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lunedì 20 aprile 2015

Quelle elezioni, di Ciro Bianchi Ross


Pubblicato su Juventud Rebelde del 19/4/15

Non era strano, nella Cuba di ieri che una figura onesta e anche con fama di incorruttibile, diventasse un bandito quando accedeva a un incarico pubblico, eleggibile o no. Non era nemmeno strano che qualcuno, già con fama di malversatore e ladro, arrivasse alla Camera o al Senato e incluso alla più alta magistratura della nazione. Nemmeno che dopo un periodo torbido riuscisse a venire rieletto nel suo alto incarico.. Potrà sembrare strano che qualcuno che avesse scontato una condanna per omicidio arrivasse al Parlamento. Però succedeva. Questo fu il caso di Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas, come si anticipò nella pagina della settimana scorsa.
Si dice che questo soggetto fu l’unico uomo, a Cuba, che fosse tumulato in piedi. Dietro sua richiesta, si seppellì anche con una pistola in entrambe le mani e un biglietto da cento pesos in tasca. Vari crimini segnarono la sua esistenza. Era sposato con Maria Teresa Zayas, figlia di primo letto del presidente Alfredo Zayas.
Maria Teresa Zayas fu eletta al Senato in due occasioni. La seconda volta disimpegnò il suo mandato dal principio a lla fine, tra il 1944 e il 1948, ma la prima volta si dimise nel 1942, quando era in carica da due anni. Lo occupò, alllora, Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas, il suo sostituto e tutto rimase in famiglia. Nel 1944, quando lei tornò a  raggiungere il Senato, Rodríguez Cartas guadagnò una nomina di Rappresentante alla Camera e lo rieleggeranno nel 1948.
Lei conobbe quello che sarebbe stato suo marito in una visita al Castillo del Principe dove, Rodríguez Cartas, scontava una pensa per l’omicidio, nel 1917, di Florencio Guerra sindaco provvisorio di Cienfuegos. Questo non era certamente il suo primo crimine, ebbene nel 1911 e sempre per omicidio, lo condannò il Tribunale di Santa Clara. Non sarebbe stato nemmeno l’ultimo: il 3 maggio del 1950 crivallò letteralmente di colpi, nell’Edificio America della Calle Galiano, il pure rappresentante alla Camera Rafael Frayle Goldarás.
Nel 1944, quando la lunga fedina penale di Rodríguez Cartas faceva tentennare molti, fu proprio Frayle Goldarás che spianò le difficoltà affinché la Camera tenesse valida ;elezione del sinistro personaggio. Lo scriba non può precisare la relazione che ci fu tra i due, ma in un determinato momento, Goldarás, consegnò al suo compagno di emiciclo una grossa somma di denaro perché gli lubrificasse il cammino in vista delle elezioni generali del 1952, elezioni che in definitiva vennero comunque frustrate dal colpo di Stato del 10 marzo. Goldarás si impegnava a rimanere nel Parlamento. Presto, però, desistì dal suo proposito e volle, come era logico, che Rodríguez Cartas gli restituisse i suoi soldi.
Lo chiese durante un incontro, convenuto o casuale, che ebbero nell’ufficio politico del senatore Armando Dalama, nel citato edificio. Rodríguez Cartas non sembrò disposto a restituirglieloe la discussione aumentò di tono. Goldarás insistette e conseguí solo le pallottole che il suo collega gli mise in corpo.
All’uscita dell’immobile, un poliziotto volle detenere l’assassino che aveva ancora la pistola in mano.
-Lei non può arrestarmi! Sono il rappresentante alla Camera Eugenio Rodríguez Cartas e mi protegge l’immunità parlamentare- disse imperiosamente all’agente e si perse nel pomeriggio.

L’immunità diventa impunità

Rodríguez Cartas fu accusato formalmente e il Tribunale Supremo di Giustizia rimise alla Camera la supplica perché gli venisse tolta l’immunità e potese essere giudicato. Non senza sforzo si ottenne che lunedì 26 giugno, questo corpo legislativo si riunisse per accettare o respingere il documento del Supremo. Effettuato l’appello e comprovato il quorum, con 70 deputati presenti, il suo presidente Lincoln Rodón dichiarò aperta la sessione. Due personaggi estranei alla Camera, i senatori José Enrique Bringuier e “Santiaguito” Rey erano nella sala e in modo più o meno velato, brigavano perché i deputati facessero orecchia di mercante alla voce della giustizia; missione triste, dirà un giornalista dell’epoca che disimpegnavano con grande zelo.
Immediatamente il rappresentante Radio Cremata evocò il collega assassinato “la sua innata cavalleria, il suo spirito conciliatore e l’eccessivo riguardo regolamentista che animò i suoi giorni di parlamentare” ed espresse la certezza che la Camera avrebbe acceduto alla supplica in quanto sapeva i debiti che Rodríguez Cartas aveva contratto con la giustizia.
Allotra si fece sentire Alfredo Izaguirre Hornedo per chiedere che la sessione fosse segreta, come era d’abitudine quando il tema da trattare comprometteva la morale di un parlamentare. Si votò la proposta, la maggioranza si espresse per le porte chiuse e una volta che vennero fatti uscire dall’emiciclo gli spettatori dalla tribuna del pubblico, la stampa, i segretari, gli usceri, gli stenografi, cominciò la lettura del documento giudiziario. Il giudice istruttore non risparmiava sui precedenti dell’accusato né occultava nessun dettaglio sui fatti della calle Galiano. L’ambiente divenne teso, angoscioso. Quelli che cercavano di tirare un mantello protettore all’assassino si rigiravano ansiosi sui loro seggi e guardavano nervosamente gli orologi. Dopo un’ora di dibattito, solo quattro rappresentanti si pronunciarono per ritirare l’immunità a Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas. Furono, il già citato Cremata (liberale), il socialista Anibal Escalante, l’ortodosso Manuel Bisbé e Teodoro Tejeda del Partito Auténtico. Curiosamente, nessuno chiese che si votasse contro alla supplica. Non ce n’era bisogno. Gli ostinati a frustrare l’azione della giustizia confidavano che avrebbero funzionato alla perfezione gli accordi concertati anteriormente. Necessitava la votazione nominale per pronunciarsi a favore o contro il documento del Supremo e il relatore cominciò al eggere lentamente, uno per uno, i nomi dei legislatori che rispondevano sì o no all’appello. Successi e però l’inatteso. Fiduciosi della loro superiorità numerica, i partitari di Rodríguez Cartas abbandonano l’emiciclo man mano che votavano senza rendersi conto che mettevano in rischio il quorum. E fu così. Cadde il quorum e uno scampanellio del presidente Lincoln Rodón annunciò che si sospendeva la sessione. Senza accordo.
Venne convocata una nuova sessione per il giorno seguente, la mattina presto. Questa volta njon c’erano i senatori Bringuier e Rey, ma sulla porta dell’emiciclo l’ex senatrice María Teresa Zayas, moglie di Rodríguez Cartas, chiedeva ad ognuno dei rappresentanti che votassero contro la supplica.
Ebbe successo. Di 72 parlamentari che concorsero all’appuntamento, 62 gettarono il salvagente all’assassino e convertirono l’immunità in impunità.
Nonostante ciò, Rodríguez Cartas mise acqua nel mezzo e si rifugiò nella Repubblica Dominicana, al riparo del satarpo Leónidas Trujillo, di cui serviva gli interessi a Cuba. Pochi mesi dopo della morte di Frayle Goldarás, sarà protagonista principale nel sequestro, al Reparto Sevillano dell’Avana, del leader operaio dominicano Mauricio Báez portato fuori da Cuba in segreto e servito su un piatto d’argento al dittatore del bicornio di piume senza che si sapesse del suo destino che  da immaginare.

Pago il doppio di chiunque

Se domandate a qualcuno, maggiore di 70 anni, chi era Benito Remedios Langaney, vi risponderà in modo sintetico che era un animale. Un giorno che veniva da Pinar del Río si m ise a sparare alla sua propria auto perché aveva a vuto un guasto lungo la strada.
Durante i lunghi anni in cui fu rappresentante alla Camera, chiese solo in una occasione la parola nel Parlamento. Glie la concessero e i suoi compagni di emiciclo aspettavano ansiosi il suo esordio come tribuno. Allora si eresse nel suo seggio, si schiarì la golaì, guardò da una parte e dall’altra, balbettò frasi inintelleggibili e tornò a sedersi. “Remedios chiese la parola e la perse” espresse non senza umorismo Carlos Márquez Sterling che presiedeva questo corpo legislativo.
Parco nel dire l’uomo era, senza dubbio, eloquente nei fatti, sopratutto in quello che riguardava la compravendita dei voti. Denaro mediante, non solo si faceva eleggere, ma fece eleggere anche sua moglie e sua sorella e al momento della sua morte, era impegnato anche a far eleggere suo figlio. Benito Remedios aveva una ricetta elettorale infallibile e convincente. Diceva: “Pago il doppio di chiunque”.
Per la verità pagava e utilizzava fino all’ultimo centesimo i soldi investiti. Nessuno poteva imbrogliarlo e mentre altri politici cubani spreconi, come José Manuel Alemán consegnavano, senza contarle, grosse somme di denaro ai loro sergenti della politica, Remedios non solo sapeva con esattezza quello che dava, ma alla fine bisognava rendrgli conto.
Alla vigilia delle elezioni amministrative del 1950, furono a fargli visita tre o quattrogrossi calibri del quartiere avanero di Colón, al fine di garantirglimil voto nella zona. In cambio volevano incarichi nello Stato.
-No, incarichi, no; li ho bisogno per me. Ditemi quanto volete e la quantità di voti che mi promettete e forse arriviamo a un accordo – gli disse.
Siccome le sched si quotavano allora a dieci pesos e i suffragi promessi erano 500, l’affare raggiungeva la nbella quantità di 5.000 pesos. Però remedios ne consegnò 2.500 e chiarì:
-I 2.500 restanti ve li darò il 2 giugno, quando appaiano nelle urne questi 500 voti.
Siccome il giorno in questione ne apparsero solo 300, Benito Remedios chiuse il discorso con 500 pesos.
Militò nel Partito Conservatore, nel Congiunto Nazionale Cubano, nella Coalizione Socialista Democratica, nell’ABC, nel Partito Repubblicano...Cambiava affiliazione politica più facilmente che di camicia.  La sua presenza in Parlamento era uno dei suoi tanti affari. Lo confessò candidamente: “Essendo legislatore mi risparmio le tasse che mi “mangerebbe” il fisco se fossi un privato cittadino”.
Perché Benito Remedios Langaney era padrone dello zuccherificio Río Cauto, in Oriente e della compagnia allevatrice di bestiame Adelaida; di 126 fattorie rustiche situate in cinque delle sei province dell’Isola e dell’impresa di ananas La Cubanita; di vari allevamenti di bestiame di Las Villas e Camagüey e di terreni che rendevano 25 milioni di “arrobas” di canna da zucchero per ogni raccolto. Era il maggior produttore di ananas cubano e uno dei più grandi esportatori...
E lo uccisero per voler eludere una multa automobilistica.



Aquellas elecciones
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
18 de Abril del 2015

No era extraño en la Cuba de ayer que una figura honesta y aun con
fama de incorruptible, se volviera un bandido en cuanto accedía a un
cargo público, elegible o no. Tampoco resultaba extraño que alguien
con fama ya de malversador y ladrón llegara a la Cámara o al Senado e
incluso a la más alta magistratura de la nación. Ni que después de
todo un periodo de tropelías lograse verse reelegido en su alto cargo.
Raro podrá parecer que alguien que hubiese cumplido condena por
asesinato llegara al Parlamento. Pero sucedía. Tal fue el caso de
Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas, como se anticipó en la página de la
semana pasada.
Se dice que ese sujeto es el único hombre en Cuba que fue inhumado de
pie. A petición suya, se le enterró asimismo con una pistola en cada
mano y un billete de cien pesos en el bolsillo. Varios crímenes
jalonaron su existencia. Estaba casado con María Teresa Zayas, hija
del  primer matrimonio del presidente Alfredo Zayas.
A María Teresa Zayas la eligieron al Senado en dos ocasiones. La
segunda vez desempeñó su mandato de principio a fin entre 1944 y 1948,
pero la primera lo renunció, en 1942, cuando llevaba dos años en el
cargo. Lo ocupó entonces Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas, su
suplente, y todo quedó en familia. En el 44 cuando ella volvió a
llegar al Senado, Rodríguez Cartas ganó un acta de Representante a la
Cámara, y lo reelegirían en 1948.
Ella conoció al que sería su marido en una visita al Castillo del
Príncipe, donde Rodríguez Cartas cumplía sanción por el asesinato, en
1917, de Florencio Guerra, alcalde provisional de Cienfuegos. No era
ese ciertamente su primer crimen pues en 1911 y también por asesinato,
lo condenó la Audiencia de Santa Clara. Tampoco sería el último: el 3
de mayo de 1950 cosería literalmente a balazos, en el edificio
América, de la calle Galiano, al también  representante a la Cámara
Rafael Frayle Goldarás.
En 1944, cuando la extensa hoja penal de Rodríguez Cartas hacía
vacilar a muchos, fue precisamente Frayle Goldarás quien allanó las
dificultades para que la Cámara validara la elección del siniestro
personaje. No puede precisar este escribidor la relación que existió
entre ambos, pero en determinado momento Goldarás entregó a su
compañero de hemiciclo una gruesa suma de dinero para que le aceitase
el camino con vistas a los comicios generales de 1952, elecciones que
en definitiva frustraría el golpe de Estado del 10 de marzo. Se
empeñaba Goldarás en permanecer en el Parlamento. Pronto, sin embargo,
desistió de su propósito y quiso, como es lógico, que Rodríguez Cartas
le devolviese su dinero.
Se lo reclamó durante un encuentro, convenido o casual, que tuvieron
en la oficina política del senador Armando Dalama, en el edificio
aludido. Rodríguez Cartas no pareció dispuesto a devolvérselo  y la
discusión subió de tono. Insistió Goldarás y solo consiguió los
balazos que su colega le metió en la caja del cuerpo.
A la salida del inmueble, un policía quiso detener al asesino que
llevaba aún la pistola en la mano.
—¡Usted no puede detenerme! Soy el representante a la Cámara Eugenio
Rodríguez Cartas y me ampara la inmunidad parlamentaria —dijo al
vigilante, imperativo, y se perdió en la tarde.

La inmunidad se hace impunidad

Rodríguez Cartas fue acusado formalmente y el Tribunal Supremo de
Justicia remitió a la Cámara un suplicatorio para que se le retirara
la inmunidad y pudiera ser juzgado. No sin esfuerzo se consiguió el
lunes 26 de junio que ese cuerpo colegislador se reuniera para aceptar
o rechazar el documento del Supremo. Efectuado el pase de lista y
comprobado el quórum, con 70 diputados presentes,  su presidente,
Lincoln Rodón, declaró abierta la sesión. Dos personajes ajenos a la
Cámara, los senadores José Enrique Bringuier y “Santiaguito” Rey
estaban también en la sala y de manera más o menos velada abogaban
porque los diputados hicieran oídos sordos a la voz de la justicia;
triste misión, diría un reportero de la época, que desempeñaban a
plena voluntad.
Enseguida, el representante Radio Cremata evocó al colega asesinado,
“su innata caballerosidad, su afán conciliador y el excesivo celo
reglamentista que animó sus días de parlamentario”, y expresó su
seguridad de que la Cámara accedería al suplicatorio en cuanto
conociera de las deudas que Rodríguez Cartas tenía contraídas con la
justicia.
Se hizo oír entonces Alfredo Izaguirre Hornedo para pedir que la
sesión se declarase secreta, como era habitual cuando el tema a tratar
comprometía la moral de un parlamentario. Se votó la propuesta, la
mayoría se pronunció por la puerta cerrada y una vez que  fueron
sacados del hemiciclo los asistentes a las tribunas del público, la
prensa, los secretarios, los ujieres y los taquígrafos, comenzó la
lectura del documento judicial. No escatimaba el juez instructor los
antecedentes del victimario ni escamoteaba detalle alguno sobre el
suceso del edificio de la calle Galiano. El ambiente se tornó tenso,
angustioso. Los que intentaban tirarle el manto protector al asesino
se revolvían ansiosos en sus escaños y miraban nerviosos los relojes.
A la hora del debate solo cuatro representantes se pronunciaron por
retirar la inmunidad a Casimiro Eugenio Rodríguez Cartas. Fueron el ya
aludido Cremata (liberal), el socialista Aníbal Escalante, el ortodoxo
Manuel Bisbé y Teodoro Tejeda, del Partido Auténtico. Curiosamente,
nadie pidió que se votara en contra del suplicatorio. No hacía falta.
Los empecinados en frustrar la acción de la justicia confiaban en que
funcionarían a la perfección los amarres anteriormente concertados.
Se exigía la votación nominal para pronunciarse a favor o en contra
del documento del Supremo y comenzó el relator a leer lentamente, uno
por uno, los nombres de los legisladores, que respondían sí o no al
pase de lista. Ocurrió, sin embargo, lo inesperado. Confiados en su
superioridad numérica, los partidarios de Rodríguez Cartas abandonaban
el hemiciclo a medida que votaban sin percatarse de que ponían el
quórum en riesgo. Así fue. Cayó el quórum y un campanillazo del
presidente Lincoln Rodón anunció que se suspendía la sesión. Sin
acuerdo.
Una nueva sesión quedó convocada para el día siguiente, temprano en la
mañana. No estaban esa vez los senadores Bringuier y Rey. Pero a la
puerta del hemiciclo, la ex senadora María Teresa Zayas, esposa de
Rodríguez Cartas, pedía a cada uno de los representantes que votaran
en contra del suplicatorio.
Tuvo eco. De 72 parlamentarios que acudieron a la cita, 62 le
arrojaron el salvavidas al asesino y convirtieron la inmunidad en
impunidad.
Aun así, Rodríguez Cartas puso agua de por medio y se refugió en la
República Dominicana, a la vera del sátrapa Rafael Leónidas Trujillo,
cuyos intereses servía en Cuba. Pocos meses después de la muerte de
Frayle Goldarás, sería  parte principal en el secuestro en el reparto
Sevillano de  La Habana del líder obrero dominicano Mauricio Báez,
sacado de Cuba en secreto y servido en bandeja de plata al dictador
del bicornio de plumas  sin que nunca se precisara su destino, que es
de suponer.

Pago el doble que cualquiera

Si usted pregunta a alguien mayor de 70 años quién era Benito Remedios
Langaney, responderá, de manera sintética, que era un animal. Un día
en que venía de Pinar del Río le cayó a tiros a su propio automóvil
porque el vehículo se  encangrejó en la carretera.
Durante los largos años en los que fue representante a la Cámara, solo
en una ocasión pidió la palabra en el parlamento. Se la concedieron y
sus compañeros de hemiciclo aguardaron ansiosos su estreno como
tribuno. Entonces se irguió en su escaño, carraspeó, miró hacia un
lado y hacia otro, balbuceó frases  ininteligibles y volvió a
sentarse. “Remedios pidió la palabra y la perdió”, expresó no sin
humor  Carlos Márquez Sterling, que presidía ese cuerpo colegislador.
Parco en el decir, el hombre era, sin embargo, elocuente en los
hechos, sobre todo en lo que a la compra-venta de votos se refería.
Dinero mediante no solo se hacía elegir, sino que hizo elegir asimismo
a su esposa y a su hermana  y, en el momento de su muerte, se empeñaba
en hacer elegir también  a su hijo. Benito Remedios tenía una divisa
electoral infalible y  convincente. Decía: “Pago el doble que
cualquiera”.
En verdad lo pagaba y rastreaba hasta el último kilito el dinero
invertido. Nadie podía darle la mala y mientras otros políticos
cubanos displicentes,  como José Manuel Alemán,  entregaban sin
contarlas  gruesas sumas a sus sargentos políticos, Remedios no solo
sabía con exactitud  lo que daba, sino que al final había que rendirle
cuentas.
En vísperas de  las elecciones parciales de  1950 fueron a visitarlo
tres o cuatro caciques del habanero barrio de Colón con el fin de
garantizarle  votos en la zona. A cambio, querían cargos en el Estado.
—No, cargos no; los necesito para mí. Díganme el dinero que quieren y
la cantidad de votos que me prometen y tal vez lleguemos a un arreglo
—les dijo.
Como las células se cotizaban entonces a diez pesos y eran 500 los
sufragios prometidos, el negocio redondeaba la bonita cantidad de 5
000 pesos. Pero Remedios les entregó solo 2 500, y aclaró:
—Los 2 500 restantes se los daré el 2 de junio cuando aparezcan esos
500 votos en las urnas.
Como el día en cuestión únicamente aparecieron 300, Benito Remedios
zanjó el asunto con 500 pesos.
Militó en el Partido Conservador, en el Conjunto Nacional Cubano, en
la Coalición  Socialista Democrática, en el ABC, en el Partido
Republicano… Cambiaba de filiación política con más facilidad que de
camisa. Y su presencia en el parlamento era uno de sus tantos
negocios. Lo confesó paladinamente: “Siendo legislador me ahorro los
impuestos que me “comería” el fisco si fuese particular”.
Porque Benito Remedios Langaney era dueño del central azucarero Río
Cauto, en Oriente, y de la compañía ganadera Adelaida; de 126 fincas
rústicas situadas en cinco de las seis provincias de la Isla y de la
empresa piñera La Cubanita; de varias haciendas ganaderas en Las
Villas y Camagüey y de colonias  que rendían 25 millones de arrobas de
caña por zafra.  Era el mayor productor de la piña cubana y uno de sus
más grandes exportadores…
Y lo mataron por querer evadir una multa de tránsito.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


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