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venerdì 8 novembre 2013

Cartoline dall'Avana

Per chi non la conosce, la conosceva diversa, la vuole rivivere





Cessare

CESSARE: svolgere un compito fisiologico

giovedì 7 novembre 2013

Cartoline dall'Avana

Per chi non la conosce, l'ha conosciuta diversa, la vuole rivivere

In alcuni punti di particolare interesse architettonico e/o storico, l'Historiador de la Ciudad, dottor Eusebio Leal Spengler, ha fatto porre delle imagini di com'erano i luoghi prima dell'intervento di restauro e come si presentano oggi.





Castagna

CASTAGNA: casa a tenuta ermetica

mercoledì 6 novembre 2013

Presentato il XXXV Festival del Cinema dell'Avana

Dal 5 al 15 dicembre prossimo, si svolgerà il 35° Festival del Nuovo Cine Latinoamericano dell’Avana. Questa edizione sarà dedicata al recentemente scomparso e fondatore del Festival: Alfredo Guevara.
Saranno presenti 20 lungometraggi in rappresentanza di 10 Paesi dell’America Latina oltre a 21 tra medio e cortometraggi, 21 opere prime,30 documentari e 31 film d’animazione. Saranno anche in gara 25 soggetti inediti e 33 locandine.
In una sessione speciale, come anticipo del festival, dal 21 novembre al 1° dicembre, saranno proiettati i film di maggior successo delle scorse edizioni, fra i quali “Fragole e cioccolata”, tratto della novella di Senel Paz e diretto dallo scomparso Tomás Gutiérrez Alea, conosciuto come “Titón”, compagno e amico di Alfredo Guevara e Julio García Espinosa, già studenti del C.S.C. di Roma.
La pellicola di aperura sarà “Gloria” del cileno Sebastian Lelio, vincitrice dell’Orso d’ Argento a Berlino per la miglior attrice: Paulina García che sarà candidata per il Cile ai prossimi premi Oscar e Goya.
L’argentina presenterà 4 lungometraggi: “La reconstrucción” di Juan esteban Taratuto, “La paz” di Santiago Loza, “Pensé que iba a haber fiesta di Victoria Galardi e “Wakolda” di Lucía Puenzo.
L’altro grande competitore, il Brasile sarà presente con “Memorias cruzadas” di Lucia Murat e “Edén” di Bruno Safadi.

Cassino

CASSINO: confussione caoss

martedì 5 novembre 2013

Casamatta

CASAMATTA: edificio che ha perduto il senno

lunedì 4 novembre 2013

Ho avuto la scatoletta...di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 03/11/13

Ho ricevuto, già da alcuni mesi, un messaggio inquietante. Quando - domandava l’interessato - cominciarono le scatolette di cartoncino per i cibi? Ecco, in che momento cominciarono, in eventi privati e pubblici, ad essere utilizzati questi contenitori per servire le merende? C’era un’altra domanda, inclusa in quel testo di posta elettronica, e a questa è più difficile dare risposta. Era frequente che, prima del 1959, i ristoranti facessero le loro offerte in scatole di cartone? In un epoca in cui non esistevano le cosiddette “charolas”, questi pratici thermos di plastica o espanso, che mezzi aveva il cliente se voleva portare a casa dei cibi precucinati? C’era un terzo interrogativo. Come si divideva il “buffet” nelle celebrazioni di compleanno, in una festa per i 15 anni o un matrimonio?
Il tema, già di per sé, è interessante. Ancora di più perché, come dice Tere Castillo nel suo libro Nostalgia cubana, le scatolette di cartoncino da festeggiamento passarano al linguaggio popolare e si installarono nell’immaginario collettivo. “Ha preso la scatoletta” o “È arrivato tardi alla ripartizione delle scatolette”, sono frasi che si usano metaforicamente per indicare che qualcuno ha avuto buona o cattiva sorte.
Precisiamo subito che una buona scatoletta - di compleanno o di qualunque festa - deve contenere: insalata fredda, due o tre polpettine, un panino di prosciutto e formaggio, per piccolo che sia, e l’inevitabile fatta di torta.

Di palloni e gavette

Nell’Avana della mia infanzia, tanto in feste di compleanno come in matrimoni e battesimi, si utilizzavano nel “buffet” i piatti di cartone e le posate di plastica (bachelite n.d.t.). Tutto a perdere, nonostante, in qualche casa con speciale senso del risparmio, dopo averle messe in acqua e sapone, si conservavano cucchiaini e forchettine per poterli usare di nuovo quando ci fosse l’occasione. D’altra parte diciamo che le posate erano indice del livello economico della famiglia o della persona che dava la festa. Abitualmente, in ogni scatolina di cibi si metteva solamente un cucchiaino, nient’altro. Farlo accompagnare da forchetta e coltello che in genere non si utilizzavano, era come buttare la casa dalla finestra.
Fin qua arriva la mia memoria, anche se ricordo bene le gavette. Ma le gavette erano altra cosa. Recipienti confezionati apposta per trasportare alimenti, fossero liquidi o solidi, generalmente di alluminio, con coperchi che garantivano la loro ermeticità. Ognuno di quei contenitori disponeva dei suoi corrispondenti manici e di una bacchetta che passava tra di loro rendeva possibile unirle assieme e rendere facile e comodo il trasporto, ebbene ogni gavetta contava più di un recipiente. Però la gavetta non era un utensile proprio dei ristoranti o per le feste. Un operaio poteva portare il suo pranzo in fabbrica in una gavetta o chiunque, in una di esse, poteva inviare a una amico o famigliare il cibo del giorno. C’erano famiglie che si dedicavano a cucinare per le gavette, che poi un ragazzo ripartiva fra i clienti. Siccome doveva portarne varie in una volta e farlo a piedi, l’incaricato si serviva di una stecca di legno che passava attraverso i manici di quei recipienti.
Dalla gavetta non mangiavano solo persone di poche risorse. Quelli dalla classe media in su, senza nessuna vergogna, potevano farsi portare i cibi nelle gavette da El Carmelo di Calzada y D, nel Vedado, il miglior “grill room” avanero degli anni ’50. Erano thermos che mantenevano la temperatura del contenuto e si trasportavano in un furgoncino.
Per quelle gavette, tanto da una parte che dall’altra, si cucinava con menù unico. Il cliente non faceva richieste, ma riceveva quello che si era preparato per il giorno. Riso bianco o congrì (riso con fagioli neri e spezie, n.d.t.), un brodo di fagioli o un ajiaquito (brodino misto di carne e verdure, n.d.t.) e anche carne con patate, picadillo a la habanera (carne trita con salsa, n.d.t.), ropa vieja (carne di manzo sfilacciata in salsina, nd.t.), qualche pesce al forno...questo è, piatti che conformavano il cibo della trattoria cubana.
Certamente, in questi esercizi, esisteva quello che veniva chiamato “el globo” (il pallone, n.d.t.). Gli avanzi dei piatti e padelle versati in coni di carta o cartone. Non si regalavano. Mendicanti e accattoni compravano “los globos” a poco prezzo.

Sì, ma no. No, ma sì.

Dove eravamo. Esisteva la scatoletta di cibi, nella Cuba prima del 1959? Ho formulato questa domanda ad amici e lettori e le risposte sono state contradittorie. Alcuni negarono qualunque possibilità in questo senso, mentre altri dettero una risposta affermativa anche se, precisarono, non succedeva allo stesso modo negli esercizi di gastronomia.
Il collega Frank Agüero, per esempio, assicura che i mercoledì la sera tardi, suo padre portava a casa una scatoletta con riso fritto che comprava ai Mercati Generali di Cuatro Caminos o in quello di Carlos III, quando tornava dalle sessioni massoniche a cui assisteva. Riferisce che lo ricorda bene perché da allora, questo manicaretto, cede la preferenza solo davanti al sandwich chiamato, adesso “cubano”. Aggiunge Agüero: “È possibile che esistessero altre varianti di cibi in scatoletta, ma io non le ho conosciute, nemmeno nelle feste di fine corso delle scuole elementari. Nemmeno nei compleanni, adesso festini veri e propri per ragazzi e adulti, ma ai miei tempi e nel mio quartiere - Poey - erano poco frequenti”.
Della stessa opinione è Conchita de la Peña. Dice: “Il riso fritto dei Mercati Generali lo servivano in scatolette di cartone, sia per mangiare nello stesso esercizio, anche se ci fosse l’opzione di mangiarlo in piatti, pure, di cartone con posate dello stesso materiale. Non era lo stesso nei ristoranti cari o di altro livello che non fosse quello del Mercato. Al Centro Vasco, per esempio, se il cliente era deciso a portar via i cibi elaborati dalla casa, si offriva una teglia di terracotta”.
Anche nel Picken Chicken, sito nel parcheggio del supermercato Ekhlo dell’angolo di 42 e 39, nel quartiere Almendares. Racconta, il dottor Oscar Olivera García, chirurgo di Matanzas, che delle sue visite all’esercizio in compagnia dei suoi genitori, ricorda le scatolette di cartone dove si servivano le razioni di pollo - petto o coscia e controcoscia, con patatine fritte -.
In questo non coincidono tutte le opinioni. Lo scomparso, mio amico, Liborio Noval premio nazionale di Giornalismo, interrogato al rispetto disse a questo scriba che del suo vagabondaggio diurno e notturno per l’Avana, non ricordava nessun esercizio che servisse le proprie offerte in scatolette né che facilitasse al cliente contenitori di questo tipo perché portasse la sua ordinazione a casa. Confermava però, il famoso fotoreporter, che nelle pasticcerie c’erano scatole di diverse misure confezionate con cartoncino.
“Non ho mai visto tali scatolette, e si che abitavo in Belascoaín angolo Reina di fronte al caffé OK, famoso per i suoi sandwich. Ricordo, si, le gavette che ti portavano a casa o in ufficio, in ogni luogo”, dichiara enfatico il narratore Hugo Luis, autore della premiata novella El puente de coral. E lo storico Newton Briones Montoto dichiara, da parte sua: “Ricordo le gavette; non le scatolette”. Un’altra amica e acuta lettrice, Naty Revuelta, non nasconde i suoi dubbi. Commenta: “Non ricordo molte cose. La mia memoria non è tanto portentosa come si crede. Generalmente conservo ricordi di ciò che mi ha colpito; ricordi sopratutto visivi. Però perdo volti e lineamenti di questi volti. Mi dispiace quando qualcuno mi dice: Naty, non si ricorda di me?...” Naty crede di ricordare le scatolette di cartone bianco in qualche compleanno di bambini, però può assicurare che non ha mai portato a casa sua una scatoletta di cartone con cibi.

Da dove viene la scatoletta?

Lo spirituano (abitante di Santi Spiritus, n.d.t.) Antonio Díaz, che rende celebre il soprannome di “pittore dei tetti”, ricorda le scatolette di cartone delle pasticcerie e assicura che nessun ristorante o esercizio di vendita di cibi della sua città offrisse i suoi prodotti lavorati in questo tipo di contenitori. A suo giudizio, le scatolette, si imposreo nella celebrazione di nozze o compleanni. Apparvero come soluzione quando i piatti a perdere cominciarono a scarseggiare.
Per il dottor Ismael Pérez Gutiérrez, le scatolette di cibi e non solo quelle che si utilizzavano per i dolci, sono sempre esistite. Dice che ha fatto camminare indietro la macchina del tempo e che la scatoletta è presente fin dove arriva la sua memoria. Annota un dato scherzoso: la scatoletta dei dolci era, per gli sposi, il mezzo più economico per “pulirsi l’immagine” con la sposa o la suocera.
Puntualizza il buon dottor Pérez Gutiérrez: “Ricordo anche di aver visto impacchettare in qualche scatoletta delle “completas” (piatti unici, n.d.t.) di congrí, carne di maiale, banane fritte e insalata. Chiaro, nei luoghi per feste la scatoletta poteva essere colorata e portava stampato il nome e il marchio dell’esercizio. Questo di “ricevere la scatoletta” è più in qua, quando i suddetti contenitori si generalizzarono in feste di ogni tipo”.
Attendibile il criterio del giornalista Manuel Vaillant. Scrive:
“Ci sono cose che esistono da tanto tempo e a uno sembra che siano sempre esistite. Credo di ricordare, come in sogno, che la prima volta che vidi le scatoline di cibo fu nel 1961 nei club di spiaggia, allora recentemente nazionalizzati. Questi stabilimenti balneari cominciarono a chiamarsi circoli sociali operai e coloro che fino ad allora videro vietata la possibilità di godere di buone spiagge e installazioni come quelle, si gettarono su di esse. In quei posti, le mense o ristoranti - non so come li chiamavano gli antichi soci - non avevano capacità sufficiente per far sedere tutti coloro che ne richiedevano i servizi. E come modo di soddisfare tutti, nacque la scatolina che uno poteva portarsi via per gustarne il contenuto altrove”.
Aggiunge Vaillant: “Mia moglie, (...) dice che le scatolette nacquero con la Rivoluzione e lo fondamenta quando precisa che prima del trionfo del 1959 non si vedavano scatolette con cibi nei battesimi, nozze o compleanni. Nemmeno nell’addio al nubilato o di celibato. Solo piatti o bicchieri a perdere erano utilizzati in queste celebrazioni”.

Festa dello scriba

Fino qua arriva l’investigazione. Ci sono argomenti in un senso o nell’altro e il lettore può scegliere la versione che preferisce. Solo un’interrogante: cominciò con le scatolette l’abitudine del cubano di mangiare in piedi o mentre cammina, che si è introdotta negli ultimi anni? Come dice un carissimo amico, qua ve la lascio e vi metto a pensare.
Prima però, lo scriba, vuole condividere una gioia. Domani lunedì (oggi, n.d.t.) questa colonna compie i 12 anni in cui appare in questo giornale, domenica dopo domenica. Ringrazio l’attenzione che il lettore da alla pagina e alla benevolenza con cui la accoglie, così come i commenti, che su di lei mi fanno giungere da diverse vie.

Cogí cajita

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
2 de Noviembre del 2013 20:56:57 CDT

Recibí hace ya meses un mensaje inquietante. ¿Cuándo —preguntaba el
interesado— comenzaron las cajitas de comida? Esto es, en qué momento
empezaron, en eventos privados y públicos, a utilizarse esos recipientes
para servir el refrigerio. Otra pregunta se incluía en el texto de aquel
correo electrónico, y esta más difícil de responder.
¿Era frecuente, antes de 1959, que los restaurantes hicieran su oferta en
cajas de cartón? En una época en la que no existían las llamadas charolas,
esos prácticos termo envases de plástico o poliespuma, ¿de qué medios se
valía el cliente si quería llevar a su casa porciones de comida ya
elaborada? Había una tercera interrogante. ¿Cómo se repartía el buffet en
la celebración de un cumpleaños, una fiesta de 15 digamos, o en una boda?
El tema, ya de por sí, es interesante. Más aún, porque como dice Tere
Castillo en su libro Nostalgia cubana, las cajitas de fiesta pasaron al
habla popular y se instalaron en el imaginario colectivo. «Cogió cajita» o
«llegó tarde al reparto de cajitas», son frases que se emplean
metafóricamente para indicar que alguien tuvo buena o mala suerte.
Precisemos enseguida que una buena cajita —de cumpleaños o de cualquier
fiesta— debe contener ensalada fría, dos o tres croqueticas, un bocadito
de jamón y queso, por mínimo que sea, y el inevitable pedazo de cake.

De globos y cantinas

En La Habana de mi infancia, tanto en fiestas de aniversario como en bodas
y bautizos, se utilizaban en el buffet los platos y los vasos de cartón y
los cubiertos de plástico. Todo desechable, aunque en algunas casas, con
sentido especial del ahorro, luego de pasarlos por agua y jabón, se
conservaban cucharitas y tenedores para hacerlos relucir de nuevo cuando
la ocasión lo requiriera. Digamos, por otra parte, que los cubiertos
indicaban ya el nivel económico de la familia o la persona que auspiciaba
la fiesta. Lo habitual era que, con la caja de comida, se entregara una
cucharita; nada más. Hacerla acompañar también de tenedor y cuchillo que,
por lo general, no se utilizaba, era como tirar la casa por la ventana.
Hasta aquí llega mi memoria, aunque recuerdo también las cantinas.
Pero las cantinas eran otra cosa. Recipientes confeccionados especialmente
para transportar alimentos, fueran líquidos o sólidos, generalmente de
aluminio, con tapas que garantizaban su hermeticidad.
Cada uno de aquellos depósitos disponía de sus asas correspondientes y una
varilla que se pasaba a través de ellas posibilitaba ensartarlas de una
vez y hacer fácil y cómodo su traslado, pues una cantina contaba con más
de un recipiente. Pero la cantina no era utensilio propio de restaurantes
ni de fiestas. Un obrero podía llevar su almuerzo a la fábrica en una
cantina o alguien, en una de ellas, podía enviar a un familiar o a un
amigo la comida del día. Había familias que se dedicaban a cocinar para
cantinas, que luego un muchacho repartía entre la clientela. Como debía
llevar varias a la vez, y hacerlo a pie, el empleado se valía de un listón
de madera que pasaba a través de las agarraderas de aquellos recipientes.
No solo comían de cantina gente de bajos recursos. Los de medio pelo para
arriba, sin sonrojo alguno, podían hacerse llevar la comida en las
cantinas de El Carmelo, de Calzada y D, en el Vedado, el mejor grill room
habanero de los años 50. Eran termos que conservaban la temperatura de lo
que contenían y se transportaban en una camioneta pequeña.
Para aquellas cantinas, tanto las de un bando como las del otro, se
cocinaba con un menú único. El cliente no hacía un pedido, sino que
recibía lo que se había cocinado para el día. Arroz blanco o congrí, un
guiso de frijoles o un ajiaquito y también carne con papas, picadillo a la
habanera, ropa vieja, algún pescado asado… esto es, platos que también
conformaban el menú de la fonda cubana.
Por cierto, en esos establecimientos existía lo que se llamaba el globo.
Era la sobra de platos y cazuelas envasada en cartuchos. No se regalaban.
Mendigos y limosneros adquirían los globos por un precio ínfimo.

Sí, pero no. No, pero sí

A lo que íbamos. ¿Existió la cajita de comida en la Cuba anterior a 1959?
Formulé esta pregunta a amigos y lectores y las respuestas fueron
contradictorias. Algunos negaron cualquier posibilidad en ese sentido,
mientras que otros dieron una respuesta afirmativa, aunque precisaron que
no ocurría de la misma manera en todos los establecimientos gastronómicos.
El colega Frank Agüero, por ejemplo, asegura que los miércoles, tarde en
la noche, su padre llevaba a la casa una cajita con arroz frito que
compraba en el Mercado Único de Cuatro Caminos o en la plaza de Carlos III
al regresar de las sesiones masónicas a las que asistía. Refiere que lo
recuerda bien porque desde entonces ese manjar cede solo en su preferencia
ante el sándwich, ahora apellidado «cubano». Añade Agüero:
«Es posible que existieran otras variantes de comida en cajita, pero yo no
las conocí, ni siquiera en las fiestas de fin de curso de la escuela
primaria. Tampoco en los cumpleaños, ahora verdaderos festines para
muchachos y mayores, pero que en mi época y en mi barrio —Poey— eran poco
frecuentes».
De la misma opinión es Conchita de la Peña. Dice: «El arroz frito del
Mercado Único lo servían en cajas de cartón, así fuera para comer en el
propio establecimiento, aunque existía la opción de comerlo en platos
también de cartón, con cubiertos del mismo material. No sucedía lo mismo
en restaurantes caros o de otro nivel que los del Mercado. En el Centro
Vasco, por ejemplo, si el cliente decidía llevar comida elaborada para la
casa, se le facilitaba una cazuela de barro».
Había también cajas de cartón en el Picken Chicken situado en el parqueo
del supermercado Eklho de la esquina de 42 y 39, en el reparto Almendares.
Cuenta el doctor Oscar Olivera García, cirujano de Matanzas, que de sus
visitas al establecimiento, en compañía de sus padres, recuerda las
cajitas de cartón en las que servían las raciones de pollo —pechuga o
postas de muslo y contra muslo, con papas fritas.
No coinciden en eso todas las opiniones. El ya fallecido amigo Liborio
Noval, premio nacional de Periodismo, preguntado al respecto dijo a este
escribidor que de sus andanzas diurnas y nocturnas por La Habana no
recordaba establecimiento alguno que sirviera sus ofertas en cajitas ni
que facilitara al cliente envases de ese tipo para que llevara su pedido a
la casa. Sí, precisaba el destacado fotorreportero, había en las dulcerías
cajitas de diferentes tamaños confeccionadas con un cartón muy fino.
«Nunca vi tales cajitas, y eso que yo vivía en Belascoaín esquina a Reina,
frente al café OK, famoso por sus sándwiches. Recuerdo, sí, las cantinas,
que te hacían llegar a la casa, a la oficina, a cualquier parte», expresa,
enfático, el narrador Hugo Luis, autor de la laureada novela El puente de
coral. Y el historiador Newton Briones Montoto expresa por su parte:
«Recuerdo las cantinas; no las cajitas». Otra amiga y aguda lectora, Naty
Revuelta, no oculta sus dudas. Comenta:
«No me acuerdo de tantas cosas. Mi memoria no es lo portentosa que cree la
gente. Generalmente, guardo recuerdos de lo que me ha sensibilizado;
recuerdos sobre todo visuales. Pero pierdo rostros y rastros de esos
rostros. Me apena cuando alguien me dice: Naty, no se acuerda de mí…».
Naty cree recordar cajitas de cartón blanco en algunos cumpleaños de
niños, pero sí puede asegurar que nunca llevó a su casa una cajita de
cartón con comida.

De dónde vino la cajita

El espirituano Antonio Díaz, que hace célebre el apelativo de «el pintor
de los tejados», recuerda las cajitas de cartón de las dulcerías y asegura
que ningún restaurante o casa de comida de su ciudad natal ofrecía sus
productos elaborados en ese tipo de envase. A su juicio, la cajita se
impuso en las celebraciones de bodas y cumpleaños. Apareció como la
solución cuando los platos desechables comenzaron a escasear.
Para el doctor Ismael Pérez Gutiérrez, las cajitas de comida, y no solo
las que se utilizaban para los dulces, existieron siempre. Dice que hace
correr hacia atrás la máquina del tiempo y que la cajita está presente
hasta donde alcanza su memoria. Apunta un dato jocoso: la cajita de dulces
era, para los novios, el recurso más socorrido y barato para «limpiarse»
con la novia o con la suegra.
Puntualiza el buen doctor Pérez Gutiérrez: «También recuerdo ver
empaquetar en cajitas alguna que otra “completa” de congrí, carne de
puerco, tostones y ensalada. Claro, en los lugares “fistos” la cajita
podía ser de colores y llevaba impresos el nombre y el membrete del
establecimiento. Eso de “coger cajita” es más para acá, cuando los
susodichos envases se generalizaron en fiestas de todo tipo».
Atendible es el criterio del periodista Manuel Vaillant. Escribe:
«Hay cosas que llevan tanto tiempo que a uno le parece que existieron
siempre. Creo recordar como en un sueño que la primera vez que vi las
cajitas con comida fue, en 1961, en los clubes de playa, recién
nacionalizados entonces. Esos balnearios empezaron a llamarse círculos
sociales obreros, y los que hasta entonces vieron vedada la posibilidad de
disfrutar de buenas playas e instalaciones como esas, se volcaron sobre
ellas. Allí, los comedores o restaurantes —desconozco cómo le llamarían
sus antiguos asociados— no tenían capacidad suficiente para dar asiento a
todos los que demandaban de sus servicios. Y como una manera de satisfacer
a todos, surgió la cajita que podía llevarse con uno y gustar de su
contenido en cualquier sitio».
Añade Vaillant: «Mi mujer, (…) dice que las cajitas surgieron con la
Revolución, y lo fundamenta cuando precisa que antes del triunfo de
1959 no se vieron cajitas con comida en bautizos, bodas ni cumpleaños.
Tampoco en despedidas de soltera o soltero. Solo platos y vasos
desechables se utilizaban en esas celebraciones».

Fiesta del escribidor

Hasta aquí llega la indagación. Hay argumentos en un sentido y en otro y
el lector puede escoger la versión que más le acomode. Solo una
interrogante. ¿Empezó con la cajita la costumbre del cubano de comer de
pie o mientras camina que se ha entronizado en los últimos años?
Como dice un amigo muy querido, ahí se las dejo y los pongo a pensar.
Quiere antes el escribidor compartir una alegría. Mañana lunes 4 esta
columna cumple 12 años de aparecer en este diario domingo tras domingo.
Agradezco la atención que el lector dispensa a la página y la benevolencia
con que la acoge, así como los comentarios que en torno a ella me hacen
llegar por diferentes vías.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu

Carogna

CAROGNA: casa che porta sfortuna

domenica 3 novembre 2013

Nascita e fine (secondo El Nuevo Herald) del divertimento televisivo a Cuba

Il 24 ottobre 1950 nasceva la televisone cubana ecco la sua storia, condensata e vista dall'altra sponda
Fonte: El Nuevo herald

La televisión en Cuba: comienzo y final de la diversión

ARMANDO LÓPEZ
ESPECIAL/EL NUEVO HERALD

El 24 de octubre de 1950, el dueño de Unión Radio, el animador Gaspar Pumarejo, inauguró, desde el patio de su casa en Mazón 52, esquina a San Miguel, en La Habana, el canal 4 de televisión.
Lo primero en aparecer en unas pocas pantallitas de 17 pulgadas, colocadas en comercios de la capital, fue una cajetilla de cigarros Competidora Gaditana, acompañada de una guaracha de Ñico Saquito, seguida de las felicitaciones del presidente Carlos Prío y de una fiesta, en los jardines, entre estrellas de cine mexicanas, como Pedro Armendáriz, y cubanas como Carmen Montejo y Raquel Revuelta.
Con Unión Radio Televisión nacía la televisión en Cuba.
Para Goar Mestre, dueño del circuito radial CMQ, fue un golpe duro. Había construido Radiocentro, en 23 y L, en el Vedado –esquina que sería el corazón de La Habana–, para albergar los más sofisticados estudios de radio y televisión del continente. Desde el monumental edificio –el primero con aire acondicionado central en la isla– había anunciado que, en un plazo de tres años, CMQ comenzaría a operar la televisión en Cuba.
Mestre contaba con el financiamiento de la fábrica de televisores Dumont y del mexicano Emilio Azcárraga, y el apoyo técnico de la cinematográfica Warner Brothers. ¿Cómo era posible que su antiguo subordinado en CMQ, con pocos recursos, se le adelantara y lanzara la televisión en la isla?
LA TV EN EL MUNDO
Las primeras emisiones de televisión las había efectuado la BBC en Inglaterra, en 1927. En 1930 la siguieron la CBS y la NBC en Estados Unidos. El 30 de abril de 1939, una televisión casi de juguete transmitiría la inauguración de la Exposición Universal de Nueva York. Pero en 1949, los estadounidenses ya disfrutaban en la pequeña pantalla del show del comiquísimo Jack Benny. El 31 de agosto de 1950 comenzó la televisión en México, le siguió Brasil el 18 de septiembre, Cuba el 24 de octubre.
Mestre, graduado de negocios en la prestigiosa Universidad de Yale, no podía entender cómo el autodidacta Gaspar Pumarejo, desde un patio, había logrado lanzar un canal de televisión. Pero Pumarejo sabía vencer obstáculos. Había sido vendedor de telas en la calle Muralla, cantante de tangos y, a base de ganarse la vida, había entrenado la sonrisa y logrado convertirse en el imprescindible de la radio cubana. El vasco que había llegado a Cuba con 8 años había aprendido a batallar, a competir y a triunfar. Había logrado que la firma Crusellas lo colocara de animador del programa estelar de la época:Fiesta Radial Jabón Candado.
Cuando Mestre compró CMQ, contrató a Pumarejo como su jefe de programación. Pero el carismático animador era ambicioso. Apenas un año después, adquirió Unión Radio y se convirtió en competencia de CMQ, con el apoyo de la Radio Cadena Azul, de Diego Trinidad, el magnate de los cigarros Trinidad y Hermano. En 1950, con el lanzamiento de la televisión, entre Pumarejo y Mestre la guerra estaba declarada.
UN REMOTO DE GRANDES LIGAS
Pumarejo consiguió ganar a Mestre una batalla el 24 de octubre, cuando logró transmitir por control remoto –utilizando un globo aerostático– un juego de pelota de Grandes Ligas, patrocinado, nada menos, que por la petrolera Esso Standard Oil. Dada la falta de estudios, el canal 4 se especializaría en transmisiones en remoto. La lucha libre, el boxeo y espectáculos en teatros se convirtieron en espacios habituales para los televidentes cubanos.
El 18 de diciembre saldría al aire el Canal 6, de Goar Mestre, CMQ Televisión, con un programa dramático escrito por Marcos Behemaras y protagonizado por Alejandro Lugo. CMQ era una filosofía. Mestre respetaba a los creadores. No censuraba nada y tenía la sabiduría de tener a tres publicitarias que producían programas: Siboney, Crusellas y Sabatés.
Pero Pumarejo no se quedaba atrás. Creó Hogar Club, organización que agrupó a cientos de miles de amas de casa, rifaba autos y casas. En 1957, este genio de la publicidad realizó en el estadio de El Cerro el Festival 50 años de Música Cubana, reencuentro de los artistas cubanos residentes en el extranjero, junto a boricuas como Tito Puente y Tito Rodríguez y al bolerista chileno Lucho Gatica.
Para ese monumental espectáculo, Pumarejo mandó a buscar desde Francia a Humberto Cobo, Rudy Castell, Antonio Picallo y Raúl Zequeira. De España trajo a Antonio Machín, Raúl del Castillo y Zenaida Manfugás. Desde Turquía a Mariano Barreto. De México a Gilberto Urquiza y Everardo Ordaz .Desde Estados Unidos vinieron Mario Bauzá, René Touzet, Vicentico Valdés, Gilberto Valdés y Machito.
CUBA EXPORTABA TELEVISIÓN
La fuerte competencia entre Mestre y Pumarejo contribuyó a que un lustro más tarde Cuba exportara técnicos de televisión y libretos de telenovelas a todo el continente, y a que La Habana se convirtiera en capital de la música popular. Nat King Cole vendría a grabar con la orquesta de Armando Romeu. Edith Piaf, Frankie Laine, Johnnie Ray, Pedro Vargas, Katyna Ranieri y otras estrellas de la música internacional colmarían los cabarets Montmartre, Tropicana y Sans Souci, gracias a la televisión.
En 1958, Cuba contaba con 25 transmisores de televisión con una potencia de 150.5 kw instalados en La Habana, Matanzas, Santa Clara, Ciego de Avila, Camagüey, Holguín y Santiago de Cuba. Tres cadenas nacionales con siete transmisores cada una. CMQ Televisión, Unión Radio Televisión y Telemundo. Los 4 transmisores restantes estaban instalados en La Habana (3) y en Camagüey.
La publicidad en Cuba era la mejor de América Latina. En las agencias trabajaban escritores como Justo Rodríguez Santos, Carballido Rey, Marcos Behemaras e Iris Dávila; directores de televisión como Roberto Garriga, Ernesto Casas y Caiñas Sierra; diseñadores como Martínez Pedro y René Portocarrero. Se publicitaban no solo productos cubanos, también de México, Puerto Rico y Colombia. Se llegó a crear una escuela de publicidad cubana, con pegajosos comerciales cantados ( jingles), como “Café Pilón, sabroso hasta el último buchito”, y la popularísima saeta “esos aplausos son para Magnesúrico”.
Los humoristas Garrido y Piñero, Celia Cruz y la locutora Consuelito Vidal eran contratados por Siboney. La cantante Rita Montaner y la actriz Minín Bujones lo eran por Crusellas. ¿Qué ponía CMQ? Los estudios y los técnicos. Aunque también tenía artistas y nueve directores contratados. Había una estrecha colaboración entre CMQ y las publicitarias. Joaquín Condal, que cobraba por CMQ, producía para una publicitaria el estelar Jueves de Partagás.
SE ACABÓ LA DIVERSIÓN

La programación de CMQ era una fiesta de música y humor. Contaba con los mejores cómicos de Cuba: Alvarez Guedes, Garrido y Piñero; Leopoldo Fernández con su Tremenda Corte; Lita Romano; Luis Echegoyen con el personaje de Mamacusa Alambrito; Manela Bustamante e Idalberto Delgado eran Cachucha y Ramón; Lilia Lazo era Popa. Los más famosos cantantes: Olga Guillot, Celia Cruz, Fernando Albuerne, Blanca Rosa Gil y La Lupe se presentaban en sus estelares Casino de la alegría y Jueves de Partagás.
Pero el primero de enero de 1959, el trovador Carlos Puebla auguró con su guaracha: “Se acabó la diversión, llegó el Comandante y mandó a parar”. Fidel Castro se haría omnipresente a través de la pequeña pantalla en todos los hogares cubanos. Sus maratónicos discursos ocuparían noches enteras, desplazando al resto de la programación. El 6 de agosto de 1960 todas las plantas de radio y televisión pasarían a integrar el ICR (Instituto Cubano de Radiodifusión), luego ICRT (Instituto Cubano de Radio y Televisión).
Más de medio siglo después, los estudios de televisión en Cuba siguen siendo los mismos de CMQ. Escritores, directores y artistas trabajan bajo la lupa ideológica: con la revolución todo, contra la revolución nada. Sería injusto callar que, con apenas recursos, la creatividad del cubano ha logrado hacer algunos programas de calidad, pero el pueblo espera la película del sábado.
La historia de la televisión cubana está signada por tres hombres: Gaspar Pumarejo, Goar Mestre y Fidel Castro. Los dos primeros la crearon. El Comandante la convirtió en un instrumento para alimentar su mito.