Fra poco, il 2
luglio, ricorrono 60 anni dal suicidio di Ernest Hemingway quando era prossimo
al giorno del suo 62mo compleanno, il 21 dello stesso mese, nel suo ranch nell'Ohio. Il giorno prima ero arrivato al porto di New York, sbarcando al Pier
44, dal transatlantico Leonardo da Vinci al suo secondo viaggio. Papa’s,
com’era conosciuto a Cuba, soffriva di una forte depressione probabilmente
dovuta al riassunto della sua intensa vita fisica e intellettuale che lo aveva
divorato dentro.
Poco tempo prima
aveva scritto al suo grande amico, patron dello yacht “Pilar” che gli aveva
lasciato in custodia, il canario naturalizzato cubano Gregorio Fuentes. Nella lettera
diceva di essere amareggiato per paura di non poter scrivere a causa di un
tumore maligno, peraltro mai diagnosticato e per questo preferiva dar fine alla
sua esistenza. Gregorio lo raccontava a chi lo visitava a Cojimar, il paesello
di pescatori alla periferia est dell’Avana che lo aveva accolto come un figlio.
Il vecchio marinaio non mancava mai al suo appuntamento quotidiano col bar
ristorante “La Terraza” dove sedeva nell’angolo che compartiva col suo compagno
di pesca ed amico. Fra i tanti visitatori è toccato anche a me di andarci in
più di una occasione dove ho avuto anche il piacere di conoscere Manolo, il
cuoco che non era altri che il piccolo amico e confidente di Santiago, il
protagonista de “Il vecchio e il mare” nella versione cinematografica
magistralmente interpretata da Spencer Tracy, da qui l’adozione dello
pseudonimo che uso nelle reti sociali e nel mio Blog.
Per ricordare il
grande giornalista e scrittore ho pensato di tradurre un capitolo tratto dal
libro “La Habana de Hemingway y otras historias” dell’amico Ciro Bianchi, forse
lo scrittore più letto, oggi, a Cuba.
“Ernest Hemingway ha vissuto in questa casa gli ultimi 22 anni della sua
vita. Quando si è installato nella “Finca Vigía”, a una trentina di minuti dal
centro dell’Avana, era sul punto di concludere “Per chi suona la campana”.
Nell’abbandonarla per sempre, aveva già percorso, come scrittore, il cammino
della fama e meritato il Premio Nobel. Nella Finca sono rimasti, quindi, la sua
Royal portatile, le tombe dei suoi cani, una cinquantina di gatti, i nove mila
volumi che aveva raccolto nel corso della sua vita e che molti anni dopo fecero
esclamare a Gabriel García Márquez: “Che biblioteca originale aveva
quest’uomo!”
Hemingwy giunse a Cuba nella prima metà di aprile del 1928 assieme a
Pauline Pfeiffer, la sua seconda moglie e quì fece il transito per andare a Key
West dove terminó “Addio alle armi”. Tornò nel 1932 per pescare pesce spada
nelle acque cubane. Nel 1933 tornò ancora e scrisse la sua prima cronaca con
tema cubano. A partire da allora non sciolse più il vincolo con “quest’isola
lunga, bella e sfortunata”, come citò Cuba ne “Verdi colline d’Africa”.
“Il vecchio e il mare” (1952) è per eccellenza il racconto “cubano” di
Hemingway. Parte della trama del postumo “Isole nel Golfo” (1970) si svolge a
Cuba. Anche in qualcuno dei suoi racconti e in moltissimi dei suoi articoli
giornalistici si menziona Cuba. Lo scenario di “Avere e non avere” (1937) è un
buona parte cubano.
In un’occasione espresse: “A Cuba mi sento come a casa; lì dove un uomo
si sente come a casa, a parte il luogo dove nacque, è il posto in cui era
destinato”.
Hemingway era, nella decade del ’30, un turista dalla sospetta
reincidenza che ogni anno trascorreva a Cuba I mesi di maggio, giugno e luglio
che sono i mesi del passo dei pesce spada.
Il suo primo rifugio avanero fu l’hotel Ambos Mundos, nella calle
Obispo, molto vicina al porto. La camera, allora senza numero, di quella
installazione dove alloggiò invariabilmente, si conserva intatta. Alle cinque
del pomeriggio, dopo una giornata di pesca, Hemingway si chiudeva nella stanza,
ordinava la cena e si metteva a scrivere: lo faceva a letto, a mano e poi
dattilografava il suo manoscritto senza quasi introdurre correzioni. Nel 1958,
nella sua celebre intervista con George Plimpton ricordava: “L’Ambos Mundos
dell’Avana è stato un buon posto per lavorare”.
Dalla sua cronaca “La pesca del pesce spada all’altezza del Morro”, con
la quale tornò al giornalismo dopo essersi allontanato da questa professione
per oltre dieci anni, si conoscono non poche abitudini di quell’ospite
dell’Ambos Mundos.
Dormiva con i piedi rivolti a levante; in questo modo quando il sole
cominciava a colpirlo in faccia, lo obbligava a lasciare il letto. Dalla
finestra adocchiava i dintorni: la Cattedrale, l’entrata del porto, Casablanca,
i tetti delle case. La bandiera cubana che ondeggia sul Morro gli indicava la
direzione del vento e ricci di mare gli
facevano scoprire se gli Alisei soffiavano dal primo mattino. Allora le
condizioni erano favorevoli alla pesca del pesce spada e il narratore, dopo una
doccia, si infilava un vecchio pantalone cachi una camicia qualunque, dei
mocassini asciutti e scendeva a far colazione: un bichiere di acqua di Vichy,
un altro di latte freddo e una fetta di pane, prima di dirigersi
all’imbarcazione.
A volte in bermuda, con ciabattine basche, quasi sempre senza calze e
con una camicia leggera, lo si vedeva camminare per la calle Obispo. Ne “Isole
nel Golfo” evocò gli odori caratteristici di questa via: quello della farina
immagazzinata in sacchi, quello della polvere di farina, quello delle casse
d’imballaggio appena aperte, l’odore del caffé tostato “che era una sensazione più
forte che quella di un sorso in mattinata”, il delizioso odore di tabacco…
Lo scrittore si trovava bene all’Ambos Mundos per la centralità della
zona e la vicinanza al porto dove ormeggiava il suo yacht. Ma a Maria Gelhorn,
la sua terza moglie, cominciava a dare fastidio la stanza anonima, spersonalizzata
e la mancanza di riservatezza durante le visite degli amici del marito. Fu lei
che cercò e trovò la Finca Vigía. A Hemingway, inizialmente, non piacque il
posto: era troppo lontano dal Floridita.
Una buona parte di “Isole nel Golfo” si svolge in questo bar dell’Avana.
In queste pagine del romanzo il lettore vede deambulare un personaggio che lo
scrittore chiama Liliana l’onesta. Nella vita reale si chiamava Leopoldina, una
prostituta mulatta che “faceva la vita” nel Floridita e che fu il grande amore
cubano del romanziere. La ricordava ne “Isole nel Golfo”: “Aveva un bellisimo
sorriso, degli occhi scuri meravigliosi, così come splendidi cpelli neri…Aveva
una pelle liscia come un avorio color oliva, se questo avorio esistesse, con un
leggero tono rosa…”
La Terraza, ristorante marino del paese di pescatori di Cojimar, fu
all’Avana, un ‘altro dei luoghi preferiti da Hemingway. Nel Floridita si
evidenzia il posto dove lo scrittore soleva sedersi, il primo sedile a sinistra
del bancone e alla Terraza, il suo tavolo di sempre nell’angolo sinistro, vicino
alla finestra.
“È molto gradevole stare quì” dice il protagonista di “Isole nel Golfo”,
alludendo a la Terraza; e nello stesso romanzo descrive il daiquiri col suo
colore e sapore esatti. “Bicchiere di acque superiori”, lo definiva Hemingway.
Nel 1949, in una cronaca, spiegò le ragioni della sua lunga residenza
cubana. Naturalmente parlò della Corrente del Golfo “dove c’è la migliore e più
abbondante pesca che ho visto in vita mia”; delle 18 qualità di mango che si
raccoglievano nella sua proprietà, del suo allevamento di galli da
combattimento…e aggiunse con indifferenza: “Uno vive in quest’Isola […] perché
nel fresco del mattino si lavora meglio e con maggiori comodità che in
qualunque altro posto”.
Lì conluse “Per chi suona la campana” e scrisse “Al di la del fiume, tra
gli alberi”, “Il vecchio e il mare”, “Fiesta” e “Isole nel Golfo” oltre a un altro
romanzo che lasció inconcluso: “Il Giardino dell’Eden”. Inoltre moltissimi
articoli e cronache per pubblicazioni periodiche, fra di esse “Un’estate di
sangue” riferita al confronto fra i toreri Antonio Ordoñez e Luis Miguel
Dominguín ai quali presenziò in Spagna l’anno prima e che dicono i suoi
biografi, ebbe molte difficoltà per terminarla.
“Io ho sempre avuto fortuna scrivendo a Cuba […] espresse in una lettera
e poco dopo aver saputo di essere vincitore del Premio Nobel dichiarò in
un’intervista: “Questo è un premio che appartiene a Cuba, perché la mia opera è
stata pensata e creata a Cuba, con la mia gente di Cojimar di dove sono
cittadino. Attraverso tutte le traduzioni è presente questa patria adottiva
dove ho i miei libri e la mia casa.”
In una cronaca giornalistica del 1936, Hemingway raccontò in meno di 200
pariole la storia che avrebbe sviluppato, anni dopo, ne “Il vecchio e il mare”.
Gli studi coincidono che si ispirò in un pescatore di Cojimar di nome Anselmo
Hernández, cosa che non esclude che altri pescatori della zona apportassero
elementi al suo personaggio. La storia del racconto è ben conosciuta, il suo
senso ben evidente. Hemingway lo mette in bocca a Santiago, il protagonista;
“L’uomo non è fatto per la sconfitta, l’uomo può essere distrutto, non
sconfitto”. Lo scenario del racconto è il mare e la lotta del vecchio contro i
pescecani che finiscono per strappargli il frutto della sua pesca, è quella
dell’uomo per la sua vita. Lo scrittore dirà: “Ho cercato di descrivere un
vecchio reale, un ragazzo reale, un mare reale, un pesce reale, dei pescecani
reali, ma se li ho realizzati bene e sono sufficientemente reali possono
significare molte cose. Quando si scrive bene e con sincerità di una cosa
questa, dopo, significherà molte altre cose”. E aggiunse senza ambascia né
modestia che “con il Vecchio e il mare è come se, finalmente, avessi dato
espressione a tutto quello che ho perseguito nella vita”.
Scriveva in piedi, già negli ultimi anni, sulla pelle di un kudu perché
cosi “pensavo con maggior chiarezza”. Si alzava presto e abbandonava il lavoro
solo quando arrivava a un punto dove sapeva con certezza quello che sarebbe
successo dopo. Raggiungere, in una giornata, circa 500 parole “pulite” per lui
era soddisfacente e mai avrebbe messo in machina i passaggi più difficili, ma i
dialoghi sì.
La Finca Vigía, dice García Márquez, fu l’unica casa veramente stabile
che lo scrittore ebbe nella sua vita. Mary Wels, la sua quarta e ultima moglie
mise, fin dove poté, ordine nella tenuta e nell’esistenza del romanziere.
Siccome questi si lamentava di quanto lo importunassero I visitatori, Mary si
occupò di far costurire la torre di tre piani annessa alla casa. L’ultimo piano
sarebbe stato la stanza di lavoro di Hemingway. Egli salì un giorno e vi rimase
un quarto d’ora durante il quale si impegnò, invano, a redigere una frase.
Scese e non usò mai più quel luogo per scrivere. Commentò che non poteva
resitere alla solitudine.
“Guardate come mi ammazzerò” diceva ai suoi amici nella Finca Vigía.
Collocava il calcio del suo fucile Mannlicher Schoenauer 265 sul pavimento e
appoggiava la canna sul palato. Poi premeva il grilletto con l’alluce di un
piede, si sentiva uno scatto secco ed esclamava sorridente: “Questa è la
tecnica del hara-kiri col fucile”.
Alla sua morte, all’Avana, si lesse il testamento di Hemingway. Fra gli
altri lasciti trapassava la proprietà della Finca Vigía allo Stato Cubano. Il
vechio scrittore, tanto restìo a ricevere altri scrittori a casa sua, volle che
l’ambiente fungesse da luogo di riunione di giovani intellettuali e artisti e
che lì funzionasse anche un centro per gli studi botanici. Fidel Castro che
ammirava molto Hemingway e che lo conobbe personalmente durante uno dei tornei
di pesca al pesce spada che lo scrittore organizzava, propose allora che la
Finca si convertisse in museo, suggerimento che la vedova del narratore
accettò.
Più che un museo, la Finca Vigía continua ad essere la casa di
Hemingway. Anche vuota sembra, senza dubbio, piena di vita. Da l’impressione
che il suo proprietario non sia morto, ma assente e che da un momento all’altro
ritorni dal Floridita o da una battuta di caccia.
Quindi lascerà in qualche angolo la sua carabina e guarderà
superficialmente la corrispondenza. In definitiva sul tavolo della biblioteca
c’è un timbro di gomma che dice: “Io non scrivo mai lettere”. Ingerirà un sorso
(“Un buon whisky è molto gradevole, è una delle cose più gradevoli
dell’esistenza”) poi si collocherà davanti alla sua Royal portatile per
proseguire il lavoro del raro a ambizioso romanzo che non è mai giunto a
concludere.