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domenica 27 ottobre 2013
sabato 26 ottobre 2013
Matrimoni italocubani
Spesso e volentieri i matrimoni "misti" finiscono, metaforicamente, così:
Nel caso di Franco e May invece penso proprio che vivranno a lungo felici e contenti...anche in un "calabozo" (segreta).
Nel caso di Franco e May invece penso proprio che vivranno a lungo felici e contenti...anche in un "calabozo" (segreta).
venerdì 25 ottobre 2013
giovedì 24 ottobre 2013
Il debutto, all'Avana, di "Ana en el Trópico"
Molto positivo il debutto al teatro Trianón della calle Linea della pièce Ana en el trópico. Spettacolo gradito da pubblico e critica che ha riempito la sala nelle due sere pre Festival, dopo la prima per soli inviti. Oggi si inaugura ufficialmente il festival del Teatro dell'Avana e l'opera verrà ripetuta nei giorni 28, 29 e 30 sempre al Trianón, prima di essere portata a Miami Beach dallo stesso gruppo misto di attori.
mercoledì 23 ottobre 2013
Cartoline dall'Avana
Per chi non la conosce, per chi la conosceva diversa, per chi la vuole rivivere
La Bahía di Carena, ovvero il porto dell'Avana, è da tempo soggetto a lavori di risanamento e ristrutturazione per trasformarsi in zona prettamente turistica ed accogliere in un futuro, che si spera non lontano, le navi da crociera. La prima installazione, a cui se ne stanno aggiungendo altre, è già attiva da qualche anno ed è la Feria de S. José, ovvero il mercato degli artigiani dell'Avana Vecchia che in precedenza era ospitato nella piazza della Cattedrale all'aria aperta e in modo disordinato oltre che con poco spazio a disposizione. La trasformazione è resa possibile anche per la costruzione del porto del Mariel che diventerà il porto commerciale e industriale dell'Avana dando più respiro alla città con locali di intrattenimento e ritrovo per i turisti, ma non solo.
La Bahía di Carena, ovvero il porto dell'Avana, è da tempo soggetto a lavori di risanamento e ristrutturazione per trasformarsi in zona prettamente turistica ed accogliere in un futuro, che si spera non lontano, le navi da crociera. La prima installazione, a cui se ne stanno aggiungendo altre, è già attiva da qualche anno ed è la Feria de S. José, ovvero il mercato degli artigiani dell'Avana Vecchia che in precedenza era ospitato nella piazza della Cattedrale all'aria aperta e in modo disordinato oltre che con poco spazio a disposizione. La trasformazione è resa possibile anche per la costruzione del porto del Mariel che diventerà il porto commerciale e industriale dell'Avana dando più respiro alla città con locali di intrattenimento e ritrovo per i turisti, ma non solo.
martedì 22 ottobre 2013
Si avanza per l'unificazione della moneta...
È stato annunciato, come approvato nei "lineamientos" del VI° Congresso del PCC, l'avvio per l'iter di unificazione della moneta circolante a Cuba. L'annuncio peraltro non chiarisce, ancora, molti aspetti. Si inizierà a utilizzare la "moneta unica" partendo dalle imprese che contabilizzeranno entrate e uscite con una sola moneta e verranno abilitati alcuni esercizi (non si sa ancora quali) dove in una fase iniziale si potrà pagare con le due valute. Rimangono delle domande sul tappeto: fermo restando che il rapporto si manterrà invariato (25 a 1) quale sarà la moneta che rimarrà in vigore? Che pericoli ci saranno di inflazione dei prezzi? Quale sarà il potere di acquisto rispetto ai salari?
lunedì 21 ottobre 2013
Altre leggende cubane, di Ciro bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 20/10/13
Se si tratta di pesce ripieno non c’è niente che superi, a Cuba, il pargo (pesce caratteristico dei mari tropicali n.d.t.) che don Francisco Marty Torrens ossequiò il 2 ottobre del 1840, a doña María del Rosario Fernández de Santillán, sivigliana, figlia dei marchesi di Motilla e sposa del Capitano Generale di Cuba, don Pedro Téllez Girón, principe di Anglona. L’aneddoto è raccontato dallo scrittore Álvaro de la Iglesia nelle sue “Tradizioni cubane”.
Chi erano questi personaggi? Don Pedro era il secondogenito del Duca di Osuna e come tale la legge della primogenitura - che riservava tutta la fortuna e la dignità al primo nato - lo condannava alla miseria, ma ebbe i favori di un Re che lo fece cadetto ai tre anni di età, capitano ai sette e tenente colonnello ai nove, e nella gioventù conquistò gloria e denaro. Governò l’Isola per 14 mesi.
Don Pancho Marty Torres giunse a Cuba, come molti spagnoli, in pantofole e con un enorme baule di illusioni che riuscì a materializzare, si convertì in uno degli uomini di maggiori ingressi e influenza dell sua epoca, con accesso libero e diretto alle persone vicine e agli stessi governatori generali. Questi cambiavano di tanto in tanto, ma la scalata di don Pancho non soffriva retrocessioni. Fu uno dei più grandi commercianti di schiavi e una concessione del Governo coloniale gli permetteva di sfruttare a suo favore il lavoro dei detenuti del carcere dell’Avana.
Col lavoro dei prigionieri, per l’appunto, edificò il Teatro Tacón, il più importante e frequentato della capitale, convertendosi nel suo impresario, cosa che gli permise di scremare gli autori che vedevano rappresentate le loro opere lì.
Possedeva altri beni, varie tenute agricole rustiche ed estese, proprietà immobiliari, così come due cantieri navali dove si riparavano i vascelli destinati alla tratta dei negri. Ma non finiva lì: don Pancho esercitava anche il monopolio del pesce all’Avana, privilegio a vita, nonostante le proteste del Municipio avanero.
Molti si sorprenderanno al sapere che la splendida Piazza della Cattedrale fu, per anni, una palude formata dalle acque che fuoruscivano dalla cosiddetta Fossa Reale, nel vicolo del Chorro (getto n.d.t.), il primo acquedotto della capitale. Era esattamente dietro alla Cattedrale dove c’era la sede principale degli affari di Pancho Marty col pesce, la cosiddetta pescheria El Boquete (il boccheggio n.d.t.), con ghiacciaia e locali per la vendita di ami ed esche dove, nonostante tutti i suoi soldi abitava, forse per il detto “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo” o, in questo caso, i pesci. El Boquete aprì le sue porte grazie al permesso del capitano generale Miguel Tacón e rimase fino al 1895.
La vigila del 2 di ottobre, giorno della festa della Vergine del Rosario, don Pancho domandò alla principessa di Anglona cosa volesse di regalo per il suo onomastico. La dama non seppe cosa rispondere, ma davanti all’insistenza del catalano si decise. - Ebbene, Marty, mandatemi un pargo per il pranzo - disse.
Don Pancho lo promise e il giorno successivo, la mattina presto, giunse al apalazzo dei Capitani Generali un negro della sua servitù portando, in un vassoio di argento massiccio e coperto con un tovagliolo finemente ricamato, un magnifico esemplare di pargo di San Rafael, come era conosciuto questo pesce.
Era accompagnato da questo messaggio: “Doña Rosario, che la passi felicemente. Apra la pancia del pargo”.
Il testo della nota provocò dapprima la risata dei principi di Anglona e poi la curiosità. Esaminarono il pargo da un estremità all’altra, lo soppesarono. C’era qualcosa di strano in quell’animale: pesava molto, sembrava di piombo.
“Questo pargo ha dentro qualcosa”, commentò fra i denti don Pedro e ordinò che lo aprissero.
Eccome se c’era qualcosa! Dal suo interno caddero sul vassoio non si sa quante once d’oro e parrucche naturali, che lasciarono a bocca aperta la coppia di alto lignaggio.
Il Cristo della grotta
Si chiamava don Pedro...Il suo cognome si è perso nel tempo, nelle nebbie della leggenda. Correva il primo terzo del XIX° secolo nella città di Matanzas dove, in una grande casa patrizia della calle del Río viveva don Pedro. Aveva 48 anni e molti schiavi al suo servizio, i suoi beni erano cospicui. Suo figlio di 17 anni, Fernando, studiava all’Avana.
Era un soggetto dei quali si dice: scorza dura e cuore d’oro. Retto, esecutore dei suoi doveri, benevolo, di mano aperta coi poveri, cristiano da messa quotidiana e comunione settimanale. In realtà c’erano due don Pedro: il buono e l’irascibile. Si dice che l’unica cosa che alterava la pace di quel palazzo fosse l’irascibilità del padrone, scrive Ámerico Alvarado Sicilia in una delle sue Leggende di Matanzas.
Goyo, uno degli schiavi della casa, era diventato il braccio destro di don Pedro. Era un negro sulla cinquantina, anch’egli vedovo e padre di una ragazza di 14 anni, Isabel; corpo scolpito di donna, faccia da bambina ribelle e occhi dove l’allegria posava quotidianamente la sua luce tintinnante. Don Pedro l’aveva vista crescere in casa sua e la privilegiava. Quando, il mattino entrava nella sua stanza per servirgli la colazione, don Pedro cercava sempre di trattenerla con qualunque scusa e conversava con lei in tono paterno.
Giunse l’estate e tornò il ragazzo Fernando per le vacanze, tornando ad essere per suo padre quello che era sempre stato: il centro della sua vita; la vita stessa. L’allegria di Isabel, la schiava viziata, si orientò verso il ragazzo Fernando. La colazione quotidiana a letto...La bellezza della ragazza...I 17 anni di lui e i 14 di lei...Le occasioni propizie...Tutto si trasformò in un labirinto d’amore e la schiava finì concedendosi fino all’impossibile. Un figlio di Fernando rimase nel ventre di Isabel al suo ritorno agli studi all’Avana.
A partire da quel momento, l’allegria di Isabel si convertì in un pianto nascosto. Nessuno sospettò della sua gravidanza. Confesso,di sentirsi malata, col ventre pieno d’acqua. Don Pedro volle far venire il medico, ma la ragazza trovò scuse per rimandare la visita. Quando venne il momento, fuggì da casa. Sapeva che nella grotta dell’Indio, nell’alveo del fiume Yumurí, avrebbe trovato rifugio.
Scendeva la sera. La grotta si riempiva di ombre, quando Isabel sentì i dolori del parto. Ebbe paura. In ginocchio, stretta ad una delle pareti della caverna, annientata dai dolori, chiese aiuto a Dio. E la richiesta fu ascoltata. Sopra la testa della ragazza apparve, incrostata nella roccia una croce nera e inchodato ad essa, un Cristo dalla bianchezza abbagliante. Il Cristo schiodò le sue mani e le protese sopra Isabel. Non aver paura, disse. Sono qui.
Intanto, nela casa di calle del Río don Pedro, infuriato, seppe che Isabel era nascosta nella grotta. Lui stesso la andò a cercare per darle quello che si meritava. Con la frusta in mano, entrò nella caverna accecato dall’ira avanzando verso la ragazza che implorava il perdono con voce rotta dal pianto. Improvvisamente don Pedro vide la croce nera incrostata nella pietra e, inchiodato ad essa, il Cristo bianchissimo. La frusta cadde al suolo e don Pedro inginocchiato, sentì speranza paura e amore nel suo cuore. Questa donna ti ha dato un nipote, disse Cristo. Sei obbligato a vigilare su di lei e sul bambino.
Il gabbiano di San Giovanni
Questa è una storia d’amore e di odio. Di ambizione e di egoismo. Si svolge a Matanzas e, come ogni buona storia, comincia d’inverno. Nel già lontano inverno del 1795, quando la città yumurina contava appena 6000 abitanti all’incirca. A quel tempo, in una casupola di tavole e guano che si trovava sulla sponda del río San Juan, viveva una vecchia schiava che tutti conoscevano come Ma Teresa. Con lei c’era sua nipote. Si chiamava Julia Rosa, aveva una pelle di seta e un viso che faceva piacere vedere per la sua bellezza. Un viso sottolineato dalla perfezione di due occhi verdi che gettavano al mondo l’allegria dei suoi 17 anni d’età. Ma Teresa non era una schiava qualunque. Viveva come una negra libera, fuori dalla casa famigliare, senz’altro obbligo che quello di crescere Julia Rosa e grazie al vitalizio che gli faceva arrivare senza mai mancare, don Sebastian, opulento abitante della città, con residenza in una splendida casa della Calle del Medio. Don Sebastian aveva gli occhi verdi e, dicevano le malelingue, che Julia Rosa, la nipote di Ma Teresa fosse sua figlia.
Le interiorità del fatto erano ben conosciute da doña Rosario, la sorella di Sebastian. Non vedeva di buon occhio che Ma Teresa vivesse fuori della loro magione. La verità è che doña Rosario sapeva che le visite frequenti di suo fratello alla casetta del fiume San Juan con motivo di fare una visita alla “bambina” causavano che continuasse a permanere lo scandalo che scosse Matanzas quando don Sebastian pianse in pubblico Julia, morta dopo aver dato alla luce Julia Rosa, quella bambina dagli occhi verdi che poteva passare perfettamente per bianca. Fra l’altro a doña Rosario dava fastidio la ragazza. Suo figlio Felipe avrebbe ereditato dallo zio Sebastian, ma parte del capitale e delle proprietà potevano spettare a Julia Rosa. Bisognava pensare a queste cose, Felipe aveva già 25 anni e il desiderio di doña Rosario era di vederlo sposato con Elvirita, la figlia di doña María Elvira.
Racconta il già citato Álvarado Sicilia in un’altra dele sue Leggende di Matanzas, che la notizia giunse alla famiglia per due strade. Doña Rosario lo seppe il mattino, all’uscita dalla messa, mentre don Sebastian lo seppe nel pomeriggio, mentre prendeva il fresco guardandosi in giro e facendosi vedere in piazza dela Vigía (sentinella n.d.t.). Una notizia sorprendente, sconcertante: il ragazzo Felipe faceva visite quotidiane a casa della schiava Ma Teresa attratto, com’era, da Julia Rosa, senza sapere che questa fosse sua cugina. Se la notizia sconfortò doña Rosario, più danni fece a doña María Elvira, la madre di Elvirita, la fidanzata di Felipe. Che fare? Maria Elvira pensò che Tata Mongo, lo schiavo più vecchio di casa sua potesse avere la soluzione. In effetti, Tata Mongo, assicurò che avrebbe risolto il problema del ragazzo Felipe. Lui aveva poteri segreti che gli conferì la sua tribù quando lo fecero capo degli stregoni e che gli permettevano di parlare con gli dei che continuavano ad ascoltare le sue richieste e invocazioni. Doña Rosario non ci pensò due volte e ordinò al vecchio Tata Mongo che si superasse nel suo lavoro.
Tata Mongo arrivò alla casetta del fiume San Juan quando era già l’ora del tramonto. Ma Teresa era uscita e Julia Rosa era sola. Le portava un dolce di cocco. Mentre la ragazza lo assaporava, Tata Mongo non cessava di parlare. Parlava di come in Africa gli stregoni convertivano le donne in uccelli. Anche lui poteva farlo. Se ti converto in uccello, disse, sarai immortale. Julia Rosa seguiva le sue parole tra l’interessata e l’inquieta... Rise molto, ma subito dopo ebbe paura.
Don Sebastian era come impazzito. Ma Teresa piangeva sempre. Felipe, disperato, non sapeva già dove cercare Julia Rosa. Doña Rosario cominciò a sentire l’angustia di un atroce rimorso. Julia Rosa era scomparsa...
Passò il tempo. Una sera Ma Teresa disse di sapere quello che era successo a sua nipote. Uno stregone l’aveva convertita in gabbiano. Nessuno la prese sul serio, ma alcuni giorni dopo Felipe vide un gabbiano che lo guardava in modo strano. Aveva gli occhi verdi. Alcuni mesi dopo Felipe morì, pazzo, innamorato di un gabbiano.
Il gabbiano dagli occhi verdi del fiume San Juan vola molte spesso, la sera, sulla città di Matanzas. Non è morto. Non può morire.
Otras leyendas cubanas
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Octubre del 2013 20:17:48 CDT
En lo que a pescado relleno se refiere, nada supera en Cuba al pargo
que don Francisco Marty Torrens obsequió, el 2 de octubre de 1840, a
doña María del Rosario Fernández de Santillán, sevillana, hija de los
marqueses de Motilla y esposa del Capitán General de Cuba, don Pedro
Téllez Girón, Príncipe de Anglona. La anécdota la cuenta el escritor
Álvaro de la Iglesia en sus Tradiciones cubanas.
¿Quiénes eran esos personajes? Don Pedro era hijo segundón del Duque
de Osuna, y, como tal, la ley de mayorazgo —que reservaba toda la
fortuna y la dignidad para los primogénitos— lo condenaba a la
miseria, pero tuvo el favor de un rey que lo hizo cadete a los tres
años de edad, capitán a los siete y teniente coronel a los nueve, y en
su juventud conquistó gloria y dinero. Gobernó la Isla durante 14
meses.
Don Pancho Marty Torrens llegó a Cuba, como muchos españoles, en
alpargatas y con un baúl enorme de ilusiones que logró materializar,
pues se convirtió en uno de los hombres de mayor caudal e influencia
de su tiempo, con acceso libre y directo al entorno íntimo de los
gobernadores generales. Estos cambiaban de cuando en cuando, pero la
ascendencia de don Pancho no sufría menoscabo. Y es que fue uno de los
más grandes comerciantes de esclavos y una concesión del Gobierno
colonial le permitía explotar en su provecho el trabajo de los
reclusos de la Cárcel de La Habana.
Con trabajo de presos, precisamente, edificó el Teatro Tacón, el más
importante y concurrido de la capital, y se convirtió en su
empresario, lo que le permitió esquilmar a los autores que allí veían
representadas sus obras.
Poseía, entre otros bienes, varias fincas rústicas y extensas,
propiedades inmuebles, así como dos astilleros, donde se reparaban
buques destinados a la trata negrera. Ahí no acababa la cosa: don
Pancho ejercía asimismo el monopolio del pescado en La Habana,
privilegio vitalicio, pese a las protestas del Ayuntamiento habanero.
Muchos se sorprenderán al saber que la hermosa Plaza de la Catedral
fue, años ha, una ciénaga formada por las aguas que se derramaban de
la llamada Zanja Real, en el Callejón del Chorro, el primer acueducto
de la capital. Era precisamente detrás de la Catedral donde Pancho
Marty tenía la sede principal de su negocio de pescado, la llamada
pescadería El Boquete, con nevería y locales para el expendio de
avíos, y donde, pese a todo su dinero, residía, tal vez por aquello de
que «el ojo del amo engorda el caballo» o, en este caso, los peces. El
Boquete abrió sus puertas por indicaciones del capitán general Miguel
Tacón en 1836 y allí estuvo hasta 1895.
La víspera del 2 de octubre, día de la fiesta de la Virgen del
Rosario, don Pancho preguntó a la Princesa de Anglona qué quería que
le regalase por su santo. La dama no supo qué contestar, pero ante la
insistencia del catalán, se decidió. —Pues bien, Marty, mándeme un
pargo para el almuerzo— dijo.
Se comprometió don Pancho y al día siguiente, temprano en la mañana,
llegó al palacio de los Capitanes Generales un negro de su dotación
que portaba, en una bandeja de plata maciza y cubierto por una
servilleta de fino encaje, un ejemplar magnífico de los llamados
pargos de San Rafael.
Lo acompañaba este mensaje: «Doña Rosario: Que los pase muy felices.
Ábrale la barriga al pargo».
El texto de la nota provocó primero la carcajada de los príncipes de
Anglona y luego la curiosidad. Examinaron el pargo de un extremo al
otro, lo sopesaron. Algo raro había en aquel animal: pesaba mucho,
parecía de plomo.
«Este pargo tiene algo dentro», comentó entre dientes don Pedro y
ordenó que lo abrieran.
¡Y vaya si lo tenía! De su interior cayeron en la bandeja no se sabe
ya cuántas onzas de oro, peluconas legítimas, que dejaron con la boca
abierta a la encumbrada pareja.
El Cristo de la cueva
Se llamaba don Pedro… Su apellido se perdió en el tiempo, en la bruma
de la leyenda. Corría el primer tercio del siglo XIX en la ciudad de
Matanzas, y en una casona palaciega de la calle Del Río vivía don
Pedro. Tenía 48 años de edad, lo servían muchos esclavos y eran
cuantiosos sus bienes. Su hijo de 17 años, Fernando, estudiaba en La
Habana.
Era el sujeto lo que se ha dado en llamar un hombre de cáscara amarga
y corazón de oro. Recto, cumplidor de sus deberes, bondadoso, de mano
abierta para el pobre y cristiano de misa diaria y comunión semanal.
En realidad, había dos don Pedro, el bueno y el irascible. Se dice que
lo único que alteraba la placidez de aquella casona era la
irascibilidad del amo, escribe Américo Alvarado Sicilia en una de sus
Leyendas matanceras.
Goyo, uno de los esclavos de la casa, se había convertido en la mano
derecha de don Pedro. Era un negro cincuentón, también viudo, y padre
de una muchacha de 14 años, Isabel; cuerpo de mujer escultural, cara
de niña traviesa y ojos donde la alegría ponía a diario su luz
cascabelera. Don Pedro la había visto crecer en su casa y la
favorecía. Cuando en las mañanas ella entraba a su cuarto para
servirle el desayuno, don Pedro trataba siempre de demorarla con
cualquier pretexto y conversaba con ella en tono paternal.
Llegó el verano y regresó el niño Fernando, de vacaciones, y volvió a
ser lo que había sido siempre para su padre: el centro de la vida; la
vida misma. Y la alegría de Isabel, la esclava mimada, apuntó hacia el
niño Fernando. El desayuno diario en la cama… La belleza de la
muchacha… Los 17 años de él, los 14 de ella… Las ocasiones propicias…
Todo se hizo laberinto de amor y la esclava terminó entregándose al
imposible. Un hijo de Fernando quedó en el vientre de Isabel cuando él
regresó a sus estudios en La Habana.
A partir de ahí la alegría de Isabel se convirtió en escondido llanto.
Nadie sospechó de su embarazo. Confesó, sí, sentirse enferma, con el
vientre lleno de agua. Quiso don Pedro traer al médico, pero la
muchacha se las arregló para aplazar la consulta. Cuando llegó la
hora, huyó de la casa. Sabía que en la cueva del Indio, en el abra del
río Yumurí, encontraría refugio.
Caía la tarde. La cueva se llenaba de sombras cuando Isabel sentía los
dolores de parto. Tuvo miedo. De rodillas, apretada contra una de las
paredes de la caverna, ovillada de dolor, pidió ayuda a Dios. Y el
pedido fue escuchado. Sobre la cabeza de la muchacha apareció,
incrustada en la roca, una cruz negra, y clavado en ella, un Cristo de
blancura deslumbrante. Desclavó Cristo sus manos y las extendió sobre
Isabel. No temas, dijo. Yo estoy aquí.
Mientras, en la casa de la calle Del Río, don Pedro, hecho una furia,
supo que Isabel se hallaba escondida en la cueva. Él mismo la buscaría
y le daría su merecido. Látigo en mano entró en la caverna y, cegado
por la ira, avanzó hacia la muchacha que imploraba perdón con voz
llorosa. De repente, don Pedro vio la cruz negra incrustada en la
piedra y, clavado en ella, el Cristo blanquísimo. El látigo cayó al
suelo y don Pedro, arrodillado, sintió esperanza, miedo y amor en su
corazón. Esta mujer te ha dado un nieto, dijo Cristo. Obligado quedas
a velar por ella y por el niño.
La gaviota de San Juan
Esta es una historia de amor y de odio. De ambición y egoísmo.
Transcurre en Matanzas y, como toda buena historia, comienza en
invierno. En el ya lejano invierno de 1795, cuando la ciudad yumurina
contaba apenas con unos 6 000 habitantes. En ese entonces, en una
casucha de tabla y guano que se alzaba a orillas del río San Juan,
vivía una vieja esclava a la que todos conocían por Ma Teresa. La
acompañaba su nieta. Se llamaba Julia Rosa y tenía una piel de seda y
un rostro que, de lindo, daba gusto vérselo. Un rostro subrayado por
la perfección de unos ojos verdes que echaban al mundo la alegría de
los 17 años de su edad. Ma Teresa no era una esclava cualquiera. Vivía
como una negra libre, fuera de la casa familiar, sin más obligación
que la de cuidar de Julia Rosa, y gracias a la pensión que, sin faltar
una sola vez, le hacía llegar don Sebastián, opulento vecino de la
villa, con residencia en una espléndida mansión de la Calle del Medio.
Don Sebastián también tenía los ojos verdes y decían las malas lenguas
que Julia Rosa, la nieta de Ma Teresa, era hija suya.
Las interioridades del asunto las conocía bien doña Rosario, la
hermana de Sebastián. No veía con buenos ojos que Ma Teresa viviera
fuera de la casona. La verdad del caso es que doña Rosario sabía muy
bien que las visitas frecuentes de su hermano a la casita del río San
Juan con la intención de darle vueltas a «la niña», eran la causa de
que siguiera vivo el escándalo que sacudió Matanzas cuando don
Sebastián lloró en público a Julia, muerta luego de haber dado a luz a
Julia Rosa, aquella niña de ojos verdes que bien pasaba por blanca. A
doña Rosario, por otra parte, le estorbaba la muchacha. Su hijo Felipe
heredaría al tío Sebastián, y parte del capital y las propiedades bien
podrían corresponder a Julia Rosa. Había que pensar en esas cosas,
pues Felipe tenía ya 25 años y era el deseo de doña Rosario verlo
casado con Elvirita, la hija de doña María Elvira.
Cuenta el ya aludido Alvarado Sicilia en otra de sus Leyendas
matanceras, que la noticia llegó a la familia por dos vías. La supo
doña Rosario en la mañana, al salir de la misa, y la supo don
Sebastián por la tarde, mientras tomaba el fresco y veía y se dejaba
ver en la plaza de La Vigía. Una noticia sorpresiva, desconcertante:
el niño Felipe era visita diaria en la casa de la esclava Ma Teresa
prendado, como estaba, de Julia Rosa, sin saber que era su prima. Si
la noticia angustió a doña Rosario, más estragos causó en doña María
Elvira, la madre de Elvirita, la novia de Felipe. ¿Qué hacer? María
Elvira pensó que Tata Mongo, el esclavo más viejo de su casa, podía
tener la solución. En efecto, Tata Mongo aseguró que resolvería el
asunto del niño Felipe. Él tenía poderes secretos que le confirieron
en su tribu cuando lo hicieron jefe de brujos, y que le permitían
hablar con los dioses que seguían oyendo sus pedidos e invocaciones.
Doña Rosario no lo pensó mucho y ordenó al viejo Tata Mongo que se
esmerara en su trabajo.
Tata Mongo llegó a la casita del río San Juan ya cuando anochecía. Ma
Teresa había salido y Julia Rosa estaba sola. Llevaba para ella un
dulce de coco. Mientras la muchacha lo degustaba, Tata Mongo no dejaba
de hablar. Hablaba sobre cómo en África los brujos convertían a las
mujeres en pájaros. Él también podía hacerlo. Si te convierto en
pájaro, dijo, no morirás jamás. Julia Rosa seguía sus palabras entre
interesada e inquieta. Rió mucho, pero enseguida sintió miedo.
Don Sebastián andaba como enloquecido. Ma Teresa lloraba a toda hora.
Felipe, desesperado, no sabía ya dónde buscar a Julia Rosa. Doña
Rosario comenzó a sentir la mordedura de un remordimiento atroz. Julia
Rosa había desaparecido…
Pasó el tiempo. Una noche Ma Teresa dijo saber lo que había pasado con
su nieta. Un hechicero la había convertido en gaviota. Nadie la tomó
en serio, pero días después, Felipe vio una gaviota que lo miró de un
modo raro. Tenía los ojos verdes. Meses después Felipe moría loco,
enamorado de una gaviota.
La gaviota de ojos verdes del río San Juan vuela muchas noches sobre
la ciudad de Matanzas. No ha muerto. No puede morir.
Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
Chi erano questi personaggi? Don Pedro era il secondogenito del Duca di Osuna e come tale la legge della primogenitura - che riservava tutta la fortuna e la dignità al primo nato - lo condannava alla miseria, ma ebbe i favori di un Re che lo fece cadetto ai tre anni di età, capitano ai sette e tenente colonnello ai nove, e nella gioventù conquistò gloria e denaro. Governò l’Isola per 14 mesi.
Don Pancho Marty Torres giunse a Cuba, come molti spagnoli, in pantofole e con un enorme baule di illusioni che riuscì a materializzare, si convertì in uno degli uomini di maggiori ingressi e influenza dell sua epoca, con accesso libero e diretto alle persone vicine e agli stessi governatori generali. Questi cambiavano di tanto in tanto, ma la scalata di don Pancho non soffriva retrocessioni. Fu uno dei più grandi commercianti di schiavi e una concessione del Governo coloniale gli permetteva di sfruttare a suo favore il lavoro dei detenuti del carcere dell’Avana.
Col lavoro dei prigionieri, per l’appunto, edificò il Teatro Tacón, il più importante e frequentato della capitale, convertendosi nel suo impresario, cosa che gli permise di scremare gli autori che vedevano rappresentate le loro opere lì.
Possedeva altri beni, varie tenute agricole rustiche ed estese, proprietà immobiliari, così come due cantieri navali dove si riparavano i vascelli destinati alla tratta dei negri. Ma non finiva lì: don Pancho esercitava anche il monopolio del pesce all’Avana, privilegio a vita, nonostante le proteste del Municipio avanero.
Molti si sorprenderanno al sapere che la splendida Piazza della Cattedrale fu, per anni, una palude formata dalle acque che fuoruscivano dalla cosiddetta Fossa Reale, nel vicolo del Chorro (getto n.d.t.), il primo acquedotto della capitale. Era esattamente dietro alla Cattedrale dove c’era la sede principale degli affari di Pancho Marty col pesce, la cosiddetta pescheria El Boquete (il boccheggio n.d.t.), con ghiacciaia e locali per la vendita di ami ed esche dove, nonostante tutti i suoi soldi abitava, forse per il detto “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo” o, in questo caso, i pesci. El Boquete aprì le sue porte grazie al permesso del capitano generale Miguel Tacón e rimase fino al 1895.
La vigila del 2 di ottobre, giorno della festa della Vergine del Rosario, don Pancho domandò alla principessa di Anglona cosa volesse di regalo per il suo onomastico. La dama non seppe cosa rispondere, ma davanti all’insistenza del catalano si decise. - Ebbene, Marty, mandatemi un pargo per il pranzo - disse.
Don Pancho lo promise e il giorno successivo, la mattina presto, giunse al apalazzo dei Capitani Generali un negro della sua servitù portando, in un vassoio di argento massiccio e coperto con un tovagliolo finemente ricamato, un magnifico esemplare di pargo di San Rafael, come era conosciuto questo pesce.
Era accompagnato da questo messaggio: “Doña Rosario, che la passi felicemente. Apra la pancia del pargo”.
Il testo della nota provocò dapprima la risata dei principi di Anglona e poi la curiosità. Esaminarono il pargo da un estremità all’altra, lo soppesarono. C’era qualcosa di strano in quell’animale: pesava molto, sembrava di piombo.
“Questo pargo ha dentro qualcosa”, commentò fra i denti don Pedro e ordinò che lo aprissero.
Eccome se c’era qualcosa! Dal suo interno caddero sul vassoio non si sa quante once d’oro e parrucche naturali, che lasciarono a bocca aperta la coppia di alto lignaggio.
Il Cristo della grotta
Si chiamava don Pedro...Il suo cognome si è perso nel tempo, nelle nebbie della leggenda. Correva il primo terzo del XIX° secolo nella città di Matanzas dove, in una grande casa patrizia della calle del Río viveva don Pedro. Aveva 48 anni e molti schiavi al suo servizio, i suoi beni erano cospicui. Suo figlio di 17 anni, Fernando, studiava all’Avana.
Era un soggetto dei quali si dice: scorza dura e cuore d’oro. Retto, esecutore dei suoi doveri, benevolo, di mano aperta coi poveri, cristiano da messa quotidiana e comunione settimanale. In realtà c’erano due don Pedro: il buono e l’irascibile. Si dice che l’unica cosa che alterava la pace di quel palazzo fosse l’irascibilità del padrone, scrive Ámerico Alvarado Sicilia in una delle sue Leggende di Matanzas.
Goyo, uno degli schiavi della casa, era diventato il braccio destro di don Pedro. Era un negro sulla cinquantina, anch’egli vedovo e padre di una ragazza di 14 anni, Isabel; corpo scolpito di donna, faccia da bambina ribelle e occhi dove l’allegria posava quotidianamente la sua luce tintinnante. Don Pedro l’aveva vista crescere in casa sua e la privilegiava. Quando, il mattino entrava nella sua stanza per servirgli la colazione, don Pedro cercava sempre di trattenerla con qualunque scusa e conversava con lei in tono paterno.
Giunse l’estate e tornò il ragazzo Fernando per le vacanze, tornando ad essere per suo padre quello che era sempre stato: il centro della sua vita; la vita stessa. L’allegria di Isabel, la schiava viziata, si orientò verso il ragazzo Fernando. La colazione quotidiana a letto...La bellezza della ragazza...I 17 anni di lui e i 14 di lei...Le occasioni propizie...Tutto si trasformò in un labirinto d’amore e la schiava finì concedendosi fino all’impossibile. Un figlio di Fernando rimase nel ventre di Isabel al suo ritorno agli studi all’Avana.
A partire da quel momento, l’allegria di Isabel si convertì in un pianto nascosto. Nessuno sospettò della sua gravidanza. Confesso,di sentirsi malata, col ventre pieno d’acqua. Don Pedro volle far venire il medico, ma la ragazza trovò scuse per rimandare la visita. Quando venne il momento, fuggì da casa. Sapeva che nella grotta dell’Indio, nell’alveo del fiume Yumurí, avrebbe trovato rifugio.
Scendeva la sera. La grotta si riempiva di ombre, quando Isabel sentì i dolori del parto. Ebbe paura. In ginocchio, stretta ad una delle pareti della caverna, annientata dai dolori, chiese aiuto a Dio. E la richiesta fu ascoltata. Sopra la testa della ragazza apparve, incrostata nella roccia una croce nera e inchodato ad essa, un Cristo dalla bianchezza abbagliante. Il Cristo schiodò le sue mani e le protese sopra Isabel. Non aver paura, disse. Sono qui.
Intanto, nela casa di calle del Río don Pedro, infuriato, seppe che Isabel era nascosta nella grotta. Lui stesso la andò a cercare per darle quello che si meritava. Con la frusta in mano, entrò nella caverna accecato dall’ira avanzando verso la ragazza che implorava il perdono con voce rotta dal pianto. Improvvisamente don Pedro vide la croce nera incrostata nella pietra e, inchiodato ad essa, il Cristo bianchissimo. La frusta cadde al suolo e don Pedro inginocchiato, sentì speranza paura e amore nel suo cuore. Questa donna ti ha dato un nipote, disse Cristo. Sei obbligato a vigilare su di lei e sul bambino.
Il gabbiano di San Giovanni
Questa è una storia d’amore e di odio. Di ambizione e di egoismo. Si svolge a Matanzas e, come ogni buona storia, comincia d’inverno. Nel già lontano inverno del 1795, quando la città yumurina contava appena 6000 abitanti all’incirca. A quel tempo, in una casupola di tavole e guano che si trovava sulla sponda del río San Juan, viveva una vecchia schiava che tutti conoscevano come Ma Teresa. Con lei c’era sua nipote. Si chiamava Julia Rosa, aveva una pelle di seta e un viso che faceva piacere vedere per la sua bellezza. Un viso sottolineato dalla perfezione di due occhi verdi che gettavano al mondo l’allegria dei suoi 17 anni d’età. Ma Teresa non era una schiava qualunque. Viveva come una negra libera, fuori dalla casa famigliare, senz’altro obbligo che quello di crescere Julia Rosa e grazie al vitalizio che gli faceva arrivare senza mai mancare, don Sebastian, opulento abitante della città, con residenza in una splendida casa della Calle del Medio. Don Sebastian aveva gli occhi verdi e, dicevano le malelingue, che Julia Rosa, la nipote di Ma Teresa fosse sua figlia.
Le interiorità del fatto erano ben conosciute da doña Rosario, la sorella di Sebastian. Non vedeva di buon occhio che Ma Teresa vivesse fuori della loro magione. La verità è che doña Rosario sapeva che le visite frequenti di suo fratello alla casetta del fiume San Juan con motivo di fare una visita alla “bambina” causavano che continuasse a permanere lo scandalo che scosse Matanzas quando don Sebastian pianse in pubblico Julia, morta dopo aver dato alla luce Julia Rosa, quella bambina dagli occhi verdi che poteva passare perfettamente per bianca. Fra l’altro a doña Rosario dava fastidio la ragazza. Suo figlio Felipe avrebbe ereditato dallo zio Sebastian, ma parte del capitale e delle proprietà potevano spettare a Julia Rosa. Bisognava pensare a queste cose, Felipe aveva già 25 anni e il desiderio di doña Rosario era di vederlo sposato con Elvirita, la figlia di doña María Elvira.
Racconta il già citato Álvarado Sicilia in un’altra dele sue Leggende di Matanzas, che la notizia giunse alla famiglia per due strade. Doña Rosario lo seppe il mattino, all’uscita dalla messa, mentre don Sebastian lo seppe nel pomeriggio, mentre prendeva il fresco guardandosi in giro e facendosi vedere in piazza dela Vigía (sentinella n.d.t.). Una notizia sorprendente, sconcertante: il ragazzo Felipe faceva visite quotidiane a casa della schiava Ma Teresa attratto, com’era, da Julia Rosa, senza sapere che questa fosse sua cugina. Se la notizia sconfortò doña Rosario, più danni fece a doña María Elvira, la madre di Elvirita, la fidanzata di Felipe. Che fare? Maria Elvira pensò che Tata Mongo, lo schiavo più vecchio di casa sua potesse avere la soluzione. In effetti, Tata Mongo, assicurò che avrebbe risolto il problema del ragazzo Felipe. Lui aveva poteri segreti che gli conferì la sua tribù quando lo fecero capo degli stregoni e che gli permettevano di parlare con gli dei che continuavano ad ascoltare le sue richieste e invocazioni. Doña Rosario non ci pensò due volte e ordinò al vecchio Tata Mongo che si superasse nel suo lavoro.
Tata Mongo arrivò alla casetta del fiume San Juan quando era già l’ora del tramonto. Ma Teresa era uscita e Julia Rosa era sola. Le portava un dolce di cocco. Mentre la ragazza lo assaporava, Tata Mongo non cessava di parlare. Parlava di come in Africa gli stregoni convertivano le donne in uccelli. Anche lui poteva farlo. Se ti converto in uccello, disse, sarai immortale. Julia Rosa seguiva le sue parole tra l’interessata e l’inquieta... Rise molto, ma subito dopo ebbe paura.
Don Sebastian era come impazzito. Ma Teresa piangeva sempre. Felipe, disperato, non sapeva già dove cercare Julia Rosa. Doña Rosario cominciò a sentire l’angustia di un atroce rimorso. Julia Rosa era scomparsa...
Passò il tempo. Una sera Ma Teresa disse di sapere quello che era successo a sua nipote. Uno stregone l’aveva convertita in gabbiano. Nessuno la prese sul serio, ma alcuni giorni dopo Felipe vide un gabbiano che lo guardava in modo strano. Aveva gli occhi verdi. Alcuni mesi dopo Felipe morì, pazzo, innamorato di un gabbiano.
Il gabbiano dagli occhi verdi del fiume San Juan vola molte spesso, la sera, sulla città di Matanzas. Non è morto. Non può morire.
Otras leyendas cubanas
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Octubre del 2013 20:17:48 CDT
En lo que a pescado relleno se refiere, nada supera en Cuba al pargo
que don Francisco Marty Torrens obsequió, el 2 de octubre de 1840, a
doña María del Rosario Fernández de Santillán, sevillana, hija de los
marqueses de Motilla y esposa del Capitán General de Cuba, don Pedro
Téllez Girón, Príncipe de Anglona. La anécdota la cuenta el escritor
Álvaro de la Iglesia en sus Tradiciones cubanas.
¿Quiénes eran esos personajes? Don Pedro era hijo segundón del Duque
de Osuna, y, como tal, la ley de mayorazgo —que reservaba toda la
fortuna y la dignidad para los primogénitos— lo condenaba a la
miseria, pero tuvo el favor de un rey que lo hizo cadete a los tres
años de edad, capitán a los siete y teniente coronel a los nueve, y en
su juventud conquistó gloria y dinero. Gobernó la Isla durante 14
meses.
Don Pancho Marty Torrens llegó a Cuba, como muchos españoles, en
alpargatas y con un baúl enorme de ilusiones que logró materializar,
pues se convirtió en uno de los hombres de mayor caudal e influencia
de su tiempo, con acceso libre y directo al entorno íntimo de los
gobernadores generales. Estos cambiaban de cuando en cuando, pero la
ascendencia de don Pancho no sufría menoscabo. Y es que fue uno de los
más grandes comerciantes de esclavos y una concesión del Gobierno
colonial le permitía explotar en su provecho el trabajo de los
reclusos de la Cárcel de La Habana.
Con trabajo de presos, precisamente, edificó el Teatro Tacón, el más
importante y concurrido de la capital, y se convirtió en su
empresario, lo que le permitió esquilmar a los autores que allí veían
representadas sus obras.
Poseía, entre otros bienes, varias fincas rústicas y extensas,
propiedades inmuebles, así como dos astilleros, donde se reparaban
buques destinados a la trata negrera. Ahí no acababa la cosa: don
Pancho ejercía asimismo el monopolio del pescado en La Habana,
privilegio vitalicio, pese a las protestas del Ayuntamiento habanero.
Muchos se sorprenderán al saber que la hermosa Plaza de la Catedral
fue, años ha, una ciénaga formada por las aguas que se derramaban de
la llamada Zanja Real, en el Callejón del Chorro, el primer acueducto
de la capital. Era precisamente detrás de la Catedral donde Pancho
Marty tenía la sede principal de su negocio de pescado, la llamada
pescadería El Boquete, con nevería y locales para el expendio de
avíos, y donde, pese a todo su dinero, residía, tal vez por aquello de
que «el ojo del amo engorda el caballo» o, en este caso, los peces. El
Boquete abrió sus puertas por indicaciones del capitán general Miguel
Tacón en 1836 y allí estuvo hasta 1895.
La víspera del 2 de octubre, día de la fiesta de la Virgen del
Rosario, don Pancho preguntó a la Princesa de Anglona qué quería que
le regalase por su santo. La dama no supo qué contestar, pero ante la
insistencia del catalán, se decidió. —Pues bien, Marty, mándeme un
pargo para el almuerzo— dijo.
Se comprometió don Pancho y al día siguiente, temprano en la mañana,
llegó al palacio de los Capitanes Generales un negro de su dotación
que portaba, en una bandeja de plata maciza y cubierto por una
servilleta de fino encaje, un ejemplar magnífico de los llamados
pargos de San Rafael.
Lo acompañaba este mensaje: «Doña Rosario: Que los pase muy felices.
Ábrale la barriga al pargo».
El texto de la nota provocó primero la carcajada de los príncipes de
Anglona y luego la curiosidad. Examinaron el pargo de un extremo al
otro, lo sopesaron. Algo raro había en aquel animal: pesaba mucho,
parecía de plomo.
«Este pargo tiene algo dentro», comentó entre dientes don Pedro y
ordenó que lo abrieran.
¡Y vaya si lo tenía! De su interior cayeron en la bandeja no se sabe
ya cuántas onzas de oro, peluconas legítimas, que dejaron con la boca
abierta a la encumbrada pareja.
El Cristo de la cueva
Se llamaba don Pedro… Su apellido se perdió en el tiempo, en la bruma
de la leyenda. Corría el primer tercio del siglo XIX en la ciudad de
Matanzas, y en una casona palaciega de la calle Del Río vivía don
Pedro. Tenía 48 años de edad, lo servían muchos esclavos y eran
cuantiosos sus bienes. Su hijo de 17 años, Fernando, estudiaba en La
Habana.
Era el sujeto lo que se ha dado en llamar un hombre de cáscara amarga
y corazón de oro. Recto, cumplidor de sus deberes, bondadoso, de mano
abierta para el pobre y cristiano de misa diaria y comunión semanal.
En realidad, había dos don Pedro, el bueno y el irascible. Se dice que
lo único que alteraba la placidez de aquella casona era la
irascibilidad del amo, escribe Américo Alvarado Sicilia en una de sus
Leyendas matanceras.
Goyo, uno de los esclavos de la casa, se había convertido en la mano
derecha de don Pedro. Era un negro cincuentón, también viudo, y padre
de una muchacha de 14 años, Isabel; cuerpo de mujer escultural, cara
de niña traviesa y ojos donde la alegría ponía a diario su luz
cascabelera. Don Pedro la había visto crecer en su casa y la
favorecía. Cuando en las mañanas ella entraba a su cuarto para
servirle el desayuno, don Pedro trataba siempre de demorarla con
cualquier pretexto y conversaba con ella en tono paternal.
Llegó el verano y regresó el niño Fernando, de vacaciones, y volvió a
ser lo que había sido siempre para su padre: el centro de la vida; la
vida misma. Y la alegría de Isabel, la esclava mimada, apuntó hacia el
niño Fernando. El desayuno diario en la cama… La belleza de la
muchacha… Los 17 años de él, los 14 de ella… Las ocasiones propicias…
Todo se hizo laberinto de amor y la esclava terminó entregándose al
imposible. Un hijo de Fernando quedó en el vientre de Isabel cuando él
regresó a sus estudios en La Habana.
A partir de ahí la alegría de Isabel se convirtió en escondido llanto.
Nadie sospechó de su embarazo. Confesó, sí, sentirse enferma, con el
vientre lleno de agua. Quiso don Pedro traer al médico, pero la
muchacha se las arregló para aplazar la consulta. Cuando llegó la
hora, huyó de la casa. Sabía que en la cueva del Indio, en el abra del
río Yumurí, encontraría refugio.
Caía la tarde. La cueva se llenaba de sombras cuando Isabel sentía los
dolores de parto. Tuvo miedo. De rodillas, apretada contra una de las
paredes de la caverna, ovillada de dolor, pidió ayuda a Dios. Y el
pedido fue escuchado. Sobre la cabeza de la muchacha apareció,
incrustada en la roca, una cruz negra, y clavado en ella, un Cristo de
blancura deslumbrante. Desclavó Cristo sus manos y las extendió sobre
Isabel. No temas, dijo. Yo estoy aquí.
Mientras, en la casa de la calle Del Río, don Pedro, hecho una furia,
supo que Isabel se hallaba escondida en la cueva. Él mismo la buscaría
y le daría su merecido. Látigo en mano entró en la caverna y, cegado
por la ira, avanzó hacia la muchacha que imploraba perdón con voz
llorosa. De repente, don Pedro vio la cruz negra incrustada en la
piedra y, clavado en ella, el Cristo blanquísimo. El látigo cayó al
suelo y don Pedro, arrodillado, sintió esperanza, miedo y amor en su
corazón. Esta mujer te ha dado un nieto, dijo Cristo. Obligado quedas
a velar por ella y por el niño.
La gaviota de San Juan
Esta es una historia de amor y de odio. De ambición y egoísmo.
Transcurre en Matanzas y, como toda buena historia, comienza en
invierno. En el ya lejano invierno de 1795, cuando la ciudad yumurina
contaba apenas con unos 6 000 habitantes. En ese entonces, en una
casucha de tabla y guano que se alzaba a orillas del río San Juan,
vivía una vieja esclava a la que todos conocían por Ma Teresa. La
acompañaba su nieta. Se llamaba Julia Rosa y tenía una piel de seda y
un rostro que, de lindo, daba gusto vérselo. Un rostro subrayado por
la perfección de unos ojos verdes que echaban al mundo la alegría de
los 17 años de su edad. Ma Teresa no era una esclava cualquiera. Vivía
como una negra libre, fuera de la casa familiar, sin más obligación
que la de cuidar de Julia Rosa, y gracias a la pensión que, sin faltar
una sola vez, le hacía llegar don Sebastián, opulento vecino de la
villa, con residencia en una espléndida mansión de la Calle del Medio.
Don Sebastián también tenía los ojos verdes y decían las malas lenguas
que Julia Rosa, la nieta de Ma Teresa, era hija suya.
Las interioridades del asunto las conocía bien doña Rosario, la
hermana de Sebastián. No veía con buenos ojos que Ma Teresa viviera
fuera de la casona. La verdad del caso es que doña Rosario sabía muy
bien que las visitas frecuentes de su hermano a la casita del río San
Juan con la intención de darle vueltas a «la niña», eran la causa de
que siguiera vivo el escándalo que sacudió Matanzas cuando don
Sebastián lloró en público a Julia, muerta luego de haber dado a luz a
Julia Rosa, aquella niña de ojos verdes que bien pasaba por blanca. A
doña Rosario, por otra parte, le estorbaba la muchacha. Su hijo Felipe
heredaría al tío Sebastián, y parte del capital y las propiedades bien
podrían corresponder a Julia Rosa. Había que pensar en esas cosas,
pues Felipe tenía ya 25 años y era el deseo de doña Rosario verlo
casado con Elvirita, la hija de doña María Elvira.
Cuenta el ya aludido Alvarado Sicilia en otra de sus Leyendas
matanceras, que la noticia llegó a la familia por dos vías. La supo
doña Rosario en la mañana, al salir de la misa, y la supo don
Sebastián por la tarde, mientras tomaba el fresco y veía y se dejaba
ver en la plaza de La Vigía. Una noticia sorpresiva, desconcertante:
el niño Felipe era visita diaria en la casa de la esclava Ma Teresa
prendado, como estaba, de Julia Rosa, sin saber que era su prima. Si
la noticia angustió a doña Rosario, más estragos causó en doña María
Elvira, la madre de Elvirita, la novia de Felipe. ¿Qué hacer? María
Elvira pensó que Tata Mongo, el esclavo más viejo de su casa, podía
tener la solución. En efecto, Tata Mongo aseguró que resolvería el
asunto del niño Felipe. Él tenía poderes secretos que le confirieron
en su tribu cuando lo hicieron jefe de brujos, y que le permitían
hablar con los dioses que seguían oyendo sus pedidos e invocaciones.
Doña Rosario no lo pensó mucho y ordenó al viejo Tata Mongo que se
esmerara en su trabajo.
Tata Mongo llegó a la casita del río San Juan ya cuando anochecía. Ma
Teresa había salido y Julia Rosa estaba sola. Llevaba para ella un
dulce de coco. Mientras la muchacha lo degustaba, Tata Mongo no dejaba
de hablar. Hablaba sobre cómo en África los brujos convertían a las
mujeres en pájaros. Él también podía hacerlo. Si te convierto en
pájaro, dijo, no morirás jamás. Julia Rosa seguía sus palabras entre
interesada e inquieta. Rió mucho, pero enseguida sintió miedo.
Don Sebastián andaba como enloquecido. Ma Teresa lloraba a toda hora.
Felipe, desesperado, no sabía ya dónde buscar a Julia Rosa. Doña
Rosario comenzó a sentir la mordedura de un remordimiento atroz. Julia
Rosa había desaparecido…
Pasó el tiempo. Una noche Ma Teresa dijo saber lo que había pasado con
su nieta. Un hechicero la había convertido en gaviota. Nadie la tomó
en serio, pero días después, Felipe vio una gaviota que lo miró de un
modo raro. Tenía los ojos verdes. Meses después Felipe moría loco,
enamorado de una gaviota.
La gaviota de ojos verdes del río San Juan vuela muchas noches sobre
la ciudad de Matanzas. No ha muerto. No puede morir.
Ciro Bianchi Ross
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