Pubblicato su Juventud Rebelde del 22/2/15
La gente, dall’interno,
veniva all’Avana e non voleva tornare alla propria terra senza visitare il
Capitolio. Chi poteva, si faceva fotografare col Capitolio sullo sfondo come
testimone imbattibile del suo soggiorno nella capitale. Lo stesso facevano gli stranieri
che visitavano l’Isola. Allora, la sede del Congresso della Repubblica era
circondata di alberghi di più o meno livello, pensioni e case private e fino
all’inaugurazione del Terminal degli Omnibus, nel 1952, gli autobus
interprovinciali facevano la prima e ultima fermata nella sua prossimità.
Lì non mancavano – non
mancano nemmeno adesso – i fotografi di strada con le loro macchine
antidiluviane che nessuno sa bene come funzionano: tutto un miscuglio con
servizio di sviluppo e stampa inclusi, né le osterie più modeste né i buoni
ristoranti come El Palacio de Cristal, nella calle Industria che fu a suo tempo
il migliore dell’Avana che dovette sopportare l’umiliante e triste destino di
diventare laboratorio per imbalsamare gli animali.
Il café El senado e i bar
Dorado e Capitolio erano punti di ritrovo obbligato. C’erano balli al Centro
Gallego e alla Gioventù Asturiana e la musica all’aperto amenizzava le serate
degli esercizi piccoli come La Barrita de Don Juan, frequentata da Nuñez
Rodríguez, sotostante all’hotel Comercio
e come il café di Lorenzo García, a fianco del cine Capitolio che
serviva al suo proprietario a coprire un lucrativo giro di prestiti di denaro.
Di sopra a García, abitava Agustín Rodríguez, autore del libretto della
zarzuela Cecilia Valdés, impresario e famoso frequentatore del teatro Martí che
tutte le mattine, alle cinque, prima di mettersi a scrivere, cercava
l’ispirazione in mezza bottiglias di rum Castillo.
Erano gli anni in cui gli
uomini tentavano di contenere la caduta dei capelli con l’applicazione di
lozioni tipo Calvfin che commercializzava il poeta e giornalista Gastón Baquero
e Manteca de Oso, di Ernesto Sarrá e si sbiancavano i denti con con polveri di
San Augustín. In quei giorni a qualunque cubano medio era sufficiente mettersi
una giacca perché gli fosse permesso l’accesso al Capitolio. Allora, il Paseo
del Prado e i dintorni del cosiddetto Palacio de la Leyes, erano luoghi alla
moda. In essi andava a finire chiunque si muovesse nella capitale fino a che,
negli anni ’50, La Rampa li spiazzò.
Ciò nonostante non si
concepisce l’Avana senza Prado e Capitolio. Sono simboli della città, parte
della sua storia e identità. Per la sua dimensione e bellezza, scrive lo
strorico Emilio Roig, “il Capitolio è
l’edificio più importante dell’Avana e di tutta Cuba. Quando finirà
l’importante restauro a cui è sottoposto, tornerà ad essere la sede del
Parlamento cubano”. Nela chiusura dell’VIII Legislatura dell’Asamblea Nacional,
il presidente Raúl Castro ha detto ai deputati che prima o poi si dovrebbe
tornare al Capitolio.
I
Terreni
I terreni che occupa il
Capitolio, appartennero alla Sociedad Económica de Amigos del País che satbilì
in questo luogo, a partire dal 1817, un giardino botanico. Il Governo coloniale
spagnolo, espropriò la Società di questo terreno e nel 1835, si cominciò a
costruire la stazione ferroviaria di Villanueva.
Togliere i treni da una zona
che si stava convertendo nella migliore dell’Avana fu, nelle decadi successive
del XIX secolo, un desiderio crescente degli avaneri. Il generale Manuel
Salamanca y Negrete, governatore dell’Isola volle effettuarlo nel 1890, ma morì
misteriosamente quando si disponeva a prendere le misure contro i responsabili
di una malversazione colossale, di 14 milioni di pesos, che venne a galla al
Dipartimento della Guerra della Colonia. Il proposito passò da un anno
all’altro fino a che, nel 1909, il presidente José Miguel Gómez decise di
prendere il toro per le corna. Per quello si cambiarono i terreni di Villanueva
per quelli dell’antico Arsenale, occupati oggi dala stazione centrale
ferroviaria. Ci voleva installare il Palazzo Presidenziale, installato fino ad
allora, nel vecchio Palazzo dei Capitani Generali.
Lo Stao consegnava a una
compagnia britannica, Ferrocarriles Unidos, i terreni dell’Arsenale valutati in
cinque milioni di pesos e riceveva in cambio quelli di Villanueva, non
acquisiti in modo pulito e che valevano appena due milioni. Il denaro che si
sarebbe mosso in modo sotterraneo, con commissioni e corruzioni, arriverà a José
Miguel che il popolo soprannominava Pescecane e ai suoi commilitoni, alle spalle degli
interessi della nazione.
Nel gennaio 1910 la
Commissione d’Industria e Bilancio del Senato dava al progetto di legge del
cambio un nulla osta favorevole e raccomandava la piena approvazione del suo
contenuto. Alla Camera dei Rappresentanti, con maggioranza liberale,
l’approvazione della legge era senza dubbio improbabile, vi si opponevano tanto
i conservatori che i liberali che capitanava Alfredo Zayas. Fu allora che i
“miguelisti” cucinarono una strategia infallibile: decisero che il fatto si
prendesse come una decisione di “partito”, cosa che obbligava tutti i
parlamentari, tanto miguelisti come zayisti, a concedere il voto favorevole.
Dinamite
alla cupola
Le opere della residenza del
Palazzo Presidenziale cominciarono protette da un credito di un milione di
pesos e la costruzione si paralizzò all’assumere la presidenza il generale
Mario García Menocal. I suoi piani erano altri. Voleva edificare il Palazzo nei
terreni della Quinta de los Molinos e l’edificio appena inziato sarebbe rimasto
come sede del Legislativo. Questa scelta
obbligò a fare modifiche sostanziali al progetto originale degli architetti
Rayneri (padre e figlio) e impose che si dinamitasse la cupola già costruita e
che pesdava 1200 tonnellate.
Naturalmente, Menocal non
giunse a costruire il Palazzo. In quei giorni il generale Ernesto Asbert,
governatore dell’Avana, costruiva il palazzo che sarebbe stata sede del governo
provinciale. Mariana Seba, la Prima Dama, s’innamorò di questo edificio,
Menocal lo confiscò e lo Stato pagò mezzo milione di pesos per l’immobile che
con gli adattamenti pertinenti, si destinò a Palazzo Presidenziale. È l’attuale
Museo della Rivoluzione.
Le opere del Capitolio si
riannodarono nel 1917, solo per interrompersi due anni più tardi per mancanza
di fondi e nel 1921 il presidente Zayas le sospese definitivamente.
Quando, nel 1925 Machado giunge alla
presidenza, trova il Capitolio costruito a metà e con aspetto di una rovina.
17
milioni
A Cuba, le dittature lo sono
state anche di cemento armato. Machado si era proposto di modernizzare la
capitale cubana e in certa misura, il Paese, si era imbarcato in un vasto e
ambizioso piano di opere pubbliche. Sotto il suo governo si rimodellò il Paseo
del Prado, il Campo di Marte si trasformò in Piazza della Fraternità e si
tracciò la Avenida de las Misiones. Proseguì allungando il Malecón, venne
inaugurata la Carretera Central e si eresse la Scalinata universitaria. Si
costruirono l’aeroporto e l’hotel Nacional...
Sembrava impensabile che
Machado e il suo megalomane ministro delle Opere Pubbliche, Carlos Miguel de
Céspedes, lasciassero il Capitolio, inconcluso, fuori dal loro mirino. Nel 1926
si riannodarono le opere. Si sarebbe aprofittato della costruzione esistente,
anche se il progetto dovette subire innumerevoli modifiche. I migliori
architetti cubani di allora – Cabarrocas, Govantes, Otero, Rayneri, Bens...- e
alcuni stranieri come Forestier, sopratutto per i giardini, si gettarono sui disegni,
mentre la parte materiale era stata assegnata all’impresa Purdy and Henderson,
contrattisti nordamericani che fecero ottimi affari nel Paes con la costruzione
della Lonja del Comercio, l’edificio della Metropolitana, l’hotel Nacional e i
centri Gallego e Asturiano.
Il Capitolio occupa una
superficie totale di 12.000 metri quadrati, di essi ne sono coperti 10.839. I
suoi giardini hanno un’estensione di 26.500 metri quadrati.
Dati che dettte a conoscere
all’epoca il giornale El Mundo, rivelano che nella sua costruzione si
impiegarno cinque milioni di mattoni, più di tre milioni di piedi di legname,
150.000 barili di cemento e 38.000 metri cubi di sabbia. Anche 40.000 metri
cubi di pietra spaccata e 25.000 metri cubi di pietra da cantiere, 3.500 tonnellate
di struttra in acciaio e 2.000 tonnellate di tondino.
Dopo tre anni di lavoro,
l’edificio si inaugurò in maniera solenne, il 20 maggio del 1929. Era costato,
si dice, 17 milioni di pesos.
I
passi perduti
La sua cupola è, per il suo
diametro e altezza, la sesta del mondo. La lanterna che la rifinisce si trova a
94 metri dall’altezza del suolo e al momento dell’inaugurazione dell’edificio
la superavano, nel suo genere, quella di San Pietro a Roma e quella di San
Paolo a Londra, 129 e 107 metri di altezza, rispettivamente.
La scalinata monumentale,
con 55 gradini, ha sdulla cima due gruppi scultorei. Uno simbolizza il Lavoro o
il Progresso dell’attività umana; l’altro la Virtù tutelare del popolo. Sono
opere dell’italiano Angelo Zanelli, autore dell’Altare della Patria che a Roma
forma parte del monumento al re Vittorio Emanuele. Di questo scultore è anche
la Statua della Repubblica che si distingue nell’imponente Salone dei Passi
Perduti, esattamente sotto la cupola. Il suo peso è di 30 tonnellate e si eleva
aun’altezza totale di 14,6 metri. La
Repubblica, in essa, è rappresentata da una donna giovane che appare in piedi e coperta da una tunica,
porta casco, lancia e scudo. Molto poco si sa dell’appetitosa cubana che servì
da modella a questa scultura. Ai suoi piedi, incastonato nel pavimento a
specchio, un brillante segnava il kilometro zero della Carretera Central. Si
afferma che la gemma appartenne a una delle corone dell’ultimo zar di Russia.
Fino al 1958, questo palazzo
dei palazzi, ospitò il Senato e la Camera dei Rappresentanti. Dalle sue
finestre si mitragliò la cittadinanza che, disarmata e gioiosa celebrava, per
errore, la caduta di Machado il 7 di agosto del 1933. Quando il despota cadde
ralmente il 12, il popol saccheggiò il Palazzo Presidenziale e le residenze dei
machadisti più noti, ma non il Capitolio, anche se si sfigurò a martellate,
come si può ancora vedere, il volto di Machado, scolpito a rilievo nel portico
dell’edificio.
Durante il primo governo del
presidente Grau San Martín si installò, nel Capitolio, il recentemente creato
Ministero (Segreteria) del Lavoro e tennero sessione i cosieddetti Tribunali
delle Sanzioni che giudicarono i machadisti. Fu in uno dei suoi uffici che nel
gennaio del 1934, Antonio Guiteras redattò, alla luce di una candela, il
decrteo che disponeva l’esproprio della Compagnia Cubana dell’Elettricità. Al
tempo dei presidenti Mendieta e Barnet risiedette lì il Consiglio di Stato,
fino a che si resaturò il Parlamento nel maggio del 1936. Lì nel dicembre di
quell’anno, il Senato giudicò e destituì il presidente Miguel Mariano Gómez e
nell’emiciclo della Camera sessionò l’assemblea che elaborò la Costituzione del
1940. Dopo il 1959 fu sede dell’Accademia delle Scienze e poi del Ministero di
Scienza Tecnologia e Ambiente, cosa che obbligò a fare trasformazioni e
adattamenti nell’edificio che si andava deteriorando mentre la sporcizia si
impadroniva dei suoi spazi esterni e interni. Ben merita, il suo restauro,
questo simbolo dell’identità e della storia dell’Avana.
El Capitolio
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
21 de Febrero del 2015
La gente del interior venía a La Habana y no
quería volver a su tierra
sin visitar el Capitolio. El que podía, se
fotografiaba con el
Capitolio al fondo como testimonio imbatible de
su estancia en la
capital. Lo mismo hacían los extranjeros que
visitaban la Isla.
Entonces la sede del Congreso de la República
estaba rodeada de
hoteles de mayor o menor cuantía, pensiones y
casas de huéspedes, y
hasta la inauguración de la Terminal de Ómnibus,
en 1952, las guaguas
interprovinciales hacían en sus inmediaciones la
primera y la última
parada.
No faltaban allí --no faltan tampoco ahora-- los
fotógrafos callejeros
con sus cámaras antediluvianas que nadie sabe
bien cómo funcionan;
todo un engendro con servicios de revelado e
impresión acoplados, ni
las fondas de medio pelo, ni los buenos
restaurantes como El Palacio
de Cristal, en la calle Industria, que fue en su
tiempo el mejor de La
Habana y que debió soportar el humillante y
triste destino de quedar
convertido en un taller para embalsamar
animales.
El café El Senado y los bares Dorado y Capitolio
eran puntos de cita
obligados. Había bailes en el Centro Gallego y
en la Juventud
Asturiana, y la música de los aires libres
amenizaba la noche.
Abundaban los establecimientos pequeños como La
Barrita de Don Juan,
frecuentada por Núñez Rodríguez, en los bajos del
hotel Comercio, y
como el café de Lorenzo García, al lado del cine
Capitolio, que servía
a su dueño para tapar un lucrativo negocio de
préstamos de dinero. En
los altos de García vivía Agustín Rodríguez,
autor del libreto de la
zarzuela Cecilia Valdés, empresario y famoso
sainetero del teatro
Martí, que todas las mañanas, a las cinco, antes
de ponerse a
escribir, buscaba la inspiración en media
botella de ron Castillo.
Eran los años en que los hombres intentaban
contener la caída del
cabello con la aplicación de lociones como
Calvifín, que
comercializaba el poeta y periodista Gastón
Baquero, y Manteca de Oso,
de Ernesto Sarrá, y se blanqueaban los dientes
con los polvos de San
Agustín. En esos dìas a cualquier cubano de a
pie le bastaba con
ponerse una chaqueta para que se le franqueara
el acceso al Capitolio.
Entonces el Paseo del Prado y los alrededores
del llamado Palacio de
las Leyes eran lugares de moda. A ellos iba a
parar todo lo que se
movía en la capital, hasta que en la década del
50 La Rampa los
desplazó.
Aun así no se concibe a La Habana sin Prado ni
Capitolio. Son símbolos
de la ciudad, parte de su historia e
identidad. Por su magnitud y
belleza, escribe el historiador Emilio Roig, “el
Capìtolio es el
edificio más importante de La Habana y de toda
Cuba. Cuando concluya
la impresionante restauración a la que se le
somete, volverá a ser la
sede del Parlamento cubano”. Al clausurar la
VIII Legislatura de la
Asamblea Nacional, el presidente Raúl Castro
dijo a los diputados que
algún día habría que regresar al Capitolio.
Los
terrenos
Los terrenos que ocupa el Capitolio pertenecieron a la Sociedad
Económica de Amigos del País que fomentó en ese
lugar, a partir de
1817, un jardín botánico. El Gobierno colonial
español enajenó a la
Sociedad la propiedad de ese terreno, y en 1835
se comenzó a construir
allí la estación de trenes de Villanueva.
Sacar los ferrocarriles de una zona que iba
convirtiéndose en la mejor
de La Habana fue, en las décadas postreras del
siglo XIX, un anhelo
creciente de los habaneros. El general Manuel
Salamanca y Negrete,
gobernador de la Isla, quiso acometerlo en 1890,
pero murió
misteriosamente cuando se disponía a tomar
medidas contra los
responsables de una malversación colosal de 14
millones de pesos, que
salió a flote en el Departamento de Guerra de la
Colonia. El propósito
pasó de un año a otro, hasta que en 1909 el
presidente José Miguel
Gómez decidió tomar el toro por los cuernos.
Para ello se canjearían
los terrenos de Villanueva por los del antiguo
Arsenal, ocupados hoy
por la estación central de los ferrocarriles.
Quería edificar en ellos
el Palacio Presidencial, instalado hasta
entonces en el viejo Palacio
de los Capitanes Generales.
El Estado entregaba a una compañía británica,
Ferrocarriles Unidos,
los terrenos del Arsenal, valorados en más de
cinco millones de pesos,
y recibía a cambio los de Villanueva, no
adquiridos limpiamente y que
apenas valían dos millones. El dinero que se
movería bajo cuerda, por
comisiones y sobornos, empaparía a José Miguel,
a quien el pueblo
apodaba Tiburón, y salpicaría a sus
conmilitones, a costa de los
intereses de la nación.
En enero de 1910, la Comisión de Hacienda y
Presupuesto del Senado
daba al proyecto de ley del canje un dictamen
favorable y recomendaba
su aprobación al pleno de ese cuerpo. En la
Cámara de Representantes,
con mayoría liberal, la aprobación de la ley,
sin embargo, era
improbable pues se le oponían tanto los
conservadores como los
liberales que capitaneaba Alfredo Zayas. Fue
entonces que los
miguelistas cocinaron una estrategia infalible:
decidieron que el
asunto se tomara como una cuestión de “partido”,
lo que obligaba a
todos los parlamentarios, tanto miguelistas como
zayistas, a
concederle el voto favorable.
Dinamitan
la cúpula
Las obras de la mansión del Palacio Presidencial
comenzaron
respaldadas por un crédito de un millón de
pesos, y la construcción se
paralizó al asumir la presidencia el
general Mario García Menocal.
Otros eran sus planes. Quería edificar el
Palacio en los terrenos de
la Quinta de los Molinos y el edificio recién
comenzado quedaría como
sede del Legislativo. Esa determinación obligó a
hacer modificaciones
sustanciales al proyecto original de los
arquitectos Rayneri (padre e
hijo) e impuso que se dinamitara la cúpula ya
construida y que pesaba
1 200 toneladas métricas.
Sin embargo, Menocal no llegó a construir el
Palacio. En aquellos
días, el general Ernesto Asbert, gobernador de
La Habana, construía el
palacio que sería la sede del gobierno
provincial. Mariana Seba, la
Primera Dama, se enamoró de ese edificio,
Menocal lo confiscó y el
Estado pagó medio millón de pesos por el
inmueble que, con las
adaptaciones pertinentes, se destinó a Palacio
Presidencial. Es el
actual Museo de la Revolución.
Las obras del Capitolio se reanudaron en 1917,
solo para que se
interrumpieran dos años más tarde por falta de
dinero, y en 1921 el
presidente Zayas las suspendió definitivamente.
Cuando en 1925 Machado
llega a la presidencia encuentra el Capitolio a
medio hacer y con
aspecto de ruina.
17 millones
En Cuba las dictaduras lo han sido también de hormigón armado. Machado
se propuso modernizar la capital cubana y, en
cierta medida, el país,
por lo que se embarcó en un vasto y ambicioso
plan de obras públicas.
Bajo su gobierno, se remodeló el Paseo del
Prado, el Campo de Marte se
transformó en Plaza de la Fraternidad y se trazó
la Avenida de las
Misiones. Prosiguió extendiéndose el Malecón,
quedó inaugurada la
Carretera Central y se levantó la Escalinata
universitaria. Se
construyeron el aeropuerto y el hotel
Nacional...
Resultaba impensable que Machado y su megalómano
ministro de Obras
Públicas, Carlos Miguel de Céspedes, dejaran el
Capitolio inconcluso
fuera de su punto de mira. En 1926 se reanudaron
las obras. Se
aprovecharía lo ya construido, aunque el
proyecto debió sufrir
modificaciones innumerables. Los mejores
arquitectos cubanos de
entonces --Cabarrocas, Govantes, Otero, Rayneri,
Bens...-- y algunos
extranjeros, como Forestier, sobre todo para los
jardines, se volcaron
sobre los planos, en tanto que la parte material
era encomendada a la
empresa Purdy and Henderson, contratistas
norteamericanos que hicieron
muy buenos negocios en el país con la
construcción de la Lonja del
Comercio, el edificio de La Metropolitana, el
hotel Nacional y los
centros Gallego y Asturiano.
El Capitolio ocupa una superficie total de 12
000 metros cuadrados, de
ellos son área techada 10 839 metros cuadrados.
Sus jardines tienen
una extensión de 26 500 metros cuadrados.
Datos que dio a conocer en su momento el periódico
El Mundo revelan
que en su construcción se emplearon cinco
millones de ladrillos, más
de tres millones de pies de madera, 150 000
barriles de cemento y 38
000 metros cúbicos de arena. También 40 000
metros cúbicos de piedra
picada y 25 000 metros cúbicos de piedra de
cantería, 3 500 toneladas
de acero-estructura y 2 000 toneladas de
cabillas.
Tras tres años de trabajo, el edificio se
inauguró de manera solemne
el 20 de mayo de 1929. Había costado, se dice,
17 millones de pesos.
Los pasos
perdidos
Su cúpula es, por su diámetro y altura, la sexta
del mundo. La
linterna que la remata se halla a 94 metros del
nivel de la acera, y
en el momento de inaugurarse el edificio solo la
superaban, en su
estilo, la de San Pedro, en Roma, y la de San
Pablo, en Londres, con
129 y 107 metros de alto, respectivamente.
La escalinata monumental, con 55 escalones,
tiene en la cima dos
grupos escultóricos. Uno simboliza El trabajo o
El progreso de la
actividad humana; el otro, La virtud tutelar del
pueblo. Son obras del
italiano Angelo Zanelli, autor del Altar de la
Patria, que en Roma
forma parte del monumento al rey Víctor Manuel.
También de ese
escultor es la Estatua de la República, que se
destaca en el imponente
Salón de los Pasos Perdidos, exactamente debajo
de la cúpula. Su peso
es de 30 toneladas y se eleva a una altura total
de 14,6 metros. La
República, en ella, está representada por una
mujer joven que aparece
de pie y cubierta por una túnica, y lleva casco,
lanza y escudo. Muy
poco se sabe de la apetitosa cubana que sirvió
de modelo a esa
escultura. A sus pies, empotrado en el piso
espejeante, un brillante
marcaba el kilómetro cero de la Carretera
Central. Se afirma que la
gema perteneció a una de las coronas del último
zar de Rusia.
Hasta 1958 este palacio de palacios dio albergue
al Senado y a la
Cámara de Representantes. Desde sus ventanas se
ametralló a la
ciudadanía que, desarmada y jubilosa, celebraba
equivocadamente, el 7
de agosto de 1933, la caída de la dictadura de
Machado. Cuando, el día
12, el déspota cayó de verdad, el pueblo saqueó
el Palacio
Presidencial y las residencias de los
machadistas más connotados, pero
no el Capitolio, aunque sí desfiguró a
martillazos, como puede verse
aún, el rostro de Machado esculpido al relieve
en el pórtico del
edificio.
Durante el primer gobierno del presidente Grau
San Martín se instaló
en el Capitolio el recién creado entonces
Ministerio (Secretaría) del
Trabajo y sesionaron en él los llamados
Tribunales de Sanciones, que
juzgaron a los machadistas. Fue en una de sus oficinas
que en enero de
1934 Antonio Guiteras redactó, a la luz de una
vela, el decreto que
disponía la intervención de la Compañía Cubana
de Electricidad. En
tiempos de los presidentes Mendieta y Barnet
radicó allí el Consejo de
Estado, hasta que se restauró el Parlamento en
mayo de 1936. Allí, en
diciembre de ese año, el Senado juzgó y
destituyó al presidente Miguel
Mariano Gómez, y en el hemiciclo de la Cámara
sesionó la asamblea que
elaboró la Constitución de 1940. Después de 1959
fue sede de la
Academia de Ciencias y luego del Ministerio de
Ciencia, Tecnología y
Medio Ambiente, lo que obligó a hacer
transformaciones y adaptaciones
en el edificio, que se iba deteriorando mientras
la suciedad se
adueñaba de sus espacios exteriores e
interiores. Bien merece su
restauración este símbolo de la identidad
y la historia de La Habana.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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