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lunedì 11 novembre 2013

Altro sulla scatoletta, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 10//11/13

Un lettore che si firma col solo nome di battesimo - William - e che evidentemente risiede fuori dell’Isola, forse da molto tempo, domanda sul nome attuale del teatro Blanquita e chiede dati di questa installazione culturale.
Il locale in questione è, da molti anni, il teatro Carlos Marx, scenario di notevoli spettacoli culturali e di importanti eventi politici, come il I° Congresso del Partito Comunista di Cuba, nel dicembre del 1975. Successivamente, a partire dal 1976, accolse le sessioni dell’Assemblea Nazionale fino a che il parlamento cominciò a riunirsi nel Palazzo delle Convenzioni aperto, nel 1979, in occasione del Vertice dei paesi non Allineati.
Il tetro Blanquita si inaugurò nel dicembre del 1949 ed il suo proprietario, il senatore Alfredo Hornedo, gli dette il nome di sua moglie: Blanquita. Trionfa la Rivoluzione e in un momento che adesso non sono in grado di precisare, il Governo cubano decide di dargli il nome di Chaplin, in onore a quel geniale attore che allora era ancora vivo. Questo dev’essere successo nel 1960 o dopo, dal momento che i giornali del 24 febbraio di quell’anno pubblicano di un evento in cui prese parte Fidel e lo situano nel teatro Blanquita. Anche la data in cui cominciò a chiamarsi Carlos Marx non l’ho sottomano, ma nel 1975 questo era già il suo nome.
Il Blanquita fu, per un certo periodo, il più grande teatro del mondo. Contava di 6.600 poltrone. 500 in più che il Radio City Hall di New York.
Nella sua caffetteria potevano essere serviti contemporaneamente 200 commensali. Disponeva di una pista per il pattinaggio su ghiaccio.
Della sua infanzia, lo scriba, ricorda di avervi assistito col tutto esaurito, alle presentazioni di Sarita Montiel e Liberace, celebre pianista nordamericano, portati entrambi a Cuba dallo scaltro Gaspar Pumarejo, l’impresario di Escuela de Televisión , che si trasmetteva di sera sul canale 2 e di Hogar Club che con i suoi oltre 100 mila associati che pagavano la quota di un peso mensile, garantivano al loro patrocinatore un affare d’oro. Pumarejo aveva un olfatto speciale per contrattare artisti, scrive il musicologo Cristóbal Díaz Ayala. Portava, costasse quel che costasse, figure all’apice della fama, come Liberace o la Montiel, o faceva venire gente praticamente sconosciuta convertendola in idoli, come fece con Lucho Gatíca, Paco Michel e Luís Aguilé. Ad altre, come Mercedes Simone, “la Dama del tango”, fece rinverdire all’Avana le sue glorie passate.
Per certo, quando Sarita Montiel, dal palco del Blanquita guardò verso la sala, pensò che per lo spaziosa che era vi poteva volare un aereo e si sentì piccola. Nonostante avesse già fatto cinema, non si era mai presentata in un teatro così grande né in altri. Però si riprese e convinse il pubblico col suo canto. Si dice che circa 140.000 spettatori la videro e applaudirono, nel Blanquita, durante i suoi spettacoli.

Scatolette senza orario fisso

La pagina sulle scatolette per cibi, pubblicata la settimana scorsa, ha destato una ripercussione che non mi aspettavo e voglio condividere col lettore alcuni dei messaggi ricevuti. Uno che si firma Jorge T. Mi dice che prima del 1959, nelle commemorazioni del 4 settembre, data del colpo di stato di cui fu protagonista, nel 1933, un sergente chiamato Batista, nelle caserme e installazioni militari il cibo agli ufficiali e soldati, era servito in scatolette. Eduardo Sueret Reyes da parte sua, ricorda in un altro messaggio il riso fritto nelle scatolette della casa di cibi cinesi de ”la esquina de Toyo”.
Un altro lettore, Norberto Vargas Martínez, nato a Manzanillo e residente da molti anni all’Avana, assicura che le prime scatolette che ricorda, a parte quelle delle pasticcerie, risalgono alla Campagna di Alfabetizzazione. Dice che si servivano scatolette con cibi ai brigatisti alfabetizzatori, sia nel loro viaggio verso Varadero, dove ricevevano le istruzioni necessarie, come nel tragitto fra la spiaggia e il luogo in cui erano destinati.
“Ricordo che nel viaggio da Manzanillo a Varadero c’erano punti di rifornimento a Bayamo, Camagüey, Santa Clara e Matanzas - scrive Vargas Martínez -. Il mezzo in cui si viaggiava arrivava al punto di rifornimento, si faceva il conto dei passeggeri e a ciascuno si consegnava una scatoletta di cartone che conteneva un pezzo di pollo al forno, riso, un ortaggio bollito che poteva essere boniato (patata dolce n.d.t.), yucca (manioca n.d.t.) o patata. Per bere distribuivano un bicchierone di cartone paraffinato con succo di ananas, tamarindo o arancia. Niente di tutto ciò si consumava in loco, orbene, una volta distribuito il cibo il viaggio riprendeva immediatamente. Non si sostava in questi punti, eventualmente qualche minuto per andare ai servizi igienici, perciò il contenuto delle scatolette si ingeriva lungo la strada o se il viaggio si faceva in treno, lungo i binari.
Siccome non c’era un’ora precisa di arrivo a questi punti, né coincidenza con la preparazione delle scatolette il cibo, generalmente, era freddo e noi brigatisti battezzammo i polli come polli fossilizzati o mummificati”.

Istituzione Inclán

L’edificio che occupò questo centro scolastico alla Loma del Mazo ebbe una triste sorte. Fu, originariamente, una scuola di arti e mestieri e ospitò una scuola elementare fino a che cessò di di funzionare come installazione docente. Le sue aule vuote, mense e saloni silenziosi, in attesa di non si sa che destino, l’immobile già danneggiato, fu mira di depredatori che su richiesta di compratori senza scrupoli che pagavano un tanto al pezzo, venne spogliato di servizi sanitari, mattoni, cristalli e mosaici fino ad essere convertito in una rovina vera e propria, di cui una delle ali crollò.
In merito a questa istituzione che occupava l’isolato compreso fra le calles Cortina, Carmen, Figueroa e Patrocinio, che contava di un edificio di quattro piani, richiede informazioni il lettore lorenzo Pacheco di Santos Suárez.
I fratelli Manuel e Gustavo Inclán ebbero un’infanzia dura, dura davvero. Orfani, senza casa nè alcuna protezione, questi avaneri si videro costretti a lavorare come muli fin da molto piccoli.
Lo scriba non sa come cambiò la loro sorte. Fatto sta che, col tempo, divennero molto ricchi, scapoli, senza eredi, decisero di disporre un lascito di 600.000 pesos per la fondazione di una scuola di arti e mestieri destinata a figli di famiglie con basse risorse economiche. Manuel morì nel 1910 e Gustavo cinque anni più tardi. L’avvocato Francisco angulo Garay, che fu incaricato di far compiere la disposizione testamentaria, decise di consultarsi e monsignor González Estrada, vescovo dell’Avana, gli consigliò che cercasse il parere della Compagnia di Gesù.
I gesuiti, che terminarono con patrocinare una magnifica scuola di elettromeccanica in Belén, passarono la palla ai padri salesiani. Questi non erano stabiliti nella diocesi avanera. Il padre Josè Calasanz - che il papa Giovanni Paolo II finì per dichiare beato - unio sacerdote di quest’ordine residente nella capitale, servì da ponte tra l’avvocato e la signorina Dolores Betancourt, benefattrice della Scuola Salesiana di Camagüey. Intanto Calasanz riferiva, ai suoi superiori a Torino, l’interesse del vescovo González Estrada per la costruzione della scuola, progetto priorizzato nel suo programma episcopale e l’avvocato Angulo Garay incrementava fino a un milione di pesos il lascito dei fratelli Inclán. Per non intaccare i fondi dell’opera, Calasanz decise di stabilirsi nella parrocchia di Jesús del Monte assieme a monsignor Menéndez, il parroco. A quel tempo - guarda la cosa curiosa - monsignor Evelio Díaz, che giungerà ad essere arcivescovo dell’Avana, era chierichetto in Jesús del Monte.
Il 14 maggio del 1919, si acquistava per 47.500 pesos il terreno. La costruzione iniziò nel 1921 e due anni dopo erano pronte la cappella e l’area docente. Nel 1927, con la presenza del presidente Machado, si portava atermine l’inaugurazione ufficiale dell’istituzione. I suoi alunni erano borsisti, pensionanti o esterni che studiavano li le classi elementari e medie, così come i lavori di stampa, rilegatura, ebanisteria o meccanica.
Per discrepanze con la Giunta del Patronato che amministrava l’istituto, i salesiani uscirono dall’istituzione nell’agosto del 1942.

Avviso da Cascorro

Due settimane fa - il 27 di ottobre - nella pagina intitolata L’evacuazione, ho parlato della piazza di Madrid che ricorda la battaglia di Cascorro (1896) ed esalta la memori di Eloy Gonzalo, un soldato spagnolo che da coloro che lo ricordano, in Spagna, lo vedono come un eroe e la sua statua lo rappresenta nel momento in cui, si dice, si disponeva a incendiare un fortino occupato da un gruppo di mambises. La piazza spagnola si chiama proprio così: Cascorro.
Adesso, dal nostro Cascorro, la località camagüeyana con questo nome, ricevo un interessante messaggio dal professor Ricardo Salazar Crespo nel quel mi offre non pochi dati su quasta località e mi spinge ad emendare alcuni dettagli della mia nota, sebbene sia cosciente che il possibile errore viene dalle fonti che ho consultato. Dice Salazar Crespo:
“Circa il suo scritto voglio esprimere la gioia per il tema che tocca. Come residente in Cascorro da circa 50 anni, con lo stesso tempo dedicato alla docenza, mi sono dedicato allo studio della storia di questa località e, uno dei fatti che ho analizzato già da anni è riferito a Eloy Gonzalo il cosiddetto Eroe di Cascorro”.
Il professore dice che nel 1998 visitò a Madrid la citata piazza e che ha l’informazione raccolta nel museo dell’esercito spagnolo e che fu pubblicata anche a Cuba da chi, negli anni ’20, intervistò a combattenti dell’Esercito di Liberazione che vissero ed ebbero, in qualche modo, relazione col fatto.
Tutto ciò permette al mio corrispondente affermare che Eloy Gonzalo non si preparava a incendiare un fortino, ma la casa di Manuel Fernández Cabrera, sindaco di Cascorro, dove un gruppo di mambises si era fortificato.
Aggiunge: “Esiste un foglietto scritto da tale P. Giralt, intitolato Dati curiosi del sito di Cascorro, edito nel 1897, a pochi mesi dall’avvenimento, che getta molta luce circa la motivazione di Eloy Gonzalo per offrire il suo “gran sacrificio”. Ma in questo non mi estendo, aspetto solo la sua risposta, manifestandole che sono a sua completa disposizione per abbordare aspetti di sommo interesse della storia di Cascorro che vale la pena vengano divulgati e che sarebbero graditi dai lettori”.
Mi sembra superfluo dirle, amico Salazar Crespo, che il ponte è gettato. La ringrazio per la sua informazione; questa o altra che possa farmi avere. Però le dico fin d’ora: è la stessa cosa che si trattasse di un fortino o di una casa.


Más sobre la cajita

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
9 de Noviembre del 2013 21:41:20 CDT

Un lector que firma solo con su nombre de pila —William— y que reside
evidentemente fuera de la Isla, quizá desde hace mucho tiempo,
inquiere por el nombre actual del teatro Blanquita y pide datos acerca
de esa instalación cultural.
El establecimiento en cuestión es, desde hace muchos años, el teatro
Karl Marx, escenario de sonados espectáculos culturales y de
importantes eventos políticos, como el I Congreso del Partido
Comunista de Cuba, en diciembre de 1975. Con posterioridad, y a partir
de 1976, acogió las sesiones de la Asamblea Nacional hasta que el
Parlamento comenzó a sesionar en el Palacio de las Convenciones,
abierto en 1979 con motivo de la Cumbre de los Países No Alineados.
El teatro Blanquita se inauguró en diciembre de 1949, y su
propietario, el senador Alfredo Hornedo, le dio el nombre de su
esposa, Blanquita. Triunfa la Revolución y en un momento que no puedo
precisar ahora, el Gobierno cubano decide darle el nombre de Chaplin,
en honor a ese genial actor todavía vivo entonces. Eso debe haber
ocurrido en 1960 o después, ya que los periódicos del 24 de febrero de
ese año dan cuenta de un acto que preside Fidel y lo sitúa aún en el
teatro Blanquita. Tampoco tengo a mano la fecha en que comenzó a
llamarse Karl Marx, pero ese era ya su nombre en 1975.
El Blanquita fue, en su momento, el mayor teatro del mundo. Contaba
con 6 600 lunetas, 500 asientos más que Radio City Hall, de Nueva
York.
En su cafetería podían ser atendidos 200 comensales de una vez.
Disponía de una pista para patinaje sobre hielo.
De su infancia, el escribidor recuerda haber asistido allí, a teatro
lleno, a las presentaciones de Sarita Montiel y de Liberace, destacado
pianista norteamericano, traídos ambos a Cuba por el avispado Gaspar
Pumarejo, el empresario de Escuela de Televisión, que se transmitía
por el Canal 2, en la noche, y de Hogar Club que, con sus más de cien
mil asociadas que abonaban la cuota de un peso mensual, garantizaba a
su patrocinador un negocio redondo. Pumarejo tenía un olfato especial
para contratar artistas, escribe el musicógrafo Cristóbal Díaz Ayala.
Traía, costase lo que costase, figuras en el apogeo de su fama, como
Liberace y la Montiel, o hacía venir a gente prácticamente desconocida
y las convertía en ídolos, como hizo con Lucho Gatica, Paco Michel y
Luis Aguilé. A otras, como a Mercedes Simone, «la Dama del tango», les
hizo reverdecer en La Habana sus viejas glorias.
Por cierto, cuando Sarita Montiel, desde el escenario del Blanquita,
miró hacia la sala, pensó que, por lo espaciosa, podía allí volar un
avión y se sintió pequeñita. Aunque ya había hecho cine, nunca antes
se había presentado en un teatro tan grande ni en ninguno. Pero se
sobrepuso y convenció al público con su canto. Se dice que unas 140
000 personas la vieron y aplaudieron en el Blanquita durante sus
actuaciones.

Cajitas sin hora fija

La página sobre las cajitas con comida, publicada la semana pasada,
despertó una repercusión que no esperaba y quiero compartir con el
lector algunos de los mensajes recibidos.
Alguien que firma Jorge T me dice que antes de 1959, en las
conmemoraciones del 4 de septiembre, fecha del golpe de Estado
protagonizado en 1933 por un sargento llamado Batista, en cuarteles e
instalaciones militares, la comida se repartía en cajitas entre
oficiales y soldados. Eduardo Sueret Reyes, por su parte, rememora en
otro mensaje el arroz frito en cajita de la casa de comida china de la
esquina de Toyo.
Otro lector, Norberto Vargas Martínez, natural de Manzanillo y
avecindado en La Habana desde hace muchos años, asegura que las
primeras cajitas que recuerda, salvo las de las dulcerías,
corresponden a la Campaña de Alfabetización. Dice que cajitas con
comida se les proporcionaban a los brigadistas alfabetizadores tanto
en su viaje a Varadero, donde recibirían el entrenamiento necesario,
como en el trayecto entre la playa y el lugar al que se les destinaba.
«Recuerdo que en el camino de Manzanillo a Varadero había puntos de
abastecimiento en Bayamo, Camagüey, Santa Clara y Matanzas —escribe
Vargas Martínez—. El transporte en que viajabas llegaba al punto de
abastecimiento, se hacía el conteo de los pasajeros y a cada uno le
entregaban una cajita de cartón que contenía una pieza de pollo asado,
arroz y una vianda hervida, que podía ser boniato, yuca o papa. Para
beber repartían jugo de mango enlatado, o una perga de cartón
parafinado con jugo de piña, tamarindo o naranja. Nada de eso se
ingería en el lugar, pues una vez que se repartía la comida, el viaje
continuaba de inmediato. No se hacía estancia en esos puntos, si acaso
unos minutos para acudir al sanitario. Por tanto, el contenido de las
cajitas se ingería en la carretera o, si el viaje se hacía en tren,
sobre los rieles.
«Como no había hora fija de llegada a esos puntos, ni coincidencia con
la preparación de las cajitas, la comida, por lo general, estaba fría
y los brigadistas bautizamos los pollos, como pollos fosilizados o
momificados».

Institución Inclán

El edificio que ocupó este centro escolar en la Loma del Mazo corrió
una triste suerte. Fue originalmente escuela de artes y oficios y
albergó una escuela primaria hasta que dejó de funcionar como
instalación docente. Vacías sus aulas, en silencio los corredores y
salones, en espera de sabe qué destino, el inmueble, ya dañado, fue
presa de depredadores que, a pedido de compradores inescrupulosos que
pagaban a tanto la pieza, fueron despoblándolo de servicios
sanitarios, ladrillos, cristales y mosaicos hasta dejarlo convertido
en una verdadera ruina, una de cuyas alas se desplomó.
Sobre esta institución, que ocupaba la manzana enmarcada por las
calles Cortina, Carmen, Figueroa y Patrocinio y que contaba con un
edificio central de cuatro plantas, recaba información el lector
Lorenzo Pacheco, de Santos Suárez.
Los hermanos Manuel y Gustavo Inclán tuvieron una niñez dura, dura de
verdad. Huérfanos, sin amparo ni protección alguna, estos habaneros se
vieron precisados a trabajar como mulos desde muy pequeños.
Desconoce el escribidor cómo les cambió la fortuna. El caso es que,
con el tiempo, llegaron a ser muy ricos, y solteros y sin
descendencia, decidieron legar 600 000 pesos para la fundación de una
escuela de artes y oficios destinada a hijos de familias de bajos
recursos. Manuel murió en 1910 y Gustavo cinco años más tarde. El
abogado Francisco Angulo Garay, que quedó encargado del cumplimiento
de la disposición testamentaria, decidió consultar el asunto y
monseñor González Estrada, obispo de La Habana, le aconsejó que
buscara la opinión de la Compañía de Jesús.
Los jesuitas, que terminarían auspiciando una magnífica Escuela de
Electromecánica en Belén, pasaron la bola a los padres salesianos.
Estos no estaban establecidos en la diócesis habanera. El padre José
Calasanz —que el papa Juan Pablo II terminó declarando beato— único
sacerdote de esa orden radicado en la capital, sirvió de puente entre
el abogado y la señorita Dolores Betancourt, benefactora de la Escuela
Salesiana de Camagüey. Mientras, Calasanz refería a sus superiores en
Turín el interés del obispo González Estrada en la construcción de la
escuela, proyecto priorizado en su programa episcopal, y el abogado
Angulo Garay incrementaba hasta un millón de pesos el legado de los
hermanos Inclán. Para no afectar los fondos de la obra, Calasanz
decidió establecerse en la parroquia de Jesús del Monte, junto a
monseñor Menéndez, el párroco. En ese tiempo —y vaya esta curiosidad—
monseñor Evelio Díaz, que llegaría a ser Arzobispo de La Habana, era
monaguillo en Jesús del Monte.
El 14 de mayo de 1919 se adquiría por 47 500 pesos el terreno. La
construcción se inició en 1921 y dos años más tarde estaban listas la
capilla y el área docente. En 1927, con la presencia del presidente
Machado, se llevaba a cabo la inauguración oficial de la institución.
Sus alumnos serían becados, pensionados y externos que cursarían allí
la enseñanza elemental y la media, así como los oficios de impresión,
encuadernación, ebanistería o mecánica.
Por discrepancias con la Junta de Patronos que administraba el
plantel, los salesianos salieron de la institución en agosto de 1942.

Aviso desde Cascorro

Hace dos semanas —27 de octubre—, en la página titulada La evacuación,
hablé sobre la plaza de Madrid que recuerda la batalla de Cascorro
(1896) y exalta la memoria de Eloy Gonzalo, un soldado español al que
los que lo recuerdan en España tienen como un héroe y al que la
escultura representa en el momento en que, se dice, se disponía a
incendiar un fortín ocupado por un grupo de mambises. La plaza
española se llama precisamente así, Cascorro.
Ahora, desde el Cascorro nuestro, la localidad camagüeyana de ese
nombre, recibo un interesante mensaje del profesor Ricardo Salazar
Crespo en el que ofrece no pocos datos sobre ese sitio y me insta a
enmendar algunos detalles de mi nota, si bien está consciente de que
el posible error viene de las fuentes que consulté. Dice Salazar
Crespo:
«Acerca de su escrito quiero expresarle mi contento por el tema que
toca. Como residente en Cascorro desde hace cerca de 50 años, con el
mismo tiempo integrado a la docencia, me he dedicado al estudio de la
historia de esta localidad, y uno de los asuntos que he analizado
desde hace años ha sido lo referido a Eloy Gonzalo, el titulado Héroe
de Cascorro».
Dice el profesor que en 1998 visitó en Madrid la plaza aludida y que
tiene la información que recoge el museo del ejército español y
también lo que publicaron en Cuba quienes, en los años 20,
entrevistaron a combatientes del Ejército Libertador que vivieron y
hasta tuvieron, en alguna forma, relación con el hecho.
Todo eso permite a mi corresponsal afirmar que Eloy Gonzalo no se
disponía a incendiar un fortín, sino la casa de Manuel Fernández
Cabrera, alcalde de Cascorro, donde un grupo de mambises se había
hecho fuerte.
Añade: «Existe un folleto escrito por un tal P. Giralt, titulado Datos
curiosos del sitio de Cascorro, que se editó en 1897, a pocos meses de
ocurrido el hecho, que arroja mucha luz acerca de la motivación de
Eloy Gonzalo para ofrecerse a su “gran sacrificio”. Pero en esto no
abundo, solo espero su reacción, manifestándole que estoy a su entera
disposición para abordar aspectos sumamente interesantes de la
historia de Cascorro que merecen divulgarse, y que serían del agrado
de los lectores».
De más está decirle, amigo Salazar Crespo, que el puente está tendido.
Agradezco su información; esta y la que puede hacerme llegar. Pero
desde ya le digo: lo mismo da un fortín que una casa.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


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