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lunedì 27 aprile 2015

Macchiatori di tovaglie, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su juventud Rebelde del 26/4/15


Nell’Ambasciata di Cuba a Parigi, c’erano invitati quella sera e il grande chef Gilberto Smith assunse, come d’abitudine, la preparazione della cena. Mandò i primi piatti alla tavola e quando si disponeva a farlo con l’aragosta, già pronta per essere servita, una caraffa di caffè si rovesciò su di essa.  Caffè cubano, forte e aromatico. Smith la sgocciolò, ma il liquido era penetrato nella massa e il sapore del caffè si faceva sentire. Pensò di “ammazzarlo” con cognac, whisky o altro liquore, ma fu inutile sapeva sempre più di caffè. L’aragosta era molto ben preparata. Appetitosissima, ma il gusto del caffè era sempre lì. Allora gli aggiunse salsa olandese; niente. Panna montata; nemmeno. L’aragosta diventava sempre migliore, ma il caffè continuava ad uscire. Ricorse al formaggio parmigiano. È forte e molto profumato. L’unica cosa che ottenne fu di migliorare il sapore del suo piatto.
Stordito, sconcertato, madò l’aragosta a tavola. Lo struggeva l’idea della figuraccia quando, quelli che la degustarono, richiesero la sua presenza. Aspettava il rimprovero, ma no. Non avevano mai provato niente di simile, dissero. Vollero conoscere il nome di quel piatto e la sua ricetta. “Si chiama argosta al caffè ed è stata preparata apposta per voi” rispose Gilberto Smith. Non dicendo nessuna bugia.
Successivamente l’avrebbe perfezionata. Le aggiunse funghi, la intinse nel cognac, aumentò il tabasco e la salsa inglese...Il piatto cominciò a camminare da solo. Si estese in Francia, Belgio, Italia. A Milano, dove l’aragosta al caffè vinse il primo premio in un concorso internazionale, la gente riconosceva Smith pert la strada elo chiamava “Commendatore”. Anni dopo, Fidel Castro, lo raccontò nella celebre intervista che concedette a Frei Betto.
Suo padre, in un certo senso, fu il suo primo maestro epoi “si fece” in trattorie e ristoranti di secondo ordine fino a che, a 16 anni, lo designarono come chef di cucina in un importante hotel avanero. Fu membro dell’Accademia Culinaria di Francia e lo soprannominarono “Il mago delle salse”. I suoi piatti a base di pesce e frutti di mare sono famosi e sono innumerevoli le personalità che assaporarono quello che usciva dalle sue mani. Cucinò per Chirac, Mitterand e Pompidou, tre presidenti della Francia. Per Alain Delon, Jean Paul Belmondo, Edith Piaf e Maurice Chevalier. Romy Schneider e Julio Iglesias. Paco Rabanne, Nat King Cole, Brigitte Bardot, Juan Manuel Serrat, Geraldine Chaplin, Jean Paul Sartre, Alicia Alonso...
García Márquez fu affascinato dal consommè di oca che Smith gli preparò al ristorante La Rueda. Alejo Carpentier che si sentiva svenire per l’anatra all’arancia del maestro, nel dedicargli il suo romanzo La consacrazione della primavera, scrisse: “Per il gran chef Smith, maestro nella lte arti culinarie”.
Il Giappone gli assegnò la Medaglia d’Oro Speciale. Il Governo italiano gli conferì l’Ordine di Caterina de’ Medici. Nel megaevento culinario Perú 2001 gli venne attribuito il titolo di Chef del Millennio. Fu, si dice, il cuoco più premiato del mondo’
Ricordiamolo nel quinto anniversario della sua morte.

Piatti di sempre

L’investigatrice spagnola Beatriz Calvo Peña studia tre libri di ricette di cucina cubana che si trovano a cavallo tra la fine del XIX scolo e l’inizio del XX. Il primo s’intitola Nuovo manuale della cuoca catalana e cubana, del cuoco catalano Juan Cabrisas, pubblicato roriginariamente nel 1858. Il secondo libro non fa riferimento a nessun  autore. Fu pubblicato nel 1862 e si intitola Il cuoco dei malati, convalescenti e disappetenti. Mentre il terzo, Nuovo manuale del cuoco creolo, è del 1914 ed è firmato da José  Triay, giornalista del Diario de la Marina.
Nei tre libri appaiono le ricette del “ajiaco” (tipo di brodo) del “picadillo” (piatto abase di carne macinata) e “la ropa vieja” (specie di stufato di carne), piatti che arrivano fino a noi con lo stesso nome e una preparazione più o meno simile. Nell’opinione dell’autrice, la poca variazione che si riscontra negli ingredienti di questi piatti nei tre ricettari, conferma che già a metà del XIX secolo esisteva una rdizione di cucina cubana ben radicata e che certi piatti erano già identificati come autentici e propri dell’Isola. Si mette in evidenza anche l’interesse degli autori di questi libri di accentuare una cucina sopratutto cubana, avanera, anche se non scartano l’inclusione di piatti che chiamano “piatti dell’interno” e che arrivano a identificare anche col nome della località a cui si attribuisce la loro origine.
La cucina cubana è differenziata, nei tre titoli, da quella spagnola. Per l’autore del Nuovo manuale della cuoca catalana e cubana esiste un modo, nattamente creolo, di elaborare i piatti. Ci sono anche ingredienti caratteristici come le frutta del tropico e lo zucchero. L’impiego di verdure e tubercoli di origine americana e i contorni a base di riso bianco, banane fritte o condimentate sono costanti nel palato cubano.
Gli autori alludono a piatti alla cubana, alla creola e all’avanera di cui questi ultmi sono i più elaborati.
Le caratteristiche emergenti della cucina cubana della fine del XIX  secolo e inizio del XX, sono nell’uso del grasso di maiale, il predominio della carne di questo animale che comincia a profilarsi come alimento nettamente cubano, l’utilizzazione come ingredienti base di silantro e il peperone, il misto di dolce e salato...Beatriz Calvo scrive: “Riassumendo, quello che caratterizza definitivamente la cucina cubana è l’oscillazione tra la semplicità di un piatto di riso con grasso di maiale, ovvero il riso bianco creolo e il barocco di una padella cubana, un ajiaco o delle uova pasticciate all’avanera, il colmo della complessità".
Un altro aspetto che identifica la cucina cubana è la decorazione dei piatti. Nei tre libri c’è una chiara coincidenza di come si addobbano. I piatti denominati alla cubana, alla creola o all’avanera normalmente compartono la caratteristica di essere addobbati con un prodotto essenziale a Cuba, la banana. Illustra la spagnola Calvo: “Questo dettaglio, per semplice che appaia, è tutta una rivendicazione di identità. Assieme alla banana, le frutta tropicali sono un elemento essenziale nell’immaginazione della comunità cubana”.
L’investigatrice della penisola concede eccezionale importanza all’ajiaco. Dice che si trata del piatto più ricco in quanto alla varietà d’ingredienti, ebbene riunisce tre tipi di carne – bovina, di maiale e pollo o gallina – verdure essenzialmente americane e specie mediterranee come lo zafferano, il comino e il culantro, assieme allo stesso limone, propri anche della cucina del Mediterraneo e il peperone, non sempre presente in ogni ajiaco.
L’ajiaco si convertì in tutta un’istituzione dentro la cucina cubana, in ogni mitologia, come disse Fernando Ortiz, contiene in sé tutta l’essenza del creolo isolano. Il cocido è un piatto genuinamente spagnolo, l’ajiaco cubano è il suo derivato naturale. In definitiva, le banane el’ajiaco si convertono in autentiche mitologie dell’identità cubana.
Cuba comincia a dipendere dagli USA e il cambiamento lascia la sua traccia in cucina. C’è un desiderio di modernità, entrano le conserve, entra il forno. Anteriormente al 1914, l’ora d’infornare era il momento di chedere questo favore al panettiere. A partire da questa data la casalinga può disporre di questo apparato che si importa e si vende all’Avana. Il turismo fa che si estenda il gusto per i piatti stranieri. In questo modo, piatti di altre cucine prendono dirittto di cittadinanza nella nostra.
Un Paese ha i suoi propri cibi e li elabora nel modo migliore alle sue caratteristiche, in quasto caso “al gusto dell’Isola di Cuba”. E qua la parola gusto ha le sue connotazioni patriottiche, giacché si tratta del nostro, del nazionale.

Congrí, gloria della cucina cubana

Il congrí, questa gioia della cucina cubana, è un misto di riso bianco con i fagioli rossi, conditi assieme, Non si deve confondere il congrí con los moros y cristianos che è la condimentazione del riso bianco con i fagioli neri, seppure per estensione anche coi neri lo si chiama congrí.
Nella cucina dei popoli dei Caraibi è onnipresente la combinazione di riso con diverse varietà di fagioli. C’è in Giamaica, nella Guadalupa e a Trinidad. In Venezuela è riso con caraotas; a Portorico, riso con fagiolini, a Santo Domingo moros y cristianos o semplicemente moros. In Centro America, riferendosi forse giovialmente alle nostre sintesi etniche, matrimonio. Gli andalusi lo chiamano Empedrado alla salsina di riso con fagioli e gli haitiani, per preparare il congrí, innaffiano il riso bianco con latte di cocco.
Alejo carpentier porta la nostalgiandi questo piatto al suo racconto I fuggitivi.Uno schiavo fugge col suo cane dalle baracche della tenuta e già nella boscaglia, sembra fuori dalla portata dei capoccia e cacciatori, rimpiangono la sicurezza della dimora. Il cane rimpiange le ossa portate all’azienda verso il tramonto, mentre l’uomo ha nostalgia del congrí, portato in secchi alle baracche, dopo del ritnocco delle orazioni o quando si riponevano i tamburi, la domenica.
Il folklorista orientale Ramón Martínez affermava che un congrí si compone di riso con fagioli, grasso e pezzettini di pancetta fatti a ciccioli, senza specificare che tipo di fagioli. Attribuisceb origine africana a questa parola.
Anche Fernando Ortiz da, tanto al congrí come ai moros una possibile, ma non provata, origine africana. Ortiz afferma che congrí è voce del creolo haitiano, già che in quest’isola caraibica  i fagioli rossi si chiamano congos e il riso si chiama riz, come in francese e da congo e riz, argomenta i savio cubano, sorge la voce congrí. Anche se Ortiz non lo dice, a Cuba si chiamò congo il fagiolo rosso.
L’erudito José Juan Arrom assicura che “non ci sarebbe niente di strano se i coloni francesi che si rifugiarono a Santiago de Cuba, fuggendo agli schiavi sollevati ad Haiti non chiamassero questo piatto pois et riz, come si chiama ancora in quell’isola, ma congue el riz. E questa frase terminerebbe pronunciandosi cong-e-rí in  francese e naturalmente congrí in spagnolo.
Ortiz anticipa la possibile origine di questo piatto, nel redigere il suo studio La cucina afrocubana, quello che dice il già citato Ramón Martínez nel suo libro Oriente folklórico del qual peraltro poté fare solo 12 esemplari.
Martínez scrive che un negro volendo cucinare cibo veloce e senza condimento, mise a bollire riso e fagioli assieme che si cucinarono quasi contemporaneamente, perché i fagioli erano freschi. Più tardi il piatto si cucinò con maggior attenzione; si misero a cuocere prima i fagioli fino a che fossero morbidi, dopo si condirono e gli si aggiunse il riso e quando questo si aprí, si tolse un po’ d’acqua dalla casseruola e si lasció asiugare il condimento a fuoco lento.


 Mancha manteles
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
25 de Abril del 2015


Había invitados esa noche en la Embajada de Cuba en París, y el gran chef Gilberto Smith asumió, como de costumbre, la preparación de la cena. Envió los primeros platos a la mesa, y cuando se disponía a hacerlo con la langosta, lista ya para servir, una jarra de café se derramó sobre ella. Café cubano, fuerte y aromático. La escurrió Smith, pero el líquido había penetrado la masa y el sabor del café se hacía bien patente. Pensó en “matarlo” con coñac o whisky y algún licor, pero fue inútil: más le sabía el café. Estaba muy bien la langosta, sabrosísima, pero el gusto del café estaba ahí. Le puso entonces salsa holandesa; nada. Nata de leche batida; tampoco. Cada vez se ponía mejor la langosta, y el café, sin embargo, seguía “saliendo”n. Recurrió al queso parmesano. Es fuerte, huele mucho. Lo único que consiguió fue mejorar el sabor de su plato.
Aturdido, desconcertado, envió la langosta a la mesa. Le agobiaba la idea del papelazo, cuando los que la degustaron requirieron su presencia. Esperaba el reproche, pero no. Nunca habían probado nada igual, aseguraron. Quisieron conocer el nombre de aquel plato, su elaboración. “Se llama langosta al café y fue confeccionada especialmente para ustedes”, respondió Gilberto Smith. No dijo ninguna mentira.
Luego lo perfeccionaría. Le añadió champiñones, quemó la langosta con coñac, aumentó el tabasco y la salsa inglesa… El plato comenzó a caminar solo. Se extendió por Francia, Bélgica, Italia. En Milán, donde la langosta al café ganó el primer premio en un concurso internacional, la gente reconocía a Smith en la calle y le llamaba “Comendador”. Años después, Fidel Castro lo mencionaría en la célebre entrevista que le concediera a Frei Betto.
Su padre, en cierto sentido, fue su primer maestro y luego “se hizo” en fondas y restaurantes de poca monta, hasta que a los 16 años lo designaron jefe de cocina de un importante hotel habanero. Fue miembro de la Academia Culinaria de Francia y le llamaron “El mago de las salsas”. Sus platos a base de pescados y mariscos son famosos y resultan incontables las personalidades que se deleitaron con lo que salía de sus manos. Cocinó para Chirac, Mitterrand y Pompidou, presidentes de Francia los tres. Para Alain Delon y Jean Paul Belmondo. Edith Piaf y Maurice Chevalier. Romy Schneider y Julio Iglesias. Paco Rabanne, Nat King Cole, Brigitte Bardot, Juan Manuel Serrat, Geraldine Chaplin, Jean Paul Sartre, Alicia Alonso…
A García Márquez le fascinó el consomé de oca que Smith le preparó en el restaurante habanero La Rueda. Alejo Carpentier, que se desvivía por el pato a la naranja del maestro, al dedicarle su novela La consagración de la primavera, escribió: “Para el gran chef Smith, maestro en altas artes culinarias”.
Japón le otorgó la Medalla de Oro Especial. El Gobierno italiano le confirió la Orden Catalina de Médicis. En el megaevento culinario Perú 2001 se le entregó el título de Chef del Milenio. Fue, dicen, el cocinero más galardonado del mundo.
Recordémoslo en el quinto aniversario de su muerte.

Platos de siempre

La investigadora española Beatriz Calvo Peña estudia tres libros de recetas de cocina cubana que se encuentran a caballo entre finales del siglo XIX y comienzos del XX. El primero se titula Nuevo manual de la cocinera catalana y cubana, del cocinero catalán Juan Cabrisas, publicado originalmente en 1858. El segundo libro no consigna autor alguno. Se publicó en 1862 y se titula El cocinero de los enfermosconvalecientes y desganados. En tanto, el tercero, Nuevo manual del cocinero criollo, es de 1914 y está firmado por José Triay, periodista del Diario de la Marina.
En los tres libros aparecen las recetas del ajiaco, el picadillo y la ropa vieja, platos que llegan hasta nosotros con el mismo nombre y una preparación más o menos similar. En opinión de la autora, la poca variación que se evidencia entre los ingredientes de esos platos en los tres recetarios, confirma que ya para mediados del siglo XIX existía una tradición de cocina cubana bien asentada, y que ciertos platos eran ya identificados como auténticos y propios de la Isla. Se pone de manifiesto asimismo el interés de los autores de esos libros por acentuar una cocina sobre todo urbana, habanera, aunque no descartan la inclusión de lo que llaman “platos de tierra adentro” y que llegan a identificar incluso con el nombre de la localidad a que se atribuye su origen.
La cocina cubana está en los tres títulos diferenciada de la española. Para el autor del Nuevo manual de la cocinera catalana y cubana existe una manera netamente criolla de elaborar los platos. Hay también ingredientes característicos como las frutas del trópico y el azúcar. El empleo de viandas y tubérculos de origen americano y la guarnición a base de arroz blanco o de plátanos fritos o salcochados son constantes en el paladar cubano. Los autores aluden a platos a lo cubano, a lo criollo y a lo habanero, que son, estos últimos, los más elaborados.
Las características sobresalientes de la cocina cubana de fines del siglo XIX y comienzos del XX son el uso de la manteca de puerco, el predominio de la carne de ese animal, que empieza a perfilarse como alimento netamente cubano, la utilización como ingredientes básicos de especias como el cilantro y el ají, la mezcla de lo dulce con lo salado… Escribe Beatriz Calvo: “En resumen, lo que definitivamente caracteriza a la cocina cubana es una oscilación entre la sencillez de un plato de arroz con manteca, o sea, el arroz blanco criollo, y el barroquismo de una olla cubana, un ajiaco o unos huevos guisados a la habanera, el colmo de la complejidad”.
Otro aspecto que identifica a la cocina cubana es la decoración de los platos. Hay en los tres libros una clara conciencia de cómo se adorna. Los platos denominados a lo cubano, a lo criollo o a lo habanero suelen compartir la característica de estar adornados con un producto esencial en Cuba, el plátano. Expresa la española Calvo: “Este detalle, por sencillo que parezca, es para la cocina de la Isla toda una reivindicación de identidad. Junto al plátano, las frutas tropicales son un elemento esencial en la imaginación de la comunidad cubana”.
Concede la investigadora peninsular excepcional importancia al ajiaco. Se trata, dice, del plato más rico en cuanto a la variedad de ingredientes, pues reúne tres tipos de carne —vaca, puerco y pollo o gallina—, viandas esencialmente americanas y especias mediterráneas como el azafrán, el comino y el culantro, junto al limón, propio también de la cocina del Mediterráneo, y el ají, no siempre presente en todos los ajiacos.
El ajiaco se convirtió en toda una institución dentro de la cocina cubana, en toda una mitología pues, como dijo Fernando Ortiz, contiene en sí toda la esencia del criollismo de la Isla. El cocido es un plato genuinamente español, el ajiaco cubano es su natural derivado. En definitiva, los plátanos y el ajiaco se convierten en auténticas mitologías de la identidad cubana.
Cuba empieza a depender de EE.UU., y el cambio deja su huella en la cocina. Hay anhelo de modernidad, entran las conservas, entra el horno. Con anterioridad a 1914, la hora de hornear era el momento de pedirle ese favor al panadero. A partir de esa fecha, el ama de casa puede disponer de ese aparato que se importa y se vende en La Habana. El turismo hace que se extienda el gusto por platos foráneos. De esa manera, platos de otras cocinas toman carta de ciudadanía en la nuestra.
Un país tiene sus propios alimentos y los elabora además acorde con su idiosincrasia, en este caso “al gusto de la Isla de Cuba”. Y aquí la palabra “gusto” tiene connotaciones patrióticas, ya que se trata del nuestro, del nacional.

Congrí, gloria de la cocina cubana

El congrí, esa joya de la cocina cubana, es la mezcla del arroz blanco con los frijoles colorados, guisados juntos. No debe confundirse el congrí con los moros y cristianos, que es el guiso del arroz blanco con los frijoles negros, aunque por extensión también a los moros se les llama congrí.
En la cocina de los pueblos del Caribe es omnipresente la combinación del arroz con diversas variedades de frijoles. La hay en Jamaica, en Guadalupe y en Trinidad. En Venezuela es arroz con caraotas; en Puerto Rico, arroz con habichuelas; en Santo Domingo, moros y cristianos o, simplemente, moros. Y en Centroamérica, aludiendo quizá jovialmente a nuestras síntesis étnicas, matrimonio. Empedrado llaman los andaluces al guiso de arroz con judías, y los haitianos, para preparar el congrí, aderezan el arroz blanco con leche de coco.
Alejo Carpentier lleva la añoranza de ese plato a su cuento Los fugitivos. Un esclavo huye con su perro de los barracones de la hacienda y ya en el monte, al parecer fuera del alcance de mayorales y rancheadores, echan de menos la seguridad del condumio. El perro extraña los huesos llevados al batey al caer la tarde, mientras que el hombre añora el congrí, traído en cubos a los barracones, después del toque de oración o cuando se guardaban los tambores del domingo.
El folclorista oriental Ramón Martínez afirmaba que un congrí se compone de arroz con frijoles, manteca y pedacitos de tocino hechos chicharrones, sin especificar qué clase de frijol. Atribuye origen africano a esa palabra.
También Fernando Ortiz da, tanto al congrí como a los moros, un posible pero no probado origen africano. Afirma Ortiz que congrí es voz del creole haitiano, ya que en esa isla caribeña se llama congos a los frijoles colorados y al arroz se le llama riz, como en francés, y de congo y riz, argumenta el sabio cubano, surge la voz congrí. Aunque Ortiz no lo dice, en Cuba también se llamó congo al frijol colorado.
El erudito José Juan Arrom asegura que “nada tendría de particular que los colonos franceses que se refugiaron en Santiago de Cuba huyendo de los esclavos sublevados en Haití no llamaran a ese plato pois et riz, como todavía se nombra en aquella isla, sino congue el riz. Y esta frase sí terminaría pronunciándose cong-e-rí en francés y, desde luego, congrí en español”.
Ortiz adelanta el posible origen de este plato, al relatar en su estudio La cocina afrocubana lo que con relación a eso dice el ya aludido Ramón Martínez en su libroOriente folklórico, del que, por cierto, solo pudo hacer 12 ejemplares.
Escribe Martínez que un negro de nación queriendo cocinar una comida rápida y sin condimento, echó a hervir arroz y frijoles juntos y casi se cocinaron al mismo tiempo, porque los frijoles eran frescos. Más tarde el plato se cocinó con más cuidado: se cocieron primero los frijoles hasta que estuvieron blandos, se aliñaron luego y se les echó el arroz, y cuando este reventó, se sacó un poco de agua de la cacerola y se dejó secar el guiso a fuego lento.














2 commenti:

  1. da mario firenze....si impara cose nuove della cultura e cucina cubana....

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  2. Certo non è come l'italiana, la francese o altre ricche di piatti e di generi alimentari diversi, ma si può mangiare. E Smith era veramente un grande che ho avuto il piacere di conoscere in una delle prime convenzioni turistiche.

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