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mercoledì 29 gennaio 2014

Criminalista

CRIMINALISTA: elenco di malviventi

martedì 28 gennaio 2014

Cravattaio

CRAVATTAIO: presta soldi ad altissimo interesse

lunedì 27 gennaio 2014

Parlare di Raúl Corrales di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 26/1/14

Mi ha fatto particolarmente piacere questa "colonna" dedicata a uno dei grandi fotografi cubani che mi vergogno a chiamare collega, credo sia più indicato chiamarlo maestro. Ho avuto l'onore e il piacere di conoscerlo e frequentarlo, così come altri due grandi fotografi come Alberto Diaz "Korda" e Osvaldo Sálas. Loro, con Costantino Árias e Liborio Noval sono veramente dei "mostri sacri" della fotografia, specialmente di reportage, ma non solo e il loro prestigio è riconosciuto da un'ampia platea internazionale. Grazie Ciro.
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È uno dei grandi fotoreporter cubani, il suo lavoro di anni venne riconosciuto con il Premio Nazionale delle Arti Plastiche corrispondente all’anno 1996 che era assegnato per la prima volta a un fotografo. In precedenza, nel 1988, aveva meritato l’Ordine Felix Varela, il maggior riconoscimento cubano nella sfera della Cultura e l’Istituto Superiore dell’Arte gli conferì un Dottorato Honoris Causa.
La critica risalta il tono poetico della sua fotografia, il potere di sintesi, la capacità di mostrare i dettagli e il suo trattamento scultorico della luce senza che si perda, nelle sue immagini, il senso del messaggio diretto, un modo di vedere la vita e il trattamento di risalto dell’essere umano.
Una delle sue foto, Il sogno, è considerata una delle migliori 100 immagini di tutta la storia della fotografia. Ma al di là di foto isolate, Raúl Corrales, testimoniò e documentò graficamente gli anni iniziali della Rivoluzione. Non c’è avvenimento trascendentale di quel periodo di cui egli non catturasse le immagini.
Così fu tra il 1959 e il 1964, quando Corrales figurava nell’équipe fotografica del quotidiano Revolución e della rivista Cuba. In quest’ultima data, però, abbandonò la fotografia giornalistica. Certamente lo aspettavano altri compiti, ma il suo allontanamento non lascia di essere significativo. Per caso, o no, coincide con la decadenza della fotografia nella stampa cubana. Se, fino a quel momento, la fotografia fu l’immagine stessa della Rivoluzione e il suo veicolo più efficace di diffusione, con foto che occupavano grandi spazi e reportages d’autore, cominciava a ripiegare davanti alle foto di “attività”, con la sua conosciuta trinità di tribuna-oratore-pubblico, mentre la riduzione delle pubblicazioni e delle pagine, la cattiva qualità della carta e la scarsità di materiale fotografico facevano il resto.
Anteriormente, nella rivista Carteles, il suo lavoro di fotoreporter era stato a sua volta molto riconosciuto. Assieme a Oscar Pino Santos come redattore, Corrales giunse a luoghi inimmaginabili della geografia cubana per svelare come vivevano e morivano i contadini delle montagne, i carbonai delle paludi, i tagliatori di canna da zucchero, i minatori...Erano vere e proprie denunce quei reportages e un richiamo alla coscienza. Un giorno Korda disse a Corrales: “Quando finisca la miseria a Cuba, morirai di fame”.
Per puro miracolo, Corrales, non era morto di fame fino ad allora. Prima del suo inizio nella fotografia si vide costretto a svolgere le attività più modeste. Fu venditore di giornali e di frutta, lustrascarpe e ragazzo delle pulizie, cameriere di Jorge Negrete durante le presentazioni del messicano a Cuba...Poté riunire quello che bastava per comprare una macchinetta da 127 millimetri. Con essa prendeva le sue immagini, ma non le stampava tutte. Si accontentava di guardare i negativi con una lente davanti a una lampadina. Fu allora che conseguì un lavoro presso la Cuba Sono Film e divenne fotografo professionista. Correva l’anno 1944.
Sono ormai lontani i tempi in cui Raúl Corrales, armato di una camera Speed Graphic 4x5 e una valigetta piena di chassis e lampadine, percorreva l’Avana in cerca di una notizia. Pieno di idee e progetti non tralasciò mai di “inventare” foto, anche se a volte non le scattasse. Alla sua morte lasciò un archivio di migliaia di negativi non stampati, vari libri pubblicati e un prestigio bene consolidato dentro e fuori di Cuba.

Il generale era molto generoso

Raúl Corrales naque a Ciego de Ávila, a 423 km all’est dell’Avana, il 29 gennaio del 1925, 89 anni orsono. Un giorno, sua madre decise di venire nella capitale con tutti i suoi figli. Il padre sarebbe venuto dopo. Dopo due giorni che era nell’urbe, Corrales vendeva già i giornali. Un rivenditore della stampa, come si chiamavano allora un “tonguero”, gli procurò lavoro ne El Carmelo di Calzada y D, nel Vedado, il miglior grill room di allora. Anche lì vendeva i giornali e riviste e d’altra parte conobbe persone interessanti.
L’ex presidente Mario García Menocal giungeva a El Carmelo tutti i pomeriggi, alle quattro. Corrales stava attento al suo arrivo e correva ad aprirgli la porta dell’automobile, un veicolo nero, imponente. Quando gli diceva “Buon pomeriggio, mio generale”, Menocal gli lanciava una mancia di dieci centesimi. Gli portava al tavolo le riviste nordamericane che l’ex presidente amava leggere quindi, dopo avergliele pagate, lo gratificava con altri dieci centesimi. “Era molto generoso il generale”, ricordava Corrales non senza ironia e non dimenticava che gli rese un grande servizio un pomeriggio in cui avvertì la sua assenza e chiese di lui. Qualcuno gli disse che dopo una discussione col padrone dell’esercizio lo misero in strada di sana pianta. “Ebbene, richiamatelo, -commentò Menocal- che il ragazzo mi piace. Corsero a cercarlo e lo ripresero.
Non sarebbe invecchiato in quel ristorante. Un bel giorno uscì da El Carmelo per aiutare il padre nella sua rivendita di frutta. Lavorava nel turno di notte. Finiva la scuola alle dieci di sera, dava il cambio a suo padre e aspettava suo fratello alle sei del mattino seguente. “C’erano molti nottambuli all’Avana di allora; la notte avanera era molto animata”, ricordava.
Corrales vendette frutta fino che gli dissero di un posto come ragazzo delle pulizie alla Cuba Sono Film, un’azienda del Partito Socialista Popolare che forniva servizi di fotografia e filmati durante avvenimenti politici e sociali. Lì c’erano Paco Altuna, José Tabío e due fotografi di cognome Viñas che ebbero grande influenza su Corrales.
In una occasione venne presentata una richiesta, Altuna, che era il fotografo di guardia non c’era e Corrales si offrì per “coprirlo”. Camminò per mezza Avana con una macchina fotografica enorme e una valigetta piena di lastre, chassis e lampadine. “Cimi dinetificava come fotografo agli occhi di tutti e io me sentivo l’uomo più realizzato della terra”. Giunse a destinazione, scattò solo una foto, quella che gli chiesero, e tornò sui suoi passi. Giunto all’azienda l’amministratore gli chiese del suo lavoro. “La foto è fatta”, rispose Corrales. “Bene- disse l’uomo- aspettiamo il tale perché la sviluppi”. “È già sviluppata” ribatté Corrales. Allora l’amministratore disse . “Che Zutano la stampi”. “È già stampata commentò Corrales. Così divenne fotografo.
Nel 1953, dopo l’attacco alla caserma Moncada, Batista ordinò la chiusura del giornale Hoy, dove Corrales era andato a lavorare come fotografo, dopo il suo passaggio per la Cuba Sono Film. Allora, con Oscar Pino Santos, uno dei redattori del giornale, formò una coppia e si dedicarono a reportages che proponevano a Bohemia, ma la rivista a volte li accettava, a volte no e se i lavori non apparivano non apparivano in quelle pagine, non mangiavano. La situazione cambiò quando Miguel Ángel Quevedo, direttore e proprietario di Bohemia comprò, per due milioni di pesos, la rivista Carteles a Alfredo T. Quilez. Il narratore Antonio Ortega, nuovo direttore di Carteles, portò Pino Santos e Corrales come collaboratori fissi. Pubblicavano uno o due reportages la settimana -uno dei quali con pseudonimo- e ricevevano 30 pesos per ciascuno.
Erano anni nei quali già non si poteva esercitare il giornalismo a Cuba se non si erano frequentati gli studi nella Scuola Professionale Manuel Márquez Sterling. Anche i colonnisti dovevano avere il titolo del Collegio Nazionale di Giornalismo. Il delegato del Collegio in Carteles, il celebre cronista sportivo Elio Costantín, disse a Ortega che se Pino Santos e Corrales non passavano la Scuola Professionale, non avrebbero potuto continuare ed esercitare la professione. Entrambi si recarono alla Márquez Sterling. E grande fu la sorpresa di Corrales alla sua prima lezione. Il corso era già cominciato da tre giorni. Per il colmo, Corrales giunse tardi il suo primo giorno, entrò nell’aula di giornalismo grafico e quando si disponeva a occupare il suo posto, certo che nessuno avesse notato la sua presenza, il professore lo salutò dalla cattedra. “Corrales, cosa fa lei qui?” domandò. “Adesso sono suo alunno”, rispose l’interpellato. “Bene, si sieda subito che la lezione di oggi tratta di uno dei suoi servizi”.
Fu uno dei fondatori della scomparsa rivista Cuba, una delle esperienze più interessanti del giornalismo cubano della Rivoluzione.
Fu invitato a partecipare, come fotoreporter, a una comitiva del Governo che guidata da Fidel Castro, avrebbe visitato l’Hacienda Cortina, in provincia di Pínar del Río. Era una tenuta di 1800 cavallerie –oltre 24.000 ettari-, dedicata all’allevamento di bovini ed equini, la semina di tabacco e alberi da frutta e l’estrazione della resina di pino, dotata di un apparato amministrativo e commerciale che garantiva il commercio. In quei giorni della visita l’hacienda era stata espropriata dall’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria (INRA). Fidel percorse la proprietà, fu nella casa padronale e in altre installazioni,ammirò la collezione di opera d’arte che l’arricchiva e alla fine qualcuno, forse il maggiordomo, suggerì che il gruppo si fermasse a cena. Si preparò una tavola fastuosa. Fidel si sedette e rimase assorto. All’improvviso disse: “Andiamocene”. La giornata, per il capo della Rivoluzione e i suoi accompgnatori, fini nel mezzo della notte, accomodati sotto gli alberi, mangiando i cibi in lattina che portavano con se.
Raúl Corrales e il geografo Antonio Nuñez Jiménez che allora occupava una posizione principale nell’INRA, presentarono alla rivista Bohemia il servizio sulla visita di Fidel alla tenuta dell’ex senatore José Manuel Cortina. Passarono 15, 30 giorni e il servizio non appariva pubblicato. Fidel chiamò i suoi autori e gli disse. “Lo pubblichiamo e siccome Bohemia non lo fa, lo faremo nella nostra propria rivista”. Aggiunse: “Avete 15 giorni per fare una rivista come questa” e consegnò a Nuñez Jiménez un esemplare della rivista Life. Questa fu l’origine della rivista Cuba, che ai suoi inizia veva il nome di INRA.

Di fretta per la vita

Più tardi, Corrales fece parte del gruppo fondatore dell’Accademia delle Scienze fino a che passò a lavorare nell’Ufficio Affari Storici della Presidenza della Repubblica – oggi Consiglio di Stato -. Per 25 anni fece copie fotografiche gli incartamenti che contenevano la storia recente di Cuba, i documenti delle più importanti figure della Rivoluzione. “Si ebbe in me una grande fiducia e oggi posso dire con orgoglio che assunsi quel lavoro con grande entusiasmo e responsabilità totale”, disse in un’occasione. Fotografò fino quasi al momento della sua morte. Morì all’Avana il 15 aprile del 2006.
Oltre a El sueño (1959) si trovano tra le migliori foto di Raúl Corrales quelle intitolate Gli stivali dell’intendente (1955) e La cavalleria (1959), quella che cattura un gruppo di cavalleggeri mentre penetra in un latifondo nordamericano espropriato in virtù della Legge di Riforma Agricola. Anche quelle della serie La banda del nuevo ritmo, scattate nelle trincee durante la crisi dei missili dell’ottobre 1962. La sua estetica era molto semplice. Un giorno mi disse: “Io non ho la speranza di ottenere una buona immagine. Si passi l’immodestia, ma quando ottengo una buona immagine è perché è lì. L’ho vista e ho schiacciato l’otturatore”. Allora, chiesi: “Quanto c’è di ricerca e quanto di casualità in una buona fotografia?”. La sua risposta fu quasi un colpo di pistola: “Io non cerco la buona fotografia; io vedo una buona fotografia”. Aggiunse “Se tornassi a nascere, sarei ancora fotografo. Sono andato sempre di fretta per la vita e così scelsi la via più rapida: captare immagini”.




Hablar de Raúl Corrales

Ciro Bianchi Ross • 
digital@juventudrebelde.cu
25 de Enero del 2014 20:20:36 CDT

Es de los grandes fotorreporteros cubanos, y su labor de años fue
reconocida con el Premio Nacional de Artes Plásticas, correspondiente
a 1996, que por primera vez distinguió a un fotógrafo. Antes, en 1988,
había merecido la Orden Félix Varela, la más alta condecoración del
Estado cubano en la esfera de la cultura, y el Instituto Superior del
Arte le otorgaría, en 2005, un Doctorado Honoris Causa.
La crítica resalta el tono poético de su fotografía, el poder de
síntesis, la capacidad para mostrar los detalles y su tratamiento
escultórico de la luz, sin que se pierda en sus imágenes el sentido
del mensaje directo, una manera de ver la vida y el tratamiento
enaltecedor del ser humano.
Una de sus fotos, El sueño, está considerada entre las cien mejores
imágenes de toda la historia de la fotografía. Pero más allá de fotos
aisladas, Raúl Corrales testimonió y documentó gráficamente los años
iniciales de la Revolución. No hay acontecimiento trascendental de ese
período que él no capturara en imágenes.
Así sucedió entre 1959 y 1964, cuando Corrales figuró en los equipos
fotográficos del periódico Revolución y la revista Cuba. En esa última
fecha, sin embargo, abandonó la fotografía de prensa. Cierto es que
otras tareas lo reclamaron, pero no deja de ser significativo su
alejamiento. Casual o no, coincide con el inicio de la decadencia de
la fotografía en la prensa cubana. Si hasta ese momento la fotografía
fue en Cuba la imagen misma de la Revolución y su vehículo más eficaz
de difusión, con fotos desplegadas a grandes espacios y
fotorreportajes de autor, comenzaba a replegarse ante las fotos de
«actividades», con su consabida trinidad de tribuna-orador-público,
mientras que la reducción de publicaciones y de páginas, la mala
calidad del papel y la escasez de materiales fotográficos hacían el
resto.
Antes, en la revista Carteles, su labor fotorreporteril había sido
también muy destacada. Junto con Oscar Pino Santos como redactor,
Corrales llegó a los lugares más inimaginables de la geografía cubana
para develar cómo vivían y morían los campesinos de las montañas y los
carboneros de las ciénagas, los cortadores de caña y los mineros… Eran
verdaderas denuncias aquellos reportajes, un llamado a la conciencia.
«Cuando se acabe la miseria en Cuba, dijo un día Korda a Corrales, te
vas a morir de hambre».
De puro milagro no había muerto de hambre Raúl Corrales hasta
entonces. Antes de su inicio en la fotografía se vio obligado a
acometer las ocupaciones más modestas. Fue vendedor de periódicos y de
frutas, limpiabotas y mozo de limpieza, valet de Jorge Negrete durante
las presentaciones del mexicano en Cuba… Pudo reunir lo suficiente
para adquirir una camarita de 127 milímetros. Tomaba con ella sus
imágenes, pero no todas las imprimía. Se contentaba con mirar los
negativos con un vidrio de aumento delante de una lamparita. Fue
entonces que consiguió empleo en la Cuba Sono Film y se hizo fotógrafo
profesional. Corría el año  1944.
Lejos están ya aquellos tiempos en que Raúl Corrales, armado de una
cámara Speed Graphic 4 x 5 y un maletín lleno de chasis y bombillos,
recorría La Habana en busca de la noticia. Lleno de ideas y proyectos,
nunca dejó de «inventar» fotos, aunque a veces no las tomara. Dejó a
su muerte un archivo de miles de negativos sin imprimir, varios libros
publicados y un prestigio bien consolidado dentro y fuera de Cuba.

Era muy dadivoso el general

Raúl Corrales nació en Ciego de Ávila, a unos 423 km al este de La
Habana, el 29 de enero de 1925, hace 88 años. Un día su madre decidió
venir para la capital, con todos sus hijos. El padre vendría después.
A los dos días de estar en la urbe, ya Corrales vendía periódicos. Un
revendedor de prensa, un «tonguero», como se le llamaba en la época,
le consiguió trabajo en El Carmelo, de Calzada y D, en el Vedado, el
mejor grill room de entonces. También allí vendería periódicos y
revistas y, por otra parte, conocería a alguna gente interesante.
El ex presidente Mario García Menocal llegaba a El Carmelo todas las
tardes, a las cuatro. Corrales se mantenía atento a su llegada y
corría a abrirle la puerta del automóvil, un vehículo negro,
imponente. Cuando le decía «Buenas tardes, mi general», Menocal le
tiraba una propina de diez centavos. Le llevaba a la mesa las revistas
norteamericanas que el ex mandatario gustaba leer, y Menocal entonces,
después de pagárselas, lo gratificaba con otros diez centavos. «Era
muy dadivoso el general», recordaba Corrales no sin ironía y no
olvidaba que le prestó un gran servicio la tarde en que advirtió su
ausencia y se interesó por él. Alguien le dijo que tras una discusión
con el dueño del establecimiento lo pusieron de patitas en la calle.
«Pues llámenlo otra vez, comentó Menocal, que el muchacho me agrada».
Corrieron a buscarlo y lo repusieron.
No haría hueso viejo en aquel restaurante. Un buen día salió de El
Carmelo para ayudar al padre en su expendio de frutas. Trabajaba el
turno de la madrugada. Terminaba en la escuela a las diez de la noche,
relevaba al padre y esperaba la llegada de su hermano a las seis de la
mañana. «Había muchos noctámbulos en La Habana de entonces; la noche
habanera era muy animada», evocaba.
Corrales vendió frutas hasta que le avisaron de un empleo como mozo de
limpieza en la Cuba Sono Film, una empresa del Partido Socialista
Popular que daba servicios de fotografía y películas en actos
políticos y sociales. Allí estaban Paco Altuna, José Tabío y dos
fotógrafos de apellido Viñas, que mucho influyeron en Corrales.
En una ocasión se presentó un pedido, Altuna, que era el fotógrafo de
guardia, no estaba, y Corrales se ofreció para «cubrirlo». Caminó
media Habana con una cámara enorme y un maletín lleno de placas,
chasis y bombillos. «Aquello me identificaba como fotógrafo a los ojos
de todos y yo me sentía el hombre más realizado de la tierra». Llegó a
su destino, tomó una sola foto, la que le pidieron, y volvió sobre sus
pasos. Ya en la empresa, el administrador le inquirió acerca de su
trabajo. «La foto está hecha», respondió Corrales. «Bueno, dijo el
hombre, esperemos por Fulano para que la revele». «Ya está revelada»,
repuso Corrales. Dijo el administrador entonces: «Que Zutano la
imprima». «Ya está impresa», comentó Corrales. Así se hizo fotógrafo.
En 1953, luego del ataque al cuartel Moncada, Batista ordenó la
clausura del periódico Hoy, donde Corrales había ido a trabajar como
fotógrafo tras su paso por la Cuba Sono Film. Entonces con Oscar Pino
Santos, uno de los redactores del periódico, formó pareja y
acometieron reportajes que propusieron a Bohemia, pero esa revista a
veces los aceptaba y a veces no, y no comían si los trabajos no
aparecían en sus páginas. La situación cambió cuando Miguel Ángel
Quevedo, director-propietario de Bohemia, compró por dos millones de
pesos la revista Carteles a Alfredo T. Quílez. El narrador Antonio
Ortega, nuevo director de Carteles, llevó a Pino Santos y a Corrales
como colaboradores fijos. Publicarían uno o dos reportajes a la semana
—uno de ellos, con seudónimo— y recibirían 30 pesos por cada uno.
Eran años en los que ya no se podía ejercer el periodismo en Cuba si
no se había cursado estudios en la Escuela Profesional Manuel Márquez
Sterling. Incluso los columnistas debían tener la titulación del
Colegio Nacional de Periodismo. El delegado del Colegio en Carteles,
el célebre cronista deportivo Elio Constantín, le dijo a Ortega que si
Pino Santos y Corrales no pasaban la Escuela Profesional no podrían
seguir ejerciendo la profesión. Ambos se fueron a la Márquez Sterling.
Por cierto, grande fue la sorpresa de Corrales en su primera clase. El
curso llevaba ya días de empezado. Para colmo, Corrales llegó tarde en
su primer día, entró al aula de periodismo gráfico y cuando se
disponía a ocupar su puesto, seguro de que nadie había advertido su
presencia, el profesor lo saludó desde el estrado. «Corrales, ¿qué
hace usted aquí?», inquirió. «Ahora soy su alumno», respondió el
aludido. «Pues siéntese enseguida que la clase de hoy tratará sobre
uno de sus reportajes».
Estaría en la fundación de la ya desaparecida revista Cuba, una de las
experiencias  más interesantes  del periodismo cubano de la
Revolución.
Fue invitado a incorporarse, como fotorreportero, a una comitiva del
Gobierno que, encabezada por Fidel Castro, visitaría la hacienda
Cortina, en la provincia de Pinar del Río. Era un predio de 1 800
caballerías —más de 24 000 hectáreas—, dedicado al fomento de la
ganadería vacuna y caballar, la siembra de tabaco y frutales, y la
extracción de resina de pino, y dotado de un aparato administrativo y
comercial que aseguraba el emporio. En aquellos días de la visita, la
hacienda había sido intervenida por el Instituto Nacional de la
Reforma Agraria (INRA). Fidel recorrió la propiedad, estuvo en la casa
de vivienda y otras instalaciones, admiró las colecciones de obras de
arte que atesoraba, y al final alguien, tal vez el mayordomo, sugirió
que el grupo se quedase a cenar. Se montó una mesa fastuosa. Fidel
tomó asiento y quedó pensativo. Dijo de pronto: «Vámonos». La jornada,
para el jefe de la Revolución y sus acompañantes, terminó en medio de
la noche, acomodados bajo los árboles y comiendo de los enlatados que
llevaban.
Raúl Corrales y el geógrafo Antonio Núñez Jiménez, que ocupaba
entonces una posición principal en el INRA, presentaron a la revista
Bohemia, dirigida todavía por Quevedo, el reportaje sobre la visita de
Fidel a la finca del ex senador José Manuel Cortina. Pasaron 15, 30
días y el reportaje no aparecía publicado. Llamó Fidel a sus autores y
les dijo: «Vamos a publicarlo, y como Bohemia no lo publica, lo
haremos en nuestra propia revista». Añadió: «Tienen quince días para
hacer una revista como esta», y entregó a Núñez Jiménez un ejemplar de
la revista Life. Ese fue el origen de la revista Cuba, que en sus
comienzos llevó el nombre de INRA.

De prisa por la vida


Con posterioridad, Corrales estuvo en el núcleo fundador de la
Academia de Ciencias hasta que pasó a trabajar en la Oficina de
Asuntos Históricos de la Presidencia de la República —hoy, del Consejo
de Estado—. Fotocopió allí, durante 25 años, los papeles que contenían
la historia reciente de Cuba, los documentos de las figuras más
importantes de la Revolución. «Se tuvo en mí una gran confianza y hoy
puedo decir con orgullo que acometí ese trabajo con entusiasmo y total
responsabilidad», dijo en una ocasión. Tomó fotos casi hasta el mismo
momento de su muerte. Falleció en La Habana, el 15 de abril de 2006.
Aparte de El sueño (1959) se cuentan entre las mejores fotos de Raúl
Corrales, las tituladas Las botas del mayoral (1955) y La caballería
(1959), la que capta a un grupo de jinetes cuando penetraba en un
latifundio norteamericano intervenido en virtud de la Ley de Reforma
Agraria. También las de la serie La banda del nuevo ritmo, captadas en
las trincheras durante la Crisis de los cohetes, de octubre 1962. Su
estética era bien simple. Me dijo un día: «Yo nunca tengo la esperanza
de lograr una buena imagen. Sé, y perdone la inmodestia, cuando voy a
lograr una buena imagen. Ella sale porque yo la veo y si la veo es
porque está ahí. La vi y apreté el obturador». Entonces, inquirí:
«¿Cuánto de búsqueda y cuánto de casualidad hay en una buena
fotografía?». Su respuesta fue casi un pistoletazo: «Yo no busco una
buena fotografía; yo veo una buena fotografía». Añadió: «Si volviera a
nacer, sería fotógrafo de nuevo. He andado siempre de prisa por la
vida y, así, elegí lo más rápido: captar imágenes».
        
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/

domenica 26 gennaio 2014

Cozza

COZZA: persona di non eccelsa bellezza

mercoledì 22 gennaio 2014

Cozione

COZIONE: assieme al grande zio (Roma)

Emergenza meteo e geologica in Emilia

Ricevo questa mail sulla grave situazione che si è creata in parte dell'Emilia. Dopo il terremoto anche questo...

http://www.24emilia.com/Sezione.jsp?titolo=Secchia,%2520mille%2520sfollati%2520e%2520un%2520uomo%2520disperso&idSezione=56006

A oggi sono circa 700 le persone assistite in centri, alberghi e strutture protette. Dai centri logistici della Protezione civile a Bologna e Ferrara si sta lavorando, proprio in queste ore, al trasferimento di materiale di pronto intervento idraulico, soprattutto idrovore, nelle aree colpite dall’alluvione per consentire le operazioni di drenaggio delle acque.

Nella giornata di ieri hanno operato sul campo 123 volontari della Protezione civile, e 20 mezzi. Continuano gli interventi dei Vigili del fuoco, in particolare per il recupero delle persone che sono rimaste nelle loro abitazioni, e per fornire loro i generi di prima necessità. Per qualunque esigenza, l’Agenzia regionale di Protezione civile invita i cittadini a chiamare il Centro di coordinamento di Modena, al numero 059 200200.

Dalle 21 di ieri sera è cessato il preallarme per il fiume Reno nei Comuni di Bologna, Argelato, Castello d'Argile, Castel Maggiore, Pieve di Cento, Sala Bolognese, San Giovanni in Persiceto, Calderara di Reno, Casalecchio di Reno e, nel ferrarese, a Cento e Sant'Agostino. Resta attivo il preallarme, nel bolognese, per Baricella, Malalbergo e Galliera, nel ferrarese per Poggio Renatico. Sempre ieri sera, l’Agenzia regionale di Protezione civile ha stabilito il cessato allarme e preallarme per il fiume Enza nei Comuni parmensi di Mezzani e Sorbolo e, per quanto riguarda il reggiano, Gattatico e Brescello. E’ ancora attivo il preallarme per i fiumi Secchia e Panaro. Poiché sono ancora possibili allagamenti e frane, è stata attivata ieri una fase di attenzione per la criticità idraulica e idrogeologica, fino alla mezzanotte del 23 gennaio, per tutti i bacini emiliani.

Con l’attività di coordinamento prevista dall’apposita legge, la Regione sta operando affinché nelle aree modenesi colpite dalla piena ci sia una sufficiente presenza di agenti di polizia locale, anche con l’apporto dalle altre province, grazie alla collaborazione dei Comuni e delle Unioni di tutto il territorio. Nonostante l’impegno dei Comuni colpiti, che con il coordinamento della Città di Modena hanno mobilitato tutti gli uomini disponibili, serve infatti un supporto per garantire i servizi necessari, attingendo agli oltre 4.000 operatori di polizia locale che operano in Emilia-Romagna. Come già avvenuto nei giorni successivi al terremoto 2012 - quando la Regione mobilitò fino a mille agenti - il Servizio politiche per la sicurezza sta lavorando perché il personale messo a disposizione dai comandi di tutta l’Emilia-Romagna possa essere inviato dove c’è necessità, in modo da garantire la sicurezza dei cittadini, della viabilità e le operazioni di controllo.

Ore 12 - Riaperto ponte Alto.
Ore 11 - Ancora centinaia di persone sono bloccate al freddo nelle case a Bastiglia e Bomporto. Dopo il passaggio delle acque molte strade sono state distrutte. Restano chiusi il ponte Alto e ponte dell’Uccellino a Modena sul Secchia, il ponte di Finale Emilia sul Panaro e il ponte vecchio di Navicello. Riaperti il ponte tra Ravarino e Bomporto sulla Sp. 1 e il ponte Motta a Cavezzo.

Il tratto più a nord di via Albareto, che collega la frazione di Modena al comune di Bastiglia, ancora parzialmente sommerso dall’acqua, viene utilizzato da automobilisti privati nonostante la chiusura al traffico temporanea segnalata da cartelli stradali. Il manto di catrame è sollevato in numerosi tratti e alcuni metri di argine sono stati erosi dall’acqua. Il riutilizzo della strada, fanno sapere dal comune di Modena, potrà avvenire solo dopo che i tecnici avranno effettuato gli opportuni controlli sul piano della sicurezza e completato gli interventi di ripristino. Rimangono per il momento chiusi al traffico anche via Munarola, via Dotta e Via Battaglia, tra via Cavo Argine e via del Frassino.
Gli alluvionati sono ora pronti alla class action contro enti locali ed enti pubblici nel caso emergano precise responsabilità all'origine dell'alluvione. Ad annunciare l'azione l'avvocato Massimo Jasonni: "Non sono colpite solo le case, ma anche i circostanti insediamenti industriali, le coltivazioni agricole, gli allevamenti del bestiame. Queste famiglie mi incaricano di collaborare con la magistratura, approfondendo le responsabilità penali, amministrative e civili di un tragico, prevedibile evento che ha cause ben precise in capo agli enti, ai pubblici ufficiali e agli incaricati di un pubblico servizio, che dovevano sovraintendere, e non lo hanno fatto, alla cura del territorio".
Ore 10 - I mezzi anfibi dei vigili del fuoco sono al lavoro per recuperare ancora alcune persone rimaste intrappolate dalla piena, mentre i sommozzatori di polizia e vigili del fuoco sono impegnati nella ricerca di Giuseppe Oberdan Salvioli, il disperso di Bastiglia.
Ore 9 - Dalla falla sull’argine del Secchia esce ormai pochissima acqua, quella che filtra dalla barriera in pietrame completata nella notte tra lunedì 20 e martedì 21 gennaio. I lavori Aipo proseguono per consolidare la barriera rendendola ancora più impermeabile.

Nel modenese rimangono chiusi per gli allagamenti tratti di alcune provinciali, come la Sp. 2 Panaria bassa, la Ss. 12 Canaletto tra Bastiglia e Modena, la Sp. 1 tra Sorbara e Bomporto. A Bastiglia l'acqua è calata, ora in alcune zone si riesce a camminare per le strade. Anche a Bomporto le acque si stanno ritirando e i portoni vinciani sono quasi completamenti aperti.

luca lombroso
www.lombroso.it
luca@lombroso.it

martedì 21 gennaio 2014

Covone

COVONE: grande rifugio di banditi

lunedì 20 gennaio 2014

Cottimo

COTTIMO: assieme all'ottimo (Roma)

55 anni fa (2 e fine) di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 19/1/14

NON si ripeterono nei giorni d’inizio del 1959, 55 anni fa, le scene macabre che l’Isola visse quando cadette la dittatura di Gerardo Machado. Le giornate trascorsero con una minima parte di eccessi. La moltitudine, con istinto sicuro,non si prese la giustizia con le proprie mani, come successe alla caduta del regime machadista e sfogò la sua collera contro i botteghini e i casinò, i parchimetri le macchinette mangiasoldi chiamate anche ladre con un braccio solo. Tiempo en Cuba, il giornale del senatore Rolando Masferrer, capo del gruppo paramilitare conosciuto come Le Tigri, fu saccheggiato così come le sale da gioco di alberghi come il Plaza e il Deauville. Furono rotte a sassate le vetrine  di alcuni esercizi commerciali. Così successe alla gioielleria El Gallo della calle San Rafael, peraltro, nessuno sottrasse alcuna delle gioie in esposizione.
La stampa riportava, uno dopo l’altro, l’apparizione di cimiteri clandestini con i quali, i sicari del batistato, privavano i famigliari delle loro vittime della consolazione di seppellire i loro morti e collocare fiori sulle loro tombe. Otto cadaveri vennero esumati nelle vicinanze di Consolación del Norte (l’attuale municipio di La Palma  occupa parte di quest’antica demarcazione), in provincia di Pínar del Río, mentre altri 15 si scoprivano a San Cristóbal, sempre in territorio pinareño, 57 in Santa Cruz del Norte, all’Avana. I resti di 11 persone si esumarono nel cortile della Guardia Rurale di Niquero, in Oriente; 25 apparvero in una stanza del Servizio Stradale di Manzanillo e 67 nel poligono del fortino dell’Esercito nella località di Estrada Palma, alle pendici della Sierra Maestra.
Solo uno degli sbirri catturati dalle milizie del Movimento 26 di Luglio confessò la sua partecipazione a 108 assassinii. Affermò col maggior cinismo: “Una sera impiccammo 31 contadini che erano d’accordo con la Rivoluzione”. Operava a Pínar del Río ed era agli ordini del comandante Jacinto Menocal. Veniva imprigionata l’accolita di assassini di questo spregevole ufficiale mentre a Manzanillo erano messi a disposizione dei tribunali rivoluzionari gli integranti delle tristemente celebri Tigri e intanto circa 800 persone erano detenute all’Avana. I soprannomi che avevano alcuni di loro manifestavano le loro “specialità”, come l’ufficiale di polizia che chiamavano Rompi Ossa e un’altro che si presentava come el Niño Valdés, come il pugile cubano famoso all’epoca per il suo pugno fuori dal comune e che, durante un allenamento, mise al tappeto Rocky Marciano campione mondiale dei massimi.
Il tentativo di catturare sbirri e spioni provocava disordini e seminava la morte attorno. Vari spioni, rifugiatisi in una casa della calle 70, a Marianao, si batterono a colpi di pistola con i miliziano che erano arrivati per arrestarli, scontro che lasciò morti in ambo le parti.

IL FRATELLO HERMELINDO 

In questa situazione, un personaggio curioso chiese protezione nel campo Libertad, l’antica Città Militare di Columbia, sede dello Stato Maggiore dell’Esercito Ribelle. Era nientemeno che Hermelindo Batista, uno dei fratelli del dittatore. Al crollo del regime batistiano cercò rifugio in una modesta casa del Cerro e la coppia che lo ospitava si recò a Columbia e chiese al Comandante Camilo Cienfuegos, capo dell’Esercito Ribelle, che lo ricevesse. Era una questione di gratitudine, i due figli della coppia erano stati detenuti dalla Polizia e Hermelindo, nonostante la scarsa influenza che aveva, li aveva strappati alla morte.
Camilo acconsentì che il fratello di Batista fosse trasferito al campo. Dispose, per quello, di uno dei suoi aiutanti con corrispondente scorta, nel dubbio che potesse essere una trappola.Non lo fu. Lo trovarono nella stanza più appartata della residenza, vicino a un altare di Santa Barbara. Magro dal viso affilato e pelle scura. Il viso non rasato con lo sguardo umile e la parola incoerente, Hermelindo era il ritratto della confusione e dell’abbandono, la sua presenza al campo suscitava la curiosità di tutti. La camicia semiaperta lasciava vedere una canottiera del Partito Áutentico e mostrava un braccialetto rosso e nero del Movimento 26 di Luglio. Aveva un messale romano e due bastoni verniciati con cui evidenziava la sua devozione a San Lázaro.
A differenza di Panchín, l’altro fratello di Batista che fu sindaco di Marianao e governatore dell’Avana, il dittatore vietò a suo fratello Hermelindo la presenza nella vita sociale, nonostante lo facesse eleggere in due occasioni, come rappresentante alla Camera della provincia di Pínar del Río. A causa della malattia incurabile di cui soffriva, il basso livello culturale e la sua vita sregolata, Martha Fernández, la Prima Dama, gli negò l’entrata al Palazzo. Hermelindo, che non partecipò mai a una sessione del Congresso, si lasciava andare a ogni tipo di eccesso nei bassifondi avaneri.

27 CESTI DI FIORI IN UN GIORNO

Il 10 gennaio, due giorni dopo dell’arrivo all’Avana del Comandante in Capo Fidel Castro, sparirono i gruppi armati dalle strade della capitale e cessò il costante passaggio di automobili irte di fucili e mitraglie. L’impegno pacificatore volse persuasiva l’analisi e la discussione serena dei problemi nazionali. Non si radicò l’anarchia e il cittadino si sentì tranquillo e sicuro. D’altra parte il leader della Rivoluzione allertava sui “rivoluzionari del 1° gennaio” che con la pistola calibro 45 alla cintura e il numero della Gazzetta Ufficiale che conteneva la legge del bilancio sotto il braccio, sembravano voler cominciare a spingere i paraventi negli uffici dei ministri.
Un giorno del gennaio 1959, Haidée Santamaria, eroina del Moncada e la Sierra Maestra a cui, nell’aprile dello stesso anno sarebbe toccato organizzare e presiedere la Casa de Las Américas, ricevette 27 cesti e caraffe di fiori. Il giorno seguente, quando gli omaggi floreali pareva superassero il record del giorno anteriore, Haidée chiamò per telefono una delle fiorerie da cui si inviavano e proibì che continuassero a farlo. Disse al commesso che le rispose: “Faccia mettere i fiori sulla tomba di Enrique Hart o di qualunque altro giovane assassinato durante la dittatura”. Un’altra volta la chiamarono da un giornale. Volevano una sua fotografia. “L’unica che ho, rispose Haidée, fu scattata sulla Sierra, porto un fucile, vesto l’uniforme rebelde e ho due granate alla cintura...Le va bene?” Il suo interlocutore all’altro estremo della linea rimase sbalordito. Alla fine disse: “È per la cronaca sociale, signora. Non potrebbe farsi una foto in uno studio?” Haidée rispose che non aveva tempo per quello.
Non tutti i detetenuti provenivano dalle file dell’Esercito e della Polizia. Si fermavano anche funzionari civili, come Joaquín Martínez Sáenz che convertì il Banco Nacional, che presiedette, nella succursale finanziaria del Palazzo Presidenziale e fu il responsabile numero uno del vandalismo economico del batistato. Lo arrestarono nel suo proprio ufficio del Banco, assieme al suo secondo, lo storico pinareño Emeterio Santovenia. Furono rimessi alla fortezza della Cabaña. Lì, Santovenia lamentò problemi di salute, reali o presunti, e il comandante Ernesto Che Guevara permise che sotto la sua parola, attendesse in casa il corso degli eventi, opportunità che sfruttò per rifugiarsi in un’ambasciata.
L’investigazione che si portò a termine nella sede della Confederazione dei Lavoratori di Cuba (che il popolo rinominò come CTK, per differenziarla dalla CTC) portò subito all’evidenza di affari scandalosi fatti con i soldi degli operai, fondi pensione defalcati e appropriazione di fondi delle quote sindacali obbligatorie. Tenute ed edifici edificati coi soldi e il sudore dei lavoratori. La tenuta di Eusebio Mujal, massimo personaggio della CTK, fu valutata in quattro milioni di pesos. In casa della vedova del brigadier generale Rafael Salas Cañizares, che fu capo della Polizia Nazionale si trovarono, con altri valori, mezzo milione di pesos in buoni al portatore di una compagnia immobiliare.

LA STANZA DEL TESORO

Batista faceva impallidire tutti i suoi seguaci. In Kuquine, la sua tenuta di riposo di 17 cavallerie, racchiusa tra l’Autopista del Mediodía il triangolo di comunicazione stradali che formano la Carretera Central, la carretera tra Cantarranas, l’incrocio del Guatao e la carretera di San Pedro a Punta Brava, rimasero 24 valigie che Batista e sua moglie non raccolsero al momento della loro fuga. All'incirca in 300 mila dollari si calcolarono, press’a poco, gli avori, cristalli, porcellane, vasellame e oggetti d’oro immagazzinati nella cosiddetta Stanza del Tesoro nell’edificio padronale della tenuta, inoltre nella biblioteca era esposto un esemplare de Vie politique et militaires de Napoleón, opera di A.V. Arnault, pubblicata nel 1822 ed anche il cannocchiale che l’imperatore usó a Sant Elena, così come due pistole che appartennero al vincitore di Austerlitz. Si distingueva una vetrina con le decorazioni che Batista ricevette durante la sua vita militare e una nutrita collezione di busti di celebrità dove Gandhi si alternava a Montgomery e Churchill, Stalin col maresciallo Rommel, Benjamin Franklin e Giovanna d’Arco con Dante e Omero; galleria dove non mancava un Batista di marmo con una camicia sportiva aperta.
Il meglio era ancora da vedere. In un ripostiglio, sepolte da una montagna di libri vecchi, c’erano cinque casse di legno dall’apparenza insignificante. Gli ispettori ci misero tre giorni a inventariare il contenuto di quei cassoni. Contenevano 800 gioielli, quasi tutte della moglie del dittatore, valutate due milioni di dollari. Teche d’oro con incrostazioni di brillanti e smeraldi, polvere d’oro, le armi delle nozze di Batista e Martha effettuate nella cappella della tenuta il 24 dicembre del 1948. L’indio era stato il simbolo del Governo di Batista. Ebbene tra quelle gioie c’era una spilla d’oro puro con l’effige di un indio con l’adorno del  pennacchio sulla sua testa con brillanti e pietre preziose. Con tutto ciò, questa non era che una piccola parte della fortuna del dittatore. Le cose di maggior valore, disse una impiegata della casa, era già da tempo a New York.

ATTENTATI

Alcuni dei primi attentati, pianificati contro la vita del Comandante in Capo, vennero alla luce precocemente come nel proprio mese di gennaio del 1959, 55 anni fa. Un soldato dell’esercito sconfitto, arrestato al Cobre, confessò che con altri militari si stava preparando un piano contro Fidel e per sconfiggere il Governo. Mescolato coi pellegrini che andavano al santuario, attendeva l’occasione per attaccare una macchina della Polizia e impadronirsi del suo armamento. Una granata che aveva con sé lo tradì esplodendo.

In quei giorni iniziali venne arrestato Allan Roberts Nye, un nordamericano di 32 anni. Pagato dalla dittatura, che gli offrì dieci mila dollari per la sua missione, salì sulla Sierra Maestra col pretesto di offrire ai ribelli la sua esperienza di pilota. Erano altri i fini che perseguiva. Non vide mai il Comandante in Capo. Fu catturato in montagna quando già Fidel si trovava da giorni all’Avana. Gli sequestrarono un fucile con mirino telescopico, un revolver 38 e un abbondante quantità di munizioni. Il Capo della Rivoluzione mise Nye nelle mani di sua madre, gli chiese che lo portasse via da Cuba e che non tornasse più.

Cincuenta y cinco años atrás (II y final)

Ciro Bianchi Ross • 
digital@juventudrebelde.cu
18 de Enero del 2014 19:54:02 CDT

No se repitieron en los días iniciales de enero de 1959, hace ahora 55
años, las escenas macabras que vivió la Isla a la caída de la
dictadura de Gerardo Machado. Las jornadas transcurrieron con una
cuota mínima de excesos. La muchedumbre, con certero instinto, no se
tomó la justicia por su mano, como sí sucedió tras el desplome del
régimen machadista, y desahogó su cólera contra los garitos y casinos
de juego, los parquímetros y las máquinas traganíqueles, llamadas
también ladronas de un solo brazo. Tiempo en Cuba, el periódico del
senador Rolando Masferrer, jefe del grupo paramilitar conocido como
Los Tigres, fue saqueado, al igual que las salas de juego de hoteles
como Plaza y Deauville. A pedradas fueron destrozadas las vidrieras de
algunos establecimientos comerciales. Así ocurrió en la joyería El
Gallo, de la calle San Rafael, sin embargo, nadie sustrajo ninguna de
las alhajas en exhibición.
La prensa reportaba la aparición, uno tras otro, de cementerios
clandestinos con los que los sicarios del batistato privaban a los
familiares de sus víctimas del consuelo de sepultar a sus muertos y
colocar flores sobre su tumba. Ocho cadáveres eran exhumados en las
cercanías de Consolación del Norte (el actual municipio de La Palma
ocupa parte de esa antigua demarcación), en la provincia de Pinar del
Río, mientras otros 15 se descubrían en San Cristóbal, también en
territorio pinareño, y 57 en Santa Cruz del Norte, en La Habana.
Restos de 11 personas se exhumaban en el patio del cuartel de la
Guardia Rural de Niquero, en Oriente; 25 aparecían en el cuartel del
Servicio de Carreteras de Manzanillo y 67 en el polígono del fortín
del Ejército en la localidad de Estrada Palma, en las estribaciones de
la Sierra Maestra.
Uno solo de los esbirros capturados por las milicias del Movimiento 26
de Julio confesó su participación en 108 asesinatos. Aseveró con el
mayor cinismo: «Una noche ahorcamos a 31 campesinos que estaban de
acuerdo con la Revolución». Operaba en Pinar del Río y estaba a las
órdenes del comandante Jacinto Menocal. Era apresada la gavilla de
asesinos de este despreciable oficial, y en Manzanillo eran puestos a
disposición de los tribunales revolucionarios integrantes de los
tristemente célebres Tigres, en tanto que unas 800 personas, entre
culpables y sospechosas, eran detenidas en la Habana. Los apodos que
merecían algunas de ellas ponían de manifiesto sus «especialidades»,
como el oficial de la Policía al que llamaban Rompe Huesos, y otro,
que se presentaba como el Niño Valdés, al igual que un boxeador cubano
famoso en la época por su pegada descomunal y que, durante un
entrenamiento, llegó a tirar a la lona a Rocky Marciano, campeón
mundial de los pesos completos.
El intento de capturar esbirros y soplones provocaba desórdenes y
sembraba la muerte a voleo. Varios chivatos, refugiados en una casa de
la calle 70, en Marianao, se batieron a tiros durante casi cinco horas
con los milicianos que llegaron para apresarlos, refriega que dejó
muertos de parte y parte.

El hermano Hermelindo

En esa situación, un curioso personaje pedía protección en el

campamento Libertad, la antigua Ciudad Militar de Columbia, sede del
Estado Mayor del Ejército Rebelde. Era nada menos que Hermelindo
Batista, uno de los hermanos del dictador. Al desplomarse el régimen
batistiano buscó refugio en una modesta casa del Cerro y el matrimonio
que la ocupaba fue a Columbia y pidió al comandante Camilo Cienfuegos,
jefe del Ejército Rebelde, que lo recibiera. Era una cuestión de
agradecimiento. Los dos hijos de la pareja habían sido detenidos por
la Policía y Hermelindo, pese a lo escaso de su influencia, se los
había arrebatado a la muerte.
Accedió Camilo a que el hermano de Batista fuera trasladado al
campamento. Comisionó para ello a uno de sus ayudantes con su
correspondiente escolta, no sin apercibirlos de que podía tratarse de
una trampa. No lo fue. Lo encontraron en la habitación más apartada de
la residencia, junto a un altar de Santa Bárbara. Flaco, de rostro
afilado y tez oscura, sin afeitar, con la mirada humilde y palabra
incoherente, Hermelindo era la estampa de la confusión y el desamparo,
y su presencia en el campamento despertó la curiosidad de todos. La
camisa entreabierta dejaba ver una camiseta del Partido Auténtico y
lucía un brazalete rojinegro del Movimiento 26 de Julio. Portaba un
misal romano y dos cañas barnizadas con las que evidenciaba su
devoción por San Lázaro.
A diferencia de Panchín, el otro hermano de Batista, que fue alcalde
de Marianao y gobernador de La Habana, el dictador vedó a Hermelindo
presencia en la vida social, si bien lo hizo elegir en dos ocasiones
representante a la Cámara por la provincia de Pinar del Río. A causa
de la enfermedad incurable que padecía, el bajo nivel cultural y su
vida desenfrenada, Martha Fernández, la Primera Dama, le negó la
entrada a Palacio. Hermelindo, que nunca concurrió a una sesión del
Congreso, se entregaba a todo tipo de excesos en los barrios bajos
habaneros.
«Rogando pasaba el tiempo para que se acabara la sangre en Cuba»,
declaró, ya en Columbia, el hermano de Batista. Dijo simpatizar con
los «valientes revolucionarios» e invitó a los que lo rodeaban a que
visitasen el altar de santería que tenía en su casa. Temblaba como una
hoja. Un oficial rebelde le dijo: «No tenga miedo. Está entre personas
decentes y nada ha de pasarle». Camilo Cienfuegos no demoró en
devolverlo a su casa con escolta policial y todas las garantías.

27 corsages en un día

El 10 de enero, dos días después de la llegada a La Habana del
Comandante en Jefe Fidel Castro, desaparecieron los grupos armados de
las calles de la capital y cesó el constante ajetreo de los
automóviles erizados de fusiles y ametralladoras. El empeño
pacificador se impuso por la persuasión, el análisis y la discusión
serena de los problemas nacionales. No enraizó la anarquía y el
ciudadano se sintió tranquilo y seguro. Por otra parte, el líder de la
Revolución advertía sobre «los revolucionarios del 1ro. de enero» que,
con pistola calibre 45 al cinto y el número de la Gaceta Oficial que
contenía la ley de presupuesto bajo el brazo, parecían querer empezar
a empujar las mamparas de los despachos de los ministros.
Un día de enero de 1959, Haydée Santamaría, heroína del Moncada y la
Sierra Maestra a la que, en abril del propio año, le tocaría organizar
y presidir la Casa de las Américas, recibió 27 corsages y jarras de
flores. Al día siguiente, cuando la florida remesa parecía que
superaría la marca de la jornada precedente, Haydée se comunicó por
teléfono con una de las floristerías desde donde se enviaban y
prohibió que siguieran haciéndolo. Dijo al empleado que la atendió:
«Haga poner las flores en la tumba de Enrique Hart o en la de
cualquier otro joven asesinado durante la dictadura». Otra vez la
llamaron de un periódico. Querían su fotografía. «La única que tengo,
respondió Haydée, fue tomada en la Sierra, porto un fusil, visto el
uniforme rebelde y llevo dos granadas al cinto… ¿Le sirve?». Su
interlocutor, en la otra punta del teléfono, quedó estupefacto. Dijo
al fin: «Es para la crónica social, señora. ¿No podría hacerse la foto
en un estudio?». Haydée respondió que carecía de tiempo para eso.
No todos los detenidos provenían de las filas del Ejército y la
Policía. Se requería asimismo a funcionarios civiles, como a Joaquín
Martínez Sáenz que convirtió el Banco Nacional, que presidió, en la
sucursal financiera del Palacio Presidencial y fue el responsable
número uno del vandalismo económico del batistato. Lo apresaron en su
propia oficina del Banco, junto a su segundo, el historiador pinareño
Emeterio Santovenia. Fueron remitidos a la fortaleza de La Cabaña.
Allí, Santovenia alegó problemas de salud, reales o supuestos, y el
comandante Ernesto Che Guevara permitió que, bajo palabra, esperara en
su residencia el curso de los acontecimientos, oportunidad que
aprovechó para refugiarse en una Embajada.
La investigación que se llevó a cabo en la sede de la Confederación de
Trabajadores de Cuba (que el pueblo renombró como CTK, para
diferenciarla de la CTC) sacó pronto a relucir negocios escandalosos
hechos con los fondos de los obreros, cajas de retiro desfalcadas y
apropiación de las recaudaciones de la cuota sindical obligatoria.
Fincas y edificios levantados con la sangre y el sudor del trabajador.
La finca de Eusebio Mujal, máximo personero de la CTK, se valoró en
cuatro millones de pesos. En la casa de la viuda del brigadier general
Rafael Salas Cañizares, que fuera jefe de la Policía Nacional, se
encontraron, entre otros valores, medio millón de pesos en bonos al
portador de una compañía inmobiliaria.

El cuarto de los tesoros

Batista dejaría chiquitos a todos sus seguidores. En Kuquine, su finca

de recreo de 17 caballerías, enclavada al borde de la Autopista del
Mediodía y encerrada en el triángulo de comunicaciones viales que
forman la carretera Central, la carretera entre Cantarranas y el
entronque del Guatao y la carretera de San Pedro a Punta Brava,
quedaron 24 maletas que Batista y su esposa no cargaron en el momento
de la huida. En 300 000 dólares se calculó, a ojo de buen cubero, los
marfiles, cristales, porcelanas, platería y objetos de oro almacenados
en el llamado Cuarto de los Tesoros de la casa de vivienda de la
finca, en tanto que en un lugar destacado de la biblioteca se exhibía
un ejemplar de Vie Politique et Militaires de Napoleón, obra de A. V.
Arnault, publicada en 1822, y también el catalejo que usó el Emperador
en Santa Elena, así como dos pistolas que pertenecieron al vencedor de
Austerlitz. Sobresalía una vitrina con las condecoraciones que Batista
recibió a lo largo de su vida militar y una abigarrada colección de
bustos de celebridades en las que Ghandi alternaba con Montgomery y
Churchill, Stalin con el mariscal Rommell y Benjamín Franklin, y Juana
de Arco con Dante y Homero; galería en la que no faltaba un Batista de
mármol en abierta camisa deportiva.
Lo mejor estaba aún por ver. En un cuarto de desahogo, sepultadas por
una montaña de libros viejos, había cinco cajas de madera y apariencia
insignificante. Los auditores demoraron tres días en inventariar el
contenido de aquellos cajones. Guardaban 800 joyas, casi todas de la
esposa del dictador, valoradas en dos millones de dólares. Relicarios
de oro con incrustaciones de brillantes, abanicos de marfil, broches
de brillantes y esmeraldas, polveras de oro, las arras de la boda de
Batista y Martha efectuada en la capilla de la finca el 24 de
diciembre de 1948. El indio había sido el símbolo del Gobierno de
Batista. Pues entre esas alhajas había una sortija de oro puro con la
efigie de un indio que adorna el penacho de su cabeza con brillantes y
otras piedras preciosas. Con todo, esto no era más que una pequeña
parte de la fortuna del dictador. Aquello, sin embargo, no era lo
mejor. Lo más valioso, dijo una empleada de la casa, llevaba ya mucho
rato en Nueva York.

Atentados

Algunos de los primeros atentados planificados contra la vida del

Comandante en Jefe quedaron en claro en fecha tan temprana como el mes
de enero de 1959, hace 55 años. Un soldado del Ejército derrotado,
detenido en El Cobre, confesó que con otros ex militares se gestaba un
plan contra Fidel y para derrocar al Gobierno. Mezclado con los
peregrinos que se dirigían al santuario, acechaba la ocasión para
atacar un carro patrullero y apoderarse de su armamento. Una granada
que portaba lo delató al hacer explosión.
También en aquellos días iniciales era detenido Allan Roberts Nye, un
norteamericano de 32 años de edad. Pagado por la dictadura, que le
ofreció diez mil dólares por su misión, subió a la Sierra Maestra con
el pretexto de ofrecer a los rebeldes su experiencia de piloto. Eran
otros los fines que perseguía. Nunca vio al Comandante en Jefe. Fue
capturado en la montaña cuando ya Fidel llevaba semanas en La Habana.
Le ocuparon un rifle de mira telescópica, un revólver 38 y abundante
parque. El Jefe de la Revolución puso a Nye en manos de su madre y le
pidió que lo sacara de Cuba y nunca más regresara.
   

domenica 19 gennaio 2014

Cottimista

COTTIMISTA: assieme all'ottimista (Roma)