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mercoledì 20 novembre 2013

Racconti di strada di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 17/11/13

L’Avana possiede il parco urbano più grande del mondo. Si estende per otto km. di lunghezza. È il Malecón. Il suo muro si converte in un sedile di pietra quasi infinito. La città possiede, inoltre, viali le cui passeggiate centrali, alberate e con panchine, sono parchi veri e propri. Fra gli altri ci sono quelli delle calles G e Paseo, nel Vedado, strade che con i loro 50 metri di larghezza portano, in qualche modo, il mare alla città; quello della Quinta Avenida di Miramar e il mitico Paseo del Prado con le coppe, mensole e leoni di bronzo, lampioni, lauri frondosi e panchine di marmo. E ci sono, naturalmente, i parchi di quartiere presidiati, quasi sempre, dalla statua di qualcuno che merita essere ricordato. In ogno rione avanero c’è un parco chiamato delle capre (nome probabilmente “ereditato” da spazi verdi in cui anticamente si portavano a brucare le capre, n.d.t.) che viene scelto dagli studenti che marinano le lezioni e da giovani innamorati che vogliono sottrarsi alla curiosità del pubblico della strada e trovano in essi lo spazio per il proprio amoreggiare.
Esistono questi parchi ”delle capre” in altre città del Paese?

Una costruzione durevole

La testimonianza più antica sulla costruzione di una strada all’Avana risale al 14 di febbraio del 1575, quando un atto del Municipio della città annota l’esistenza di questi sentieri o viottoli e avvisa della convenienza che ne sarebbe stata, per il bene della Corona, quello della località e la comodità di abitanti o transeunti di zona “perché si possa circolare e camminare”. Il documento raccoglie la lamentela dei reggenti per i cammini reali che si “fecero aprire e non si aprirono” e dispone che “12 indios e lo stesso numero di negri lavoranti, con le loro asce e machete, aprano un cammino a Guanabacoa e che si determini il valore per pagare loro il lavoro”.
Molti anni dopo, nel 1796, la Junta del Fomento decise di pavimentare il vecchio cammino di Jesús del Monte e cominciò a farlo dal tratto compreso tra il ponte di Chávez la Esquina de Tejas. Si pavimentarono 13.500 “varas” quadrate in cinque mesi, con un costo di 30.734 pesos forti, una cifra esorbitante, secondo la relazione della Giunta, perchè si dovette effettuare un’escavazione di 400 “varas” di lunghezza, 17 di larghezza e 1,5 di profondità nella quale durante 45 giorni hanno lavorato 100 uomini. Una “vara” spagnola equivale a poco più di 80 cm.
L’opera richiese la costruzione di due piccoli ponti, una rifinutra di pietra su muri di mattoni e divorò 10.156 carrettate di pietre. Una carrettata corrisponde più o meno a 1.500 kg.
Senza dubbio non è, fino al 1823, che si fece un primo tentativo di normare la costruzione di cammini. La Giunta Económica del real Consulado dedicava fondi all’apertura di sentieri ed esigeva che quelli della via centrale si aprissero con 50 “varas” di larghezza, quelli provinciali di 24 e quelli comunali di 12 con una di 6 per le vie cittadine non principali.
Un altro documento. Memorias de obras públicas, pubblicato nel 1860 e che copre il periodo compreso fra  il 1795 e 1858, rileva la preoccupazione del Governo coloniale per quello che viene chiamato Cammino Centrale dell’Isola.
Il cammino verso Ovest partiva dall’Avana e terminava a Pinar del Río, dopo aver attraversato Marianao, Guanajay, Artemisa, Las Mangas e Paso Real de San Diego ed era - si afferma - “un cammino naturale senza preparazione di nessun tipo, con solo poche opere per attraversare i fiumi, ruscelli e canali”. Un primo tratto, fino a Güines comprendeva il Camino Central del Este- Proseguiva per Unión de Reyes, Jovellanos - che aveva allora il nome di Bemba - e Macagua. Proseguiva per Santo Domingo, La Esperanza, Santa Clara, Sancti Espiritus e Ciego de Ávila.
Continuava poi da li per Puerto Príncipe, Guáimaro e Las Tunas fino a Cauto Embarcadero. Da Macagua, questa via aveva un’estensione di 181,5 leghe, che sono all’incirca 770 km.
Il Camino Central di cui si allude nelle Memorie del 1860 si descriverva in pietra, aveva una larghezza di 5 metri e con questa larghezza proseguì ad estendersi. Il presidente Menocal fece avanzare i lavori grazie alla legge del 25 agosto del 1919 che lo autorizzava a investire 1.200.000 pesos annuali.
In questo modo si aprirono nuovi tratti del Camino e si prolungarono gli esistenti. Con l’ascesa al potere di Gerardo Machado, il 20 maggio del 1925, i tratti di questa strada raggiungevano i 650 km, ripartiti, in maniera discontinua, tra le sei province di allora.
Era, in gran parte, una strada in cattivo stato con curve strette e larghezza insufficiente, eccetto il tratto di 10 km. tra l’Avana e San Francisco de Paula e quello tra l’Avana e Arroyo Arenas (15 km.), entrambi allargati e lastricati con mattonelle di granito tra il 1913 e il 1914.
I lavori della Carretera Central, propriamente detta, cominciarono a San Francisco de Paula il 1° marzo del 1927. Ha una lunghezza di 1139 km. Di questi, 690, passarono in zone dove non c’erano altre vie di comunicazione che gli antichi cammini reali e 450 utilizarono parzialmente o totalmente le escavazioni delle strade che la precedettero. Ha comunicato zone estese e fertili e ha attraversato 60 paesi e città. È una delle sette meraviglie dell’ingegneria civile cubana e gli specialisti la classificano come l’opera del XX secolo a Cuba. È una delle migliori strade dell’America Latina ed esempio di costruzione duratura. Ha resistito per decenni a carichi superiori a quelli che si pensava dovesse sopportare. Ha accorciato distanze e ha connesso angoli della geografia insulare, cosa che si è ripercossa in ogni ordine della vita cubana: umano, sociale, culturale, scientifico, politico ed economico.
Valga un chiarimento. Si è ripetuto molto che la Carretera Central doveva avere una larghezza di otto metri e che Machado e la sua cosca la lasciarono in sei per trattenersi la differenza del costo.
Non è così. La Carretera ha sempre avuto i sei metri che prevedeva la costruzione. Così si rileva nei piani originali. (Documentazione di Juan de las Cuevas)

Pepe Jerez, ma tu chi sei?  

Il triangolo sito in Monserrate, di fronte all’inizio della calle Nettuno e al termine del vicolo di San Juan de Dios, lo occupa il parco - o meglio il giardinetto - di Pepe Jerez, famoso e popolarissimo capo della Polizia Segreta dell’Avana durante i primi anni della Repubblica e valoroso ufficiale dell’Esercito di Liberazione.
Nel 1951 vi si collocò il busto di Manuel Fernández Supervielle, sindaco avanero che si suicidò nel 1947 quando si rese conto che non poteva mantenere al promessa fatta agli avaneri di un  nuovo acquedotto per il quale, il presidente Grau, gli aveva promesso gli aiuti necessari. La curiosità è che tutti identificano questo giardino come quello di Supervielle, mentre il suo nome ufficiale dorme nel dimenticatoio.
Un caso simile avviene col cosiddetto Giardino di San Juan de Dios, spazio compreso tra le calles Aguiar, Habana, Empedrado e San Juan de Dios o Progreso, sito occupato dal primo ospedale che seppur  non perfetto, meritò questo nome nella capitale. Si eresse li una statua di Don Miguel de Cervantes y Saavedra e si pretese che il nome del giardino fosse quello del famoso autore del Don Chisciotte anche se, anteriormente e in modo ufficiale, lo spazio era stato battezzato col nome  del maggior generale Emilio Nuñez, dell’Esercito di Liberazione.
Né Cervantes né Emilio Nuñez...il cubano della strada lo ha sempre chiamato giardino San Juan de Dios.

Queste vie

La calle Galiano, deve il suo nome a Don Martin Galiano, ministro che intervenne nelle opere di fortificazione della città e costruì un ponte che portò il suo cognome sopra la Fossa Reale che percorreva l’attuale calle di questo nome (Zanja, nd.t.) e forniva l’acqua alla città. Poi, nel 1839, si costruì un altro ponte che permetteva il passaggio del treno che partiva dalla stazione di Villanueva, situata in un enclave nel terreno oggi occupato dal Capitolio. Fino al 1842, Galiano non era Galiano, ma Montesinos, probabilmente un abitante o commerciante della zona.
Come dati curiosi, aggiunge lo scriba, all’angolo di Zanja esisteva un bagno pubblico; il terreno dove si trova la chiesa di Monserrate si conobbe col nome Della Marchesa, per appartenere alla marchesa vedova di Arcos e che all’incrocio di Galiano con San Lazaro si trovavano le cave da cui si estraevano le pietre per le prime case che si costruirono con questo materiale nella città.
Nel 1917 si dette a Galiano il nome ufficiale, che non è mai stato modificato, di Avenida de Italia. 

Lino e seta; granchi e zanzare

Verso il 1771, la migliore tra tutte le calles avanere - si dice - era quella di Mercaderes, che si estendeva solo per circa quattro isolati e aveva, suddivisi per marciapiedi, diversi negozi dove si poteva trovare il meglio in tessuti di lana, lino e seta.
Questi negozi attraevano le dame eleganti e Mercaderes era, allora, quello che più tardi furono Obispo, e poi San Rafaél e Galiano, con la differenza che in quell’epoca le dame non abbandonavano le loro carrozze per fare acquisti, perché era di cattivo gusto entrare nei negozi.
Detta strada partiva dalla Plaza de Armas, allo stesso modo della parallela Oficios per incontrarsi in quella che si chiamò Plaza Vieja. A questo punto, in direzione ovest, si tracciò la calle Real (Muralla) che portava in campagna lungo la Calzada di San Luis Gonzaga (Reina) e conduceva a una fattoria nominata San Antonio Piccolo, dove si sviluppò un complesso zuccheriero che essisteva già nel 1762 quando l’Avana fu presa dagli inglesi.
Al proseguimento di quella di Mercaderes, si tracciò la calle de las Redes (Inquisidor). Parallela alla calle Real si trovava quella dell’immondezzaio (Teniente Rey), perché conduceva alla discarica della città.
Nella stessa direzione, partendo dalla Plaza de Armas, andava la calle del Sumidero (O’Reilly), nome che prese dal Secondo Capo che venne col Conte de Ricla con la restaurazione spagnola, dopo l’effimera dominazione inglese. Partivano da O’Reilly, in direzione della imboccatura del porto, le calles che vennero chiamate Habana e Cuba che attraverso i secoli hanno conservato i loro nomi.
Nelle calles che abbiamo citato, le case obbedivano a un allineamento e all’equidistanza. Il resto della città si costruiva a casaccio, vale a dire, ognuno costruiva la sua casa dove lo stimava conveniente. Tutte la case erano di guano o di legno ed erano recintate e difese sui quattro lati con spuntoni. Quando pioveva, la città era intransitabile.
Le zanzare erano insopportabili, specialmente per gli equipaggi della flotta. C’era una tal quantità di granchi in tutto il litorale, particolarmente nella Punta Caleta di San Lázaro che di notte, quando si avvicinavano in cerca dei rifiuti della spazzatura domestica, facevano tanto rumore che spesso si scambiavano per invasori inglesi.

Cuentos de camino

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
16 de Noviembre del 2013 17:05:45 CDT

La Habana cuenta con el parque urbano más grande del mundo. Se extiende a lo largo de unos ocho kilómetros. Es el Malecón. Su muro se convierte en un asiento de piedra casi sin fin. La ciudad dispone además de avenidas cuyos paseos centrales, arbolados y con bancos, son parques verdaderos. Ahí están, entre otros, los de las calles G y Paseo, en el Vedado, vías que con sus 50 metros de ancho llevan de alguna manera el mar a la ciudad; el de la Quinta Avenida, de Miramar, y el mítico Paseo del Prado, con copas, ménsulas y leones de bronce, farolas, laureles frondosos y bancos de mármol. Y están, por supuesto, los parques de barrio, presididos casi siempre por la estatua de alguien que merece ser recordado. En cada barriada habanera hay un parque llamado de los chivos, que buscan para pasar las horas estudiantes fugados de clase y jóvenes enamorados que quieren librarse de la curiosidad callejera y encuentran en ellos espacio discreto para el amorío. ¿Existen esos parques de los chivos en otras ciudades del país?

Una construcción duradera

La referencia más antigua sobre la construcción de un camino en La Habana data del 14 de febrero de 1575, cuando un acta del Ayuntamiento de la villa anota la inexistencia de esos senderos o veredas y advierte lo conveniente que resultarían para el servicio de la Corona, el bien de la localidad y la comodidad de vecinos y moradores «para que se pueda andar e caminar». Recoge el documento la queja de los regidores por los caminos reales que «se mandaron abrir y no se abrieron», y dispone que 12 indios e igual número de negros horros, con sus hachas y machetes, abran un camino en Guanabacoa y que se valore y se les pague su trabajo.
Muchos años después, en 1796, la Junta de Fomento decidía empedrar el viejo camino de Jesús del Monte y comenzaba a hacerlo por el tramo comprendido entre el puente de Chávez y la Esquina de Tejas. Se empedraron 13 500 varas cuadradas en cinco meses, con un costo de 30
734 pesos fuertes, cifra esta excesiva, expresa la relación de la Junta, porque tuvo que acometerse una excavación de 400 varas de largo, 17 de ancho y 1,5 de profundidad, en la que, durante 45 días, trabajaron cien hombres. Una vara española equivale a poco más de 0,8 metros.
La obra exigió la construcción de dos puentes pequeños y de un petril de sillería sobre muros de mampostería ordinaria y se tragó 10 156 carretadas de piedra. Una carretada equivale, más o menos, a 1 500 kilogramos.
No es sin embargo hasta 1823 cuando se hizo un primer intento de normar la construcción de caminos. La Junta Económica del Real Consulado dedicaba fondos a la apertura de senderos y exigía que los de la ruta central se abriesen con 50 varas de ancho, los provinciales, con 24, con 12 los vecinales y con una anchura de seis varas los caminos domésticos.
Otro documento, Memorias de obras públicas, publicado en 1860 y que cubre los años comprendidos entre 1795 y 1858, consigna la preocupación del Gobierno colonial por lo que allí se llama Camino Central de la Isla.
El camino hacia el Oeste arrancaba en La Habana y terminaba en Pinar del Río, luego de atravesar Marianao, Guanajay, Artemisa, Las Mangas y Paso Real de San Diego, y era —se afirma— «un camino natural sin preparación de ninguna clase, con algunas pocas obras para atravesar ríos, arroyos y cañadas». Un primer tramo hasta Güines comprendía el Camino Central del Este. Proseguía por Unión de Reyes, Jovellanos —que recibía entonces el nombre de Bemba— y Macagua. Continuaba por Santo Domingo, La Esperanza, Santa Clara, Sancti Spíritus y Ciego de Ávila.
Y seguía desde allí por Puerto Príncipe, Guáimaro y Las Tunas hasta Cauto Embarcadero. Desde Macagua, esta ruta tenía una extensión de
181,5 leguas, esto es, 770 kilómetros aproximadamente.
El Camino Central al que se alude en las Memorias de 1860 se afirmaba en piedra y tenía un ancho de cinco metros y con esa anchura continuó extendiéndose. El presidente Menocal adelantó en la vía gracias a la ley del 25 de agosto de 1919, que le autorizó a invertir en esta 1 200
000 pesos anuales.
De esa forma se tiraron nuevos tramos del camino y se prolongaron los existentes. Al ascender Gerardo Machado al poder, el 20 de mayo de 1925, los trechos de esa carretera sumaban unos 650 kilómetros, repartidos, de manera discontinua, por las seis provincias de entonces.
Era, en gran parte, una carretera en mal estado, con curvas cerradas y anchura insuficiente, salvo en el tramo de diez kilómetros entre La Habana y San Francisco de Paula, y el de La Habana a Arroyo Arenas (15
km) ambos ensanchados y adoquinados con granito entre 1913 y 1914.
Los trabajos de la Carretera Central propiamente dicha comenzaron en San Francisco de Paula, el 1ro. de marzo de 1927. Tiene una extensión de 1 139 kilómetros. De estos, 690 cruzaron por zonas donde no existían más vías de comunicación que los antiguos caminos reales, y
450 utilizaron total o parcialmente las explanadas de las carreteras que le antecedieron. Comunicó zonas extensas y fértiles y atravesó 60 pueblos y ciudades. Es una de las siete maravillas de la ingeniería civil cubana y los especialistas la catalogan como la obra del siglo XX en Cuba. Es una de las mejores carreteras de América Latina y ejemplo de construcción duradera. Ha resistido, durante decenas de años, cargas muy superiores a las que se suponía que soportara. Acortó distancias y conectó rincones de la geografía insular, lo que redundó en todos los órdenes de la vida cubana: humano, social, cultural, científico, político y económico.
Valga una aclaración. Se ha repetido mucho que la Carretera Central debió tener una anchura de ocho metros, y que Machado y su camarilla la dejaron en seis para apropiarse del dinero que eso hubiera costado.
No hay tal. La carretera tuvo siempre los seis metros de ancho con que se construyó. Así se advierte en los planos originales. (Con documentación de Juan de las Cuevas)

Pepe Jerez, ¿quién eres tú?

El triángulo situado en Monserrate, frente al comienzo de la calle Neptuno y al final del callejón de San Juan de Dios, lo ocupa el parque —más bien parquecito— de Pepe Jerez, famoso y popularísimo jefe de la Policía Secreta de La Habana durante los años iniciales de la República y valeroso oficial del Ejército Libertador.
En 1951 se colocó allí el busto de Manuel Fernández Supervielle, alcalde habanero que se suicidó en 1947 cuando se percató de que no podría cumplirles a los habitantes de la ciudad la promesa de un nuevo acueducto, para el que el presidente Grau le había prometido la ayuda necesaria. Lo curioso es que todos identifican a este parque como de Supervielle, mientras que su nombre oficial duerme en el olvido.
Caso similar sucede con el llamado Parque de San Juan de Dios, espacio enmarcado por las calles Aguiar, Habana, Empedrado y San Juan de Dios o Progreso, sitio ocupado por el primer hospital que, aunque imperfecto, mereció ese nombre en la capital. Se erigió allí una estatua de don Miguel de Cervantes Saavedra, y se pretendió que el nombre del parque fuese el del famoso autor del Quijote, aunque ya anteriormente y de manera oficial el espacio había sido bautizado con el nombre del mayor general Emilio Núñez, del Ejército Libertador.
Ni Cervantes ni Emilio Núñez… El cubano de a pie lo ha llamado siempre Parque de San Juan de Dios.

Esas calles

La calle Galiano debe su nombre a don Martín Galiano, ministro interventor en las obras de fortificación de la ciudad, quien construyó un puente, el cual llevó su apellido, sobre la Zanja Real que recorría la actual calle de este nombre y surtía de agua a la ciudad. Luego, en 1839, se construyó otro puente que permitía el paso del ferrocarril que salía de la Estación de Villanueva, enclavada en parte de los terrenos donde hoy se ubica el Capitolio. Hasta 1842, Galiano estuvo cerrada en la calle San Miguel por una manzana de casas. Desde ahí hasta San Lázaro, Galiano no era Galiano, sino Montesinos, posiblemente un vecino o comerciante del lugar.
Como datos curiosos, añade el escribidor, en la esquina de Zanja existió un baño público, que el terreno donde se encuentra la iglesia de Monserrate se conoció por el nombre De la Marquesa, por pertenecer a la marquesa viuda de Arcos, y que en el entronque de Galiano con San Lázaro se encontraban las canteras de donde se extrajeron piedras para las primeras casas que con ese material se construyeron en la villa.
En 1917 se dio a Galiano el nombre oficial, que no ha sido modificado nunca, de Avenida de Italia.

Lino y seda; cangrejos y mosquitos

Hacia 1771 la mejor entre todas las calles habaneras —se dice— era la de Mercaderes, que solo se extendía a lo largo de unas cuatro cuadras, y tenía repartidos por una y otra aceras distintos establecimientos donde podía encontrarse lo mejor en tejidos de lana, lino y seda.
Estas tiendas atraían a las damas elegantes, y Mercaderes era entonces lo que fueron más tarde Obispo y luego San Rafael y Galiano, con la diferencia de que en aquella época las damas no abandonaban sus volantas para hacer las compras, porque era de mal gusto penetrar en las tiendas.
Arrancaba dicha calle desde la Plaza de Armas y, al igual que otra calle bien alineada, Oficios, iba a encontrarse en lo que se llamó Plaza Vieja. En este punto, en dirección Oeste, se trazó la calle Real
(Muralla) que daba salida al campo por la Calzada de San Luis Gonzaga
(Reina) y conducía a una hacienda nombrada San Antonio el Chiquito, donde se fomentó un ingenio de azúcar, que existía en 1762 cuando la toma de La Habana por los ingleses.
A continuación de la de los Mercaderes, se trazó la calle de las Redes (Inquisidor). Paralela a la calle Real se hallaba la del Basurero (Teniente Rey), porque conducía al vertedero de la ciudad.
En la misma dirección, partiendo de la Plaza de Armas, iba la calle de Sumidero (0’Reilly), nombre este que tomó por el Segundo Cabo que vino con el Conde de Ricla a la restauración española, después de la efímera dominación inglesa. Salían desde 0’Reilly, rumbo a la boca del puerto, las calles que se llamaron Habana y Cuba y que a través de los siglos han conservado sus nombres.
En las calles que hemos citado, las casas obedecían a una alineación y equidistancia. En el resto de la ciudad se construía a la diabla, es decir, cada cual establecía su casa donde lo creía conveniente. Todas las casas eran de guano o de madera y estaban cercadas o defendidas por sus cuatro costados con tunas bravas. Cuando llovía la ciudad era intransitable.
Los mosquitos eran insoportables, especialmente para los tripulantes de las flotas. Y había tal cantidad de cangrejos en todo el litoral, particularmente en las cercanías de la Punta y Caleta de San Lázaro, que por las noches, cuando se acercaban en busca de los desperdicios de las basuras domésticas, metían tanto ruido que muchas veces se les tomaba por invasores ingleses

Ciro Bianchi Ross




giovedì 14 novembre 2013

Cilecca

CILECCA: vuole sentire il nostro sapore

mercoledì 13 novembre 2013

Arrivo a Miami

È proprio vero che ogni viaggio è un'avventura sé stante. L'anno scorso più o meno nello stesso periodo, prima dell'approvazione della legge sull'immigrazione entrata in vigore al'inizio di quest'anno, ho fatto il viaggio dall'Avana a Miami, via Gran Cayman su arei semivuoti, nonostante che i cittadini cubani con passaporto spagnolo potessero chiedere a Inmigración il permesso di uscita. Quest'anno, senza più questa necessità il volo era pieno e attualmente questo itinerario è coperto due volte al giorno: la mattina presto e il pomeriggio.
Altra sorpresa di questo genere all'arrivo a Miami, non mi era mai capitato di trovare tanta coda per le pratiche di ingresso. Il salone dove sono distribuite circa 70 postazioni solo per i non residenti o cittadini USA ne aveva in funzione solo una decina e le "spire" da percorrere, della lunghezza di circa 100 metri ciascuna, al momento del nostro arrivo erano 5. Contrariamente al mio ultimo viaggio sono siamo stati ricevuti da un afroamericano che parlava un ottimo spagnolo, cosa rara, con accento impercettibile, il quale dopo averci chiesto la provenienza non ha minimamente avuto cenni di repulsione, come capita spesso in quell'aeroporto. Mentre sbrigava le sue pratiche e ci rilevava impronte e foto ci ha chiesto se il volo era andato bene e, alla fine ci ha riconsegnato i passaporti con un "Bienvenidos en los Estados Unidos". Gradevole sorpresa, saranno i primi effetti delle dichiarazioni di Obama? Lo stesso è capitato al ritiro dell'auto noleggiata: una gentile signorina ci ha chiesto da dove venivamo e quando le abbiamo detto "da Cuba", si è allargata in un sorriso ed un gesto di quasi ammirazione, però mi ha subito detto che la patente cubana non è valida negli Stati Uniti. Ho ancora quella italiana...
Ebbene, queste sono le primissime impressioni, poi vedremo.

Ciclostile

CICLOSTILE: bicicletta di classe

martedì 12 novembre 2013

Ciclone

CICLONE: bicicletta sovradimensionata

lunedì 11 novembre 2013

Su Varadero aumenta il traffico aereo

Tre nuovi voli charter iniziano ad operare su Varadero, due europei e uno sudamericano. La compagnia polacca LOT, ha inaugurato un volo quindicinale da Varsavia che sarà operativo fino al prossimo mese di marzo, la russa ORENAIR ha stabilito un volo settimanale da Mosca, mentre la cilena PRINCIPAL ha a sua volta messo in operativo un volo settimanale dal Cile, per la spiaggia cubana che durerà fino ad aprile.
Intanto, Varadero, si prepara per la 33ma Fiera del Turismo che si terrà nel prossimo mese di maggio e avrà come Paese Ospite il Brasile.

Il blog "cresce" negli U.S.A.

Con una punta di soddisfazione, ho notato la rapida crescita, specie negli ultimi tempi, di lettori dagli Stati Uniti. Solo nelle ultime 24 ore ho avuto 219 visite che confermano al di sopra dell'Italia, i visitatori del blog da questo Paese. Domani parto proprio per Miami e Orlando, non certo per un incontro con i lettori e non credo proprio di trovare banda e tappeto rosso ad aspettarmi...anzi, però per la legge del "non si può mai sapere" chissà se, contro ogni calcolo delle probabilità, magari incontro qualcuno che sa dell'esistenza di questo mio piccolo spazio...
Sono curioso di sentire "in loco" le impressioni sulle dichiarazioni di Obama in merito ad un "cambio di atteggiamento nella politica verso Cuba" e un uso della "creatività", come ha detto. Nel frattempo per un viaggio di circa 40 minuti ci metterò "solo" 5 ore da aeroporto ad aeroporto, dovendo passare per un Paese terzo, Cayman, vista l'inesistenza di voli commerciali, ma solo quella dei charter utilizzabili solo da cittadini cubani, nordamericani autorizzati dal Dipartimento del Tesoro o categorie autorizzate di stranieri tipo diplomatici e giornalisti accreditati, per esempio.

Altro sulla scatoletta, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 10//11/13

Un lettore che si firma col solo nome di battesimo - William - e che evidentemente risiede fuori dell’Isola, forse da molto tempo, domanda sul nome attuale del teatro Blanquita e chiede dati di questa installazione culturale.
Il locale in questione è, da molti anni, il teatro Carlos Marx, scenario di notevoli spettacoli culturali e di importanti eventi politici, come il I° Congresso del Partito Comunista di Cuba, nel dicembre del 1975. Successivamente, a partire dal 1976, accolse le sessioni dell’Assemblea Nazionale fino a che il parlamento cominciò a riunirsi nel Palazzo delle Convenzioni aperto, nel 1979, in occasione del Vertice dei paesi non Allineati.
Il tetro Blanquita si inaugurò nel dicembre del 1949 ed il suo proprietario, il senatore Alfredo Hornedo, gli dette il nome di sua moglie: Blanquita. Trionfa la Rivoluzione e in un momento che adesso non sono in grado di precisare, il Governo cubano decide di dargli il nome di Chaplin, in onore a quel geniale attore che allora era ancora vivo. Questo dev’essere successo nel 1960 o dopo, dal momento che i giornali del 24 febbraio di quell’anno pubblicano di un evento in cui prese parte Fidel e lo situano nel teatro Blanquita. Anche la data in cui cominciò a chiamarsi Carlos Marx non l’ho sottomano, ma nel 1975 questo era già il suo nome.
Il Blanquita fu, per un certo periodo, il più grande teatro del mondo. Contava di 6.600 poltrone. 500 in più che il Radio City Hall di New York.
Nella sua caffetteria potevano essere serviti contemporaneamente 200 commensali. Disponeva di una pista per il pattinaggio su ghiaccio.
Della sua infanzia, lo scriba, ricorda di avervi assistito col tutto esaurito, alle presentazioni di Sarita Montiel e Liberace, celebre pianista nordamericano, portati entrambi a Cuba dallo scaltro Gaspar Pumarejo, l’impresario di Escuela de Televisión , che si trasmetteva di sera sul canale 2 e di Hogar Club che con i suoi oltre 100 mila associati che pagavano la quota di un peso mensile, garantivano al loro patrocinatore un affare d’oro. Pumarejo aveva un olfatto speciale per contrattare artisti, scrive il musicologo Cristóbal Díaz Ayala. Portava, costasse quel che costasse, figure all’apice della fama, come Liberace o la Montiel, o faceva venire gente praticamente sconosciuta convertendola in idoli, come fece con Lucho Gatíca, Paco Michel e Luís Aguilé. Ad altre, come Mercedes Simone, “la Dama del tango”, fece rinverdire all’Avana le sue glorie passate.
Per certo, quando Sarita Montiel, dal palco del Blanquita guardò verso la sala, pensò che per lo spaziosa che era vi poteva volare un aereo e si sentì piccola. Nonostante avesse già fatto cinema, non si era mai presentata in un teatro così grande né in altri. Però si riprese e convinse il pubblico col suo canto. Si dice che circa 140.000 spettatori la videro e applaudirono, nel Blanquita, durante i suoi spettacoli.

Scatolette senza orario fisso

La pagina sulle scatolette per cibi, pubblicata la settimana scorsa, ha destato una ripercussione che non mi aspettavo e voglio condividere col lettore alcuni dei messaggi ricevuti. Uno che si firma Jorge T. Mi dice che prima del 1959, nelle commemorazioni del 4 settembre, data del colpo di stato di cui fu protagonista, nel 1933, un sergente chiamato Batista, nelle caserme e installazioni militari il cibo agli ufficiali e soldati, era servito in scatolette. Eduardo Sueret Reyes da parte sua, ricorda in un altro messaggio il riso fritto nelle scatolette della casa di cibi cinesi de ”la esquina de Toyo”.
Un altro lettore, Norberto Vargas Martínez, nato a Manzanillo e residente da molti anni all’Avana, assicura che le prime scatolette che ricorda, a parte quelle delle pasticcerie, risalgono alla Campagna di Alfabetizzazione. Dice che si servivano scatolette con cibi ai brigatisti alfabetizzatori, sia nel loro viaggio verso Varadero, dove ricevevano le istruzioni necessarie, come nel tragitto fra la spiaggia e il luogo in cui erano destinati.
“Ricordo che nel viaggio da Manzanillo a Varadero c’erano punti di rifornimento a Bayamo, Camagüey, Santa Clara e Matanzas - scrive Vargas Martínez -. Il mezzo in cui si viaggiava arrivava al punto di rifornimento, si faceva il conto dei passeggeri e a ciascuno si consegnava una scatoletta di cartone che conteneva un pezzo di pollo al forno, riso, un ortaggio bollito che poteva essere boniato (patata dolce n.d.t.), yucca (manioca n.d.t.) o patata. Per bere distribuivano un bicchierone di cartone paraffinato con succo di ananas, tamarindo o arancia. Niente di tutto ciò si consumava in loco, orbene, una volta distribuito il cibo il viaggio riprendeva immediatamente. Non si sostava in questi punti, eventualmente qualche minuto per andare ai servizi igienici, perciò il contenuto delle scatolette si ingeriva lungo la strada o se il viaggio si faceva in treno, lungo i binari.
Siccome non c’era un’ora precisa di arrivo a questi punti, né coincidenza con la preparazione delle scatolette il cibo, generalmente, era freddo e noi brigatisti battezzammo i polli come polli fossilizzati o mummificati”.

Istituzione Inclán

L’edificio che occupò questo centro scolastico alla Loma del Mazo ebbe una triste sorte. Fu, originariamente, una scuola di arti e mestieri e ospitò una scuola elementare fino a che cessò di di funzionare come installazione docente. Le sue aule vuote, mense e saloni silenziosi, in attesa di non si sa che destino, l’immobile già danneggiato, fu mira di depredatori che su richiesta di compratori senza scrupoli che pagavano un tanto al pezzo, venne spogliato di servizi sanitari, mattoni, cristalli e mosaici fino ad essere convertito in una rovina vera e propria, di cui una delle ali crollò.
In merito a questa istituzione che occupava l’isolato compreso fra le calles Cortina, Carmen, Figueroa e Patrocinio, che contava di un edificio di quattro piani, richiede informazioni il lettore lorenzo Pacheco di Santos Suárez.
I fratelli Manuel e Gustavo Inclán ebbero un’infanzia dura, dura davvero. Orfani, senza casa nè alcuna protezione, questi avaneri si videro costretti a lavorare come muli fin da molto piccoli.
Lo scriba non sa come cambiò la loro sorte. Fatto sta che, col tempo, divennero molto ricchi, scapoli, senza eredi, decisero di disporre un lascito di 600.000 pesos per la fondazione di una scuola di arti e mestieri destinata a figli di famiglie con basse risorse economiche. Manuel morì nel 1910 e Gustavo cinque anni più tardi. L’avvocato Francisco angulo Garay, che fu incaricato di far compiere la disposizione testamentaria, decise di consultarsi e monsignor González Estrada, vescovo dell’Avana, gli consigliò che cercasse il parere della Compagnia di Gesù.
I gesuiti, che terminarono con patrocinare una magnifica scuola di elettromeccanica in Belén, passarono la palla ai padri salesiani. Questi non erano stabiliti nella diocesi avanera. Il padre Josè Calasanz - che il papa Giovanni Paolo II finì per dichiare beato - unio sacerdote di quest’ordine residente nella capitale, servì da ponte tra l’avvocato e la signorina Dolores Betancourt, benefattrice della Scuola Salesiana di Camagüey. Intanto Calasanz riferiva, ai suoi superiori a Torino, l’interesse del vescovo González Estrada per la costruzione della scuola, progetto priorizzato nel suo programma episcopale e l’avvocato Angulo Garay incrementava fino a un milione di pesos il lascito dei fratelli Inclán. Per non intaccare i fondi dell’opera, Calasanz decise di stabilirsi nella parrocchia di Jesús del Monte assieme a monsignor Menéndez, il parroco. A quel tempo - guarda la cosa curiosa - monsignor Evelio Díaz, che giungerà ad essere arcivescovo dell’Avana, era chierichetto in Jesús del Monte.
Il 14 maggio del 1919, si acquistava per 47.500 pesos il terreno. La costruzione iniziò nel 1921 e due anni dopo erano pronte la cappella e l’area docente. Nel 1927, con la presenza del presidente Machado, si portava atermine l’inaugurazione ufficiale dell’istituzione. I suoi alunni erano borsisti, pensionanti o esterni che studiavano li le classi elementari e medie, così come i lavori di stampa, rilegatura, ebanisteria o meccanica.
Per discrepanze con la Giunta del Patronato che amministrava l’istituto, i salesiani uscirono dall’istituzione nell’agosto del 1942.

Avviso da Cascorro

Due settimane fa - il 27 di ottobre - nella pagina intitolata L’evacuazione, ho parlato della piazza di Madrid che ricorda la battaglia di Cascorro (1896) ed esalta la memori di Eloy Gonzalo, un soldato spagnolo che da coloro che lo ricordano, in Spagna, lo vedono come un eroe e la sua statua lo rappresenta nel momento in cui, si dice, si disponeva a incendiare un fortino occupato da un gruppo di mambises. La piazza spagnola si chiama proprio così: Cascorro.
Adesso, dal nostro Cascorro, la località camagüeyana con questo nome, ricevo un interessante messaggio dal professor Ricardo Salazar Crespo nel quel mi offre non pochi dati su quasta località e mi spinge ad emendare alcuni dettagli della mia nota, sebbene sia cosciente che il possibile errore viene dalle fonti che ho consultato. Dice Salazar Crespo:
“Circa il suo scritto voglio esprimere la gioia per il tema che tocca. Come residente in Cascorro da circa 50 anni, con lo stesso tempo dedicato alla docenza, mi sono dedicato allo studio della storia di questa località e, uno dei fatti che ho analizzato già da anni è riferito a Eloy Gonzalo il cosiddetto Eroe di Cascorro”.
Il professore dice che nel 1998 visitò a Madrid la citata piazza e che ha l’informazione raccolta nel museo dell’esercito spagnolo e che fu pubblicata anche a Cuba da chi, negli anni ’20, intervistò a combattenti dell’Esercito di Liberazione che vissero ed ebbero, in qualche modo, relazione col fatto.
Tutto ciò permette al mio corrispondente affermare che Eloy Gonzalo non si preparava a incendiare un fortino, ma la casa di Manuel Fernández Cabrera, sindaco di Cascorro, dove un gruppo di mambises si era fortificato.
Aggiunge: “Esiste un foglietto scritto da tale P. Giralt, intitolato Dati curiosi del sito di Cascorro, edito nel 1897, a pochi mesi dall’avvenimento, che getta molta luce circa la motivazione di Eloy Gonzalo per offrire il suo “gran sacrificio”. Ma in questo non mi estendo, aspetto solo la sua risposta, manifestandole che sono a sua completa disposizione per abbordare aspetti di sommo interesse della storia di Cascorro che vale la pena vengano divulgati e che sarebbero graditi dai lettori”.
Mi sembra superfluo dirle, amico Salazar Crespo, che il ponte è gettato. La ringrazio per la sua informazione; questa o altra che possa farmi avere. Però le dico fin d’ora: è la stessa cosa che si trattasse di un fortino o di una casa.


Más sobre la cajita

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
9 de Noviembre del 2013 21:41:20 CDT

Un lector que firma solo con su nombre de pila —William— y que reside
evidentemente fuera de la Isla, quizá desde hace mucho tiempo,
inquiere por el nombre actual del teatro Blanquita y pide datos acerca
de esa instalación cultural.
El establecimiento en cuestión es, desde hace muchos años, el teatro
Karl Marx, escenario de sonados espectáculos culturales y de
importantes eventos políticos, como el I Congreso del Partido
Comunista de Cuba, en diciembre de 1975. Con posterioridad, y a partir
de 1976, acogió las sesiones de la Asamblea Nacional hasta que el
Parlamento comenzó a sesionar en el Palacio de las Convenciones,
abierto en 1979 con motivo de la Cumbre de los Países No Alineados.
El teatro Blanquita se inauguró en diciembre de 1949, y su
propietario, el senador Alfredo Hornedo, le dio el nombre de su
esposa, Blanquita. Triunfa la Revolución y en un momento que no puedo
precisar ahora, el Gobierno cubano decide darle el nombre de Chaplin,
en honor a ese genial actor todavía vivo entonces. Eso debe haber
ocurrido en 1960 o después, ya que los periódicos del 24 de febrero de
ese año dan cuenta de un acto que preside Fidel y lo sitúa aún en el
teatro Blanquita. Tampoco tengo a mano la fecha en que comenzó a
llamarse Karl Marx, pero ese era ya su nombre en 1975.
El Blanquita fue, en su momento, el mayor teatro del mundo. Contaba
con 6 600 lunetas, 500 asientos más que Radio City Hall, de Nueva
York.
En su cafetería podían ser atendidos 200 comensales de una vez.
Disponía de una pista para patinaje sobre hielo.
De su infancia, el escribidor recuerda haber asistido allí, a teatro
lleno, a las presentaciones de Sarita Montiel y de Liberace, destacado
pianista norteamericano, traídos ambos a Cuba por el avispado Gaspar
Pumarejo, el empresario de Escuela de Televisión, que se transmitía
por el Canal 2, en la noche, y de Hogar Club que, con sus más de cien
mil asociadas que abonaban la cuota de un peso mensual, garantizaba a
su patrocinador un negocio redondo. Pumarejo tenía un olfato especial
para contratar artistas, escribe el musicógrafo Cristóbal Díaz Ayala.
Traía, costase lo que costase, figuras en el apogeo de su fama, como
Liberace y la Montiel, o hacía venir a gente prácticamente desconocida
y las convertía en ídolos, como hizo con Lucho Gatica, Paco Michel y
Luis Aguilé. A otras, como a Mercedes Simone, «la Dama del tango», les
hizo reverdecer en La Habana sus viejas glorias.
Por cierto, cuando Sarita Montiel, desde el escenario del Blanquita,
miró hacia la sala, pensó que, por lo espaciosa, podía allí volar un
avión y se sintió pequeñita. Aunque ya había hecho cine, nunca antes
se había presentado en un teatro tan grande ni en ninguno. Pero se
sobrepuso y convenció al público con su canto. Se dice que unas 140
000 personas la vieron y aplaudieron en el Blanquita durante sus
actuaciones.

Cajitas sin hora fija

La página sobre las cajitas con comida, publicada la semana pasada,
despertó una repercusión que no esperaba y quiero compartir con el
lector algunos de los mensajes recibidos.
Alguien que firma Jorge T me dice que antes de 1959, en las
conmemoraciones del 4 de septiembre, fecha del golpe de Estado
protagonizado en 1933 por un sargento llamado Batista, en cuarteles e
instalaciones militares, la comida se repartía en cajitas entre
oficiales y soldados. Eduardo Sueret Reyes, por su parte, rememora en
otro mensaje el arroz frito en cajita de la casa de comida china de la
esquina de Toyo.
Otro lector, Norberto Vargas Martínez, natural de Manzanillo y
avecindado en La Habana desde hace muchos años, asegura que las
primeras cajitas que recuerda, salvo las de las dulcerías,
corresponden a la Campaña de Alfabetización. Dice que cajitas con
comida se les proporcionaban a los brigadistas alfabetizadores tanto
en su viaje a Varadero, donde recibirían el entrenamiento necesario,
como en el trayecto entre la playa y el lugar al que se les destinaba.
«Recuerdo que en el camino de Manzanillo a Varadero había puntos de
abastecimiento en Bayamo, Camagüey, Santa Clara y Matanzas —escribe
Vargas Martínez—. El transporte en que viajabas llegaba al punto de
abastecimiento, se hacía el conteo de los pasajeros y a cada uno le
entregaban una cajita de cartón que contenía una pieza de pollo asado,
arroz y una vianda hervida, que podía ser boniato, yuca o papa. Para
beber repartían jugo de mango enlatado, o una perga de cartón
parafinado con jugo de piña, tamarindo o naranja. Nada de eso se
ingería en el lugar, pues una vez que se repartía la comida, el viaje
continuaba de inmediato. No se hacía estancia en esos puntos, si acaso
unos minutos para acudir al sanitario. Por tanto, el contenido de las
cajitas se ingería en la carretera o, si el viaje se hacía en tren,
sobre los rieles.
«Como no había hora fija de llegada a esos puntos, ni coincidencia con
la preparación de las cajitas, la comida, por lo general, estaba fría
y los brigadistas bautizamos los pollos, como pollos fosilizados o
momificados».

Institución Inclán

El edificio que ocupó este centro escolar en la Loma del Mazo corrió
una triste suerte. Fue originalmente escuela de artes y oficios y
albergó una escuela primaria hasta que dejó de funcionar como
instalación docente. Vacías sus aulas, en silencio los corredores y
salones, en espera de sabe qué destino, el inmueble, ya dañado, fue
presa de depredadores que, a pedido de compradores inescrupulosos que
pagaban a tanto la pieza, fueron despoblándolo de servicios
sanitarios, ladrillos, cristales y mosaicos hasta dejarlo convertido
en una verdadera ruina, una de cuyas alas se desplomó.
Sobre esta institución, que ocupaba la manzana enmarcada por las
calles Cortina, Carmen, Figueroa y Patrocinio y que contaba con un
edificio central de cuatro plantas, recaba información el lector
Lorenzo Pacheco, de Santos Suárez.
Los hermanos Manuel y Gustavo Inclán tuvieron una niñez dura, dura de
verdad. Huérfanos, sin amparo ni protección alguna, estos habaneros se
vieron precisados a trabajar como mulos desde muy pequeños.
Desconoce el escribidor cómo les cambió la fortuna. El caso es que,
con el tiempo, llegaron a ser muy ricos, y solteros y sin
descendencia, decidieron legar 600 000 pesos para la fundación de una
escuela de artes y oficios destinada a hijos de familias de bajos
recursos. Manuel murió en 1910 y Gustavo cinco años más tarde. El
abogado Francisco Angulo Garay, que quedó encargado del cumplimiento
de la disposición testamentaria, decidió consultar el asunto y
monseñor González Estrada, obispo de La Habana, le aconsejó que
buscara la opinión de la Compañía de Jesús.
Los jesuitas, que terminarían auspiciando una magnífica Escuela de
Electromecánica en Belén, pasaron la bola a los padres salesianos.
Estos no estaban establecidos en la diócesis habanera. El padre José
Calasanz —que el papa Juan Pablo II terminó declarando beato— único
sacerdote de esa orden radicado en la capital, sirvió de puente entre
el abogado y la señorita Dolores Betancourt, benefactora de la Escuela
Salesiana de Camagüey. Mientras, Calasanz refería a sus superiores en
Turín el interés del obispo González Estrada en la construcción de la
escuela, proyecto priorizado en su programa episcopal, y el abogado
Angulo Garay incrementaba hasta un millón de pesos el legado de los
hermanos Inclán. Para no afectar los fondos de la obra, Calasanz
decidió establecerse en la parroquia de Jesús del Monte, junto a
monseñor Menéndez, el párroco. En ese tiempo —y vaya esta curiosidad—
monseñor Evelio Díaz, que llegaría a ser Arzobispo de La Habana, era
monaguillo en Jesús del Monte.
El 14 de mayo de 1919 se adquiría por 47 500 pesos el terreno. La
construcción se inició en 1921 y dos años más tarde estaban listas la
capilla y el área docente. En 1927, con la presencia del presidente
Machado, se llevaba a cabo la inauguración oficial de la institución.
Sus alumnos serían becados, pensionados y externos que cursarían allí
la enseñanza elemental y la media, así como los oficios de impresión,
encuadernación, ebanistería o mecánica.
Por discrepancias con la Junta de Patronos que administraba el
plantel, los salesianos salieron de la institución en agosto de 1942.

Aviso desde Cascorro

Hace dos semanas —27 de octubre—, en la página titulada La evacuación,
hablé sobre la plaza de Madrid que recuerda la batalla de Cascorro
(1896) y exalta la memoria de Eloy Gonzalo, un soldado español al que
los que lo recuerdan en España tienen como un héroe y al que la
escultura representa en el momento en que, se dice, se disponía a
incendiar un fortín ocupado por un grupo de mambises. La plaza
española se llama precisamente así, Cascorro.
Ahora, desde el Cascorro nuestro, la localidad camagüeyana de ese
nombre, recibo un interesante mensaje del profesor Ricardo Salazar
Crespo en el que ofrece no pocos datos sobre ese sitio y me insta a
enmendar algunos detalles de mi nota, si bien está consciente de que
el posible error viene de las fuentes que consulté. Dice Salazar
Crespo:
«Acerca de su escrito quiero expresarle mi contento por el tema que
toca. Como residente en Cascorro desde hace cerca de 50 años, con el
mismo tiempo integrado a la docencia, me he dedicado al estudio de la
historia de esta localidad, y uno de los asuntos que he analizado
desde hace años ha sido lo referido a Eloy Gonzalo, el titulado Héroe
de Cascorro».
Dice el profesor que en 1998 visitó en Madrid la plaza aludida y que
tiene la información que recoge el museo del ejército español y
también lo que publicaron en Cuba quienes, en los años 20,
entrevistaron a combatientes del Ejército Libertador que vivieron y
hasta tuvieron, en alguna forma, relación con el hecho.
Todo eso permite a mi corresponsal afirmar que Eloy Gonzalo no se
disponía a incendiar un fortín, sino la casa de Manuel Fernández
Cabrera, alcalde de Cascorro, donde un grupo de mambises se había
hecho fuerte.
Añade: «Existe un folleto escrito por un tal P. Giralt, titulado Datos
curiosos del sitio de Cascorro, que se editó en 1897, a pocos meses de
ocurrido el hecho, que arroja mucha luz acerca de la motivación de
Eloy Gonzalo para ofrecerse a su “gran sacrificio”. Pero en esto no
abundo, solo espero su reacción, manifestándole que estoy a su entera
disposición para abordar aspectos sumamente interesantes de la
historia de Cascorro que merecen divulgarse, y que serían del agrado
de los lectores».
De más está decirle, amigo Salazar Crespo, que el puente está tendido.
Agradezco su información; esta y la que puede hacerme llegar. Pero
desde ya le digo: lo mismo da un fortín que una casa.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


Ciambellano

CIAMBELLANO: ha una bella fortuna

domenica 10 novembre 2013

Incontro con le voci popolari



Si è concluso ieri sera il II° Incontro con le voci popolari dell'America Latina, evento promosso, diretto e organizzato dalla Maestra Argelia Fragoso, già eccellente soprano della lirica cubana. Fra i vari personaggi intervenuti, la chiusura è toccata ieri sera (sabato) alla dominicana Marídalia Hernández, la prima cantante che ha avuto l'orchestra 4.40 di Juan Luis Guerra. La sua gala è seguita a quella di venerdì, offerta su questo stesso palco, da un'altra popolare interprete della musica di queste latitudini, la messicana Lila Downs.
Quello di Marídalia è stato uno spettacolo entusiasmante per il pubblico che gremiva la sala Covarrubias del Teatro Nacional. Il tipico ritmo del "merengue" dominicano si è fuso col "son" e "bolero" cubani e con il "flamenco" spagnolo con arrangiamenti veramente degni di nota. La cantante ha presentato il repertorio contenuto nel suo ultimo disco "Libre", ma non ha tralasciato di ripresentare pezzi che l'hanno resa popolare proprio con la 4.40, come, ad esempio, "Ojalá que llueva café en el campo. Durante lo spettacolo sapendo che in galleria, tra il pubblico, c'era un'altra grande della canzone dominicana: Sonia Silvestre, affettuosamente chiamata la Silvestra, l'ha invitata a scendere sullo scenario con lei per improvvisare un duetto che ha riscaldato ancora di più, se possibile, il pubblico che al finale l'ha salutata con una grande ovazione sulle note di "Quiero ír a Santiago" del maestro Adalberto Álvarez arrangiata a tempo di "merengue" e dedicata, oltre che a Santiago de Cuba, a Santiago de los Caballeros, seconda città della Repubblica Dominicana.