Pubblicato su Juventud Rebelde del 16/8/15
Il lettore Rolando Estévez e
una lettrice che firma Cristi il suo messaggio elettronico e che deve muoversi
nell’ambito della cinematografia, scrivono al fine di richiamare l’attenzione
sull’errore che hanno riscontrato nella pagina della settimana scorsa, apparsa
col titolo “Dal fructuoso mi hanno mandato un messaggio” che si è dedicata al
prestigioso Ospedale Ortopedico Fructuoso Rodríguez in occasione del 70
anniversario della sua apertura.
Quello che il lettore
Estévez qualifica come “scivolone”, lo scriba lo definisce come una solenne e
sovrana stupidaggine e ne accetta completamente la responsabilità. Non ha letto
attentamente le sue fonti e nel indicare il sostituto del dottor Martínez Páez
alla direzione di questa casa di salute ha scritto che “il Dr. Blardoni, ha
saputo mantenere fino ad oggi la tradizione docente-assistenziale del
Fructuoso...” Questo risulta impossibile perché il distinto professore si è
ammalato gravemente alla fine del 2008 ed è deceduto nella metà dell’anno
seguente. La direzione, quindi, passò ad altre mani.
Il professor Diego Artiles,
specialista in Ortopedia di questa istituzione, commenta che il carico
assistenziale pregiudicò apparecchi e deteriorò l’edificazione, cosa che
obbligò la chiusura periodica dell’unità chirurgica. Nonostante ciò si continuò
lavorando alacremente nelle sfere docenti-assistenziali e investigative. Un
risultato di grande rilievo furono i 614 interventi di frattura dell’anca che
durante lo scorso anno si realizzarono lì in una sola sala operatoria del Corpo
di Guardia, cifra che costituisce il 34% di questo tipo di fratture operate
all’Avana e il 9,3% degli interventi in tutto il Paese.
Il dottor Artiles precisa
che con motivo dei 70 anni dell’ospedale, si è inaugurata l’unità chirurgica e
una sala di degenza per chirurgia di alta complessità.
Da
Portorico
Con relazione alla pagina
di due settimane fa, scrive due messaggi elettronici da Portorico il lettore
Gerardo Barrera. Il primo di essi dice: “Col tema della poliomelite, mi hai
portato alla memoria la prima metà degli anni ’50 all’Avana, quando vivevamo
tutti terrorizzati da questo maledetto virus che grazie a Dio non ha attaccato
nessuno della mia famiglia. Col passere degli anni, ho conosciuto varie persone
che portavano le conseguenze di questa malattia.
Il dottor Ricardo Machín
che menzioni nel tuo articolo di oggi, era primo cugino di mio padre, ma
siccome nessuno dei due ebbe fratelli maschi, si considerarono fratello fra
loro due.
Ricardo Machín era come
un missionario della Medicina. Riceveva nel suo ambulatorio decine di persone
senza mezzi, ai quali non faceva pagare un centesimo. Per certo, lui e mio
padre, furono arrestati all’aeroporto di Miami negli anni della Seconda Guerra
Mondiale quando andavano a comprare un pezzo di ricambio per una barca, perché
lo zio Ricardo era rappresentante di prodotti medici dei laboratori tedeschi
Merck A.G., i quali non si ricevevano a Cuba fin da poco prima dell’inizio del
conflitto.
Zio Ricardo era padre di
‘Tavo’ Machín che morí in Bolivia assieme al Che. Adesso, come già d’abitudine,
invierò il tuo interessante articolo a circa 50 amici e conoscenti che ne
godono tutte le settimane”.
Nella pagina dell’altra
settimana, lo scriba si riferiva ai fratelli Alberto e Clemente Inclán Costa,
ortopedico il primo e pediatra il secondo, oltre ad essere rettore
dell’Università dell’Avana. Nel suo secondo messaggio, il lettore Barrera
racconta di quello che dice il dottor Enrique Lamoutte Inclán, magistrato del
Tribunale dei fallimenti a Portorico, in relazione a questi due eminenti
professionisti della Salute:
“I dottori Inclán Costa
erano cugini di mio nonno Serafín Inclán Arango. Asturiani. Mio nonno diceva
che gli Inclán professionisti si recarono a Cuba e gli agricoltori a Portorico.
Mamma ricorda quando l’artista Marión Inclán, figlia di uno di loro, rimase con
la famiglia a Portorico. Chiariva sempre che gli Inclán del Messico non erano
parenti”.
Il flagello della Polio
E già che si menzionò che
questo terribile flagello che si eliminò a Cuba dopo il 1959, riproduco alcuni
dati sulla sua incidenza nell’Isola, trovati in vecchi incartamenti. Si dice
che fece la sua apparizione a Cuba nel 1908. Allora si diagnosticarono tre
casi. L’anno seguente si registravano 135 malati a Santa Clara e paesi vicini.
A partire da lì, con intervalli, si succedettero getti epidemici importanti,
come quello di giugno-dicembre del 1935 che registrò oltre 500 vittime. Con un
numero più o meno similare si chiuderà l’epidemia del 1946.
La casa di Marina
Sulla casa di Marina
chiede un lettore di cui non colto il nome.
Marina Cuenya fu la più
famosa maitresse dell’Avana anteriore al 1959. Era di origine galiziana e aveva
due figli. Un maschio e una femmina che viveva in Argentina alla quale faceva
periodici invii di denaro.
Ci furono molti
postriboli all’Avana prima del 1959. L’unico che passà alla cronaca è quello di
Marina, nella calle Colón numero 258, nel molto avenero quartiere dallo stesso
nome, una della zone di tolleranza della capitale cubana dell’epoca. Marina non
ebbe mai case in Infanta né nella calle Marina. Quello che succede è che col
suo nome si è battezzata più di una proprietaria di bordelli.
Per le sue tariffe e le
personalità che lo frequentavano, era un luogo abbastanza esclusivo. Il
“servizio” si prestava per dieci pesos – una fortuna nella decade del 1940 – e
la porta principale si apriva solo al cliente conosciuto o, a discrezione, a
chi arrivava raccomandato o poteva chiamare per nome qualcuna delle ragazze che
“lavoravano” nella casa. La saletta dove si esibiva una grande immagine in
rilievo di Santa Barbara, enorme, con la
sua corona e la spada d’oro, apriva il passaggio al patio centrale arredato con
un bar ben assortito. Lì, ragazze ben vestite e profumate aspettavano il
cliente per perdersi nela piano superiore.
Un album raccoglieva le
foto di tutte le “pupille” di Marina cosa che permetteva al cliente di
risparmiare tempo al momento di scegliere e fare la sua scelta a distanza.
Questo modo di offrire le prostitute, fu tutta una novità all’Avana di quel
tempo. Si dice che l’album circola ancora da qualche parte. L’immagine di Santa
Barbara rimane nella saletta, di quello che fu il postribolo, già senza la sua
corona né la sua spada d’oro.
Un giorno il generale
Quirino Uría, capo della Polizia Nazionale e Lomberto Díaz, ministro degli
Interni, apparvero sul giornale El Mundo, in Virtudes 257, angolo Águila. Si dirigevano al
Palazzo Presidenziale e decisero di fare il tragitto a piedi. Attraversarono il
quartiere di Colón
e arrivarono scandalizzati alla magione dell’Esecutivo. Il ministro suggerì al
presidente Prío che prendesse alcune misure verso la zona di tolleranza e Prìo
gli rispose di fare quello che stimasse conveniente. Da quella conversazione
scaturì il famoso decreto che chiudeva il quartiere di Colón e che ispirò il
compositore Eliseo Grenet quel saporito sucu-sucu
che diceva: “I massaggi non hanno grotta/Felipe Blanco l’ha tappata...già”.
Alcuni giorni dopo,
già con le prostitute sloggiate e i bordelli chiusi, il dottor Hector Garcini,
un distinto avvocato con studio all’Avana, visitò il ministro degli Interni nel
suo studio ufficiale al Collegio di Belén. Andava ad avocare per il quartiere.
Lomberto Díaz gli commentò che i padroni degli immobili che ospitavano i
postriboli dovevano sentirsi contenti dello sfratto, così potevano rivendicare
la zona di Colón e affittare a famiglie locali.
Garcini scosse la
testa in senso negativo. La cosa non era tanto facile. Una famiglia avrebbe
pagato per quelle case tra i 25 e i 40 pesos al massimo, mentre che la stessa
casa adibita a postribolo fruttava non meno di trecento pesos mensili.
L’avvocato aggiunse:
“Si immagini lei la rabbia dei proprietari”. Il ministro domandò quindi a chi
si riferisse e la risposta venne rapidamente.
-A parte di pochi
immobili che appartengono a una o altra persona, il quartiere ha un solo
proprietario – disse l’avvocato e si avvicinò all’orecchio del Ministro per
pronunciare il suo nome che lo scriba, anche se lo sa, non lo va a ripetere per
adesso.
Con il quartiere
chiuso, Marina con le sue ragazze, si installò nella casa delle cupole che si
trova all’uscita del ponte Almendares, alla sinistra se si va dal Vedado verso
Playa. Da lì le sloggiarono le signore del rione Kohly, capitanate dalla moglie
dell’avvocato Dorta Duque, professore dell’Università Cattolica di Santo Tomás
de Villanueva. Fu allora che fabbricò il Mambo Club, al chilometro tre della
strada di Rancho Boyeros, un centro notturno con postribolo compreso.
Col tempo, Colón,
tornó ad aprire come zona di tolleranza. Marina conservava la sua casa, non
l’aveva mai abbandonata del tutto: aveva lasciato in essa un paio di domestiche
con l’incarico di sorvegliare e curare la proprietà. Vinse la Rivoluzione,
cambiarono i patroni sociali e il quartiere entrò in un declino inarrestabile,
fino a che non lo chiusero davvero.
Marina allora dette
incarico a suo marito, molto più giovane di lei, che togliesse dalla casa la
corona e la spada d’oro dall’immagine di Santa Barbara con altri oggetti di
valore. Se ne andò da Cuba e si persero le sue tracce.
Lo sa, lei?
Il dottor Alex Muñoz
Alvarado, investigatore del Centro di Linguistica Applicata, di Santiago de
Cuba, si rivolge allo scriba in cerca di aiuto. Investiga sul nome di alcune
istituzioni e gli urge sapere se il nome ufficiale della gelateria principale
dell’Avana è Coppelia e se questo nome è legato all’omonimo balletto. Scrive
che a Santiago la gelateria principale mostrava una ballerina di danza classica
nell’insegna dell’entrata, per cui la gente si riferisce all’esercizio
chiamandolo Coppelia, mentre il suo nome ufficiale è La Arboleda. Domanda,
infine, se la gelateria della capitale mostrava un’immagine simile a quella di Santiago
o qualcosa che la relazionasse col balletto Coppelia. Se non fosse così, dice,
con cosa ha a che fare questo nome?
Se qualcuno ha delle
risposte per queste domande, per favore si comunichi con il colonnista.
Los lectores escriben
Ciro Bianchi
Ross • digital@juventudrebelde.cu
15 de Agosto del 2015 19:35:46 CDT
15 de Agosto del 2015 19:35:46 CDT
El lector
Rolando Estévez y una lectora que firma Cristi su mensaje electrónico y que
debe moverse en la esfera de la cinematografía, escriben a fin de llamar la
atención sobre el error que advirtieron en la página de la semana pasada,
aparecida con el título Del Fructuoso me han dado un recado, y que se dedicó al
prestigioso Hospital Ortopédico Fructuoso Rodríguez en ocasión del aniversario
70 de su apertura.
Lo que el
lector Estévez califica como “desliz”, el escribidor lo define como un solemne
y soberano disparate, y acepta totalmente su responsabilidad. No contrastó
suficientemente sus fuentes y, al aludir al sustituto del doctor Martínez Páez
en la dirección de esa casa de salud, escribió que “el Dr. Blardoni ha sabido
mantener hasta la actualidad la tradición docente-asistencial del Fructuoso…”.
Ello resulta imposible porque el distinguido profesor enfermó de cuidado a
fines de 2008 y falleció a mediados del año siguiente. La dirección pasó
entonces a otras manos.
Comenta el
profesor Diego Artiles, especialista en Ortopedia de esa institución, que la
carga asistencial del hospital perjudicó equipos y deterioró la edificación, lo
que obligó al cierre por períodos de la unidad quirúrgica. Pese a eso se
continuó trabajando arduamente en las esferas docente-asistenciales e
investigativas. Un logro de relieve fueron las 614 intervenciones de fractura
de cadera que durante el año pasado se realizaron allí en un solo quirófano del
Cuerpo de Guardia, cifra que constituye el 34 por ciento de ese tipo de
fracturas operadas en La Habana y el 9,3 por ciento de las intervenidas
en todo el país.
Precisa el
doctor Artiles que con motivo de los 70 años del hospital, se inauguró la
unidad quirúrgica y una sala de hospitalización para cirugía de alta
complejidad.
Desde Puerto Rico
En relación
con la página de hace dos semanas, remite, desde San Juan de Puerto Rico, dos
mensajes electrónicos el lector Gerardo Barrera. Dice el primero de ellos:
“Con el tema
de la poliomielitis, trajiste a mi memoria la primera mitad de los años 50 en
La Habana, cuando todos vivíamos aterrados con ese maldito virus que, gracias a
Dios, no atacó a nadie en mi familia. Con el pasar de los años, conocí a varias
personas que sufrían las secuelas de esa enfermedad.
El doctor
Ricardo Machín, que mencionas en tu artículo de hoy, era primo hermano de mi
padre, pero como ninguno de los dos tuvo hermanos varones, ellos se
consideraban hermanos entre sí.
Ricardo Machín
era como un misionero de la Medicina. Atendía en su consultorio a decenas de
personas sin recursos, a los que no les cobraba un centavo. Por cierto, él y mi
padre fueron arrestados en el aeropuerto de Miami en los años de la Segunda
Guerra Mundial cuando iban a comprar repuestos para una lancha, porque tío
Ricardo era representante de unos productos médicos de los laboratorios
alemanes Merck, A.G., los cuales no se recibían en Cuba desde poco antes de
comenzar el conflicto.
Tío Ricardo
era el padre de ‘Tavo’ Machín, que murió en Bolivia junto al Che. Ahora, como
ya es habitual, voy a enviar tu interesante artículo a unos 50 amigos y
conocidos que todas las semanas lo disfrutan”.
En la página
de la semana antepasada, el escribidor aludía a los hermanos Alberto y Clemente
Inclán Costa, ortopédico el primero, y pediatra el segundo, además de rector de
la Universidad de La Habana. En su segundo mensaje, el lector Barrera da cuenta
de lo que en relación con estos eminentes profesionales de la Salud, le dice el
doctor Enrique Lamoutte Inclán, magistrado del Tribunal de Quiebras, de Puerto
Rico:
“Los doctores
Inclán Costa eran primos de mi abuelo Serafín Inclán Arango. Asturianos. Mi
abuelo decía que los Inclán profesionales fueron a Cuba y los agricultores a
Puerto Rico. Mami recuerda cuando la artista Marion Inclán, hija de uno de
ellos, se quedó con la familia en Puerto Rico. Siempre aclaraba que los Inclán
de México no eran familia”.
El flagelo de la polio
Y ya que se
mencionó ese terrible flagelo, que se eliminó en Cuba después de 1959, voy a
reproducir algunos datos sobre su incidencia en la Isla, encontrados en viejos
papeles.
Se dice que
hizo su aparición en Cuba en 1908. Tres casos se diagnosticaron entonces. Al
año siguiente, 135 enfermos se registraban en Santa Clara y pueblos vecinos. A
partir de ahí, con intervalos, ocurrieron brotes epidémicos de importancia,
como el de junio-diciembre de 1935, que registró más de 500 víctimas. Con un
número más o menos similar cerraría la epidemia de 1946.
La casa de Marina
Sobre la casa
de Marina inquiere un lector cuyo nombre no recogí.
Marina Cuenya
fue la más famosa matrona en La Habana anterior a 1959. Era de origen gallego y
tenía dos hijos. Un varón y una hembra que vivía en la Argentina y a la que
hacía envíos periódicos de dinero.
Hubo muchos
prostíbulos en La Habana anterior a 1959. El único que pasó a la crónica es el
de Marina, en la calle Colón número 258, en el muy habanero barrio del mismo
nombre, una de las zonas de tolerancia de la capital cubana en la época. Marina
no tuvo nunca casas en Infanta ni en la calle Marina. Lo que sucede es que con
su nombre se ha bautizado a más de una propietaria de burdeles.
Era, por sus
tarifas y las personalidades que lo frecuentaban, un sitio bastante exclusivo.
El “servicio” se prestaba por diez pesos —una fortuna en la década de 1940—, y
la puerta principal se abría solo al cliente conocido y, a discreción, al que
llegaba recomendado o podía mencionar, por su nombre, a alguna de las muchachas
que “laboraba” en la casa. La saleta, donde se exhibía una imagen de bulto
enorme de Santa Bárbara, con su corona y su espada de oro, daba paso al patio
central rematado por un bar bien surtido. Allí muchachas bien vestidas y
perfumadas esperaban por el cliente para perderse en el piso de arriba.
Un álbum recogía
las fotos de todas las “pupilas” de Marina, lo que permitía al cliente ahorrar
tiempo a la hora de escoger y hacer su selección a distancia. Esa manera de
ofrecer a las prostitutas fue toda una novedad en La Habana de su tiempo. El
álbum, se dice, todavía anda por ahí. La imagen de Santa Bárbara permanece en
la saleta de lo que fue el prostíbulo, ya sin su corona ni su espada de oro.
Un día, el
general Quirino Uría, jefe de la Policía Nacional, y Lomberto Díaz, ministro de
Gobernación (Interior), salieron del periódico El Mundo, en Virtudes 257
esquina a Águila. Se dirigirían al Palacio Presidencial y decidieron hacer el
trayecto a pie. Atravesaron el barrio de Colón y llegaron escandalizados a la
mansión del Ejecutivo. El Ministro sugirió al presidente Prío que tomara alguna
medida con la zona de tolerancia, y Prío le respondió que hiciera lo que
estimara oportuno. De aquella conversación salió el famoso decreto que
clausuraba el barrio de Colón y que inspiró al compositor Eliseo Grenet
aquel sabroso sucu-sucu que decía: “ Los majases no tienen cueva / Felipe
Blanco se la tapó…. Ya”.
Días más
tarde, ya con las putas desalojadas y los prostíbulos cerrados, el doctor
Héctor Garcini, un distinguido abogado con bufete en La Habana, visitó al
Ministro de Gobernación en su despacho oficial del viejo colegio de Belén. Iba
a abogar por el barrio. Lomberto Díaz le comentó que los dueños de los
inmuebles que albergaban los prostíbulos debían sentirse contentos del desalojo,
pues podrían así reivindicar Colón y alquilar a familias los locales.
Garcini movió
la cabeza en sentido de negación. La cosa no era tan fácil. Una familia pagaría
por aquellas casas entre 25 y 40 pesos como máximo, mientras que la misma casa
dispuesta para prostíbulo rentaba no menos de trescientos pesos mensuales.
Añadió el abogado: “Imagine usted el disgusto de los propietarios”. Preguntó
entonces el Ministro a quiénes se refería, y la respuesta llegó rápida.
—Aparte de
unos pocos inmuebles que pertenecen a una o a otra persona, el barrio tiene un
solo propietario —dijo el abogado y se acercó al oído del Ministro, para
pronunciar su nombre y que el escribidor, aunque lo sabe, no va a repetir por
ahora.
Con el barrio
clausurado, Marina, con sus muchachas, se instaló en la casa de las cúpulas que
se halla a la salida del puente Almendares, a la izquierda, según se va del
Vedado hacia Playa. De ahí la desalojaron las señoras del reparto Kohly,
encabezadas por la esposa del abogado Dorta Duque, profesor de la Universidad
Católica de Santo Tomás de Villanueva. Fue entonces que fabricó el Mambo Club,
en el kilómetro tres de la carretera de Rancho Boyeros, un centro nocturno con
prostíbulo incluido.
Con el tiempo,
Colón volvió a abrir como zona de tolerancia. Marina conservaba su casa, pues
nunca la abandonó del todo; había dejado en ella a un par de sirvientas con el
encargo de cuidar y mantener la propiedad. Triunfó la Revolución; cambiaron los
patrones sociales y el barrio entró en un declive indetenible, hasta que lo
cerraron de verdad. Marina entonces encargó a su marido, mucho más joven que
ella, que sacara de la casa la corona y la espada de oro de la imagen de Santa
Bárbara, y otros objetos de valor. Salió de Cuba y se le perdió el rastro.
¿Lo sabe usted?
El doctor Alex
Muñoz Alvarado, investigador del Centro de Lingüística Aplicada, de Santiago de
Cuba, acude al escribidor en busca de ayuda. Investiga sobre el nombre de
algunas instituciones y le urge saber si el nombre oficial de la principal heladería
de La Habana es Coppelia y si ese nombre está ligado al del ballet homónimo.
Escribe que en Santiago la heladería principal mostraba una bailarina de ballet
clásico en el letrero de la entrada, por lo que la gente alude a la instalación
llamándola Coppelia, cuando su nombre oficial es La Arboleda. Inquiere, por
último, si la heladería de la capital mostraba una imagen similar a la de
Santiago o algo que la relacionara con el ballet Coppelia. ¿De no ser así,
expresa, con qué tiene que ver ese nombre?
Si alguien
tiene respuestas para estas interrogantes, favor de comunicarse con este
columnista.