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lunedì 20 gennaio 2014

55 anni fa (2 e fine) di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 19/1/14

NON si ripeterono nei giorni d’inizio del 1959, 55 anni fa, le scene macabre che l’Isola visse quando cadette la dittatura di Gerardo Machado. Le giornate trascorsero con una minima parte di eccessi. La moltitudine, con istinto sicuro,non si prese la giustizia con le proprie mani, come successe alla caduta del regime machadista e sfogò la sua collera contro i botteghini e i casinò, i parchimetri le macchinette mangiasoldi chiamate anche ladre con un braccio solo. Tiempo en Cuba, il giornale del senatore Rolando Masferrer, capo del gruppo paramilitare conosciuto come Le Tigri, fu saccheggiato così come le sale da gioco di alberghi come il Plaza e il Deauville. Furono rotte a sassate le vetrine  di alcuni esercizi commerciali. Così successe alla gioielleria El Gallo della calle San Rafael, peraltro, nessuno sottrasse alcuna delle gioie in esposizione.
La stampa riportava, uno dopo l’altro, l’apparizione di cimiteri clandestini con i quali, i sicari del batistato, privavano i famigliari delle loro vittime della consolazione di seppellire i loro morti e collocare fiori sulle loro tombe. Otto cadaveri vennero esumati nelle vicinanze di Consolación del Norte (l’attuale municipio di La Palma  occupa parte di quest’antica demarcazione), in provincia di Pínar del Río, mentre altri 15 si scoprivano a San Cristóbal, sempre in territorio pinareño, 57 in Santa Cruz del Norte, all’Avana. I resti di 11 persone si esumarono nel cortile della Guardia Rurale di Niquero, in Oriente; 25 apparvero in una stanza del Servizio Stradale di Manzanillo e 67 nel poligono del fortino dell’Esercito nella località di Estrada Palma, alle pendici della Sierra Maestra.
Solo uno degli sbirri catturati dalle milizie del Movimento 26 di Luglio confessò la sua partecipazione a 108 assassinii. Affermò col maggior cinismo: “Una sera impiccammo 31 contadini che erano d’accordo con la Rivoluzione”. Operava a Pínar del Río ed era agli ordini del comandante Jacinto Menocal. Veniva imprigionata l’accolita di assassini di questo spregevole ufficiale mentre a Manzanillo erano messi a disposizione dei tribunali rivoluzionari gli integranti delle tristemente celebri Tigri e intanto circa 800 persone erano detenute all’Avana. I soprannomi che avevano alcuni di loro manifestavano le loro “specialità”, come l’ufficiale di polizia che chiamavano Rompi Ossa e un’altro che si presentava come el Niño Valdés, come il pugile cubano famoso all’epoca per il suo pugno fuori dal comune e che, durante un allenamento, mise al tappeto Rocky Marciano campione mondiale dei massimi.
Il tentativo di catturare sbirri e spioni provocava disordini e seminava la morte attorno. Vari spioni, rifugiatisi in una casa della calle 70, a Marianao, si batterono a colpi di pistola con i miliziano che erano arrivati per arrestarli, scontro che lasciò morti in ambo le parti.

IL FRATELLO HERMELINDO 

In questa situazione, un personaggio curioso chiese protezione nel campo Libertad, l’antica Città Militare di Columbia, sede dello Stato Maggiore dell’Esercito Ribelle. Era nientemeno che Hermelindo Batista, uno dei fratelli del dittatore. Al crollo del regime batistiano cercò rifugio in una modesta casa del Cerro e la coppia che lo ospitava si recò a Columbia e chiese al Comandante Camilo Cienfuegos, capo dell’Esercito Ribelle, che lo ricevesse. Era una questione di gratitudine, i due figli della coppia erano stati detenuti dalla Polizia e Hermelindo, nonostante la scarsa influenza che aveva, li aveva strappati alla morte.
Camilo acconsentì che il fratello di Batista fosse trasferito al campo. Dispose, per quello, di uno dei suoi aiutanti con corrispondente scorta, nel dubbio che potesse essere una trappola.Non lo fu. Lo trovarono nella stanza più appartata della residenza, vicino a un altare di Santa Barbara. Magro dal viso affilato e pelle scura. Il viso non rasato con lo sguardo umile e la parola incoerente, Hermelindo era il ritratto della confusione e dell’abbandono, la sua presenza al campo suscitava la curiosità di tutti. La camicia semiaperta lasciava vedere una canottiera del Partito Áutentico e mostrava un braccialetto rosso e nero del Movimento 26 di Luglio. Aveva un messale romano e due bastoni verniciati con cui evidenziava la sua devozione a San Lázaro.
A differenza di Panchín, l’altro fratello di Batista che fu sindaco di Marianao e governatore dell’Avana, il dittatore vietò a suo fratello Hermelindo la presenza nella vita sociale, nonostante lo facesse eleggere in due occasioni, come rappresentante alla Camera della provincia di Pínar del Río. A causa della malattia incurabile di cui soffriva, il basso livello culturale e la sua vita sregolata, Martha Fernández, la Prima Dama, gli negò l’entrata al Palazzo. Hermelindo, che non partecipò mai a una sessione del Congresso, si lasciava andare a ogni tipo di eccesso nei bassifondi avaneri.

27 CESTI DI FIORI IN UN GIORNO

Il 10 gennaio, due giorni dopo dell’arrivo all’Avana del Comandante in Capo Fidel Castro, sparirono i gruppi armati dalle strade della capitale e cessò il costante passaggio di automobili irte di fucili e mitraglie. L’impegno pacificatore volse persuasiva l’analisi e la discussione serena dei problemi nazionali. Non si radicò l’anarchia e il cittadino si sentì tranquillo e sicuro. D’altra parte il leader della Rivoluzione allertava sui “rivoluzionari del 1° gennaio” che con la pistola calibro 45 alla cintura e il numero della Gazzetta Ufficiale che conteneva la legge del bilancio sotto il braccio, sembravano voler cominciare a spingere i paraventi negli uffici dei ministri.
Un giorno del gennaio 1959, Haidée Santamaria, eroina del Moncada e la Sierra Maestra a cui, nell’aprile dello stesso anno sarebbe toccato organizzare e presiedere la Casa de Las Américas, ricevette 27 cesti e caraffe di fiori. Il giorno seguente, quando gli omaggi floreali pareva superassero il record del giorno anteriore, Haidée chiamò per telefono una delle fiorerie da cui si inviavano e proibì che continuassero a farlo. Disse al commesso che le rispose: “Faccia mettere i fiori sulla tomba di Enrique Hart o di qualunque altro giovane assassinato durante la dittatura”. Un’altra volta la chiamarono da un giornale. Volevano una sua fotografia. “L’unica che ho, rispose Haidée, fu scattata sulla Sierra, porto un fucile, vesto l’uniforme rebelde e ho due granate alla cintura...Le va bene?” Il suo interlocutore all’altro estremo della linea rimase sbalordito. Alla fine disse: “È per la cronaca sociale, signora. Non potrebbe farsi una foto in uno studio?” Haidée rispose che non aveva tempo per quello.
Non tutti i detetenuti provenivano dalle file dell’Esercito e della Polizia. Si fermavano anche funzionari civili, come Joaquín Martínez Sáenz che convertì il Banco Nacional, che presiedette, nella succursale finanziaria del Palazzo Presidenziale e fu il responsabile numero uno del vandalismo economico del batistato. Lo arrestarono nel suo proprio ufficio del Banco, assieme al suo secondo, lo storico pinareño Emeterio Santovenia. Furono rimessi alla fortezza della Cabaña. Lì, Santovenia lamentò problemi di salute, reali o presunti, e il comandante Ernesto Che Guevara permise che sotto la sua parola, attendesse in casa il corso degli eventi, opportunità che sfruttò per rifugiarsi in un’ambasciata.
L’investigazione che si portò a termine nella sede della Confederazione dei Lavoratori di Cuba (che il popolo rinominò come CTK, per differenziarla dalla CTC) portò subito all’evidenza di affari scandalosi fatti con i soldi degli operai, fondi pensione defalcati e appropriazione di fondi delle quote sindacali obbligatorie. Tenute ed edifici edificati coi soldi e il sudore dei lavoratori. La tenuta di Eusebio Mujal, massimo personaggio della CTK, fu valutata in quattro milioni di pesos. In casa della vedova del brigadier generale Rafael Salas Cañizares, che fu capo della Polizia Nazionale si trovarono, con altri valori, mezzo milione di pesos in buoni al portatore di una compagnia immobiliare.

LA STANZA DEL TESORO

Batista faceva impallidire tutti i suoi seguaci. In Kuquine, la sua tenuta di riposo di 17 cavallerie, racchiusa tra l’Autopista del Mediodía il triangolo di comunicazione stradali che formano la Carretera Central, la carretera tra Cantarranas, l’incrocio del Guatao e la carretera di San Pedro a Punta Brava, rimasero 24 valigie che Batista e sua moglie non raccolsero al momento della loro fuga. All'incirca in 300 mila dollari si calcolarono, press’a poco, gli avori, cristalli, porcellane, vasellame e oggetti d’oro immagazzinati nella cosiddetta Stanza del Tesoro nell’edificio padronale della tenuta, inoltre nella biblioteca era esposto un esemplare de Vie politique et militaires de Napoleón, opera di A.V. Arnault, pubblicata nel 1822 ed anche il cannocchiale che l’imperatore usó a Sant Elena, così come due pistole che appartennero al vincitore di Austerlitz. Si distingueva una vetrina con le decorazioni che Batista ricevette durante la sua vita militare e una nutrita collezione di busti di celebrità dove Gandhi si alternava a Montgomery e Churchill, Stalin col maresciallo Rommel, Benjamin Franklin e Giovanna d’Arco con Dante e Omero; galleria dove non mancava un Batista di marmo con una camicia sportiva aperta.
Il meglio era ancora da vedere. In un ripostiglio, sepolte da una montagna di libri vecchi, c’erano cinque casse di legno dall’apparenza insignificante. Gli ispettori ci misero tre giorni a inventariare il contenuto di quei cassoni. Contenevano 800 gioielli, quasi tutte della moglie del dittatore, valutate due milioni di dollari. Teche d’oro con incrostazioni di brillanti e smeraldi, polvere d’oro, le armi delle nozze di Batista e Martha effettuate nella cappella della tenuta il 24 dicembre del 1948. L’indio era stato il simbolo del Governo di Batista. Ebbene tra quelle gioie c’era una spilla d’oro puro con l’effige di un indio con l’adorno del  pennacchio sulla sua testa con brillanti e pietre preziose. Con tutto ciò, questa non era che una piccola parte della fortuna del dittatore. Le cose di maggior valore, disse una impiegata della casa, era già da tempo a New York.

ATTENTATI

Alcuni dei primi attentati, pianificati contro la vita del Comandante in Capo, vennero alla luce precocemente come nel proprio mese di gennaio del 1959, 55 anni fa. Un soldato dell’esercito sconfitto, arrestato al Cobre, confessò che con altri militari si stava preparando un piano contro Fidel e per sconfiggere il Governo. Mescolato coi pellegrini che andavano al santuario, attendeva l’occasione per attaccare una macchina della Polizia e impadronirsi del suo armamento. Una granata che aveva con sé lo tradì esplodendo.

In quei giorni iniziali venne arrestato Allan Roberts Nye, un nordamericano di 32 anni. Pagato dalla dittatura, che gli offrì dieci mila dollari per la sua missione, salì sulla Sierra Maestra col pretesto di offrire ai ribelli la sua esperienza di pilota. Erano altri i fini che perseguiva. Non vide mai il Comandante in Capo. Fu catturato in montagna quando già Fidel si trovava da giorni all’Avana. Gli sequestrarono un fucile con mirino telescopico, un revolver 38 e un abbondante quantità di munizioni. Il Capo della Rivoluzione mise Nye nelle mani di sua madre, gli chiese che lo portasse via da Cuba e che non tornasse più.

Cincuenta y cinco años atrás (II y final)

Ciro Bianchi Ross • 
digital@juventudrebelde.cu
18 de Enero del 2014 19:54:02 CDT

No se repitieron en los días iniciales de enero de 1959, hace ahora 55
años, las escenas macabras que vivió la Isla a la caída de la
dictadura de Gerardo Machado. Las jornadas transcurrieron con una
cuota mínima de excesos. La muchedumbre, con certero instinto, no se
tomó la justicia por su mano, como sí sucedió tras el desplome del
régimen machadista, y desahogó su cólera contra los garitos y casinos
de juego, los parquímetros y las máquinas traganíqueles, llamadas
también ladronas de un solo brazo. Tiempo en Cuba, el periódico del
senador Rolando Masferrer, jefe del grupo paramilitar conocido como
Los Tigres, fue saqueado, al igual que las salas de juego de hoteles
como Plaza y Deauville. A pedradas fueron destrozadas las vidrieras de
algunos establecimientos comerciales. Así ocurrió en la joyería El
Gallo, de la calle San Rafael, sin embargo, nadie sustrajo ninguna de
las alhajas en exhibición.
La prensa reportaba la aparición, uno tras otro, de cementerios
clandestinos con los que los sicarios del batistato privaban a los
familiares de sus víctimas del consuelo de sepultar a sus muertos y
colocar flores sobre su tumba. Ocho cadáveres eran exhumados en las
cercanías de Consolación del Norte (el actual municipio de La Palma
ocupa parte de esa antigua demarcación), en la provincia de Pinar del
Río, mientras otros 15 se descubrían en San Cristóbal, también en
territorio pinareño, y 57 en Santa Cruz del Norte, en La Habana.
Restos de 11 personas se exhumaban en el patio del cuartel de la
Guardia Rural de Niquero, en Oriente; 25 aparecían en el cuartel del
Servicio de Carreteras de Manzanillo y 67 en el polígono del fortín
del Ejército en la localidad de Estrada Palma, en las estribaciones de
la Sierra Maestra.
Uno solo de los esbirros capturados por las milicias del Movimiento 26
de Julio confesó su participación en 108 asesinatos. Aseveró con el
mayor cinismo: «Una noche ahorcamos a 31 campesinos que estaban de
acuerdo con la Revolución». Operaba en Pinar del Río y estaba a las
órdenes del comandante Jacinto Menocal. Era apresada la gavilla de
asesinos de este despreciable oficial, y en Manzanillo eran puestos a
disposición de los tribunales revolucionarios integrantes de los
tristemente célebres Tigres, en tanto que unas 800 personas, entre
culpables y sospechosas, eran detenidas en la Habana. Los apodos que
merecían algunas de ellas ponían de manifiesto sus «especialidades»,
como el oficial de la Policía al que llamaban Rompe Huesos, y otro,
que se presentaba como el Niño Valdés, al igual que un boxeador cubano
famoso en la época por su pegada descomunal y que, durante un
entrenamiento, llegó a tirar a la lona a Rocky Marciano, campeón
mundial de los pesos completos.
El intento de capturar esbirros y soplones provocaba desórdenes y
sembraba la muerte a voleo. Varios chivatos, refugiados en una casa de
la calle 70, en Marianao, se batieron a tiros durante casi cinco horas
con los milicianos que llegaron para apresarlos, refriega que dejó
muertos de parte y parte.

El hermano Hermelindo

En esa situación, un curioso personaje pedía protección en el

campamento Libertad, la antigua Ciudad Militar de Columbia, sede del
Estado Mayor del Ejército Rebelde. Era nada menos que Hermelindo
Batista, uno de los hermanos del dictador. Al desplomarse el régimen
batistiano buscó refugio en una modesta casa del Cerro y el matrimonio
que la ocupaba fue a Columbia y pidió al comandante Camilo Cienfuegos,
jefe del Ejército Rebelde, que lo recibiera. Era una cuestión de
agradecimiento. Los dos hijos de la pareja habían sido detenidos por
la Policía y Hermelindo, pese a lo escaso de su influencia, se los
había arrebatado a la muerte.
Accedió Camilo a que el hermano de Batista fuera trasladado al
campamento. Comisionó para ello a uno de sus ayudantes con su
correspondiente escolta, no sin apercibirlos de que podía tratarse de
una trampa. No lo fue. Lo encontraron en la habitación más apartada de
la residencia, junto a un altar de Santa Bárbara. Flaco, de rostro
afilado y tez oscura, sin afeitar, con la mirada humilde y palabra
incoherente, Hermelindo era la estampa de la confusión y el desamparo,
y su presencia en el campamento despertó la curiosidad de todos. La
camisa entreabierta dejaba ver una camiseta del Partido Auténtico y
lucía un brazalete rojinegro del Movimiento 26 de Julio. Portaba un
misal romano y dos cañas barnizadas con las que evidenciaba su
devoción por San Lázaro.
A diferencia de Panchín, el otro hermano de Batista, que fue alcalde
de Marianao y gobernador de La Habana, el dictador vedó a Hermelindo
presencia en la vida social, si bien lo hizo elegir en dos ocasiones
representante a la Cámara por la provincia de Pinar del Río. A causa
de la enfermedad incurable que padecía, el bajo nivel cultural y su
vida desenfrenada, Martha Fernández, la Primera Dama, le negó la
entrada a Palacio. Hermelindo, que nunca concurrió a una sesión del
Congreso, se entregaba a todo tipo de excesos en los barrios bajos
habaneros.
«Rogando pasaba el tiempo para que se acabara la sangre en Cuba»,
declaró, ya en Columbia, el hermano de Batista. Dijo simpatizar con
los «valientes revolucionarios» e invitó a los que lo rodeaban a que
visitasen el altar de santería que tenía en su casa. Temblaba como una
hoja. Un oficial rebelde le dijo: «No tenga miedo. Está entre personas
decentes y nada ha de pasarle». Camilo Cienfuegos no demoró en
devolverlo a su casa con escolta policial y todas las garantías.

27 corsages en un día

El 10 de enero, dos días después de la llegada a La Habana del
Comandante en Jefe Fidel Castro, desaparecieron los grupos armados de
las calles de la capital y cesó el constante ajetreo de los
automóviles erizados de fusiles y ametralladoras. El empeño
pacificador se impuso por la persuasión, el análisis y la discusión
serena de los problemas nacionales. No enraizó la anarquía y el
ciudadano se sintió tranquilo y seguro. Por otra parte, el líder de la
Revolución advertía sobre «los revolucionarios del 1ro. de enero» que,
con pistola calibre 45 al cinto y el número de la Gaceta Oficial que
contenía la ley de presupuesto bajo el brazo, parecían querer empezar
a empujar las mamparas de los despachos de los ministros.
Un día de enero de 1959, Haydée Santamaría, heroína del Moncada y la
Sierra Maestra a la que, en abril del propio año, le tocaría organizar
y presidir la Casa de las Américas, recibió 27 corsages y jarras de
flores. Al día siguiente, cuando la florida remesa parecía que
superaría la marca de la jornada precedente, Haydée se comunicó por
teléfono con una de las floristerías desde donde se enviaban y
prohibió que siguieran haciéndolo. Dijo al empleado que la atendió:
«Haga poner las flores en la tumba de Enrique Hart o en la de
cualquier otro joven asesinado durante la dictadura». Otra vez la
llamaron de un periódico. Querían su fotografía. «La única que tengo,
respondió Haydée, fue tomada en la Sierra, porto un fusil, visto el
uniforme rebelde y llevo dos granadas al cinto… ¿Le sirve?». Su
interlocutor, en la otra punta del teléfono, quedó estupefacto. Dijo
al fin: «Es para la crónica social, señora. ¿No podría hacerse la foto
en un estudio?». Haydée respondió que carecía de tiempo para eso.
No todos los detenidos provenían de las filas del Ejército y la
Policía. Se requería asimismo a funcionarios civiles, como a Joaquín
Martínez Sáenz que convirtió el Banco Nacional, que presidió, en la
sucursal financiera del Palacio Presidencial y fue el responsable
número uno del vandalismo económico del batistato. Lo apresaron en su
propia oficina del Banco, junto a su segundo, el historiador pinareño
Emeterio Santovenia. Fueron remitidos a la fortaleza de La Cabaña.
Allí, Santovenia alegó problemas de salud, reales o supuestos, y el
comandante Ernesto Che Guevara permitió que, bajo palabra, esperara en
su residencia el curso de los acontecimientos, oportunidad que
aprovechó para refugiarse en una Embajada.
La investigación que se llevó a cabo en la sede de la Confederación de
Trabajadores de Cuba (que el pueblo renombró como CTK, para
diferenciarla de la CTC) sacó pronto a relucir negocios escandalosos
hechos con los fondos de los obreros, cajas de retiro desfalcadas y
apropiación de las recaudaciones de la cuota sindical obligatoria.
Fincas y edificios levantados con la sangre y el sudor del trabajador.
La finca de Eusebio Mujal, máximo personero de la CTK, se valoró en
cuatro millones de pesos. En la casa de la viuda del brigadier general
Rafael Salas Cañizares, que fuera jefe de la Policía Nacional, se
encontraron, entre otros valores, medio millón de pesos en bonos al
portador de una compañía inmobiliaria.

El cuarto de los tesoros

Batista dejaría chiquitos a todos sus seguidores. En Kuquine, su finca

de recreo de 17 caballerías, enclavada al borde de la Autopista del
Mediodía y encerrada en el triángulo de comunicaciones viales que
forman la carretera Central, la carretera entre Cantarranas y el
entronque del Guatao y la carretera de San Pedro a Punta Brava,
quedaron 24 maletas que Batista y su esposa no cargaron en el momento
de la huida. En 300 000 dólares se calculó, a ojo de buen cubero, los
marfiles, cristales, porcelanas, platería y objetos de oro almacenados
en el llamado Cuarto de los Tesoros de la casa de vivienda de la
finca, en tanto que en un lugar destacado de la biblioteca se exhibía
un ejemplar de Vie Politique et Militaires de Napoleón, obra de A. V.
Arnault, publicada en 1822, y también el catalejo que usó el Emperador
en Santa Elena, así como dos pistolas que pertenecieron al vencedor de
Austerlitz. Sobresalía una vitrina con las condecoraciones que Batista
recibió a lo largo de su vida militar y una abigarrada colección de
bustos de celebridades en las que Ghandi alternaba con Montgomery y
Churchill, Stalin con el mariscal Rommell y Benjamín Franklin, y Juana
de Arco con Dante y Homero; galería en la que no faltaba un Batista de
mármol en abierta camisa deportiva.
Lo mejor estaba aún por ver. En un cuarto de desahogo, sepultadas por
una montaña de libros viejos, había cinco cajas de madera y apariencia
insignificante. Los auditores demoraron tres días en inventariar el
contenido de aquellos cajones. Guardaban 800 joyas, casi todas de la
esposa del dictador, valoradas en dos millones de dólares. Relicarios
de oro con incrustaciones de brillantes, abanicos de marfil, broches
de brillantes y esmeraldas, polveras de oro, las arras de la boda de
Batista y Martha efectuada en la capilla de la finca el 24 de
diciembre de 1948. El indio había sido el símbolo del Gobierno de
Batista. Pues entre esas alhajas había una sortija de oro puro con la
efigie de un indio que adorna el penacho de su cabeza con brillantes y
otras piedras preciosas. Con todo, esto no era más que una pequeña
parte de la fortuna del dictador. Aquello, sin embargo, no era lo
mejor. Lo más valioso, dijo una empleada de la casa, llevaba ya mucho
rato en Nueva York.

Atentados

Algunos de los primeros atentados planificados contra la vida del

Comandante en Jefe quedaron en claro en fecha tan temprana como el mes
de enero de 1959, hace 55 años. Un soldado del Ejército derrotado,
detenido en El Cobre, confesó que con otros ex militares se gestaba un
plan contra Fidel y para derrocar al Gobierno. Mezclado con los
peregrinos que se dirigían al santuario, acechaba la ocasión para
atacar un carro patrullero y apoderarse de su armamento. Una granada
que portaba lo delató al hacer explosión.
También en aquellos días iniciales era detenido Allan Roberts Nye, un
norteamericano de 32 años de edad. Pagado por la dictadura, que le
ofreció diez mil dólares por su misión, subió a la Sierra Maestra con
el pretexto de ofrecer a los rebeldes su experiencia de piloto. Eran
otros los fines que perseguía. Nunca vio al Comandante en Jefe. Fue
capturado en la montaña cuando ya Fidel llevaba semanas en La Habana.
Le ocuparon un rifle de mira telescópica, un revólver 38 y abundante
parque. El Jefe de la Revolución puso a Nye en manos de su madre y le
pidió que lo sacara de Cuba y nunca más regresara.
   

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