Pubblicato su juventud Rebelde del 26/4/15
Nell’Ambasciata di Cuba a
Parigi, c’erano invitati quella sera e il grande chef Gilberto Smith assunse,
come d’abitudine, la preparazione della cena. Mandò i primi piatti alla tavola
e quando si disponeva a farlo con l’aragosta, già pronta per essere servita,
una caraffa di caffè si rovesciò su di essa.
Caffè cubano, forte e aromatico. Smith la sgocciolò, ma il liquido era
penetrato nella massa e il sapore del caffè si faceva sentire. Pensò di
“ammazzarlo” con cognac, whisky o altro liquore, ma fu inutile sapeva sempre
più di caffè. L’aragosta era molto ben preparata. Appetitosissima, ma il gusto
del caffè era sempre lì. Allora gli aggiunse salsa olandese; niente. Panna
montata; nemmeno. L’aragosta diventava sempre migliore, ma il caffè continuava
ad uscire. Ricorse al formaggio parmigiano. È forte e molto profumato. L’unica
cosa che ottenne fu di migliorare il sapore del suo piatto.
Stordito, sconcertato, madò
l’aragosta a tavola. Lo struggeva l’idea della figuraccia quando, quelli che la
degustarono, richiesero la sua presenza. Aspettava il rimprovero, ma no. Non
avevano mai provato niente di simile, dissero. Vollero conoscere il nome di
quel piatto e la sua ricetta. “Si chiama argosta al caffè ed è stata preparata
apposta per voi” rispose Gilberto Smith. Non dicendo nessuna bugia.
Successivamente l’avrebbe
perfezionata. Le aggiunse funghi, la intinse nel cognac, aumentò il tabasco e
la salsa inglese...Il piatto cominciò a camminare da solo. Si estese in
Francia, Belgio, Italia. A Milano, dove l’aragosta al caffè vinse il primo
premio in un concorso internazionale, la gente riconosceva Smith pert la strada
elo chiamava “Commendatore”. Anni dopo, Fidel Castro, lo raccontò nella celebre
intervista che concedette a Frei Betto.
Suo padre, in un certo
senso, fu il suo primo maestro epoi “si fece” in trattorie e ristoranti di
secondo ordine fino a che, a 16 anni, lo designarono come chef di cucina in un
importante hotel avanero. Fu membro dell’Accademia Culinaria di Francia e lo
soprannominarono “Il mago delle salse”. I suoi piatti a base di pesce e frutti
di mare sono famosi e sono innumerevoli le personalità che assaporarono quello
che usciva dalle sue mani. Cucinò per Chirac, Mitterand e Pompidou, tre
presidenti della Francia. Per Alain Delon, Jean Paul Belmondo, Edith Piaf e
Maurice Chevalier. Romy Schneider e Julio Iglesias. Paco Rabanne, Nat King
Cole, Brigitte Bardot, Juan Manuel Serrat, Geraldine Chaplin, Jean Paul Sartre,
Alicia Alonso...
García Márquez fu
affascinato dal consommè di oca che Smith gli preparò al ristorante La Rueda.
Alejo Carpentier che si sentiva svenire per l’anatra all’arancia del maestro,
nel dedicargli il suo romanzo La
consacrazione della primavera, scrisse: “Per il gran chef Smith, maestro
nella lte arti culinarie”.
Il Giappone gli assegnò la
Medaglia d’Oro Speciale. Il Governo italiano gli conferì l’Ordine di Caterina
de’ Medici. Nel megaevento culinario Perú 2001 gli venne attribuito il titolo
di Chef del Millennio. Fu, si dice, il cuoco più premiato del mondo’
Ricordiamolo nel quinto
anniversario della sua morte.
Piatti
di sempre
L’investigatrice spagnola
Beatriz Calvo Peña studia tre libri
di ricette di cucina cubana che si trovano a cavallo tra la fine del XIX scolo
e l’inizio del XX. Il primo s’intitola Nuovo
manuale della cuoca catalana e cubana, del cuoco catalano Juan Cabrisas,
pubblicato roriginariamente nel 1858. Il secondo libro non fa riferimento a
nessun autore. Fu pubblicato nel 1862 e
si intitola Il cuoco dei malati,
convalescenti e disappetenti. Mentre il terzo, Nuovo manuale del cuoco creolo, è del 1914 ed è firmato da
José Triay, giornalista del Diario de la
Marina.
Nei tre libri appaiono le
ricette del “ajiaco” (tipo di brodo)
del “picadillo” (piatto abase di
carne macinata) e “la ropa vieja”
(specie di stufato di carne), piatti che arrivano fino a noi con lo stesso nome
e una preparazione più o meno simile. Nell’opinione dell’autrice, la poca
variazione che si riscontra negli ingredienti di questi piatti nei tre
ricettari, conferma che già a metà del XIX secolo esisteva una rdizione di
cucina cubana ben radicata e che certi piatti erano già identificati come
autentici e propri dell’Isola. Si mette in evidenza anche l’interesse degli
autori di questi libri di accentuare una cucina sopratutto cubana, avanera,
anche se non scartano l’inclusione di piatti che chiamano “piatti dell’interno”
e che arrivano a identificare anche col nome della località a cui si
attribuisce la loro origine.
La cucina cubana è
differenziata, nei tre titoli, da quella spagnola. Per l’autore del Nuovo manuale della cuoca catalana e cubana
esiste un modo, nattamente creolo, di elaborare i piatti. Ci sono anche
ingredienti caratteristici come le frutta del tropico e lo zucchero. L’impiego
di verdure e tubercoli di origine americana e i contorni a base di riso bianco,
banane fritte o condimentate sono costanti nel palato cubano.
Gli autori alludono a piatti
alla cubana, alla creola e all’avanera di cui questi ultmi sono i più
elaborati.
Le caratteristiche emergenti
della cucina cubana della fine del XIX
secolo e inizio del XX, sono nell’uso del grasso di maiale, il
predominio della carne di questo animale che comincia a profilarsi come
alimento nettamente cubano, l’utilizzazione come ingredienti base di silantro e
il peperone, il misto di dolce e salato...Beatriz Calvo scrive: “Riassumendo, quello
che caratterizza definitivamente la cucina cubana è l’oscillazione tra la
semplicità di un piatto di riso con grasso di maiale, ovvero il riso bianco
creolo e il barocco di una padella cubana, un ajiaco o delle uova pasticciate all’avanera, il colmo della
complessità".
Un altro aspetto che
identifica la cucina cubana è la decorazione dei piatti. Nei tre libri c’è una
chiara coincidenza di come si addobbano. I piatti denominati alla cubana, alla
creola o all’avanera normalmente compartono la caratteristica di essere
addobbati con un prodotto essenziale a Cuba, la banana. Illustra la spagnola
Calvo: “Questo dettaglio, per semplice che appaia, è tutta una rivendicazione
di identità. Assieme alla banana, le frutta tropicali sono un elemento
essenziale nell’immaginazione della comunità cubana”.
L’investigatrice della
penisola concede eccezionale importanza all’ajiaco.
Dice che si trata del piatto più ricco in quanto alla varietà d’ingredienti,
ebbene riunisce tre tipi di carne – bovina, di maiale e pollo o gallina –
verdure essenzialmente americane e specie mediterranee come lo zafferano, il
comino e il culantro, assieme allo stesso limone, propri anche della cucina del
Mediterraneo e il peperone, non sempre presente in ogni ajiaco.
L’ajiaco si convertì in tutta un’istituzione dentro la cucina cubana,
in ogni mitologia, come disse Fernando Ortiz, contiene in sé tutta l’essenza
del creolo isolano. Il cocido è un
piatto genuinamente spagnolo, l’ajiaco
cubano è il suo derivato naturale. In definitiva, le banane el’ajiaco si convertono in autentiche
mitologie dell’identità cubana.
Cuba comincia a dipendere
dagli USA e il cambiamento lascia la sua traccia in cucina. C’è un desiderio di
modernità, entrano le conserve, entra il forno. Anteriormente al 1914, l’ora
d’infornare era il momento di chedere questo favore al panettiere. A partire da
questa data la casalinga può disporre di questo apparato che si importa e si
vende all’Avana. Il turismo fa che si estenda il gusto per i piatti stranieri.
In questo modo, piatti di altre cucine prendono dirittto di cittadinanza nella
nostra.
Un Paese ha i suoi propri
cibi e li elabora nel modo migliore alle sue caratteristiche, in quasto caso
“al gusto dell’Isola di Cuba”. E qua la parola gusto ha le sue connotazioni
patriottiche, giacché si tratta del nostro, del nazionale.
Congrí, gloria della cucina cubana
Il congrí, questa gioia della cucina cubana, è un misto di riso bianco
con i fagioli rossi, conditi assieme, Non si deve confondere il congrí con los moros y cristianos che è la condimentazione del riso bianco con
i fagioli neri, seppure per estensione anche coi neri lo si chiama congrí.
Nella cucina dei popoli dei Caraibi è onnipresente la
combinazione di riso con diverse varietà di fagioli. C’è in Giamaica, nella
Guadalupa e a Trinidad. In Venezuela è riso con caraotas; a Portorico, riso con fagiolini, a Santo Domingo moros y cristianos o semplicemente moros. In Centro America, riferendosi
forse giovialmente alle nostre sintesi etniche, matrimonio. Gli andalusi lo
chiamano Empedrado alla salsina di
riso con fagioli e gli haitiani, per preparare il congrí, innaffiano il riso bianco con latte di cocco.
Alejo carpentier porta la
nostalgiandi questo piatto al suo racconto I
fuggitivi.Uno schiavo fugge col suo cane dalle baracche della tenuta e già
nella boscaglia, sembra fuori dalla portata dei capoccia e cacciatori,
rimpiangono la sicurezza della dimora. Il cane rimpiange le ossa portate
all’azienda verso il tramonto, mentre l’uomo ha nostalgia del congrí, portato in secchi alle baracche,
dopo del ritnocco delle orazioni o quando si riponevano i tamburi, la domenica.
Il folklorista orientale
Ramón Martínez affermava che un congrí
si compone di riso con fagioli, grasso e pezzettini di pancetta fatti a
ciccioli, senza specificare che tipo di fagioli. Attribuisceb origine africana
a questa parola.
Anche Fernando Ortiz da,
tanto al congrí come ai moros una possibile, ma non provata,
origine africana. Ortiz afferma che congrí
è voce del creolo haitiano, già che in quest’isola caraibica i fagioli rossi si chiamano congos e il riso si chiama riz, come in francese e da congo e riz, argomenta i savio cubano, sorge la voce congrí. Anche se Ortiz non lo dice, a Cuba si chiamò congo il fagiolo rosso.
L’erudito José Juan Arrom
assicura che “non ci sarebbe niente di strano se i coloni francesi che si
rifugiarono a Santiago de Cuba, fuggendo agli schiavi sollevati ad Haiti non
chiamassero questo piatto pois et riz, come
si chiama ancora in quell’isola, ma congue
el riz. E questa frase terminerebbe pronunciandosi cong-e-rí in francese e
naturalmente congrí in spagnolo.
Ortiz anticipa la possibile
origine di questo piatto, nel redigere il suo studio La cucina afrocubana, quello che dice il già citato Ramón Martínez
nel suo libro Oriente folklórico del
qual peraltro poté fare solo 12 esemplari.
Martínez scrive che un negro
volendo cucinare cibo veloce e senza condimento, mise a bollire riso e fagioli
assieme che si cucinarono quasi contemporaneamente, perché i fagioli erano
freschi. Più tardi il piatto si cucinò con maggior attenzione; si misero a
cuocere prima i fagioli fino a che fossero morbidi, dopo si condirono e gli si
aggiunse il riso e quando questo si aprí, si tolse un po’ d’acqua dalla
casseruola e si lasció asiugare il condimento a fuoco lento.
Mancha manteles
Había
invitados esa noche en la Embajada de Cuba en París, y el gran chef Gilberto
Smith asumió, como de costumbre, la preparación de la cena. Envió los primeros
platos a la mesa, y cuando se disponía a hacerlo con la langosta, lista ya para
servir, una jarra de café se derramó sobre ella. Café cubano, fuerte y
aromático. La escurrió Smith, pero el líquido había penetrado la masa y el
sabor del café se hacía bien patente. Pensó en “matarlo” con coñac o whisky y
algún licor, pero fue inútil: más le sabía el café. Estaba muy bien la
langosta, sabrosísima, pero el gusto del café estaba ahí. Le puso entonces
salsa holandesa; nada. Nata de leche batida; tampoco. Cada vez se ponía mejor
la langosta, y el café, sin embargo, seguía “saliendo”n. Recurrió al queso parmesano.
Es fuerte, huele mucho. Lo único que consiguió fue mejorar el sabor de su
plato.
Aturdido,
desconcertado, envió la langosta a la mesa. Le agobiaba la idea del papelazo,
cuando los que la degustaron requirieron su presencia. Esperaba el reproche,
pero no. Nunca habían probado nada igual, aseguraron. Quisieron conocer el
nombre de aquel plato, su elaboración. “Se llama langosta al café y fue
confeccionada especialmente para ustedes”, respondió Gilberto Smith. No dijo
ninguna mentira.
Luego lo perfeccionaría.
Le añadió champiñones, quemó la langosta con coñac, aumentó el tabasco y la
salsa inglesa… El plato comenzó a caminar solo. Se extendió por Francia,
Bélgica, Italia. En Milán, donde la langosta al café ganó el primer premio en
un concurso internacional, la gente reconocía a Smith en la calle y le llamaba
“Comendador”. Años después, Fidel Castro lo mencionaría en la célebre
entrevista que le concediera a Frei Betto.
Su padre, en
cierto sentido, fue su primer maestro y luego “se hizo” en fondas y restaurantes
de poca monta, hasta que a los 16 años lo designaron jefe de cocina de un
importante hotel habanero. Fue miembro de la Academia Culinaria de Francia y le
llamaron “El mago de las salsas”. Sus platos a base de pescados y mariscos son
famosos y resultan incontables las personalidades que se deleitaron con lo que
salía de sus manos. Cocinó para Chirac, Mitterrand y Pompidou, presidentes de
Francia los tres. Para Alain Delon y Jean Paul Belmondo. Edith Piaf y Maurice
Chevalier. Romy Schneider y Julio Iglesias. Paco Rabanne, Nat King Cole,
Brigitte Bardot, Juan Manuel Serrat, Geraldine Chaplin, Jean Paul Sartre,
Alicia Alonso…
A García
Márquez le fascinó el consomé de oca que Smith le preparó en el restaurante
habanero La Rueda. Alejo Carpentier, que se desvivía por el pato a la naranja
del maestro, al dedicarle su novela La consagración de la primavera,
escribió: “Para el gran chef Smith, maestro en altas artes culinarias”.
Japón le
otorgó la Medalla de Oro Especial. El Gobierno italiano le confirió la Orden
Catalina de Médicis. En el megaevento culinario Perú 2001 se le entregó el
título de Chef del Milenio. Fue, dicen, el cocinero más galardonado del mundo.
Recordémoslo
en el quinto aniversario de su muerte.
Platos de siempre
La
investigadora española Beatriz Calvo Peña estudia tres libros de recetas de
cocina cubana que se encuentran a caballo entre finales del siglo XIX y
comienzos del XX. El primero se titula Nuevo manual de la cocinera
catalana y cubana, del cocinero catalán Juan Cabrisas, publicado
originalmente en 1858. El segundo libro no consigna autor alguno. Se publicó en
1862 y se titula El cocinero de los enfermos, convalecientes y desganados. En tanto, el tercero, Nuevo manual del cocinero criollo, es de 1914 y está
firmado por José Triay, periodista del Diario de la Marina.
En los tres
libros aparecen las recetas del ajiaco, el picadillo y la ropa vieja, platos
que llegan hasta nosotros con el mismo nombre y una preparación más o menos
similar. En opinión de la autora, la poca variación que se evidencia entre los
ingredientes de esos platos en los tres recetarios, confirma que ya para
mediados del siglo XIX existía una tradición de cocina cubana bien asentada, y
que ciertos platos eran ya identificados como auténticos y propios de la Isla.
Se pone de manifiesto asimismo el interés de los autores de esos libros por
acentuar una cocina sobre todo urbana, habanera, aunque no descartan la inclusión
de lo que llaman “platos de tierra adentro” y que llegan a identificar incluso
con el nombre de la localidad a que se atribuye su origen.
La cocina
cubana está en los tres títulos diferenciada de la española. Para el autor del Nuevo manual de la cocinera catalana y cubana existe
una manera netamente criolla de elaborar los platos. Hay también ingredientes
característicos como las frutas del trópico y el azúcar. El empleo de viandas y
tubérculos de origen americano y la guarnición a base de arroz blanco o de
plátanos fritos o salcochados son constantes en el paladar cubano. Los autores
aluden a platos a lo cubano, a lo criollo y a lo habanero, que son, estos
últimos, los más elaborados.
Las
características sobresalientes de la cocina cubana de fines del siglo XIX y
comienzos del XX son el uso de la manteca de puerco, el predominio de la carne
de ese animal, que empieza a perfilarse como alimento netamente cubano, la
utilización como ingredientes básicos de especias como el cilantro y el ají, la
mezcla de lo dulce con lo salado… Escribe Beatriz Calvo: “En resumen, lo que
definitivamente caracteriza a la cocina cubana es una oscilación entre la
sencillez de un plato de arroz con manteca, o sea, el arroz blanco criollo, y
el barroquismo de una olla cubana, un ajiaco o unos huevos guisados a la habanera,
el colmo de la complejidad”.
Otro aspecto
que identifica a la cocina cubana es la decoración de los platos. Hay en los
tres libros una clara conciencia de cómo se adorna. Los platos denominados a lo
cubano, a lo criollo o a lo habanero suelen compartir la característica de
estar adornados con un producto esencial en Cuba, el plátano. Expresa la
española Calvo: “Este detalle, por sencillo que parezca, es para la cocina de
la Isla toda una reivindicación de identidad. Junto al plátano, las frutas
tropicales son un elemento esencial en la imaginación de la comunidad cubana”.
Concede la
investigadora peninsular excepcional importancia al ajiaco. Se trata, dice, del
plato más rico en cuanto a la variedad de ingredientes, pues reúne tres tipos
de carne —vaca, puerco y pollo o gallina—, viandas esencialmente americanas y
especias mediterráneas como el azafrán, el comino y el culantro, junto al
limón, propio también de la cocina del Mediterráneo, y el ají, no siempre
presente en todos los ajiacos.
El ajiaco se
convirtió en toda una institución dentro de la cocina cubana, en toda una
mitología pues, como dijo Fernando Ortiz, contiene en sí toda la esencia del
criollismo de la Isla. El cocido es un plato genuinamente español, el ajiaco
cubano es su natural derivado. En definitiva, los plátanos y el ajiaco se
convierten en auténticas mitologías de la identidad cubana.
Cuba empieza a
depender de EE.UU., y el cambio deja su huella en la cocina. Hay anhelo de
modernidad, entran las conservas, entra el horno. Con anterioridad a 1914, la
hora de hornear era el momento de pedirle ese favor al panadero. A partir de
esa fecha, el ama de casa puede disponer de ese aparato que se importa y se
vende en La Habana. El turismo hace que se extienda el gusto por platos
foráneos. De esa manera, platos de otras cocinas toman carta de ciudadanía en
la nuestra.
Un país tiene
sus propios alimentos y los elabora además acorde con su idiosincrasia, en este
caso “al gusto de la Isla de Cuba”. Y aquí la palabra “gusto” tiene
connotaciones patrióticas, ya que se trata del nuestro, del nacional.
Congrí, gloria de la cocina cubana
El congrí, esa
joya de la cocina cubana, es la mezcla del arroz blanco con los frijoles
colorados, guisados juntos. No debe confundirse el congrí con los moros y
cristianos, que es el guiso del arroz blanco con los frijoles negros, aunque
por extensión también a los moros se les llama congrí.
En la cocina
de los pueblos del Caribe es omnipresente la combinación del arroz con diversas
variedades de frijoles. La hay en Jamaica, en Guadalupe y en Trinidad. En
Venezuela es arroz con caraotas; en Puerto Rico, arroz con habichuelas; en
Santo Domingo, moros y cristianos o, simplemente, moros. Y en Centroamérica,
aludiendo quizá jovialmente a nuestras síntesis étnicas, matrimonio. Empedrado
llaman los andaluces al guiso de arroz con judías, y los haitianos, para
preparar el congrí, aderezan el arroz blanco con leche de coco.
Alejo
Carpentier lleva la añoranza de ese plato a su cuento Los fugitivos. Un esclavo
huye con su perro de los barracones de la hacienda y ya en el monte, al parecer
fuera del alcance de mayorales y rancheadores, echan de menos la seguridad del
condumio. El perro extraña los huesos llevados al batey al caer la tarde,
mientras que el hombre añora el congrí, traído en cubos a los barracones,
después del toque de oración o cuando se guardaban los tambores del domingo.
El folclorista
oriental Ramón Martínez afirmaba que un congrí se compone de arroz con
frijoles, manteca y pedacitos de tocino hechos chicharrones, sin especificar
qué clase de frijol. Atribuye origen africano a esa palabra.
También
Fernando Ortiz da, tanto al congrí como a los moros, un posible pero no probado
origen africano. Afirma Ortiz que congrí es voz del creole haitiano, ya que en
esa isla caribeña se llama congos a los frijoles colorados y al arroz se le
llama riz, como en francés, y de congo y riz, argumenta el sabio cubano, surge
la voz congrí. Aunque Ortiz no lo dice, en Cuba también se llamó congo al
frijol colorado.
El erudito
José Juan Arrom asegura que “nada tendría de particular que los colonos
franceses que se refugiaron en Santiago de Cuba huyendo de los esclavos
sublevados en Haití no llamaran a ese plato pois et riz, como todavía se nombra
en aquella isla, sino congue el riz. Y esta frase sí terminaría pronunciándose
cong-e-rí en francés y, desde luego, congrí en español”.
Ortiz adelanta
el posible origen de este plato, al relatar en su estudio La cocina afrocubana lo que con relación a eso
dice el ya aludido Ramón Martínez en su libroOriente folklórico,
del que, por cierto, solo pudo hacer 12 ejemplares.
Escribe
Martínez que un negro de nación queriendo cocinar una comida rápida y sin
condimento, echó a hervir arroz y frijoles juntos y casi se cocinaron al mismo
tiempo, porque los frijoles eran frescos. Más tarde el plato se cocinó con más
cuidado: se cocieron primero los frijoles hasta que estuvieron blandos, se
aliñaron luego y se les echó el arroz, y cuando este reventó, se sacó un poco
de agua de la cacerola y se dejó secar el guiso a fuego lento.