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domenica 5 ottobre 2014
sabato 4 ottobre 2014
Santeria: el Toque de Caja
Mi sono trovato a capitare nel mezzo di un “Toque de caja”, una cerimonia rituale che riprende il rito della messa cattolica e lo unisce alle tradizioni animiste dell’Africa centro occidentale. La funzione viene preceduta da una “messa” dedicata ai famigliari defunti e officiata da un sacerdote che non ha preso i voti della Chiesa cristiana, ma riveste un certo livello nel culto afrocubano.
Al termine della messa inizia il vero e proprio “Toque” che significa “suono” o “suonare” dei tamburi accompagnati dalle voci dei canti Yoruba. I partecipanti in genere fanno parte della famiglia o comunque delle amicizie più strette, anche se non vi è nessun divieto per chi si volesse unire.
È difficile capire come si possa resistere un paio d’ore al ritmo assordante dei tamburi e col caldo che viene mitigato molto poco dai ventilatori posti strategicamente. I partecipanti si scatenano nella danza che propizia la vicinanza con i loro defunti. Nel rito vengono effettuate offerte di varia natura e dopo circa un paio d’ore, l’assemblea si scioglie.
venerdì 3 ottobre 2014
Cuba e la stomatologia
La stomatologia è probabilmente il tallone d’Achille della medicina cubana. Certamente uno dei settori più colpiti dall’embargo statunitense e uno dei più costosi se si tiene conto del rapporto offerta e domanda. Pochi, nella vita, non necessitano interventi nel cavo orale e il somministro dei materiali e sopratutto strumenti, necessari ai dentisti, è indubbiamente costoso sul mercato internazionale, spesso sono prodotti o protetti da brevetti nordamericani che oltre ad impedirne l’acquisto diretto sono ostacolati anche tramite Paesi terzi, sottoposti a pressioni dagli USA che impediscono loro di trattare con Cuba i propri prodotti, pena salatissime multe e/o ritorsioni di altro tipo. Questo causa, a volte, l’impossibilità ad intervenire sui pazienti se non dopo lunghe attese. Bisogna tener presente che le cure dentistiche, come tutte le altre, sono completamente gratuite, pertanto l’aggravio sul bilancio dello Stato è notevole. Guardando “da dentro”, credo di capire come mai il servizio stomatologico è stato sospeso fra quelli forniti da Servimed, impresa dedita al Turismo della Salute, che offre servizi medici e chirurgici a pazienti provenienti dall’estero a prezzi competitivi rispetto a quelli praticati dove i medesimi vengono dati a pagamento. Molti sono i pazienti che provengono dai vicini Paesi dell’America Latina e i Caraibi per farsi diagnosticare presunte malattie o a sottoporsi a terapie di ogni tipo.
Dietro indicazione di una dentista, mi sto recando al Centro Nazionale di Stomatolgia che si trova nell’avenida 47 all’angolo della calle 39 nel Municipio Playa dell’Avana e che offre servizio soltanto ai cittadini cubani o residenti permanenti. Indubbiamente il Centro è all’avanguardia nell’Isola e ha poco da invidiare a istituzioni simili, pubbliche o private, di altri Paesi. La specializzazione è alta e non tratta casi di “ordinaria amministrazione” che vengono attesi nei servizi di base di ogni Municipio. Nel mio caso, ad esempio, si tratta di un trattamento antinfiammatorio con successivo riempimento osseo, per il quale è necessario l’uso additivo del laser per un ciclo di 10 applicazioni.
Grande stupore per l’ambiente in cui mi sono trovato, nel quale si avverte l’attaccamento dei lavoratori per mantenerlo in condizioni ottimali. Probabilmente parte del merito è anche del suo direttore, il Professor Dottor Ángel Felipe Alfonso che è il primo a cimentarsi col lavoro volontario. L'ho sorpreso con pennello e pittura in mano, ma essendo molto schivo, non ha voluto essere ritratto. Sulle pareti dei corridoi sono appesi dipinti quasi tutti con riferimento alla stomatologia mentre negli studi di consultazione e intervento ci sono murales che con una grafica piacevole danno consigli per la prevenzione delle affezioni dentarie e consigli sull’uso degli strumenti per una miglior igiene orale.
Nell’ampia e luminosa sala d’aspetto vi è montata la riproduzione di uno studio dentistico che, nel 1939, era il massimo dell’avanguardia tecnologica e che seppure utilizzato come puro arredamento “museale” credo svolgerebbe egregiamente le sue funzioni anche oggi.
La cortesia e premura del personale rispecchia il meglio della tradizione medica e paramedica cubana. Alla fine del trattamento il pagamento... si riceve... con sorrisi e parole gentili, rimane soltanto da dire muchas gracias por todo.
giovedì 2 ottobre 2014
La Lupe
La
Lupe
Di Ciro Bianchi Ross
La Lupe, questa canzone con
aria di “ranchera” che si considera una gioia della creazione musicale dell’Isola,
fu scritta in Messico dal cubano Juan Almeida Bosque alla vigilia del suo
ritorno a Cuba a bordo dello yacht Granma, come parte della spedizione
comandata da Fidel Castro, per iniziare sulle montagne la lotta contro la
tirannia di Fulgencio Batista. Il pezzo, che il suo autore classificò come un
bolero e che nella partitura originale porta il titolo de Guadalupe, è una
canzone d’amore e anche un omaggio alla donna messicana che accolse nel loro
esilio i futuri integranti dell’Esercito Ribelle mentre svolgevano le loro
esercitazioni guerrigliere. Ed è, allo stesso tempo, testimonianza di devozione
alla Vergine di Guadalupe, patrona del Messico.
Me ne vado dalla tua terra,
messicana carina,
caritatevole e gentile,
e lo faccio con emozione
come se in lei rimanesse
un pezzo di me.
Me ne vado, bella Lupe,
e con te mi porto
un raggio di sole
che mi hanno dato i tuoi
occhi,
vergine guadalupana,
il pomeriggio che ti vidi.
Juan,
te ne vai?
Almeida conobbe Guadalupe un
pomeriggio nel bosco di Chapultepec. La ragazza che si faceva accompagnare da
sua sorella, abbagliò il cubano. Fu un frecciata che dette inizio a un romanzo
destinato a non vivere per molto tempo. Correva già il 1956 e Almeida come
parte delle forze di Fidel Castro, doveva tornare a Cuba. Era uno degli storici
di quelle gesta. Tre anni prima, il 26 di luglio del 1953, aveva accompagnato
il capo della Rivoluzione nel suo tentativo di impadronirsi della caserma
Moncada a Santiago de Cuba e patì la prigione assieme a lui. In quei giorni, in
Messico, Fidel proclamava la volontà dei suoi di essere “liberi o martiri”
prima che finisse l’anno. Inoltre diceva: “Se parto, arrivo; se arrivo, entro;
se entro trionfo”.
Lo yacht Granma salpa dal
porto di Tuxpan con destinazione Cuba alla fine di novembre. Prima, in un
giorno non precisato di quello stesso mese, Almeida e la ragazza si incontrano
nel tempio della Vergine di Guadalupe. È l’ora del commiato.
-Cosa hai chiesto alla
Vergine? – chiede lei
-Niente...e tu?
-Ho chiesto per te, perché
tutto ti vada sempre bene.
-Bene, questo è abbastanza.
-Juan te ne vai?- alla
domanda di Guadalupe seguì un lungo silenzio.
-Sì, ci stiamo preparando.
-Quando?
-Non lo so, presto. Abbiamo
detto che torneremo quest’anno a Cuba e il tempo sta già per finire.
-Scriverai?
-Sì, appena posso.
-Questo mi consola. Riuscirà
tutto bene, l’ho chiesto alla Vergine. Ti capisco. Capisco la strada che hai scelto
e mi piacerebbe accompagnarti. So che è la tua vita. Ti ammiro. Ti amo.
Juan Almeida scriverà, anni
dopo: Questo desiderio sublime che volli fosse indelebile, scriverlo,
afferrarlo, inciderlo, scriverlo perché non se ne andasse come il vento o come l’acqua.
Dirle: Me ne vado dalla tua terra,/ messicana carina e dire tutto quello che
provo per il Messico, ma c’è qualcosa di più forte che mi chiama e urla: il
dovere per la mia patria”.
Rondine senza nido
ero io nel cammino
quando ti conobbi.
Tu mi apristi il tuo petto
con amore sincero,
io mi annidai in te.
E adesso che mi allontano
Per compiere il dovere.
Che la mia terra mi chiama
A vincere o morire,
non dimenticarmi Lupita,
ricordati di me.
Come
Amelita nessuno
I versi viaggiavano verso
Cuba col loro autore. Durante la traversata marittima, il foglio dov’erano
scritti si bagna e si rovina. C’è brutto tempo. Uno degli spedizionari cade in
mare e Fidel ordina che il battello si fermi fino al suo recupero. Alla fine
arrivano alle coste cubane, sbarcano alla spiaggia de Las Coloradas. L’esercito
e l’aviazione della tirannia incalzano gli spedizionari che si disperdono dopo
il combattimento di Alegría del Pío. Li incitano ad arrendersi. “Qua non si
arrende nessuno, cazzo!”, risponde Almeida. Degli 82 uomini arrivati col
Granma, solo 12 si riuniscono dopo alcuni giorni, è il nucleo iniziale
dell’Esercito Ribelle. Già nella Sierra Maestra, Ameida, ricostruisce il testo
de La Lupe. Fidel non tarderà a promuoverlo Comandante, il più alto grado
dell’Esercito Ribelle e ad affidargli il comando del III° Fronte di guerra. I
suoi compagni conoscono a memoria La Lupe.
Il 1° gennaio del 1959
trionfa la Rivoluzione. Il Comandante Juan Almeida assume il comando
dell’importante campo di Managua, alla periferia dell’Avana. Fino a lì arrivava
con grande insistenza, una settimana sì e un’altra pure, la cantante Amelita
Frades. In quele visite non c’dera niente a che vedere con la musica e l’arte.
Si presentava con un’assiduità che cominciava a sentire inutile, per riscuotere
gli onorari per i mobili del comando del campo che erano stati ordinati alla
falegnameria di proprietà di suo marito e il cui pagamento era rimasto in
sospeso alla caduta del governo di Batista. Gli ufficiali ribelli ai quali
reclamava la liquidazione del debito, rimandavano la faccenda. In definitiva,
dicevano, era cosa dell’Esercito sconfitto e non aveva niente a che vedere con
il nuovo Esercito.
Stanca di dilazioni e
risposte evasive, Amelita chiese di vedere il comandante Almeida. Il militare
ascoltò la donna, comprese la giustezza della sua richiesta e ordinò che la si
liquidasse immediatamente. Certo che la conosceva, l’aveva sentita spesso alla
radio. Sapeva che aveva cantato con l’orchestra di Arcaño e le sue Meraviglie e
poi con quella di Obdulio Morales e che era stata in tournée in Messico nel
1956 nei giorni del suo esilio.
-Guarda la combinazione...io
scrivo canzoni- osò confessare Almeida e Amelita si interessò per conoscerle.
-Ebbene, ho scritto i testi,
non la musica...la musica la memorizzo. Di queste c’e n’è una che mi piacerebbe
lei valutasse. S’intitola La Lupe e la scrissi in Messico tre anni fa.
Almeida fischiò la melodia e
il pianista Enrique Lesaga la trascrisse. Amelita Frades imparò il testo e
cantò il pezzo in un programma di Radio Progreso. Immediatamente la CMQ la
diffuse ed entrò nel catalogo della discografica Victor. Concorse ne la Lavagna
Verde di Radio Progreso con la canzone El pajaro chogüi, interpretata dal
venezuelano Hector Cabrera.
‘El pajaro –diceva Almeida-
si ise sopra la mia canzone come un avvoltoio, come il passero all’insetto, più
o meno fu così il lancio de La Lupe. La mia canzone la registrò Amelita Frades,
come lei nessuno poté darle questa interpretazione speciale. Dopo la cantarono
altri, ma mai superarono Amelita. A lei dedicai molto affetto e simpatia”.
Il
mio ricordo più bello
Juan Almeida Bosque nacque
all’Avana il 17 febbraio del 1927 e morì nella stssa città il 12 settembre del
2009. Fu membro del Buró Politico del Comitato Centrale del Partito Comunista
di Cuba e il terzo uomo nella scala del potere nell’Isola. Le Forze Armate gli
conferirono il grado onorario di Comandante della Rivoluzione. Compose molto.
Ala final del camino, A Santiago, Dame un traguito e Tiempo ausente sono solo
pochi dei titolidelle decine e decine di canzoni che compose. Ha pubblicato
anche diversi libri.
Almeida non ha mai
dimenticato Lupe, quella ragazza che conobbe un pomeriggio nel Bosco di
Chapultepec. L’ha cercata in ogni suo viaggio in Messico e le dedicò altre
canzoni come quella che dice:
(...) oggi, con la polvere
nei capelli
per andare nei sentieri
in transito di nuovo
in Messico un’altra volta,
voglio lasciarti, Lupe
il mio più bel ricordo
per essere stato tuo
e che anch’io ho amato.
La Lupe
Ciro Bianchi Ross
La Lupe, esa canción con aire de ranchera que se considera una joya de
la creación musical de la Isla, fue escrita en México, por el cubano
Juan Almeida Bosque en vísperas de su regreso a Cuba a bordo del yate
Granma, como parte de la expedición comandada por Fidel Castro para
iniciar en las montañas la lucha armada contra la tiranía de Fulgencio
Batista. La pieza, que su autor clasificó como un bolero y que en la
partitura original lleva el título de Guadalupe, es una canción de
amor y también un homenaje a la mujer mexicana que acogió en su exilio
a los futuros integrantes del Ejército Rebelde mientras hacían su
entrenamiento guerrillero. Y es asimismo testimonio de devoción por la
Virgen de Guadalupe, patrona de México.
Ya me voy de tu tierra,
mexicana bonita,
bondadosa y gentil,
y lo hago emocionado
como si en ella quedara
Un pedazo de mí.
Ya me voy, linda Lupe,
y me llevo contigo
un rayito de luz
que me dieron tus ojos,
virgen guadalupana,
la tarde en que te vi.
JUAN, ¿TE VAS?
Almeida conoció a Guadalupe una tarde en el Bosque de Chapultepec. La
muchacha, que se hacía acompañar por su hermana, deslumbró al cubano.
Fue un flechazo que dio inicio a un romance llamado a no vivir mucho
tiempo. Corría ya el año de 1956 y Almeida, como parte de las huestes
de Fidel Castro, debía regresar a Cuba. Era uno de los históricos de
aquella gesta.Tres años antes, el 26 de julio de 1953, había
acompañado al jefe de la Revolución en su intento de apoderarse del
cuartel Moncada, de Santiago de Cuba, y sufrió prisión junto a él. En
esos días, en México, Fidel proclamaba la voluntad de los suyos de ser
“libres o mártires” antes de que concluyera el año. Decía además: ”Si
salgo, llego; si llego, entro; si entro, triunfo”.
El yate Granma sale del puerto de Tuxpan con destino a Cuba a fines de
noviembre. Antes, en un día no precisado de ese mismo mes, Almeida y
la muchacha se encuentran en el templo de la Virgen de Guadalupe. Es
la hora de la despedida.
-¿Qué le has pedido a la Virgen? --pregunta ella.
-Nada... ¿Y tú?
-He pedido por ti, porque siempre todo te salga bien.
-Pues ya eso es bastante.
-Juan, ¿te vas? --A la pregunta de Guadalupe siguió un largo silencio.
-Sí, nos estamos preparando.
-¿Cuándo?
-No sé, pronto. Hemos dicho que volveremos este año a Cuba y ya se
está cumpliendo el plazo.
-¿Escribirás?
-Sí, tan pronto pueda.
-Eso me consuela. Todo saldrá bien, se lo pedí a la Virgen. Te
comprendo. Entiendo el camino que has elegido y me gustaría
acompañarte. Sé que es tu vida. Te admiro.Te quiero.
Escribía Juan Almeida años más después: Ese deseo sublime que quise
que fuere indeleble, agarrarlo, grabarlo, escribirlo para que no se
fuera como el como el viento o el agua. Decirle: Ya me voy de tu
tierra, / mexicana bonita, y decir todo lo que siento por México, pero
hay algo más fuerte que me llama a gritos: el deber para con mi
patria”
Golondrina sin nido
era yo en el camino
cuando te conocí.
Tú me abriste tu pecho
con amor bien sentido,
yo me anidé en ti.
Y ahora que me alejo
para el deber cumplir
Que mi tierra me llama
a vencer o a morir,
no me olvides Lupita
Acuérdate de mí.
COMO AMELITA, NADIE
Los versos viajan a Cuba con su autor. Durante la travesía marítima,
el papel donde se escribieron se moja y deteriora. Hay mal tiempo. Uno
de los expedicionarios cae al agua y Fidel ordena que el barco detenga
la marcha a fin de rescatarlo. Llegan al fin a las costas cubanas,
desembarcan en la playa de Las Coloradas. El Ejército y la aviación de
la tiranía persiguen a los expedicionarios, que se dispersan tras el
combate de Alegría de Pío. Los instan a la rendición. “quí no se
rinde nadie, carajo”,responde Almeida. De los 82 hombres llegados en
el Granma, solo doce se reagrupan al cabo de los días, es el núcleo
inicial del Ejército Rebelde. Ya en la Sierra Maestra Almeida
reconstruye la letra de La Lupe. Fidel no demorará en ascenderlo a
Comandante, el grado más alto del Ejército Rebelde, y confiarle la
jefatura del III Frente de guerra. Sus compañeros se saben La Lupe de
memoria.
Triunfa la Revolución, el 1 de enero de 1959. El comandante Juan
Almeida asume el mando del importante campamento de Managua, en las
afueras de La Habana. Hasta allí, con machacona insistencia, llegaba,
una semana sí y la otra también, la cantante Amelita Frades. Nada con
la música ni el arte tenían que ver aquellas visitas. Acudía en un
empeño que ya le iba pareciendo inútil: cobrar los honorarios por los
muebles cuya confección la jefatura del campamento había encargado a
la carpintería propiedad de su esposo y cuyo pago quedó pendiente al
desplomarse el gobierno de Batista. Los oficiales rebeldes a los que
reclamaba la liquidación del negocio, daban largas al asunto. En
definitiva, decían, era cosa del Ejército derrotado y nada tenía que
ver con ello el nuevo Ejército.
Cansada de dilaciones y evasivas, Amelita pidió ver al comandante
Almeida. El militar escuchó a la mujer, comprendió la justeza de su
pedido y ordenó que se le liquidase lo suyo de inmediato. Claro que él
la conocía, la había escuchado mucho por radio. Sabía que cantó con la
orquesta de Arcaño y sus Maravillas y luego con la de Obdulio Morales
y que estuvo en México de gira en 1956, en los días de su exilio.
-Mire qué cosa... yo escribo canciones --se atrevió a confesar Almeida, y
Amelita se interesó por conocerlas.
-Bueno, tengo escritas las letras, no la música...La música, la
memorizo. De ellas, hay una que me gustaría que usted valorara. Se
titula La Lupe y la escribí en México hace tres años.
Almeida silbó la melodía y el pianista Enrique Lasaga la transcribió.
Amelita Frades aprendió la letra y cantó la pieza en un programa de
Radio Progreso. Enseguida la difundió CMQ y entró en el catálogo de la
disquera Víctor. Compitió en la Pizarra Verde, de Radio Progreso, con
la canción El pájaro chogüí, interpretada por el venezolano Héctor
Cabrera.
“El Pájaro -decía Almeida-- se le metió encima a mi canción como si
fuera una tiñosa, como el gorrión al pitirre, más o menos así fue el
lanzamiento de La Lupe. Mi canción la grabó Amelita Frades, como ella
nadie pudo darle esa interpretación especial. Después la cantaron
otros, pero nunca superaron a Amelita. A ella le tuve mucho afecto y
mucho cariño”.
MI MÁS BELLO RECUERDO
Juan Almeida Bosque nació en La Habana, el 17 de febrero de 1927 y
murió en la misma ciudad, el 12 de septiembre de 2009. Fue miembro del
Buró Político del Comité Central del Partido Comunista de Cuba, y el
tercer hombre en la escala del poder en la Isla. Las Fuerzas Armadas
le confirieron el grado honorífico de Comandante de la Revolución.
Compuso mucho. Al final del camino, A Santiago, Dame un traguito y
Tiempo ausente son solo unos pocos títulos de las decenas y decenas
de canciones que compuso. Publicó también varios libros.
Almeida nunca olvidó a Lupe, aquella muchacha que una tarde conoció en
el Bosque de Chapultepec. La buscó en cada uno de sus viajes a México,
y le inspiró otras canciones. Como aquella que dice:
(...) hoy, con polvo en los cabellos
de andar por los caminos,
en tránsito de nuevo
por México otra vez,
quiero dejarte Lupe
mi más bello recuerdo
por haber sido tuyo
también lo que yo amé.
Ciro Bianchi Ross
La Lupe, esa canción con aire de ranchera que se considera una joya de
la creación musical de la Isla, fue escrita en México, por el cubano
Juan Almeida Bosque en vísperas de su regreso a Cuba a bordo del yate
Granma, como parte de la expedición comandada por Fidel Castro para
iniciar en las montañas la lucha armada contra la tiranía de Fulgencio
Batista. La pieza, que su autor clasificó como un bolero y que en la
partitura original lleva el título de Guadalupe, es una canción de
amor y también un homenaje a la mujer mexicana que acogió en su exilio
a los futuros integrantes del Ejército Rebelde mientras hacían su
entrenamiento guerrillero. Y es asimismo testimonio de devoción por la
Virgen de Guadalupe, patrona de México.
Ya me voy de tu tierra,
mexicana bonita,
bondadosa y gentil,
y lo hago emocionado
como si en ella quedara
Un pedazo de mí.
Ya me voy, linda Lupe,
y me llevo contigo
un rayito de luz
que me dieron tus ojos,
virgen guadalupana,
la tarde en que te vi.
JUAN, ¿TE VAS?
Almeida conoció a Guadalupe una tarde en el Bosque de Chapultepec. La
muchacha, que se hacía acompañar por su hermana, deslumbró al cubano.
Fue un flechazo que dio inicio a un romance llamado a no vivir mucho
tiempo. Corría ya el año de 1956 y Almeida, como parte de las huestes
de Fidel Castro, debía regresar a Cuba. Era uno de los históricos de
aquella gesta.Tres años antes, el 26 de julio de 1953, había
acompañado al jefe de la Revolución en su intento de apoderarse del
cuartel Moncada, de Santiago de Cuba, y sufrió prisión junto a él. En
esos días, en México, Fidel proclamaba la voluntad de los suyos de ser
“libres o mártires” antes de que concluyera el año. Decía además: ”Si
salgo, llego; si llego, entro; si entro, triunfo”.
El yate Granma sale del puerto de Tuxpan con destino a Cuba a fines de
noviembre. Antes, en un día no precisado de ese mismo mes, Almeida y
la muchacha se encuentran en el templo de la Virgen de Guadalupe. Es
la hora de la despedida.
-¿Qué le has pedido a la Virgen? --pregunta ella.
-Nada... ¿Y tú?
-He pedido por ti, porque siempre todo te salga bien.
-Pues ya eso es bastante.
-Juan, ¿te vas? --A la pregunta de Guadalupe siguió un largo silencio.
-Sí, nos estamos preparando.
-¿Cuándo?
-No sé, pronto. Hemos dicho que volveremos este año a Cuba y ya se
está cumpliendo el plazo.
-¿Escribirás?
-Sí, tan pronto pueda.
-Eso me consuela. Todo saldrá bien, se lo pedí a la Virgen. Te
comprendo. Entiendo el camino que has elegido y me gustaría
acompañarte. Sé que es tu vida. Te admiro.Te quiero.
Escribía Juan Almeida años más después: Ese deseo sublime que quise
que fuere indeleble, agarrarlo, grabarlo, escribirlo para que no se
fuera como el como el viento o el agua. Decirle: Ya me voy de tu
tierra, / mexicana bonita, y decir todo lo que siento por México, pero
hay algo más fuerte que me llama a gritos: el deber para con mi
patria”
Golondrina sin nido
era yo en el camino
cuando te conocí.
Tú me abriste tu pecho
con amor bien sentido,
yo me anidé en ti.
Y ahora que me alejo
para el deber cumplir
Que mi tierra me llama
a vencer o a morir,
no me olvides Lupita
Acuérdate de mí.
COMO AMELITA, NADIE
Los versos viajan a Cuba con su autor. Durante la travesía marítima,
el papel donde se escribieron se moja y deteriora. Hay mal tiempo. Uno
de los expedicionarios cae al agua y Fidel ordena que el barco detenga
la marcha a fin de rescatarlo. Llegan al fin a las costas cubanas,
desembarcan en la playa de Las Coloradas. El Ejército y la aviación de
la tiranía persiguen a los expedicionarios, que se dispersan tras el
combate de Alegría de Pío. Los instan a la rendición. “quí no se
rinde nadie, carajo”,responde Almeida. De los 82 hombres llegados en
el Granma, solo doce se reagrupan al cabo de los días, es el núcleo
inicial del Ejército Rebelde. Ya en la Sierra Maestra Almeida
reconstruye la letra de La Lupe. Fidel no demorará en ascenderlo a
Comandante, el grado más alto del Ejército Rebelde, y confiarle la
jefatura del III Frente de guerra. Sus compañeros se saben La Lupe de
memoria.
Triunfa la Revolución, el 1 de enero de 1959. El comandante Juan
Almeida asume el mando del importante campamento de Managua, en las
afueras de La Habana. Hasta allí, con machacona insistencia, llegaba,
una semana sí y la otra también, la cantante Amelita Frades. Nada con
la música ni el arte tenían que ver aquellas visitas. Acudía en un
empeño que ya le iba pareciendo inútil: cobrar los honorarios por los
muebles cuya confección la jefatura del campamento había encargado a
la carpintería propiedad de su esposo y cuyo pago quedó pendiente al
desplomarse el gobierno de Batista. Los oficiales rebeldes a los que
reclamaba la liquidación del negocio, daban largas al asunto. En
definitiva, decían, era cosa del Ejército derrotado y nada tenía que
ver con ello el nuevo Ejército.
Cansada de dilaciones y evasivas, Amelita pidió ver al comandante
Almeida. El militar escuchó a la mujer, comprendió la justeza de su
pedido y ordenó que se le liquidase lo suyo de inmediato. Claro que él
la conocía, la había escuchado mucho por radio. Sabía que cantó con la
orquesta de Arcaño y sus Maravillas y luego con la de Obdulio Morales
y que estuvo en México de gira en 1956, en los días de su exilio.
-Mire qué cosa... yo escribo canciones --se atrevió a confesar Almeida, y
Amelita se interesó por conocerlas.
-Bueno, tengo escritas las letras, no la música...La música, la
memorizo. De ellas, hay una que me gustaría que usted valorara. Se
titula La Lupe y la escribí en México hace tres años.
Almeida silbó la melodía y el pianista Enrique Lasaga la transcribió.
Amelita Frades aprendió la letra y cantó la pieza en un programa de
Radio Progreso. Enseguida la difundió CMQ y entró en el catálogo de la
disquera Víctor. Compitió en la Pizarra Verde, de Radio Progreso, con
la canción El pájaro chogüí, interpretada por el venezolano Héctor
Cabrera.
“El Pájaro -decía Almeida-- se le metió encima a mi canción como si
fuera una tiñosa, como el gorrión al pitirre, más o menos así fue el
lanzamiento de La Lupe. Mi canción la grabó Amelita Frades, como ella
nadie pudo darle esa interpretación especial. Después la cantaron
otros, pero nunca superaron a Amelita. A ella le tuve mucho afecto y
mucho cariño”.
MI MÁS BELLO RECUERDO
Juan Almeida Bosque nació en La Habana, el 17 de febrero de 1927 y
murió en la misma ciudad, el 12 de septiembre de 2009. Fue miembro del
Buró Político del Comité Central del Partido Comunista de Cuba, y el
tercer hombre en la escala del poder en la Isla. Las Fuerzas Armadas
le confirieron el grado honorífico de Comandante de la Revolución.
Compuso mucho. Al final del camino, A Santiago, Dame un traguito y
Tiempo ausente son solo unos pocos títulos de las decenas y decenas
de canciones que compuso. Publicó también varios libros.
Almeida nunca olvidó a Lupe, aquella muchacha que una tarde conoció en
el Bosque de Chapultepec. La buscó en cada uno de sus viajes a México,
y le inspiró otras canciones. Como aquella que dice:
(...) hoy, con polvo en los cabellos
de andar por los caminos,
en tránsito de nuevo
por México otra vez,
quiero dejarte Lupe
mi más bello recuerdo
por haber sido tuyo
también lo que yo amé.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/
mercoledì 1 ottobre 2014
martedì 30 settembre 2014
Un romanzo avanero di Miguel Aceves Mejía, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 7/9/14
Miguel Aceves Mejía, uno dei
tre grandi della canzone “ranchera”, visse un romanzo fugace con una ragazza
cubana.
Correva il mese di febbraio
del 1958, e il soprannominato “Re del Falsetto” osservava, all.Avana, un
contratto con il circuito CMQ-Radio e Televisione che prevedav le sue
presentazione ne El Casiono de la
Alegría, il programma musicale più popolare sul piccolo schermo cubano di
allora quando, Bertha Gulías, una giovane cubana di 19 anni gli rubò il cuore.
La giornalista Daphne E. Marante, delle Edizioni Cubarte, offrí i dettagli
della storia.
Che
tu sia felice
Un incontro casuale e
inatteso propizia questa relazione fugace. È un pomeriggio plumbeo e noioso. I
cugini di Bertha giocano a domino e la ragazza, dopo essersi affacciata un
centinaio di volte alla porta su strada, in attesa di ciò che non arriva, cerca
di far uscire musica dalla ghitarra. Intanto sua madre, sarta di mestiere,
lavora alla confezione di un vestito che le aveva ordinato Rosita Quintana,
l’attrice messicana conosciuta come “la Chata” e che da un momento all’altro
passerebbero a prendere.
Suonano alla porta e la
sarta intuisce che è l’inviato della
“Chata” e in effetti dalla’angolo in cui è seduta, vicino alla macchina da
cucire, sente che chiedono del vestito, ma
- che vergogna! – il capo non è pronto. Affronta amabilmente il
visitatore. È un modello di una certa complessità, necessita attenzione e
c’erano altri ordini precedenti, gli spiega, Ma venga avanti, signore, si
accomodi...Accetta una tazzina di caffe? Questa offerta è una caratteristica
comune in tutti gli strati sociali del Paese per dimostrare ospitalità, è rara
una casa dove non si offra al vistatore l’infusione pregiata. Il nuovo arrivato
assentisce. Certo che degusterà questo caffè, dice, e davanti all’insistenza
della signora della casa finisce per sedersi. Non è un fattorino qualunqueche
le ha inviato la Quintana per il suo vestito. Si tratta di Miguel Aceves Mejía,
il popolare interprete di El jinete e
sopratutto de La malagueña. Senza
andare oltre, la sua interpretazione di Sonaron
cuatro balazos, si sente ancora oggi, qualche volta alla radio cubana.
Bertha di 19 anni ha, seduto
nella sala di casa sua, uno dei grandi rappresentanti, assiema all’allora già
defunto Jorge Negrete e Pedro Infante, della musica ranchera, una stella del
cine messicano che sullo schermo condivide ruoli con grandi figure come Lola
Beltrán – Guitarras de media noche –
1957, Lola Flores – Tú y las nubes –
1955, Libertad Lamarque – Cuatro copas –
1957, e María Félix – Camelia – 1953
e che protagonizza congiuntamente uno dei films più ambiziosi dell’epoca nel
quale, fra gli altri, intervengono Katina Ranieri e Ima Sumac oltre a una
cantante del calibro di Edith Piaf.
Aceves Mejía guarda Bertha e
il viso gli si apre in un sorriso. È vero, ha lavorato molto con Rosita
Quintana. Hanno raggiunto tanta chimica di coppia nel film A los cuatro vientos (1954) che i produttori decisero di unirli in
altre produzioni come Que seas feliz
(1956). La conversazione fluisce per altre vie e nessuno torna a nominare il
vestito de la Chata. Alla fine il cantante si accomiata, non senza annunciare
che ripeterà la visita.
Senza
parole
Nel pomeriggio del 23
febbraio suona il telefono della famiglia Gulías. Aceves Mejías vuole parlare
con Bertha. Si presenterà questa sera nel cabaret Sierra, centro notturno di
secondo piano ubicato nella calzada de Concha, nel popoloso quartiere di Luyanó
e desidera invitarla. È un gran piacere per lei, è qualcosa di grande che lui
la tenga presente, ma no, non accetta l’invito. È nubile e le convenzioni
sociali e i “cosa diranno” impediscano che si rechi in un luogo come quello con
la sola compagnia di un uomo, un artista per giunta. Aceves Mejía non cede.
Questo non è un problema. Bertha può rispondere al suo invito in compagnia
della sua signora madre e di tutti i suoi cugini, se così desiderano. La
ragazza rimane senza parole. Non sa cosa dire, ma alla fine dice che sì, che
andrà. Quando appende il telefono la famiglia la scherza. Mezz’ora prima di
uscire per il cabaret non sa ancora che vestito mettersi. Ha provato cinque
abiti che rimangono stesi sul letto e nessuno le va bene.
Nel cabaret Sierra ci sono
luci e musica pailettes e cin cin in coppa. Aceves Mejía canta e Bertha e il
messicano non perdono occasione per farsi fotografare. Una di queste foto li
ritrae con le facce molto vicine. Mejía in giacca e cravatta, stringe cona la
sua mano sinistra quello destro della sua compagna che vorrebbe sorridere, ma
guarda la fotocamera come fosse impaurita.
Commozione
all’Avana
La Direzione a gli Sport del
Governo del generale Fulgencio Batista convoca il II Gran Premio di Cuba, nel
quale prenderanno parte le figure più importanti della Formula uno
dell’automobilsmo mondiale, fra loro l’astro argentino del volante Juan Manuel
Fangio, cinque volte campione del mondo e vincitore, l’anno precedente, del I°
Gran Premio. Competiranno anche figure come Stirling Moss e il marchese de
Portago, fra gli altri 20 corridori stranieri e cubani. La dittatura si vanta
della celebrazione della corsa il 24 febbraio, dell’inaugurazione del Cinerama
e del combattimento boxistico per la cintura mondiale dei pesi leggeri che
disputeranno, all’Avana, il cubano Orlando Echevarría e il campione
nordamericano Joe Brown.
Un commando del Movimento 26
de Julio si propone il sequestro di Fangio. Sa che un fatto come questo si
ripercuoterebbe in tutti i continenti e lo prende come un modo per richiamare
l’attenzione verso la lotta che si porta avanti, a Cuba, contro la dittatura
batistiana. Dimostrerebbe la forza della Rivoluzione, attiva non solo sulla
Sierra Maestra, ma anche nelle città, incluso l’Avana.
Anni dopo quel fatto uno dei
suoi protagonisti dirà: “Volevamo richiamare l’attenzione sul processo
rivoluzionario cubano e procurare che il mondo conoscesse l’esistenza della
contesa guerrigliera sulla Sierra Maestra e la lotta clandestina nelle città.
In poche parole: che si conoscesse di più su Cuba e sulla sua confrontazione
per mezzo delle armi. Il sequestro di fangio sarebbe una breve detenzione. Una
detenzione patriottica”.
Mai
più
Fangio passerà poco più di
24 ore in mano ai suoi sequestratori che
lo consegneranno a funzionari dell’Ambasciata argentina, a trda notte del
giorno 24. Se il sequestro era stato rischioso, la liberazione risultava ancora
più difficile e rischiosa. Avvandonare il campione in qualsiasi angolo sarebbe
stato facile. Ma si temeva che la dittatura lo assassinasse per incolpare, poi,
il 26 de Julio.
Fra il sequestro e
l’apparizione del corridore, tutti i corpi di Polizia cercarono di trovare dove
fosse trattenuto Juan Manuel Fangio. Oltre mille agenti di Polizia, agli ordini
del colonnello Orlando Piedra, capo dell’Ufficio Investigativo, parteciparono
alla ricerca straordinaria, effettuando centinaia di perquisizioni. Intanto
auto di pattuglia del Servizio Militare d’Intelligenza e la Sezione Radio
Motorizzata della Polizia Nazionale, mantennero stretta sorveglianza su strade,
sentieri e aeroporti per evitare che la stella potesse essere portato fuori
dall’Avana.
Bertha e Aceves Mejía non
tornarono più a vedersi dopo quella sera al cabaret Sierra. Nella conversazione
che sostenne con la giornalista Daphne
E. Marante, lei lascia intravvedere che fu il clima di repressione che si
istaurò all’Avana dopo il sequestro di Fangio a far si che la coppia smettesse
di vedersi.
“La commozione creata dal
sequestro di Fangio fece si che il cabaret cancellasse il suo spettacolo,
influendo sull’animo degli spettatori e dal quale non potero sfuggire Miguel e
Bertha. Il sequestro di fangio fu tutto un successo per il movimento 26 de
Julio, ma il romanzo rimase troncato”, dice la Marante. La spiegazione sembra
troppo semplice allo scriba. Dovevano esserci altri motivi. Una delle parti
poteva essersi disincantata e la differenza d’età fra i due – 24 anni – deve
aver influito. Un fatto non si può ignorare. È in quell’anno 1958 che Aceves
Mejía, con già 43 anni d’età, decide di riannodare la relazione con l’argentina
Rita Martínez con la quale terminerà sposandosi nello stesso anno e che sarà
sua moglie per tutta la vita.
Di
ritorno
Il messicano venne a Cuba
per la prima volta nel 1951. Già allora aveva partecipato come tesimone alle
nozze di Benny Moré, quando il Bárbaro del Ritmo contrasse matrimonio con
l’infermiera messicana Juana Bocanegra, segretaria del medico e cantante
Alfonso Ortiz Tirado.
Tornerà a Cuba quest’uomo
che ebbe nel suo repertorio opere di compositori cubani come Jorge González
Allué – Amorosa guajira -, Ñico
Saquito – Así no papacito, así no -,
Israel Cachao López – Repica la tambora
– Miguel Matamoros – Que siga el
tren – e Alfredo Brito –Dos letras y
un corazon -, fra gli altri e che si iniziò come cantante di boleri e ritmi
afrocubani.
In ogni modo la sua ultima
visita non la fece per volontà propria. Alla fine della decade di ’60, Aceves
Mejia ci visitò in modo accidentale quando l’qereo su cui viaggiava tra Santo
Domingo e Città del Messico fu dirottato e obbligato ad atterrare a Santiago de
Cuba. Nel terminal aereo, i suoi ammiratori cubani che erano e continuano ad
essere molti, lo riconobbero egli chiesero che cantasse. Accettò volentieri la
proposta. Interpretò le canzoni di sempre, quelle che rimangono radicate
nell’immaginario dell’Isola. El jinete,
La malagueña, La verdolaga, El pastor, Que seas feliz, La copa del olvido…nella
testimonianza filmata di allora lo si vede sorridente e felice di essere in
terra cubana, come a casa propria, circondato dall’affetto di autorità e
popolo. In questa nostra Avana, carica di leggende, una targa di bronzo sulla
facciata dell’hotel Lincoln ricorda il sequestro di Juan Manuel Fangio, il 23
febbraio del 1958. Quache isolato sotto, in una casa modesta, dorme in una scatola
di cartone la storia di un romanzo che non è arrivato alla fine.
Nel retro di una delle
fotografie che li si conservano, si legge:
“Bertita, quando vedi questa
foto ricordati della sera che abbiamo passato assieme nel Sierra Miguel”.
Un romance habanero de
Aceves Mejía
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
Miguel Aceves Mejía, uno de los tres grandes de la canción ranchera, vivió
un romance fugaz con una muchacha cubana.
Corría el mes de febrero de 1958, y el llamado Rey del Falsete cumplía en
La Habana un contrato con el Circuito CMQ-Radio y Televisión, que contemplaba
sus presentaciones en el Casino de la Alegría,
el musical más popular en la pequeña pantalla cubana de entonces, cuando Bertha
Gulías, una cubanita de 19 años, le robó el corazón. La periodista Daphne
E. Marante, de Ediciones Cubarte, ofreció los detalles de esta historia.
Que seas feliz
Un encuentro casual e inesperado propicia esa relación fugaz. Es una
tarde plomiza y aburrida. Los primos de Bertha juegan al dominó, y la muchacha,
luego de asomarse una y cien veces a la puerta de la calle en espera de lo que
no llega, trata de sacarle música a la guitarra. Mientras tanto, su
madre, modista de profesión, trabaja en la confección del vestido que le
encargó Rosita Quintana, la actriz mexicana conocida como la Chata, y que
pasarán a recoger de un momento a otro.
Tocan a la puerta. Intuye la modista que es el enviado de la Chata y, en
efecto, desde el rincón donde permanece pegada a la máquina de coser, escucha
que preguntan por el vestido, pero —¡qué pena!— la pieza no está lista. Encara
con amabilidad al visitante. Es un modelo de cierta complejidad y cuidado, y
había otros encargos previos, le explica. Pero pase adelante, señor, acomódese…
¿Acepta una tacita de café? Es ese ofrecimiento un rasgo común en todos los
sectores sociales del país para demostrar hospitalidad, y rara es la casa donde
no se brinde al visitante la preciada infusión. Asiente el recién llegado.
Claro que degustará ese café, dice, y ante la insistencia de la señora de la
casa termina por tomar asiento. No es un mensajero cualquiera el que ha enviado
la Quintana por su vestido. Se trata de Miguel Aceves Mejía, el popular
intérprete de El jinete y, sobre todo, de La malagueña. Sin ir más lejos, su interpretación
de Sonaron cuatro balazos, se escucha una y otra vez
en la radio cubana de esos días.
Bertha, con 19 años de edad, tiene sentado en la sala de su casa a
uno de los grandes representantes, junto con los ya entonces fallecidos Jorge
Negrete y Pedro Infante, de la música ranchera, a una estrella del cine
mexicano que en la pantalla comparte roles con grandes figuras como Lola
Beltrán —Guitarras de media noche, 1957—, Lola Flores —Tú y las nubes, 1955—, Libertad Lamarque —Cuatro copas, 1957— y María Félix —Camelia, 1953—, y que coprotagoniza uno de los filmes
más ambiciosos de la época en el que, entre otros, intervienen Katina
Rayniere e Yma Sumac y una cantante de la talla de Edith Piaf.
Aceves Mejía mira a Bertha y el rostro se le abre en una sonrisa. Es
cierto, ha trabajado mucho con Rosita Quintana. Lograron tanta química como
pareja en la película A los cuatro vientos (1954),
que los productores decidieron unirlos en otras producciones como Que seas feliz (1956). La conversación fluye por
otros caminos y nadie vuelve a mencionar el vestido de la Chata. Al fin se
despide el cantante, no sin antes anunciar que repetirá la visita.
Sin palabras
En la tarde del 23 de febrero suena el teléfono de la familia Gulías.
Aceves Mejía quiere conversar con Bertha. Se presentará esa noche en el cabaré
Sierra, centro nocturno de segunda línea ubicado en la calzada de Concha, en la
populosa barriada de Luyanó, y desea invitarla. Es un gustazo para ella, algo
grande que él la tenga presente, pero no, no acepta la invitación. Es soltera y
los convencionalismos sociales y el “qué dirán” impiden que acuda a un lugar
como aquel en la sola compañía de un hombre, un artista por añadidura. Aceves
Mejía no cede. Eso no es problema. Bertha puede responder a su invitación en
compañía de su señora madre y de todos sus primos, si así lo desean. Queda la
muchacha sin palabras. No sabe qué decir, pero al fin dice que sí, que irá.
Cuando cuelga el auricular, su familia le hace bromas. Media hora antes de
salir para el cabaré desconoce todavía la ropa que llevará. Se ha probado cinco
vestidos, que permanecen tirados encima de la cama, y ninguno le acomoda.
Hay en el cabaré Sierra luces y música, lentejuelas y chin chin de
copas. Canta Aceves Mejía, y Bertha y el mexicano no desperdician la ocasión
para fotografiarse. Una de esas fotos los atrapó con las caras muy juntas.
Mejía, de cuello y corbata, aprieta con su mano izquierda el brazo derecho de
su compañera, que quiere sonreír, pero que mira a la cámara como asustada.
Conmoción en La Habana
La Dirección de Deportes del Gobierno del general Fulgencio Batista
convoca al II Gran Premio de Cuba, en el que tomarán parte las figuras
más importantes de la Fórmula uno del automovilismo mundial, entre ellos el
astro argentino del volante Juan Manuel Fangio, cinco veces campeón del mundo y
ganador, el año anterior, del I Gran Premio. Competirán asimismo figuras como
Stirling Moss y el Marqués de Portago, entre otros 20 corredores extranjeros y
cubanos. La dictadura se jacta de la celebración de la carrera el 24 de
febrero, de la inauguración de Cinerama y de la pelea de boxeo por la faja
mundial de los pesos ligeros que disputarían en La Habana el cubano Orlando
Echevarría y el campeón norteamericano Joe Brown.
Un comando del Movimiento 26 de Julio se propone el secuestro de Fangio.
Sabe que un hecho como ese repercutiría en todos los continentes y lo asume
como una forma de llamar la atención acerca de la lucha que en Cuba se lleva a
cabo contra la dictadura batistiana. Demostraría la fortaleza de la Revolución,
activa no solo en la Sierra Maestra, sino también en las ciudades e incluso en
La Habana.
Diría años después uno de los protagonistas de aquel hecho: “Queríamos
llamar la atención sobre el proceso revolucionario cubano y procurar que el
mundo conociera la existencia de la contienda guerrillera en la Sierra Maestra
y la lucha clandestina en las ciudades. En pocas palabras, que se conociera más
de Cuba y de su confrontación por medio de las armas. El secuestro de Fangio
sería una breve retención. Una retención patriótica’.
Nunca más
Fangio pasaría poco más de 24 horas en poder de sus captores, que lo
entregarían a funcionarios de la Embajada argentina, tarde en la noche del día
24. Si el secuestro había sido riesgoso, la devolución resultaba más difícil y
arriesgada aun. Abandonar al campeón en cualquier esquina hubiera sido fácil.
Pero se temía que la dictadura lo asesinara para culpar luego al 26 de Julio.
Entre el secuestro y la aparición del corredor, todos los cuerpos de la
Policía trataron de dar con el paradero de Juan Manuel Fangio. Más de mil
agentes policiales, bajo las órdenes del coronel Orlando Piedra, jefe del Buró
de Investigaciones, participaron en la extraordinaria búsqueda, acometiendo
cientos de registros. Mientras tanto, carros patrulleros del Servicio de
Inteligencia Militar y la Sección Radio Motorizada de la Policía Nacional
mantuvieron una estrecha vigilancia en carreteras, caminos y aeropuertos para
evitar que el astro pudiera ser sacado de La Habana.
Bertha y Aceves Mejía no volvieron a verse nunca más después de aquella
noche en el cabaré Sierra. En la conversación que sobre este tema sostuvo con
la periodista Daphne E. Marante, ella deja entrever que fue el clima de
represión que se instauró en La Habana tras el secuestro de Fangio, lo que hizo
que la pareja dejara de verse.
“La conmoción creada por el secuestro de Fangio hizo que esa noche el
cabaré cancelara su espectáculo, influyendo en los ánimos de los espectadores,
de lo que no pudieron escapar Miguel y Berta. El secuestro de Fangio fue todo
un éxito para
el Movimiento 26 de Julio, pero el
romance quedó trunco””, dice Marante. La explicación parece demasiado simple al
escribidor. Otros debieron ser los motivos. Una de las partes pudo haberse
desencantado, y la diferencia de edad entre ambos —24 años— debe haber
influido. Un hecho no puede pasarse por alto. Es en aquel año de 1958, en que
Aceves Mejía, ya con 43 años de edad, decide reanudar relaciones con la
argentina Rita Martínez, con la que terminaría casándose en la propia fecha y
que sería su esposa para toda la vida.
De vuelta
El mexicano vino por primera vez a Cuba en 1951. Ya para entonces había
participado como testigo en la boda de Benny Moré, cuando el Bárbaro del Ritmo
contrajo matrimonio con la enfermera mexicana Juana Bocanegra, secretaria del
médico cantante Alfonso Ortiz Tirado.
Volvería a Cuba este hombre que tuvo en su repertorio obras de compositores
cubanos, como Jorge González Allué —Amorosa guajira—,
Ñico Saquito —Así no, papacito, así no—, Israel Cachao López —Repica la tambora—, Miguel Matamoros —Que siga el tren— y Alfredo Brito —Dos letras y un corazón—, entre otros, y que se inició
como cantante de boleros y ritmos afrocubanos.
De cualquier modo su última visita no la hizo por voluntad propia. A fines
de la década de los 60, Aceves Mejía nos visitó de manera accidental cuando la
aeronave donde viajaba entre Santo Domingo y la Ciudad de México fue
desviada y obligada a aterrizar en el aeropuerto de Santiago de Cuba. En la
terminal aérea, sus admiradores cubanos, que eran y siguen siendo muchos, lo
reconocieron y le pidieron que cantara. Aceptó la propuesta con gusto.
Interpretó canciones de siempre, aquellas que permanecen enraizadas en el
imaginario de la Isla. El jinete, La malagueña, La verdolaga, El pastor, Que seas feliz, La copa del olvido… En el testimonio fílmico de
entonces se le ve sonriente y feliz de estar en tierra cubana, como en casa
propia, rodeado del afecto de autoridades y pueblo. En esta Habana nuestra,
cargada de leyendas, una placa de bronce en la fachada del hotel Lincoln
recuerda el secuestro de Juan Manuel Fangio, el 23 de febrero de 1958. Unas
cuadras más abajo, en una vivienda modesta, duerme en una caja de cartón la
historia de un romance que no llegó a finales.
En el reverso de una de las fotografías que allí se atesoran, se lee:
“Bertita, acuérdate cuando veas esta foto de la noche que pasamos juntos en
el Sierra. Miguel”.
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