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lunedì 7 dicembre 2015

Colloquio di Marco Bellocchio

Un momento di gelo ha accolto l’inizio del colloquio di Marco Bellocchio con  i partecipanti a questa edizione del Festival dell’Avana che peraltro hanno atteso l’arrivo del regista per oltre 15 minuti oltre l’ora fissata. 
I presenti sono rimasti basiti quando Luciano Castillo, direttore dell Cinemateca de Cuba e anfitrione dell'attività ha chiesto all’illustre ospite se avesse qualcosa da dire prima di rivolgergli delle domande. La risposta raggelante è stata: “Io non ho niente da dire”, accompagnata da un’alzata di spalle.
Fortunatamente e immediatamente ha aggiunto, chiarendo, che intendeva con quelle parole esprimere il fatto di non essere un grande oratore, non gli piace parlare e specialmente parlare spontaneamente di sé stesso. In breve la situazione si è “normalizzata” e sulle domande di Castillo, grande conoscitore delle opere di Bellocchio si è creata una buona sintonia col pubblico che ha seguito con molto interesse le spiegazioni che di volta in volta ha fornito sui suoi lavori, i motivi che li hanno ispirati e il suo modo di lavorare che non comporta schemi precostituiti. In tutta la conversazione ha sottolineato le sue origini culturali di sinistra con una breve militanza anche in movimenti estremi. Ha detto che le sue preferenze sono soggetti creati a proposito, senza escludere la possibilità di realizzazioni per lo schermo di novelle o racconti. Non è partitario dei grandi classici che pure sono stati realizzati, non da lui, asserendo che per un grande romanzo la durata di un film non potrà mai riproporne la ricchezza originale, è più un compito da serie televisive con diversi capitoli, secondo il suo pensiero.
Molte sono state le pellicole evocate della sua prolifica carriera e non poteva mancare “I pugni in tasca” che, ha detto, oggi non rifarebbe più, secondo lui sarebbe anacronistica seppure in molte presentazioni all’estero, anche recenti, molti giovani che all’epoca non erano nemmeno nati, si sono ritrovati nei loro ambienti famigliari.
Ha parlato della sua educazione cattolica e della successiva scelta dell’agnosticismo, le sue idee di sinistra, anche radicali che d’altra parte, ha sempre rispecchiato nei suoi film sempre a carattere politico o sociale.
Pellicole che hanno avuto largo consenso, specialmente negli anni ’70 e che hanno sollevato, però molte polemiche specie da parte degli “opportunisti” che si vendono al potere appoggiando qualunque idea per reazionaria che sia, pur di ricavarne vantaggio politico. Ha posto come esempio Benito Mussolini che da proletario, rivoluzionario e socialista, pur di raggiungere e mantenere il potere si è venduto al Vaticano siglando i Patti Lateranensi.

Alla fine dell’incontro si è intrattenuto con ammiratori ed ha rilasciato un’intervista alla Televisione Cubana, dichiarando di avere l’opportunità di tornare a Cuba, pur non essendo più tanto giovane...Nelle manifestazioni collaterali c’è una retrospettiva delle sue opere divisa in due parti. Ha consigliato vivamente il pubblico cubano di non perdere “il diavolo in corpo”.









domenica 6 dicembre 2015

Hotel Nacional, sede storica del Festival, un tuffo nel passato

Esposizione "I fantasmi", di Chiara Rapaccini

Al Centro Culturale Fresa y Chocolate si è inaugurata la mostra “I fantasmi” di Chiara Rapaccini, la compagna di un lungo tratto di vita di uno dei più grandi registi italiani: Mario Monicelli.






Chiara ci ha raccontato la sua vita avventurosa a lato di un uomo non facile, ma con momenti di assoluta dolcezza. Una persona tanto assorta dal suo lavoro, come tutte le persone geniali che si accorgono solo ogni tanto, ma intensamente, delle persone che hanno attorno. Lei lo ha conosciuto giovanissima, facendo la comparsa nel film “Amici miei”. Nacque l’amore e trascorsero assieme il resto del tempo, fino alla scomparsa di Mario nel 2010. Racconta che seppur felice, ma molto più giovane, si sentiva un po’ schiacciata e oppressa dalla presenza ingombrante del Maestro e dei suoi “zii” che pure se non la intimidivano le facevano sentire il peso delle loro grandi personalità. Chi non lo avrebbe sentito frequentando Totò, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Anna Magnani, Virna Lisi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Gian maria Volonté, tanto per citare i più celebri?

È entusiasta dell’accoglienza cubana, un Paese che Mario anni dalla non ha mai visitato. La sua mostra però. Sottolinea cento della nascita del regista ed è la decima e ultima di quest'anno del centenario. L’ha chiamata “I fantasmi” anche perché ormai non sono più presenti fisicamente. La raccolta di queste immagini è avvenuta per caso: Una sera, circa 5 anni prima della morte di Mario, guardando casualmente dalla finestra della loro casa, lo ha visto trascinare un grosso sacco verso il contenitore della spazzatura sottostante. Allora lo ha chiamato e si è offerta di farlo lei. Una volta scesa si è resa conto che il sacco conteneva centinaia di fotografie, sceneggiature originali e documenti di ogni tipo. Alla domanda: “Ma perché li vuoi buttare?” Lui rispose: “ Ma sono cose vecchie, non servono più a niente”. Riuscì a salvare il tutto e nel tempo scelse, fra le immagini scattate dai più grandi fotografi di scena delle varie epoche, alcune che le piacevano di più e le fece stampare su tela. Essendo pittrice e vignettista, ha poi arricchito le immagini con tocchi di pennello e inserimento di piccoli testi a mò di vignetta. Ne ha tratto questa mostra che porta in giro per il mondo ed espone le lenzuola distese, con le loro immagini che li rievocano come se fossero i fantasmi delle personalità in esse ritratte e per mantenersi in un dialogo aperto con loro. Non sempre questo contatto è dolce e pacato, li rimprovera anche per averla “schiacciata” con le loro personalità da giganti dello schermo e dell’immaginario collettivo. 
Grazie,Chiara per la tua presenza, disponibilità, sensibilità, dolcezza, bravura e per la mostra chi rievoca anche in noi tanti ricordi di personaggi immortali e che rimangono sempre presenti come fantasmi buoni nella nostra fantasia.




Presentazione della Rivista Nuovo Cine Latinoamericano, n° 17

Con queste parole del vecchio e caro amico Senel Paz, intellettuale, cineasta e scrittore, autore di diversi soggetti, libri e racconti fra cui “El lobo, el bosque y el hombre nuevo”, da cui è stato tratto il film “Fragole e cioccolata”, primo film cubano candidato all’Oscar, è stato presentato il numero 17 della rivista Nuevo Cine Latinoamericano, corrispondente all’inverno 2015/16. Penso che valga la pena di pubblicarle in lingua originale e con relativa traduzione in italiano, sperando che non perdano la punta di ironica freschezza.






Estimados cineastas:
Los llamo así porque es nuestro lado de cineastas lo que nos reúne en esta sala, hagamos o no películas.
Siempre que me ha tocado presentar una revista del cine cubano la leo con atención de la primera a la última página, solo en esas ocasiones.  Lo he hecho ahora y puedo confirmar para ustedes que estamos ante una revista... de peso.
Debo confesar  también que no más abrirla tuve la sensación de que se me parecía a algo, pero no pude determinar a qué, así que seguí de largo sin detenerme en problemas de originalidad.
No me gusta, en una presentación, ponerme a  pasear por el índice o a interpretar a cada autor. Es algo que hará cada uno de ustedes. El propio equipo de redacción se encarga, en la portada, de llamarnos la atención sobre los tema que considera más relevantes:  el dossier sobre las mujeres cineastas y el de las series televisivas; las entrevistas; las clases magistrales de ilustres visitantes y los 30 años de la Fundación del Nuevo Cine Latinoamericano.
De todo ese menú  voy a referirme solo a algunos platos que me gustaron particularmente. Del dossier sobre las mujeres realizadoras, que aborda el trabajo de ellas desde varios ángulos --la producción, la realización, los contenidos y las poéticas--, elijo el artículo "Tabú, intimidad y pudor: el cine realizado por mujeres", de Jorge Ruffinelli. Ruffinelli es, en el mundo de las publicaciones del cine latinoamericano, lo más cercano que tenemos a Dios: está en todas partes. Pero Dios lo tiene fácil, le basta con soplar. A Ruffinelli no: él se lo pasa investigando, estudiando y pensando sobre los más diversos asuntos y luego tiene la bondad de compartir con nosotros el fruto de ese trabajo tremendo, agudo, amoroso e inagotable. Sobre este artículo les digo algo muy sencillo: no se lo pierdan.
Soy de los que lee las revistas saltando de un lado para otro, al estilo conejo (canguro que diría Mel Gibson por ser australiano), y de aquí me voy al artículo "Internet y el fin de la televisión de masas", adonde llegué atraído por la fama de su autor, Ignacio Ramonet, francés nacido en España o al revés. Excepto las fotos del propio Ramonet,  todo es interesante en el artículo. Este señor, como ya sabemos, no se cansa de decirnos cosas  inteligentes y de inquietarnos. Escribe: "Hay un cambio que se está produciendo en la relación con los contenidos audioavisuales, con los programas de la televisión. Todos los estudios, las encuentas que se han hecho últimamente sobre las nuevas prácticas del uso de la televisión... indican que estamos asistiendo a un cambio muy rápido en el consumo, lo que podríamos  llamar el consumo lineal de la televisión, el hecho de que veamos un programa.  ¿A qué llamamos consumo lineal? Es cuando veo la televisión en el momento en que se difunde el programa. Si estoy frente al televisor cuando se está difundiendo un programa, eso es un consumo lineal; estoy sincrónico con la televisión, con el canal de televisión. Pero eso que parece una obviedad está siendo cada vez menos frecuente..."  Y a partir de ahí el hombre toma impulso y nos pone a pensar en cosas que tenemos delante y en las que no hemos reparado.
Encontrarán ustedes este texto entre las páginas 42 y 49, casi el centro de la entrega, punto donde me volvió la maldita sensación de que la revista se me parecía a algo,  alguna cosa.
No menos atractivo es el  texto de Diego Lerman sobre "Las series como una posibilidad de experimentar". El autor sabe de lo que habla y lo hace en estilo anticremático, es decir, sin esparadrapos en la boca.
De este título, confundido por la vanidad, pasé a la propuesta de Dan Halsted titulada: "Los mejores escritores dan los mejores trabajos". Pensé que se hablaría de mí; pero no, el autor se extiende sobre temas en los que es  experto y acumula una profunda vivencia, y lo hace al calor y la pasión del diálogo que propició, aquí en La Habana y en este mismo hotel, el seminario La serie televisiva actual y el impacto de su estética y sus dinámicas en la producción audiovisual contemporáneas, organizado por este Festival en  su edición pasada.
En esta línea de interés, especialización e intercambio con el público, están las tres conferencias magistrales, material igualmente propiciado por las actividades colaterales del Festival que la revista tiene el tino de compartir con todos a través de este número y convertirlo así en referencia que podemos visitar a gusto. Estas clases estuvieron entre lo mejor que ocurrió el año pasado, por lo que el concepto de "actividades colaterales" va a tener que ser revisado.
Como me prometí no caer en la pedantería de comentar la revista título por título, y dejando a un lado la sensación de que el número me recordaba cada  a otra cosa, paso a una última recomendación: La entrevista a Iván Giroud realizada  por Antonio Enrique González, periodista de la publicación digital cubana La Jiribila.  Pero antes de referirme a ella, la entrevista, y a él, Iván, tengo que hacer mención a otro asunto primordial que apenas aparece en él índice pero que está presente en todo el número.
Una publicación no es, no se reduce,  a su contenido. Si no hay diseño, si no hay trabajo de edición, entendido como pensamiento y el cuidado de cada página en su esencia y su forma, la revista no tendrá el  cuerpo, la efectividad, el peso que tiene esta y no irá a la maleta de ustedes el día de la partida sino al cesto de la basura de la habitación del hotel. El diseño gráfico está a cargo de 10K, y ustedes harán algo bueno por sí mismo su recorren la revista apreciando su presentación, tan bella como inteligente. La jefa de redacción es Xenia Reloba, y como director aparece Iván Giroud, a quien seguro debemos la mirada de águila sobre el conjunto, en tanto que las tareas gordas habrán recaído sobre la editora, como ocurre casi siempre. En todo caso, entre los méritos más importante y maravilloso de ambos está el que tengamos  la revista en la mano,  a tiempo, en el día y la hora señalado. Esta es, posiblemente, la parte más difícil de una publicación cubana, y para conseguirlo el equipo tiene que emplear todo tipo de efectos especiales.
El diseño incluye, incluso, una muestra de aquello que antes llamábamos "mensaje subliminal", y que hace unos años era el no va más en las teorías comunicacionales. El concepto existe desde hace mucho, de cuando Ramonet era chiquito y todavía no hablaba francés. Encontramos este mensaje en el reverso de la portada, donde se ubica lo que parece un inocente anuncio del ron Havana Club con el que los editores nos están diciendo, subliminalmente, que aceptamos los tragos que ustedes les quieran obsequiar por el buen trabajo realizado.
Volvamos a la entrevista de Don Iván,  bautizado así desde su discurso de anoche en la inauguración del Festival. En  esas páginas se aprecia, no porque él lo diga sino porque está en la esencia de su saber y su reflexión, que el director de nuestro Festival no ha acompañado por gusto y durante tantos años a los cineastas de este país y a muchas de sus figuras fundadoras, sino que se ha alimentado con lucidez de esa experiencia y la ha ello suya. Podemos afirmar con cariño porque este no lo podríamos evitar, pero con toda responsabilidad, que en Iván Giroud está, como en pocos de nosotros, la fuerza pero también el espíritu de nuestra cinematografía.
Y con su entrevista comprendí finalmente a qué se me parecía la revista: al Festival, y con él a nosotros, los cineastas cubanos. El Festival la recorre página por página con la misma seriedad, entusiasmo y gozo que está en los cines; con la misma sensibilidad,  inteligencia e imaginación de todo el programa. Esta revista es, como cualquier película, guión o cartel hecho en esta isla o por gente nacida en ella, cine cubano, para hoy y para siempre, de nosotros para ustedes. Gracias por ello, equipo de Nuevo Cine Latinoamericano, No. 17.
Muchas gracias.







Egregi cineasti:
Vi chiamo così perché è questa nostra parte di cineaste che ci riunisce in questa sala, facciamo o no pellicole.
Ogni volta che mi è toccato presentare una rivista del cinema cubano l’ho letta con attenzione dalla prim all’ultima pagina, solo in queste occasioni. L’ho fatto e adesso posso confermare davanti a voi che siamo di fronte a una rivista...di peso.
Devo confessare anche che solo all’aprirla ho avuto la sensazione che mi sembrava qualcosa, ma non ho potuto detrminare cosa, così che ho proseguito senza soffermarmi in problemi di originalità.
Non mi piace, in una presentazione, mettermi a scorrere l’indice o interpretare ogni autore.
È qualcosa che farà ognuno di voi. La stessa equipe di redazione si incarica, nella copertina, di richiamare la nostra attenzione sui temi che considera più rilevanti: il dossier sulle donne cineaste, e quello delle serie televisive; le interviste; le conferenze magistrali di illustri visitatori e i 30 anni della Fondazione del Nuovo Cine Latinoamericano.
Di tutto questo menù, mi riferirò solo ad alcuni piatti che mi sono piaciuti particolarmente.
Del dossier sulle donne realizzatrici che affronta il loro lavoro da diversi angoli – la produzione, la realizzazione, i contenuti e la poetica – scelgo l’articolo “Tabù intimità e pudore: il cine realizzato dalle donne”, di Jorge Ruffinelli. Ruffinelli è, nel mondo delle pubblicazioni sul cine latinoamericano, quello che abbiamo più vicino a Dio: è da tutte le parti. Ma per Dio è facile, gli basta soffiare. Per Ruffinelli invece no gli se la passa investigando, studiando, pensando sui diversi fatti e poi ha la bontà di compartire con noi il frutto di questo arduo lavoro, acto, amorevole e infinito. Su questo articolo dico qualcosa di molto semplice: non ve lo perdete.
Sono di quelli che leggono le riviste saltando da un lato all’altro, stile coniglio (Mel Gibson, come australiano mi direbbe canguro), da qua vado all’articolo “Internet, fine della televisione di massa”, dove sono arrivato attratto dalla fama del suo autore Ignacio Ramonet, francese nato in Spagna o al contrario. Tranne le foto, dello stesso Ramonet, l’articolo è tutto interessante, Questo signore, come già sappiamo, non si stanca di dirci cose intelligenti e di inquietarci. Scrive: C’è un cambiamento che si sta producendo con relazione agli audiovisuali, nei programmi della televisione. Tutti gli studi, le inchieste che sono stati fatti ultimamente sulle nuove pratiche di uso della televisione...indicano che stiamo assistendo a un cambio molto rapido nel consumo, quello che potremmo chiamare il consumo lineare della televisione, al fatto che vediamo un programma. Cosa chiamiamo come consumo lineare? È quando vedo la televisione nel momento in cui si diffonde il programma, questo è un consumo lineare; sono in sincrono con la televisione, col canale della televisione. Però quello che sembra un’ovvietà viene essendo sempre meno frequente...” E a partire da lì l’uomo prende la spinta e ci mette a pensare a cose che abbiamo davanti e a cui non abbiamo fatto caso.
Potete trovare questo testo tra le pagine 42 e 49, quasi al centro del fascicolo, punto dove mi tornò la maledetta sensazione che la rivista assomigliava a qualcosa, non so cosa.
Non meno attraente è il testo di Diego Lerman su “Le serie come possibilità di sperimentare”. L’autore sa di cosa parla e lo fa con stile disinvolto, vale a dire, senza peli sulla lingua.
Da questo titolo, confuso dalla vanità, sono passato alla proposta di Dan Halsted intitolata: “I migliori scrittori danno i mgliori lavori”. Ho pensato che si sarebbe parlato di me, ma no, l’autore si estende su temi nei quali è esperto e accumula una profonda conoscenza, lo fa col calore e la passione per il dialogo che ha propiziato, qua all’Avana e in questo stesso hotel, il seminario “La serie televisiva attuale, l’impatto della sua estetica e le sue dinamiche nella produzione audiovisiva contemporanea”, organizzato da questo Festival nella scorsa edizione.
In questa linea di interesse, specializzazione e interscambio col publico, ci sono le tre conferenze magistrali, materiale pure propiziato dalle attività collaterali del Festival che la rivista da modo di compartire con tutti tramite questo numero e trasformarlo così in riferimento che possiamo visitare a piacere. Queste lezioni sono state tra il meglio di quello successo l’anno scorso, per cui il concetto di “attività collaterali” dev’essere rivisto.
Siccome mi sono ripromesso di non cadere nella pedanteria di commentare la rivista titolo per titolo e lasciando da una parte la sensazione che il numero mi ricordava qualcos’altro, passo a un’ultima raccomandazione: l’intervista a Iván Giroud realizzata da Antonio Enrique González, giornalista della pubblicazsione digitale cubana La Jiribilla. Ma prima di riferirmi ad essa, l’intervista e a lui Iván, devo menzionare un altro fatto primordiale che appare appena nell’indice, ma che è presente in tutto il numero.
Una pubblicazione non è, non si riduce al suo contenuto. Se non c’è disegno, se non c’è lavoro di edizione, inteso come pensiero e la cura di ogni pagina nella sua essenza e forma, la rivista non avrà il corpo, l’effettività e il peso che ha questa e non entrera nella vostra valigia il giorno della partenza, ma nel cestino dei rifiuti della stanza dell’albergo. Il disegno grafico è a carico di 10K  e voi farete qualcosa di buono sfogliando la rivista e apprezzando la sua presentazione, tanto bella quanto intelligente. La capo redattrice è Xenia Reloba e come direttore appare ivàn Giroud, a chi sicuramente dobbiamo lo sguardo d’aquila sull’insieme, mentre i compiti gravosi saranno ricaduti sull’editrice, come succede quasi sempre. Ad ogni modo, fra i meriti più importanti e meravigliosi di entrambi c’è quello che abbiamo in mano la rivista, in tempo, nell’ora e giorno stabiliti. Questa è, probabilmente, la parte più difficile di una pubblicazione cubana e per ottenerlo la squadra deve impiegare ogni tipo di effetto speciale.
Il disegno comprende, anche, una mostra di quello che prima chiamavamo “messaggio subliminale” e che alcuni anni fa era il non plus ultra nelle teorie di comunicazione. Il concetto esiste da molto tempo, da quando Ramonet era piccolo e non parlava ancora in francese. Troviamo questo messaggio nel retro della copertina, dove si trova quello che sembra un innocente annuncio del rum Havana Club col quale gli editori ci stanno dicendo, subliminalmente che accettano le bevande che gli vogliate ossequiare per il buon lavoro realizzato.
Torniamo all’intervista di Don Iván, battezzato così per il suo discorso pronunciato ieri sera nell’inaugurazione del Festival. In queste pagine si apprezza, non perché lo dica, ma perché è nell’essenza del suo sapere e della sua riflessione che il direttore del nostro Festival non ha accompagnato per niente e durante tanti anni i cineasti di questo Paese e a molte delle sue figure fondatrici, ma che si è alimentato con lucidità di questa esperienza e l’ha fatta sua. Possiamo affermare con simpatia, perché questo non lo possiamo evitare, ma con tutta responsabilità che in Iván Giroud c’è, come in pochi di noi, la forza  e anche lo spirito della nostra cinematografia.
E con la sua intervista ho finalmente capito a cosa si assomigliava la rivista: al Festival e con lui a noi, i cineasti cubani. Il Festival percorre pagina per pagina, con la stessa serietà, entusiasmo e piacere che c’è nei cine; con la stessa sensibilità, intelligenza e immaginazione di tutto il programma. Questa rivista è, come qualsiasi pellicola, sceneggiatura o locandina fatta in quest’Isola o da gente nata in essa, cine cubano, per oggi e per sempre, da noi per voi. Grazie per questo, squadra di Nuovo Cine Latinoamericano, n° 17.
Molte grazie.










venerdì 4 dicembre 2015

Inaugurato il 37° festival del Nuovo Cine Latinoamericano dell'Avana

Per motivi contingenti non ho potuto partecipare all'apertura del festival di quest'anno in cui è stata proiettato il film spagnolo, ambientato in argentina "El Clan".
Per l'occasione, Geraldine Chaplin che forma parte della giuria dei lungometraggi di fiction, ha ritirato il premio che ha vinto lo scorso anno come miglior attrice nel film messicano/cileno "Dolares de Arena".
Intanto il vincitore di diversi premi "Vestido de novia" rappresenta Cuba nella lizza per ottenere il Premio Goya in Spagna.

mercoledì 2 dicembre 2015

Cuba, USA, Ecuador e emigrazione

Uno dei pochissimi Paesi americani (a parte di qualche isoletta dei Caraibi) che non richiedeva il visto d'ingresso per i cittadini cubani, l'Ecuador, ha deciso che dal 1° dicembre per un soggiorno turistico di 90 giorni anche i cubani sono soggetti a rilascio di visto consolare.
La notizia, resa ufficiale il 26 novembre scorso, ha scatenato una corsa agli uffici delle linee aeree e una massiccia presenza di persone davanti alla cancelleria dell'Ecuador.
Le autorità di questo Stato, hanno cercato di risolvere l'emergenza assicurando che tutti coloro che hanno acquisito il biglietto aereo PRIMA del 26/11, avranno il visto automaticamente e senza nessuna pratica da svolgere. Per gli altri, è entrato in vigore l'iter previsto per le pratiche consolari simili nei diversi Paesi del mondo per il rilascio di visti a cittadini di nazionalità che li necessitino. I funzionari del consolato hanno dovuto lavorare ininterrottamente, dandosi il cambio, per almeno 48 ore di seguito.
Dietro a questa manovra, evidentemente, c'è lo zampino degli Stati Uniti che continuano a mantenere una politica migratoria che incoraggia le fughe da Cuba verso gli USA in modo precario e avventuroso. Inutile dire che attorno a queste  fughe si è creato un mercato, vergognoso, ma lucrativo, di trafficanti di esseri umani con relative truffe. L'ultimo grande esempio è rappresentato da migliaia di cubani trattenuti in Costa Rica, di cui la maggior parte giunta dall'Ecuador, con l'intenzione di passare le frontiere che portano al Paese del nord, dove in merito alla legge vigente possono chiedere asilo politico e ricevere aiuti economici e logistici. Caso unico al mondo.
Questa legge comprende anche quella cosiddetta "dei piedi asciutti e piedi bagnati" che protegge i cubani che riescono a giungere a terraferma statunitense, prima di essere intercettati in mare, nel caso si avventurassero nelle acque dello Stretto della Florida. Per un'accordo bilaterale, coloro che non giungono a calpestare il territorio, vengono rimpatriati. Questo ha spinto molti a cercare la via del Messico, direttamente o indirettamente come nel caso di coloro che compiono il lungo viaggio dall'Ecuador con le difficoltà che comporta l'attraversamento di molte frontiere terrestri.
Ieri (1° dicembre) c'è stata una riunione tecnica a Washington fra alti funzionari dei due Paesi (USA e Cuba) in cui fra le altre cose si è discusso della politica migratoria. I nordamericani hanno decisamente affermato di non voler cambiare la loro politica migratoria nei confronti dei cittadini cubani. Da parte sua, Cuba, in questi ultimi anni ha raggiunto una politica migratoria equiparabile alla maggior parte dei Paesi del mondo permettendo, salvo casi di sicurezza o d'interesse nazionale, a qualsiasi cittadino di poter uscire e rientrare nel Paese sempre quando abbia il relativo permesso di entrata del Paese in cui sono diretti. I tempi in cui i cubani che potevano viaggiare erano molto limitati, sono passati. Lo dimostra l'affollamento di richieste di passaggi aerei per ogni angolo del mondo, specialmente da cittadini che hanno doppio passaporto, in genere europeo o statunitense, per cui non necessitano visti per molte destinazioni.