Pubblicato su Juventud Rebelde del 6/11/15
Ajiaco una voce cubana che vuol dire,
metaforicamente, qualunque cosa mescolata di molte differenze miste. È un
piatto in cui le carni più svariate si mescolano con vegetali e ortaggi. Per
alcuni è l’equivalente della olla
spagnola e chissà abbiano ragione, ebbene l’ajiaco fu all’inizio, la nel
lontano XVI secolo, l’incontro tra il cocido
spagnolo con le verdure cubane. Ancora nel XIX secolo la olla cubana o ajiaco, comprendeva i ceci tra i suoi ingredienti. Ma un bel giorno
si soppressero i ceci e in quel momento la cucina cominciò a essere cubana.
Non fu un fatto casuale. Il
cambio di gusto accompagnà l’affermazione della nazionalità. Allora, bere caffè
nero e mangiare riso bianco con fagioli neri era un modo in cui i cubani
avevano per distinguersi dagli spagnoli che preferivano la cioccolata, i ceci e
la paella. E già da allora, per i cubani, l’amore entrava dalla cucina.
I grandi affluenti della
cucina cubana sono la spagnola e l’africana. Ad esse si uniscono col tempo, ma
con meno forza, elementi della cucina araba, cinese, italiane a caraibica. Il
nordamericano, più che nella cucina in sé, influirà nell’impiego di alcuni
prodotti e in uno modo di mangiare.
Gli intenditori coincidono
in che la cucina cubana si differenzia dalla spagnola quando, lo schiavo
domestico assume la cucina dei padroni, giacché questi non portavano cuochi
dalla Spagna. Sarebbero lo schiavo negro o il cinese quelli che marcherebbero
la differenza.
Per mezzo di schiavi e
servitori negri nel palato cubano si installarono come il baccalà, il riso con
pollo, il tasajo, il fufú di banana e quelle due glorie della
culinaria nazionale che sono il congrí e il riso moro.
Anche il riso bianco, come cerale basico e piatto essenziale da combinare con
altri alimenti. Il riso bagnato con guiso,
è una cartteristica della cucina cubana. Nella maggior parte delle case, il
riso si serve nei due pasti e per quanti siano i piatti in tavola, il cubano
sente “che non ha mangiato” se non ha mangiato riso.
La preferenza per i dolci è
un’altra costante del palato cubano; gusto questo, imposto e in che modo,
l’industria zuccheriera. Anche il fritto, all’estremo che Nitza Villapol
asseriva che “qualsiasi cibo che sia fritto, è cubano”.
La predilezione del cubano
per le carni resta annotata nelle Cartas
habaneras (1821), di Francis R.Jamesson, primo console britannico nella
capitale cubana. Buon esempio di questa preferenza lo offre Cirillo Villaverde
nel suo romanzo Cecilia Valdés. In
esso, nel descrivere il pranzo della famiglia Gamboa, enumera i piatti che lo
componevano: carne di mucca, carne di maiale fritta, carne in salsina, carne
stufata, carne trita di vitella servito in una torta di casabe bagnato, pollo arrosto dorato in lardo e aglio, uova fritte
quasi annegate in salsa di pomodoro, riso, banana matura fritta in lunghe e
mielose fette, insalate di sedano e lattuga e per concludere, grandi tazze di
caffè e latte pedr ognuno dei commensali.
La nordamericana Julia Howe
nel suo Viaje a Cuba (1860) annota:
“ la disordinata profusione di manicaretti” della tavola cubana. Non si pensi,
senza alcun dubbio, alla tavola buffet. Nel suo libro Un artista a Cuba, Walter Goodman, pittore inglese che qua visse
tra il 1864 e il 1869, scrive che ogni piatto si preparava separatamente,
perciò a volte c’erano oltre 14 marmitte sulla tavola.
La Contessa di Merlin
ricorda l’abitudine degli avaneri di ingerire, la mattina molto presto, una
tazza di caffè – ciò che a Santiago de Cuba si chiamava il “tentempié”,
vocabolo che giunge fino ad oggi e identifica la ingestione di qualunque cibo
leggero, in mancanza di meglio -. Due o tre ore dopo, degustavano una caraffa
di cioccolata.
Julia Howe è più esplicita
col menù dei cibi che fece nell’Isola: parla del pane e del caffè nero, spesso
“molto cattivo”, al risveglio e della colazione tra le nove e le dieci del
mattino, a base di pesce, riso, bistecca, banane fritte, baccalà salato con
pomodori, callos stufati, un brodino
mediocre e una tazza di caffè o di the verde. La cena, tra le tre e le quattro
del pomeriggio, non è meno abbondante: zuppa, carne al forno, pollo e tacchino,
prosciutto, salsina, chayote, banana,
insalata. Come dolce, un cucchiaio di conserva delle Indie Occidentali, arance,
banane e una tazza di caffè o the.
Qualunque pretesto serve al
cubano del XIX secolo per mangiare. Si sono cene nelle veglie funebri, merende
negli intervalli delle commedie e delle opere drammatiche. Villaverde non
trascura l’ambigú dopo un ballo alla
Filarmonica dell’Avana, né l’inglese Goodman nemmeno, a Santiago di Cuba.
È Goodman che in Un artista a Cuba, offre il menù della
veglia funebre alla quale si vedette costretto ad assistere a Santiago,
richiesto dai familiari del defunto al fine che facesse il suo ritratto. Lì
dove i presenti affogano la loro tristezza nel bicchiere che rallegra e nella
conversazione che anima, si servirono dolci, biscotti, caffè, cioccolata e
sigari Avana.
Tracce
di identità
Cuba ha una cucina con accento
proprio, gustosa e variata. Anche la sua cucina regionale è degna di essere
presa in considerazione. Più che i piatti in sé, il “cubano” della cucina sono
i condimenti e il modo di elaborare e presentare gli alimenti.
Così che per cucina cubana
si intenderanno non solo quei piatti tipici, ma qualunque cibo che si adatti
alle caratteristiche e al palato cubano. Allora, qualunque piatto della cucina
internazionale si trasforma per acquisire una connotazione che lo parifica con
i cosiddetti creoli o tradizionali.
Un piatto tanto tradizionale
come l’aragosta all’indiana si “cubanizza” se si utilizza aglio nella sua
elaborazione e si diminuisce il curry, mentre che l’aragosta termidor
“cubanizzata” mantiene tutti gli ingredienti che caratterizzano questo piatto e
in più aglio, peperoncino piccante, tomillo
e mostarda che le danno sapore e odore differente. La paella creola,
sostituisce il riso tipo Valencia per il suo grano lungo. Il cubano preferisce
il succo di arancia amara per marinare le carni rosse e il limone per il pollo,
i pesci e i frutti di mare. Elemento indispensabile per la finitura è il pepe
macinato, altre spezie secche e alcune erbe aromatiche. Anche l’aglio, il
pomodoro, il peperoncino, la cipolla...Si tratta di una cucina che abusa poco del
piccante e nella quale la salsa non ammazza mai il sapore autentico del piatto.
È un cibo che la popolazione, in generale, degusta molto cotta – compreso il
pesce – e che mostra poco apprezzamento per le verdure e i frutti di mare. È
ricca in fecola e evidenzia un’idolatria quasi feticista per le carni rosse.
La matrice alimentare del
cubano include il riso, come cerale di base, un passato di fagioli, qualche
elemento fritto e un dolce. La varietà la da il cambio nel colore dei fagioli.
O nel riso e il tipo di ortaggi o il modo di prepararli. La colazione è quasi
sempre frugale. Si tratta di una matrice molto radicata e pertanto, non facile
da sostituire. Da lì vengono le raccomandazioni dei dietisti di sopperire agli
ortaggi e il riso con verdure e vegetali con meno contenuto di carboidrati e
più ricchi di vitamine, minerali, fibre e cellulose. Si attribuisce al riso una
certa tendenza all’obesità che si evidenzia nei cubani, ma nell’opinione degli
specialisti la questione non è quella. Più che nel riso in sé, è la maniera di
cucinarlo e mescolarlo con altri alimenti.
Da tempi immemorabili, è
abitudine del cubano portarsi il piatto al naso e con annusata sonora
respingerlo o servirsene. In nessun posto e in nessuna circostanza il cubano
mangia senza offrirne ai presenti. Ad ogni cubano, prima di mangiare piace come
sua cortesia, offrire: Lei desidera? Vorrebbe accompagnarmi a tavola?
Una nostra cena tipica non
lascerebbe fuori il congrí –
mescolanza di riso bianco con fagioli rossi – e le bistecche di maiale fritte,
tenere e fragranti; piatti che si accompagneranno con un’altro di deliziosa yuca condita e addobbata con sugo di
arancia amara e aglio, con un piattino di banane verdi fritte e schiacciate a
pugni – i cosiddetti tostones, tachinos o
patacones, come le si conosce in altre latitudini.
Tanto cubana come questa
cena, potrebbe essere un’altra che comprenda il riso nero – o moros con cristianos – che non è altro
che riso bianco e fagioli neri conditi assieme e il picadillo a la habanera. Questo piatto, tanto frequente, non è
altro che carne macinata ben condita con lauro, cipolla, aglio, peperone,
pomodoro, origano, pepe, olive e uva passa a cui si mette sopra a cavallo, se
si desidera, un uovo fritto e si addobba con peperoni dolci.
Con il mais tenero macinato,
si fa il tamal a modo di salsina –
qua si chiama “en cazuela” – o
avvolto nelle foglie della propria pannocchia. La sua lavorazione è tutta
un’arte e involucra, comunemente, più di un membro della famiglia.
La ropa vieja spicca anch’essa tra i piatti emblematici cubani.
Villaverde la menziona nella sua Cecilia
Valdés e lo fa anche Carlos Loveira nel suo romanzo Juan Criollo (1928). Ideale per combinare un buon passato di
fagioli neri, coma la carne al forno che si marina con succo di arancia amara,
sale pepato, origano, comino e alloro.
I
dolci
Il 24 settembre del 1528,
mediante una Bolla Reale, l’imperatore Carlos V, ordinava alle autorità
coloniali dell’Isola di Cuba che favorissero e aiutassero tale Francisco de
Soto “in tutto quello che deliziosamente
avesse luogo”. Soto era un pasticcere famoso e riconosciuto, un uomo che come
pasticcere servì la regina
Isabel la Católica e il re Felipe el Hermoso,
nonna e padre dell’imperatore e anche se c’è da supporre che non venne a Cuba
per fare dolci, se non ad arricchirsi con le donazioni di terra e le
assegnazioni di indios, è bene pensare che contribuisse a fomentare la
tradizione della pasticceria creola.
I dolci cubani abbagliarono
Fanny Erskine Inglis, marchesa di Calderón de la Barca. Corre l’anno 1839 e al
suo passaggio dall’Avana è invitata a una cena e cita nella sua testimonianza
“che collocarono sulla tavola...immensi portafiori e candelabri di alabastro,
così come centinaia di piatti di dolci e di frutta; i dolci erano in tutte le
maniere immaginabili...” La Marchesa conclude che qui “il dolce risulta essere
una curiosità per la varietà e il numero”.
La prefernza per il dolce è
una delle costanti del palato cubano. Lo zucchero forma parte della nostra
cultura alimentare. È un gusto che impone l’industria zuccheriera; i negri
schiavi, per recuperarsi dalla fatica che gli occasionava il duro lavoro a cui
erano sottomessi nelle piantagioni di canna, ingeriva zucchero in grandi
quantità, quasi sempre in blocchi e il delizioso guarapo che è il succo della canna. In tempi difficili, il cubano è
ricorso alla “zuppa di gallo” che non è altro che acqua con zucchero grezzo.
Come la frutta, alcuni
ortaggi sono molto utilizzati nella pasticceria cubana. Con boniato e yuca si prepara quella delizia delle delizie che sono i buñuelos. Si cuociono la yuca e il boniato in acqua bollente e senza lasciarli ammorbidire troppo. Poi
si macinano e si impastano con uova sbattute, anice, sale e farina. Si divide
questa pasta in porzioni, si da aqueste porzioni la forma del numero 8, si
friggono in olio bollente e poi i buñuelos
con un buon sciroppo, al momento di servirli...
Viene l’acquolina in bocca.
La buena mesa también
es cubana
Ciro
Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
7 de Noviembre del 2015 20:36:09 CDT
Ajiaco es una voz cubana que quiere decir,
metafóricamente, cualquier
cosa revuelta de muchas diferencias confundidas.
Es un plato en el que
las carnes más variadas se mezclan con vegetales
y hortalizas. Para
algunos es el equivalente de la olla española, y
tal vez tengan razón,
pues el ajiaco fue en un comienzo, allá en el
lejano siglo XVI, el
encuentro del cocido español con las viandas
cubanas. Todavía en el
siglo XIX la olla cubana o ajiaco incluía los
garbanzos entre sus
ingredientes. Mas un buen día se suprimieron los
garbanzos y ahí mismo
la cocina comenzó a ser cubana.
No fue un hecho casual. El cambio de gusto
acompañó a la afirmación de
la nacionalidad. Entonces beber café tinto y
comer arroz blanco con
frijoles negros era una manera que los cubanos
tenían de distinguirse
de los españoles, quienes preferían el
chocolate, los garbanzos y la
paella. Y ya desde entonces, para los
cubanos, el amor entraba por la
cocina.
Los grandes afluentes de la cocina cubana son la
española y la
africana. A ellas se suman con el tiempo, pero
con menos fuerza,
elementos de las cocinas árabe, china, italiana
y caribeña. Lo
norteamericano, más que en la cocina en sí,
influirá en el empleo de
algunos productos y en un estilo de comer.
Coinciden los entendidos en que la cocina cubana
se diferencia de la
española cuando el esclavo doméstico asume la
cocina de los amos, ya
que estos no traían cocineros de España. Sería
el esclavo negro o el
criado chino los que sentarían la diferencia.
Por la vía de esclavos y criados negros se
instalaron en el paladar
cubano platos como el bacalao, el arroz
con pollo, el tasajo, el fufú
de plátano y esas dos glorias de la culinaria
nacional que son el
congrí y el arroz moro. También el arroz blanco
como cereal básico y
plato esencial para combinar con otros
alimentos. El arroz mojado con
el guiso es una característica de la cocina
cubana. En la mayor parte
de las casas el arroz se sirve en las dos
comidas y, por muchos que
sean los platos a la mesa, el cubano siente que
«no ha comido» si no
comió arroz.
La preferencia por los dulces es otra de las
constantes del paladar
cubano; gusto este que impuso, y de qué forma,
la industria azucarera.
También lo frito, al extremo que Nitza Villapol
aseveraba que
«cualquier comida que esté frita es cubana».
La predilección del cubano por las carnes queda
anotada en las Cartas
habaneras
(1821) de Francis R. Jamesson, primer
cónsul británico en la
capital cubana. Buen ejemplo de esa preferencia
lo ofrece Cirilo
Villaverde en su novela Cecilia Valdés. En ella,
al describir el
almuerzo de la familia Gamboa, enumera los
platos que lo conformaban:
carne de vaca, carne de puerco frita, carne
guisada, carne estofada,
picadillo de ternera servido en una torta de
casabe mojado, pollo
asado relumbrante en manteca y ajo, huevos fritos
casi anegados en
salsa de tomate, arroz, plátano maduro frito en
luengas y melosas
tajadas, ensaladas de berro y lechuga y, para
rematar, sendas tazas de
café con leche para cada uno de los comensales.
La norteamericana Julia Howe en su Viaje a Cuba (1860) apunta «la
desordenada profusión de manjares» de la mesa
cubana. No se piense en
la mesa buffet, sin embargo. En su libro Un artista en Cuba, escribe
Walter Goodman, pintor inglés que vivió aquí
entre 1864 y 1869, que
cada plato se presentaba por separado, por lo
que a veces había más de
14 fuentes en la mesa.
La Condesa de Merlin recuerda la costumbre de
los habaneros de
ingerir, muy temprano en la mañana, una taza de
café —lo que en
Santiago de Cuba se denominaba el «tentempié»,
vocablo que llega hasta
hoy e identifica la ingestión de cualquier
alimento ligero a falta de
algo mejor—. Dos o tres horas después degustaban
un jarro de
chocolate.
Julia Howe es más explícita con el menú de las
comidas que hiciera en
la Isla: habla del pan y del café negro,
«frecuentemente muy malo», al
levantarse, y del desayuno entre las nueve y las
diez de la mañana, a
base de pescado, arroz, bistec, plátanos fritos,
bacalao salado con
tomates, callos estofados, un clarete mediocre y
una taza de café o de
té verde. La comida, entre las tres y las cuatro
de la tarde, no es
menos abundante: sopa, carne asada, pollo y
pavo, jamón, guiso,
chayote, plátano, ensalada. Y de postre, una
cucharada de conserva de
las Indias Occidentales, naranjas, bananas y una
taza de café o de té.
Cualquier pretexto sirve al cubano del siglo XIX
para el yantar. Hay
comidas en los velorios, meriendas en los
intermedios de las comedias
y las obras dramáticas. Villaverde no pasa por
alto el ambigú luego de
un baile en la Sociedad Filarmónica de La Habana,
ni el inglés Goodman
tampoco, en Santiago de Cuba.
Es Goodman quien, en Un artista en Cuba, ofrece el menú del velorio al
que se vio obligado a asistir en Santiago,
reclamado por los
familiares del difunto a fin de que hiciera su
retrato. Allí, donde
los asistentes ahogan su tristeza en la copa que
alegra y en la charla
que anima, se sirvieron dulces, bizcochos, café,
chocolate y puros
habanos.
Señas de
identidad
Cuba tiene una cocina con acento propio, rica y
variada. Su cocina
regional es también digna de tomarse en cuenta.
Más que los platos en
sí, lo cubano en la cocina es la sazón y la
forma de elaborar y
presentar los alimentos.
Así, por cocina cubana se entenderá no solo
aquellos platos típicos,
sino cualquier comida que se adapte a la idiosincrasia
y al paladar
cubano. En resumen, que haya sido
marinada, cocida y presentada a la
cubana. Entonces cualquier plato de la cocina
internacional se
transforma para adquirir una connotación que lo
empareja con los
llamados criollos o tradicionales.
Un plato tan internacional como la langosta a la
indiana se «cubaniza»
si se utiliza ajo en su elaboración y se le
disminuye el curry, en
tanto que la langosta termidor «cubanizada»
lleva todos los
ingredientes que caracterizan a ese plato, y
además ajo, ají guaguao,
tomillo y mostaza, que le dan sabor y olor
diferentes. La paella
criolla sustituye el arroz tipo Valencia por el
de grano largo.
El cubano prefiere el zumo de naranja agria para
marinar las carnes
rojas, y el limón para el pollo, los pescados y
los mariscos. Elemento
indispensable para el adobo son la pimienta
molida, otras especias
secas y algunas yerbas aromáticas. También el
ajo, el tomate, el ají,
la cebolla… Se trata de una cocina que abusa
poco del picante y en la
que la salsa no mata nunca el sabor auténtico
del plato. Es una comida
que la población, por lo general, degusta muy
hecha —incluso los
pescados— y que muestra poco aprecio por las
verduras y los frutos del
mar. Es rica en féculas y evidencia una
idolatría casi fetichista por
las carnes rojas.
El patrón alimentario del cubano incluye el
arroz, como cereal básico,
un guiso de frijoles, algún alimento frito
y un dulce. La variedad la
da el cambio en el color del frijol. O en el
arroz y la clase de
vianda o forma de prepararla. El desayuno es
casi siempre frugal. Se
trata de un patrón muy arraigado y, por tanto,
no fácil de sustituir.
De ahí que se rechacen las recomendaciones de
los dietistas de suplir
las viandas y el arroz por verduras y vegetales
con menos contenido de
carbohidratos y más ricos en vitaminas,
minerales, fibras y celulosas.
Se atribuye al arroz cierta tendencia a la
obesidad que se evidencia
en los cubanos, pero en opinión de especialistas
la cuestión no es
tal. Más que el arroz en sí, es la forma de
cocinarlo y mezclarlo con
otros alimentos.
Es costumbre del cubano, desde tiempos
inmemoriales, llevarse el plato
a la nariz y con un husmeo audible rechazarlo o
servirse de él. En
ninguna circunstancia ni en ningún lugar el
cubano come sin invitar a
los presentes. A todo cubano, antes de comer, le
complace, como gracia
especial suya, ofrecer: ¿Gusta usted? ¿Quisiera
usted acompañarme a la
mesa?
Una cena típica nuestra no dejaría fuera al
congrí —guiso de arroz
blanco con frijoles colorados— y las masas de
cerdo fritas, suaves y
fragantes; platos que se acompañarían con otro
de la deliciosa yuca
salcochada y aderezada con un mojo de naranja
agria y ajo, y con un
platillo de plátanos verdes fritos y aplastados
a puñetazos —los
llamados tostones o tachinos o patacones, como
se les conoce en otras
latitudes.
Tan cubana como esa cena podría ser otra que
incluya el arroz moro —o
moros con cristianos— y que no es más que arroz
blanco y frijoles
negros guisados juntos, y el picadillo a la
habanera. Este plato, tan
recurrido, no es más que carne molida bien
condimentada con laurel,
cebolla, ajo, pimentón, tomate, orégano,
pimienta, aceitunas y pasas,
y a la que se le pone encima, cabalgándola, si
se desea, un huevo
frito y se adorna con pimientos morrones.
Con el maíz tierno molido se hace el tamal en
forma de guiso —se le
llama aquí «en cazuela»— o envuelto en las hojas
de la propia mazorca.
Su elaboración es todo un arte e involucra,
comúnmente, a más de un
miembro de la familia.
La ropa vieja sobresale asimismo entre los platos
emblemáticos
cubanos. Villaverde la menciona en su Cecilia
Valdés, y lo hace
también Carlos Loveira en su novela Juan Criollo (1928). Ideal para
combinar con un buen guiso de frijoles negros,
al igual que la carne
asada, que se marina con zumo de naranja agria,
sal pimentada,
orégano, comino y laurel.
Los
postres
El 24 de septiembre de 1528, mediante una Real
Cédula, el emperador
Carlos V ordenaba a las autoridades coloniales
de la Isla de Cuba que
favorecieran y ayudaran a un tal Francisco de
Soto «en todo lo que
buenamente hubiera lugar». Soto era un repostero
famoso y de postín,
un hombre que como dulcero sirvió a la reina
Isabel la Católica y al
rey Felipe el Hermoso, abuela y padre del
emperador, y aunque es de
suponer que no vino a Cuba a hacer dulces, sino
a enriquecerse con las
mercedes de tierra y las encomiendas de indios,
es bueno pensar que
contribuyera a fomentar la tradición de la
repostería criolla.
Los dulces cubanos deslumbraron a Fanny Erskine
Inglis, Marquesa de
Calderón de la Barca. Corre el año de 1839 y a
su paso por La Habana
es invitada a una cena y advierte en su
testimonio «que colocaron
sobre la mesa… inmensos floreros y candelabros
de alabastro, así como
centenares de platos de dulces y de frutas; los
dulces eran de todas
las descripciones inimaginables…» Concluye la
Marquesa que aquí «el
postre resulta una curiosidad por lo variado y
numeroso».
La preferencia por el dulce es una de las
constantes del paladar
cubano. El azúcar forma parte de nuestra cultura
alimentaria. Es un
gusto que impone la industria azucarera: los
negros esclavos para
sobreponerse a la fatiga que ocasionaba el duro
trabajo al que se les
sometía en las plantaciones cañeras, ingerían
azúcar en grandes
cantidades, casi siempre en forma de raspadura y
el delicioso guarapo,
que es el zumo de la caña. En tiempos difíciles,
el cubano ha
recurrido a la sopa de gallo, que no es más que
agua con azúcar
prieta.
Al igual que las frutas, algunas viandas son muy
utilizadas en la
repostería cubana. Con boniato y yuca se
prepara esa delicia de
delicias que son los buñuelos. Se cocinan la
yuca y el boniato en agua
hirviendo y sin que se ablanden demasiado. Se
muelen entonces y se
amasan con huevo batido, anís, sal y harina. Se
toma esa masa por
porciones, se da a esas porciones forma de
número 8 y se fríen en
aceite caliente y se bañan los buñuelos con una
buena almíbar en el
momento de servirlos…
La boca se hace agua.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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