Pubblicato su Juventud Rebelde del 22/3/15
L’amico e collega Aldo Abuaf – italiano abitante al’Avana – mi invia il seguente messaggio elettronico:
“Vorrei approfittare, se mi è permesso, del suo spazio su questa colonna per fare un suggerimento. Non si tratta di un problema strettamente legato alle colonne dello “scriba”, ma ha qualcosa a che vedere giacché si riferisce a luoghi pieni di storia, cultura e architettura di questa capitale.
Mi stupisce come non si utilizzano o vengano sottoutilizzate alcune fortezze dell’Avana. Mi riferisco nello specifico ai castelli del Principe e di Atarés che come il Morro, la Cabaña, la Real Fuerza, la Punta y la Chorrera, potrebbero aprirsi ai cubani e ai visitatori in un piano turistico-culturale che potrebbe essere di due livelli: uno semplicemente di turismo generalizzato e un’altro per specialisti.
Spero che col suo aiuto e la buona volontà di lettori che possano intervenire in questo senso – e sono sicuro che ci sono -, avremo in breve altri centri d’interesse turistico come succede già nella zona del porto o più in generale all’Avana Vecchia, grazie a quest’uomo straordinario e infaticabile che è Eusebio Leal”.
Sono già diversi anni che chi scrive ha, con riferimanto al Principe e Atarés, lo stesso criterio dell’amico Aldo Abuaf.
Lo scriba ha visitato entrambe le fortezze. Atarés, che paragonata alla Cabaña è quasi una fortezza tascabile regala al visitatore, dall’alto e al cadere della sera, un paesaggio che ricorda la città così ben captata da René Portocarrero nei suoi dipinti. Il Principe, estremamente ben conservato in buona parte delle sue edificazioni, potrebbe essere utilizzato come recinto fieristico, senza contare che alcune delle sue aree potrebbero essere utilizzate come aule laboratorio, perché lo furono a suo tempo. Avanzerebbe ancora spazio per ospitare una o più istituzioni culturali, diciamo il museo della Polizia che si ebbe a Cuba prima del 1959, nella sede del Gabinetto Nazionale di Identificazione e nell’edificio, demolito, del Buró d’Investigaciones, all’ingresso del ponte Almendares.
In ogni modo, del Principe e di Atarés se ne parla appena e nonostante la prima appartenga al complesso culturale Morro – Cabaña, non apre il suo spazio al pubblico.
L'ingegnere belga
La costruzione del castello di Atarés, sulla collina di Soto, in fondo alla baia avanera, fu motivata dalla presa dell’Avana da parte degli inglesi (1762) che evidenziò la necessità di proteggere e difendere le vie che comunicavano la città con le vicine campagne. Così, dopo varie opere provvisorie, si iniziò la costruzione di questa fortezza a 1500 varas ( 1 vara equivale a circa 85 cm, n.d.t.) a sud del recinto delle muraglie, tra il 1763 e il 1767. Il proprietario dei terreni, Agustín de Sotolongo – da lì il nome della collina – li cedette gratuitamente e si iniziò l’opera secondo i progetti dell’ingegnere belga Agustín Cramer.
Anche dopo della costruzione di Atarés, si notavano altre deficienze nella difesa dell’Avana. L’assedio e presa della città da parte degli inglesi metteva in rilievo l’insufficienza del Torreon de la Chorrera per impedire uno sbarco nemico in questo luogo, unico nel quale gli inglesi si approvvigionarono di acqua potabile. C’era urgenza, dice lo storico Pezuela, di coprire gli ingressi dell’Avana nelle sue parti più esposte e al tempo stesso proteggere le truppe che si opponessero allo sbarco, più facile e probabile in quel luogo che in altro punto.
Per evitare questi pericoli si dette anche incarico all’ingegner Cramer per la fortificazione della collina di Aróstegui, Proprietà di Agustín de Aróstegui. Cramer, allora si basò sui progetti dell’ingegner Silvestre Abarca. Le opere cominciarono nel 1767 e non si completarono fino al 1779. Per allora, il brigadiere Luis Huet era tornato a modificare i piani di Abarca.
A questa fortezza si dette il nome di Castillo del Principe per l’allora erede della corona reale spagnola, il principe Carlos che arriverà a regnare, per sfortuna dei suoi sudditi, con il nome di Carlos IV.
Macelleria in Atarés
Ai tempi di Machado, Atarés fu al comando del tristemente celebre capitano Manuel Crespo Moreno ed era la sede del 5° Squadrone della Guardia Rurale, unità addestrata in modo eccellente che copriva coi suoi uomini la scorta del Presidente della Repubblica. Non pochi lottatori antimachadisti furono torturati e assassinati lì. Alcuni di essi, inumati nella stessa area del castello.
In questo luogo, durante la sollevazione dell’8 e 9 novembre del 1933, cercarono rifugio tra mille e 1500 civili, membri dell’organizzazione ABC ed ex ufficiali e militari in attività, tutti opposti al Governo di Ramón Grau San Martín. Li capeggiava il comandante Ciro Leonard. Atarés fu l’ultimo ridotto dei sollevati, dopo aver perso le caserme di Dragones e San Ambrosio con altre posizioni. Leonard aveva rigettato l’idea di rinforzarsi nelle colline di Managua o nella zona di Jaruco, come gli proponevano i suoi subalterni. Preferiva aspettare ad Atarés, diceva, il rinforzo di 5000 uomini promessi da un alto ufficiale e che non arrivarono mai. Aveva fiducia, in realtà, nello sbarco dei marines nordamericani che lo togliessero da quella topaia.
Immediatamente l’esercito si piazzò nei dintorni della fortezza per riconquistarla. Truppe di fanteria si dispiegarono nelle sue immediatezze e alle otto del mattino del giorno 9, cominciò il cannoneggiamento. Un mortaio da trincea tirava sul castello dall’intersezione delle calli Concha e Cristina. Dal Mercato Unico (Generale, n.d.t.) dell’Avana e dalla collina del Burro (Asino, n.d.t.) lo facevano un cannone da 37 millimetri e quattro cannoni Schneider, rispettivamente. L’artiglieria ausiliare appoggiava e dalla baia gli incrociatori Patria e Cuba, della Marina da Guerra, aprivano il fuoco con le loro batterie da tre e quattro pollici.
Da Atarés rispondevano con fuoco nutrito, ma per gli assediati risultavano terribili gli effetti del mortaio...le sue granate che cadevano con precisione matematica nel cortile dell’edificio, causavano danni enormi con i loro 260 pallini all’interno e i frammenti metallici dell’involucro. Il martellamento era tale nel castello che ogni granata che scoppiava causava numerose vittime. Una sola di esse, si dice uccise 20 soldati e causò decine di feriti.
Alle due del pomeriggio la situazione degli assediati era disperata. Si afferma che a quest’ora il comandante Leonard delegò a un ufficiale e amico la missione di comunicarsi per telefono con l’Ambasciata nordamericana per chiedere quando sarebbero sbarcati i marines e saputo che non ci sarebbe stato nessuno sbarco, si tolse la vita con un colpo alla testa.
A quest’ora, dentro al castello gli abecedari specialmente, vociavano per la resa. Alle tre, molti di loro uscirono dalla fortezza e con in mano fazzoletti bianchi si lanciarono giù dalla collina. Fu fatale. Imprigionati tra il fuoco degli assedianti e quello dei loro compagni, i morti e feriti furono numerosi. Dopo questo incidente, gli assediati chiesero di trattare. Alle quattro del pomeriggio, l’esercito recuperava Atarés e metteva fine alla sollevazione.
Conta dei prigionieri
Il Principe rimase sempre muto con riferimento ad azioni di guerra.
Nel 1796 vi fu rinchiuso Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia. Fu il primo prigioniero politico che si registra in questa fortezza.
Durante il XIX secolo, si utilizzò come centro di reclusione anche se il Carcere Giudiziario e la Prigione dell’Avana erano situati in Prado e Malecón. Nel 1904 si tolse la prigione dal vecchio edificio e si installò al Principe, ma a partire dal 1926 all'edificarsi la Prigione Modello, nell’Isola dei Pini, rimasero al principe solo il Carcere Giudiziario e il Bivacco. Il Carcere Giudiziario dell’Avana ebbe sede al Principe fino agli anni ’60, quando entrò in funzione il Combinado del Este.
Si dice che per scappare dal Principe bisognava aver aiuto da dentro e da fuori. Un cubano che chiamavano el Hombre Mosca, sfinì tanto le autorità con le sue fughe che un giorno lo “suicidarono” nel Principe. Ramón Arroyo “Arroyito”, il bandito sentimentale, scappò anch’egli da questo penitenziario e catturato di nuovo, fu rimesso al Presidio Modelo. Per garantire che non sarebbe tornato a fuggire i suoi custodi, per ordini superiori, lo assassinarono nel cammino. Il 21 novembre 1951, Policarpo Soler e altri pistoleri, furono protagonisti di una fuga sensazionale dal Castillo del Principe. Fuori, gli uomini di Orlando León Lemus, el Colora’o, appoggiavano l’evasione.
Non sono queste le prime evasioni famose dal Principe che la cronaca cubana registra. Già prima, nel 1888, fece storia quella di cui furono protagonisti, alla vigilia della loro esecuzione, il noto bandito Victoriano Machín e suo fratello.
Machín, con la sua banda, seminava terrore e morte a Pinar del Río e nelle zone ovest dell’Avana. Davanti all’indifferenza della polizia, attuava con assoluta impunità fino che in un giorno del mese di agosto del citato anno, Francisco Fajardo, un onesto cittadino di Guanajay, condusse le autorità fino al luogo in cui si nascondevano i delinquenti e li lasciò senza alternative. Il 28 dello stesso mese, giudicarono Machín nel Castillo de la Fuerza e lo sentenziarono alla pena di morte. Uguale condanna la ricevette suo fratello catturato in sua compagnia. Sarebbero stati giustiziati il 7 novembre...Il giorno 3, invece, quando si effettuava la conta dei prigionieri del Principe, il sotterraneo 16 e mezzo che occupavano i Machín, era vuoto. Limarono le sbarre del piccolo lucernario che si alzava a 11 “varas” da terra e i fuggitivi scivolarono verso i fossati calandosi con una corda di cotone cerato di meno di un dito di diametro. Siccome risultava impossibile che i reclusi, anche se arrampicati uno sull’altro potessero raggiungere il lucernario, si dimostrava che non agirono senza l’aiuto dei custodi. Il Governo coloniale dispose immediatamente l’arresto del capo della prigione e appena un mese dopo, la Corona spagnola, decise la destituzione del governatore generale dell’Isola Sabás Marín, quando Machín apparso a Guanajay, a piena luce del giorno e a vista di tutti, dette la morte a colpi di machete all’uomo che lo aveva denunciato.
Non rimarrà senza castigo. Il tenente generale Manuel Salamanca – rigido, inflessibile, severo e onesto – all’assumere il comando della colonia responsabilizzò le autorità civili e militari e naturalmente la polizia, di tutti gli atti che i banditi potesserto commettere. Poco dopo, Victoriano Machín era detenuto nella città di Cienfuegos e trasferito all’Avana dove, alla Cabaña, aspettò il giorno in cui si sarebbe compiuta la sua sentenza.
Davanti a una moltitudine che non si era mai vista nella capitale, per presenziare a un atto come questo, si portò a termine l’esecuzione di Machín. Il terribile bandito che aveva oltre 30 omicidi sulle sue spalle si comportò, giunto il suo momento, come un vigliacco: piangeva, supplicava, si inginocchiava, strisciava per terra...Dovettero prenderlo in braccio per sederlo al “garrote” e una volta lí, con le mani legate, cercò di mordere il boia che tanto o più vigliaccamente della vittima, cadde al suolo svenuto.
Dos fortalezas olvidadas
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
21 de Marzo del 2015
El amigo y colega Aldo Abuaf --italiano avecindado en La Habana-- remite
el siguiente mensaje electrónico:
“Quisiera aprovechar, si me es permitido, su espacio en esta columna
para hacer una sugerencia. No se trata de un problema estrictamente
ligado a las columnas del "escribidor", pero algo tiene que ver ya que
alude a lugares cargados de historia, cultura y arquitectura de esta
capital.
Me asombra cómo se desaprovechan o subestiman algunas fortalezas de
La Habana. Me refiero, en lo esencial, a los castillos del Príncipe y
de Atarés, que, al igual que el Morro, la Cabaña, la Real Fuerza, la
Punta y La Chorrera, pudieran abrirse a los cubanos y a los visitantes
en un plan turístico-cultural que bien pudiera ser de dos niveles: uno
simplemente de turismo generalizado y otro, para especialistas.
Espero que con su ayuda y la buena voluntad de los lectores que
puedan intervenir en este sentido --y estoy seguro de que los hay --,
tengamos pronto otros centros de interés turístico como ocurre ya en
la zona del puerto y, en general, en La Habana Vieja, gracias a ese
hombre extraordinario e infatigable que es Eusebio Leal”.
Hace ya varios años que quien esto escribe tiene, con relación al
Príncipe y Atarés, el mismo criterio que el del amigo Aldo Abuaf.
El escribidor ha visitado ambas fortalezas. Atarés, que comparada con
la Cabaña es casi una fortaleza de bolsillo, regala desde lo alto al
visitante, a la caída de la tarde, un paisaje que remeda la ciudad tan
bien captada por René Portocarrero en sus pinturas. El Príncipe,
extremadamente bien conservado en buena parte de sus edificaciones,
podría utilizarse como recinto ferial, sin contar que algunas de sus
áreas podrían rehabilitarse como aulas y talleres, porque lo fueron en
su momento. Aún sobraría espacio para dar albergue a una o varias
instituciones culturales, digamos el museo de la Policía, que lo hubo
en Cuba, antes de 1959, en la sede del Gabinete Nacional de
Identificación y en el demolido edificio del Buró de Investigaciones,
a la entrada del puente Almendares.
De cualquier manera, sobre el Príncipe y Atarés apenas se habla y
aunque la primera pertenece al complejo cultural Morro-Cabaña, no abre
al público sus espacios.
El ingeniero belga
La construcción del castillo de Atarés, en la loma de Soto, al fondo
de la bahía habanera, fue motivada por la toma de La Habana por los
ingleses (1762) que evidenció la necesidad de resguardar y defender
los caminos que comunicaban a la ciudad con los campos vecinos. Así,
luego de varias obras provisionales, se acometió la edificación de esa
fortaleza a 1 500 varas al sur del recinto amurallado, entre 1763 y
1767. El propietario de los terrenos, Agustín de Sotolongo --de ahí el
nombre de la loma-- los cedió gratuitamente y se acometió la obra según
los planos del ingeniero belga Agustín Cramer.
Aun después de construido Atarés, se notaban otras deficiencias en la
defensa de La Habana. El asedio y toma de La Habana por los ingleses
también pondría de relieve la insuficiencia del torreón de La Chorrera
para impedir un desembarco enemigo por ese sitio, único en el cual los
ingleses se proveyeron de agua potable. Había urgencia, dice el
historiador Pezuela, de cubrir los aproches de La Habana por su parte
más expuesta y, al mismo tiempo, proteger a las tropas que se
opusieran a un desembarco, más fácil y probable por aquel lugar que
por cualquier otro sitio.
Para evitar esos peligros se encargó igualmente al ingeniero Cramer la
fortificación de la loma de Aróstegui, propiedad de Agustín de
Aróstegui. Cramer se basó entonces en los planos del ingeniero
Silvestre Abarca. Las obras comenzaron en 1767 y no se completaron
hasta 1779. Para entonces, el brigadier Luis Huet había vuelto a
modificar los planos de Abarca.
A esa fortaleza se le dio el nombre de castillo del Príncipe por el
entonces heredero de la corona real española, el príncipe Carlos que
llegaría a reinar, para desdicha de sus súbditos, con el nombre de
Carlos IV.
Carnicería en Atarés
En tiempos de Machado, Atarés estuvo bajo el mando del tristemente
célebre capitán Manuel Crespo Moreno, y era la sede del Escuadrón 5 de
la Guardia Rural, unidad excelentemente adiestrada que cubría con sus
hombres la escolta del Presidente de la República. No pocos luchadores
antimachadistas fueron allí torturados y asesinados, y algunos de
ellos inhumados en las propias áreas del castillo.
En ese lugar, durante la sublevación del 8-9 de noviembre de 1933
buscaron refugio entre mil y 1 500 civiles, miembros de la
organización ABC, y ex oficiales y militares en activo, opuestos todos
al Gobierno de Ramón Grau San Martín. Los mandaba el comandante Ciro
Leonard. Atarés fue el último reducto de los sublevados, luego de
perder los cuarteles de Dragones y San Ambrosio y otras posiciones.
Leonard había rechazado la idea de hacerse fuerte en las lomas de
Managua o en la zona de Jaruco, como le proponían sus subordinados.
Prefería esperar en Atarés, aseguraba, el refuerzo de 5 000 hombres
prometidos por un ex alto oficial y que nunca llegaron. Confiaba, en
verdad, en el desembarco de los marinos norteamericanos que lo sacaran
de aquella ratonera.
Enseguida el ejército se emplazó en los alrededores de la fortaleza
para recobrarla. Tropas de infantería se desplegaron en sus
inmediaciones y a los ocho de la mañana del día 9 comenzó el cañoneo.
Un mortero de trinchera tiraba sobre el castillo desde la intersección
de las calles Concha y Cristina, y desde el Mercado Único de La Habana
y la loma del Burro, lo hacían un cañón de 37 milímetros y cuatro
cañones Schneider, respectivamente. Apoyaba la artillería auxiliar, y
desde la bahía los cruceros Patria y Cuba, de la Marina de Guerra,
abrían fuego con sus baterías de tres y cuatro pulgadas.
Desde Atarés respondían con fuego nutrido, pero resultaban terribles
para los sitiados los efectos del mortero. Sus granadas, que caían con
precisión matemática en el patio del edificio, causaban estragos
enormes con los 260 perdigones de su interior y los fragmentos
metálicos de la cubierta. El hacinamiento era tal en el castillo que
cada granada al estallar ocasionaba numerosas víctimas. Una sola de
ellas, se dice, mató a 20 soldados y causó decenas de heridos.
A las dos de la tarde, la situación de los sitiados se hacía
desesperada. Se afirma que a esa hora el comandante Leonard delegó en
un oficial amigo la misión de comunicarse por teléfono con la Embajada
norteamericana para preguntar cuándo desembarcarían los marinos; y
enterado de que no habría desembarco alguno, se privó de la vida con
un balazo en la cabeza.
A esa hora, dentro del castillo, los abecedarios, sobre todo, clamaban
por la rendición. A las tres, muchos de ellos salieron de la fortaleza
y, con pañuelos blancos en las manos, se lanzaron ladera abajo. Fue
fatal. Apresados entre el fuego de los sitiadores y el de sus
compañeros, los muertos y heridos fueron numerosos. Tras ese
incidente, pidieron parlamento los sitiados. A las cuatro de la tarde
el ejército recuperaba Atarés y ponía fin a la sublevación.
Conteo de presos
El Príncipe permaneció siempre mudo en lo que a acciones de guerra se refiere.
En 1796 estuvo recluido allí Antonio Nariño, precursor de la
independencia de Colombia. Fue el primer preso político que se
registra en esa fortaleza.
Durante el siglo XIX se utilizó como centro de reclusión, aunque la
Cárcel y el Presidio de La Habana estaban instalados en Prado y
Malecón. En 1904 se sacó el Presidio del viejo edificio y se instaló
en el Príncipe, pero a partir de 1926, al edificarse el Presidio
Modelo, en Isla de Pinos, solo quedaron en el Príncipe la Cárcel y el
Vivac. La Cárcel de La Habana radicó en el Príncipe hasta los años 60,
cuando entró en funciones el Combinado del Este.
Se dice que para fugarse del Príncipe había que tener ayuda de dentro
y de fuera. A un cubano al que apodaban el Hombre mosca agobió tanto a
las autoridades con sus fugas que un día lo “suicidaron” en el
Príncipe. Ramón Arroyo, “Arroyito”, el Bandolero sentimental, escapó
también de esa penitenciaría y, capturado de nuevo, fue remitido al
Presidio Modelo. Para garantizar que no volvería a fugarse, sus
custodios, por órdenes superiores, lo asesinaron en el camino. El 21
de noviembre de 1951, Policarpo Soler y otros pistoleros
protagonizaban en el Castillo del Príncipe una fuga sensacional.
Fuera, los hombres de Orlando León Lemus, el Colora'o, apoyaban la
evasión.
No son esas las primeras evasiones famosas que del Príncipe registra
la crónica cubana. Ya antes, en 1888, hizo historia la que
protagonizaron, en vísperas de su ejecución, el notorio bandido
Victoriano Machín y su hermano.
Machín, con su banda, sembraba el terror y la muerte en Pinar del Río
y en zonas del oeste de La Habana. Ante la indiferencia policial,
actuaba con impunidad absoluta, hasta que un día del mes de agosto del
año señalado, Francisco Fajardo, un honesto ciudadano de Guanajay,
condujo a las autoridades hasta el lugar donde se ocultaban los
delincuentes y las dejó sin alternativa. El 28 del propio mes juzgaron
a Machín en el Castillo de la Fuerza y lo sentenciaron a muerte, e
igual condena recibió su hermano, que había sido capturado en su
compañía. Serían ejecutados a garrote el 7 de noviembre...
El día 3, sin embargo, cuando se llevaba a cabo el conteo de presos en
el Príncipe, el calabozo 16 y medio, que ocupaban los Machín, estaba
vacío. Limaron los barrotes de la pequeña claraboya que se alzaba a 11
varas del suelo y los fugitivos se escurrieron hacia los fosos
deslizándose por una cuerda de algodón encerada de menos de un dedo de
diámetro. Como resultaba totalmente imposible que los reclusos, aun
encaramado uno sobre otro, pudiesen alcanzar la claraboya, lo que
demostraba que no actuaron sin ayuda de los custodios, el Gobierno
colonial dispuso de inmediato la detención del jefe de la prisión y
apenas un mes después la Corona española decidió la destitución del
gobernador general de la Isla, Sabás Marín, cuando Machín, personado
en Guanajay, a plena luz del día y a la vista de todos, dio muerte a
machetazos al hombre que lo había delatado.
No quedaría sin castigo. El teniente general Manuel Salamanca --rígido,
inflexible, severo y honesto-- al asumir el mando de la colonia
responsabilizó a las autoridades civiles y militares y, desde luego, a
la policía, con todos los actos que los bandidos pudiesen cometer.
Poco después, Victoriano Machín era detenido en la ciudad de
Cienfuegos y trasladado a La Habana donde, en la Cabaña, esperaría el
día en que se cumpliría su sentencia.
Ante una multitud que nunca antes se vio en la capital para presenciar
un acto como ese, se llevaría a cabo la ejecución de Machín. El
terrible bandido, que tenía más de 30 asesinatos sobre sus espaldas,
se portó, llegado el caso, como un cobarde; lloraba, suplicaba, se
arrodillaba, se arrastraba por el suelo... Tuvieron que cargarlo para
sentarlo en el garrote, y una vez allí, con las manos atadas, trató de
morder al verdugo que, tan o más acobardado que la víctima, cayó al
suelo desmayado.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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