Luego de
elogiar su repertorio “vasto y diverso”, el autor de El siglo de las
luces resalta que el artista, pleno de curiosidad y amor por su
tierra, sacaba del olvido décimas y canciones antiguas cuyo recuerdo
empezaba a borrarse, comunicándoles nueva vida. Señala Carpentier
finalmente: “Lleno de gravedad y unción, interpreta las melodías del
trópico con una elocuencia irresistible. Buena prueba de su talento es
que ha logrado convencer sin dificultad a dos públicos tan disímiles
como el inglés y el francés”.
Precisa el erudito Radamés Giro que la carrera de Machín comenzó con
su ingreso como clarinetista en la banda municipal de su región natal.
En 1924 está ya en La Habana, donde hizo dúo con Miguel Zaballa y,
como voz prima y maraquero, formó parte del trío Luna y más tarde del
septeto Agabama. Se sumó, en 1926, a la orquesta de Don Azpiazu, con
la que en 1930 viajó a Nueva York. Allí grabó su primera versión de El
manisero, de Moisés Simons, entre otros números. Su paso por la cadena
de teatros de la RKO hizo que la pieza mencionada, uno de los primeros
éxitos internacionales de la música cubana, se popularizara en Estados
Unidos. Antes, con Don Azpiazu había actuado en el exclusivo Casino
Nacional del reparto Country Club, de La Habana.
Afirma Cristóbal Díaz Ayala, musicógrafo cubano radicado en Puerto Rico:
<<Gran parte del éxito de Azpiazu se debía a su cantante Antonio
Machín... El corajudo Antonio, surgido en un medio muy humilde, había
llegado a ser el primer negro en cantar en el lujoso Casino Nacional...
Su voz y su presencia física cantando El manisero habían sido
decisivas en Nueva York. Pero Machín tenía ambiciones. Paralelo con
las grabaciones de la orquesta en 1930 y 1931, organizó un cuarteto
con tres compañeros del conjunto de Azpiazu y consiguió que la Víctor
le grabara. Si Azpiazu era un éxito entre los gringos, Machín no lo
fue menos entre los hispanoamericanos. Ya para 1932 no estaba con la
orquesta, y entre julio de 1930 y noviembre de 1935, cuando embarca
definitivamente para Europa, grabó más de 150 números con su cuarteto
y varias orquestas para la Víctor y otros sellos. Posiblemente ni Bing
Crosby, que ya era una estrella en los Estados Unidos, grabó tanto en
aquella época, que fue precisamente de depresión económica en ese
país. Y es que no es solo tener talento, sino saber venderse>>.
Angelitos negros
Hizo en 1935 una gira por Europa e inició así una carrera vertiginosa.
En Londres convenció al público con su interpretación de Lamento
esclavo, de Eliseo Grenet. Participó en París en la revista Canto a
los trópicos, que dirigía Simons. Luego, con su orquesta Habana, viajó
por Noruega, Suecia, Dinamarca, Holanda, Alemania, Rumania e Italia,
para volver a París. En abril de 1939, cinco meses antes de que
estallara la II Guerra Mundial, se radicó en España. Con la orquesta
Los Miura, de Sobré, con la que permaneció hasta 1946, grabó Angelitos
negros, con letra de Andrés Eloy Blanco y música de Manuel Álvarez
Maciste, uno de sus grandes éxitos. Se vendieron miles de discos de
esa pieza, y famosos vocalistas hicieron sus propias versiones.
Angelitos negros convirtió al cubano en un ídolo dentro y fuera de
España, e hizo que ganara el sobrenombre de El divo de la canción.
Declaró por aquellos días: “Yo baso mis triunfos sobre dos buenos
pilares: las letras de mis canciones y la forma como las digo. Todo el
mundo las entiende y vibra con ellas... Un cura rural de la Argentina ha
hecho pintar, en su iglesia, unos ángeles morenos después de conocer
Angelitos negros”.
Triunfa en el teatro musical, género muy gustado en España. Interviene
en no pocas películas producidas allí, en las que interpreta sus
canciones y representa personajes de reparto. También se escucha en
las bandas sonoras de decenas de filmes españoles. Es autor de unas
cien canciones.
Se ha dicho que fue el cantante preferido del generalísimo Francisco
Franco. Afirma su biógrafo José Luis Pérez Machado que Machín fue un
cultivador de la canción romántica y que su arte no fue de ruptura con
el franquismo, pero tampoco de reafirmación. En su repertorio existían
piezas de contenido social --Negrito de qué, Tabú, Del mismo color,
Angelitos negros...-- que denunciaban “viejas secuelas raciales”. Sin
embargo, este cantante mulato y extranjero por añadidura no fue
censurado ni limitado en el proyecto cultural español. Había llegado a
España antes de que finalizara la Guerra Civil y había compartido con
los españoles los llamados Años del Hambre en un país arrasado por la
guerra, devorado por la incertidumbre y asfixiado por el bloqueo
económico.
Escribe Pérez Machado: “Aparentemente, Machín fue uno de los
‘caprichitos’ de Franco porque su propuesta artística
pudo coexistir y
sobrevivir los 39 años de dictadura. Su repertorio alegre, de temas
amorosos, domésticos, intimistas y felices no ‘molestaron’ al
dictador, quien desapareció a cientos de creadores de diversas
manifestaciones artísticas del escenario cultural ibérico. Machín fue
refugio espiritual para el desaliento de los españoles, porque les
cantó al amor, a la esperanza, a la fe, y también a la igualdad, a la
sinceridad y a la fidelidad, fue, al decir de muchos, una salvadora
palmada de ángel en aquellas mejillas apesadumbradas”.
Con Cuba
sobrevivir los 39 años de dictadura. Su repertorio alegre, de temas
amorosos, domésticos, intimistas y felices no ‘molestaron’ al
dictador, quien desapareció a cientos de creadores de diversas
manifestaciones artísticas del escenario cultural ibérico. Machín fue
refugio espiritual para el desaliento de los españoles, porque les
cantó al amor, a la esperanza, a la fe, y también a la igualdad, a la
sinceridad y a la fidelidad, fue, al decir de muchos, una salvadora
palmada de ángel en aquellas mejillas apesadumbradas”.
Con Cuba
De Isolina Carrillo interpretó Dos gardenias; de Osvaldo Farrés,
Madrecita y Tres palabras; de Julio Brito, Mira que eres linda...Otros
compositores cubanos presentes en el repertorio de Machín son Juan
Arrondo, Luis Marquetti, René Márquez, Orlando de la Rosa, Adolfo
Guzmán, Ignacio Piñeiro, Leopoldo Ulloa y Margarita Lecuona, entre
otros muchos, cuyas obras interpretó con su voz suave y acariciadora,
hecha de azúcar y de mar. Fue él quien introdujo el chachachá en
España.
En 1958 estuvo en Cuba y compartió en Sagua la Grande con familiares y
amigos. Aunque vino en visita privada aceptó gustoso el reconocimiento
que la CMQ-Canal 6 e importantes radioemisoras le hicieron por su
labor de difusión de la música cubana en el exterior.
En 1943 se casó en España con una española y allí nació su única hija.
Se consideró un hombre con dos patrias y su fidelidad a ambas hizo que
popularmente se le calificara como “el más español de los cubanos y el
más cubano de los españoles”.
En 1972 reafirmó ante la prensa su condición de cubano cuando, sin que
nadie lo esperara, se personó en el Pabellón Cuba de la Feria
Internacional de Barcelona y se presentó con el dúo Los Compadres. Un
año después compartió la escena con una delegación artística de la
Isla que conformaban Pacho Alonso y su orquesta, Los Papines y la
intérprete Ela Calvo, quienes hacían una gira por España. Y en febrero
de 1977, poco antes de su muerte, viajó a Barcelona para departir con
Carlos Puebla.
Machín decía que nadie lo había enseñado a cantar. Su música fue
siempre cubana y dejó en España una imagen artística perdurable. De él
diría el famoso realizador español Pedro Almodóvar: “Él fue quien me
metió el bolero en la sangre”.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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http://cbianchiross.blogia.com/