Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/12/15
L’anno è esempio di processo
ciclico: ha una relazione analogica con processi tali come il giorno, la vita
umana, il future di una cultura…tutti con una fase ascendente e un’altra
discendente. La fine dell’anno per l’essere umano è sempre un occasione di
bilancio e revisione; momento propizio per ripassare successi e sconfitte e
contrapporre l’ottenuto con quello che non si è raggiunto. Alle 12 di sera del
31 dicembre si chiude una tappa che apre subito il passo a un’altra che si apre
con nuove mete che a volte arrivano sempre prima di questi anelati e
invariabilmente inconclusi propositi di abbandonare la sigaretta, visitare la
vecchia zia malata o calare di peso corporeo.
Si dice; “Anno nuovo, vita
nuova”.
La feste natalizie e di fine
anno cominciano con sufficiente anticipo. Da quando inizia dicembre i grandi
commerci ci ricordano, con motivi allegorici e timidi ribassi di prezzo, la
loro vicinanza, l’installazione dell’alberello con le sue luci e palle colorate
è una festa per la famiglia. Cresce l’allegria e cala il ritmo di lavoro. Le
malattie danno un respiro. O la gente da un respiro alle sue malattie e
nonostante i mali continuino ad esserci, si pospone fino a gennaio la visita
medica. Quelli che pomeriggio dopo pomeriggio provano le bevande alcoliche
allora non vacillano, in quello che “un giorno è un giorno”, nel mettersi un
goccetto, avolte più di uno e quello che guarda da un’altra parte per non
salutare nessuno, bisogna sopportarlo perché non stringa fra le braccia il
vicino. Arrivano biglietti di auguri. Più o meno dicono lo stesso: “Buone feste
e prospero anno nuovo”.
Sono le feste per la nascita
del Figlio di Dio. Ma a Cuba, come succede in molti altri Paesi, la
celebrazione si è dissacrata e questi giorni sono passati ad essere grato
motivo di riunione familiare e di reincontro con amici, anche se i templi
cattolici si riempiono di fedeli, non sempre devoti, per ascoltare la Messa di
Mezzanotte che si officia alle 11 di sera del 24 e che adesso può essere alle
nove o a qualsiasi altra ora.
Quello
che è avanzato
La cena del 24, la
Vigilia propriamente detta, è il centro della celebrazione. Questo giorno – può
essere anche il 31 – per molti rende importante indossare un capo nuovo, sia
una giacca che un paio di mutande. La famiglia cubana non ha, per l’occasione,
un’ora fissa per cenare. Si impone, sí, nella maggior parte dell’Isola, di
farlo con la famiglia e si spera di averla tutta a tavola per cominciare a
degustare i fagioli neri “addormentati”
e il riso bianco sgranato e risplendente, la yuca con la salsa, il
maiale al forno o il tacchino ripieno o senza ripieno che assieme ai dolci
caserecci, come i krapfen di Natale e un’ampia gamma di dolci sciroppati e
torroni spagnoli, sono piatti – anche il fagiano in salsa nera – che conformano
la spanciata della data che, in un Paese senza tradizione né cultura vinicola,
si annaffia generalmente con birra ghiacciata. Non sono frequenti nella Vigilia
cubana l‘agnello né il pesce con frutti di mare, nemmeno il baccalà, abituali
in altre latitudini.
In una fine evocazione della
cucina cubana il poeta Miguel Barnet scriveva:
“Non sfuggono alla mia
memoria le vigilie nella mia casa al mare, con il maialino allo spiedo, il
tacchino gigante o il pargo arrostito alla catalana, tutto accompagnato dalla
banana matura fritta, rotelle di banana tostata rubiconde o yuca con salsa
d’aglio”.
Lo scriba sa che nella Cuba
di oggi, non tutti mangiano sempre quello che vorrebbero. Me è convinto che non
c’è famiglia cubana che vada a letto senza cena. Per modeste che siano le
risorse, si riserva sempre qualcosa di speciale o diverso per questa sera.
Uno dei nostri grandi
osservatori del costume diceva che per il cubano medio non è tanto importante
quello che ha messo in tavola alla Vigilia, ma quello che è avanzato, al fine
di poter commentare che c’è stato tanto da mangiare che in casa sua non è stato
necessario cucinare il giorno seguente. In realtà la cubana non usa mettersi in
cucina il 25 che è il giorno dei cosiddetti avanzi, questo è, mangiare quello
che è rimasto dalla sera precedente.
Ci vuole un 25 il più tranquillo possibile, ideale per le
visite, finire la bottiglia che è rimasta a metà dalla sera o per alleggerire
l’agitazione dei giorni precedenti. Anche se ha guadagnato terreno negli ultimi
anni la cena del 31, si preferisce una cena leggera in casa,per celebrare alla
grande la data in strada, ricevere l’anno e cominciare un nuovo ciclo con il
pranzo del 1° gennaio.
Tanta prodezza metabolica
lascia, chi più chi meno, con l’apparato digesto scombussolato. Rimane ancora
un giorno, quello dell’arrivo dei Re Magi, i tre savi che appaiono nei Salmi e
che, come una rappresentazione omniscente dell’umanità intera, resero omaggio
al bambino di Betlemme.
Con loro finiscono le feste.
Rimane in un angolo, nessuno sa per quanti giorni ancora, l’alberello già buio
e sempre più impolverato. Se si è montato con l’illusione dei giorni a venire,
toglierlo diventa una tortura che si pospone di volta in volta fino a che
qualcuno, in casa, si riempie di valore e lo si smonta per conservare con cura
le palle colorate e le luci che si utilizzeranno di nuovo alla fine di
quest’anno.
Il
pupazzo e la valigia
Nelle fine anno ci sono
usanze che si mantengono e nuove che lottano per perpetuarsi.
Lo scriba che è già alla
soglia dei 70 anni, non ricorda di aver visto mai, prima del 1959, uscire
nessuno alle 12 di sera del 31 di dicembre, con una valigia in mano per fare il
giro dell’isolato. Si tratta di un’usanza che adesso si va estendendo e quelli
che la praticano dicono che è il modo di assicurarsi un viaggio all’estero. O
di propiziarlo. Lo scriba non ha nemmeno visto bruciare un pupazzo che
simbolizzasse l’anno vecchio, come si fa oggi in alcune località col pretesto
di eliminare i mali del periodo che termina. Un pupazzo di stracci che
modellano i più giovani della zona e che con nuovi annessi, si va ingrossando
giorno dopo giorno fino alla fine. In alcune città, come Remedios, nella
regione centrale del Paese, il 24 dicembre è la data di celebrazione delle sue
celebri “Parrandas”. I remediani,
allora, cenano presto per essere nella piazza centrale quando comincia la festa
in cui “carmelitas” e “sansariés”
si disputeranno la vittoria a colpi di razzi.
Quando ero bambino, il
porcellino che era come lo chiamavamo, o in sua mancanza la zampetta, si
arrostiva in panetteria. Giunto il 24, la famiglia toglieva dal ripostiglio il
vassoio o l’asse, riposte dall’anno prima che il panettiere metteva nel forno e
che, già arrostito l’animale o la sua zampa, officiavano come una specie di
barella per trasferirlo a casa. La cosa diventava brutta qyando l’orologio
cominciava a correre, giungevano le otto o le nove di sera, l’ansietà
cominciava a fare danni e il porcellino non arrivava dalla panetteria anche se
dalle prime ore della mattina si era sollecitato il servizio. È che bisognava
aspettare il proprio turno. Di quei tempi tornano alla memoria dello scriba i
nomi di alcune panetterie, tutte nel reparto Lawton; Il buon Gusto, in
Concepción angolo Armas;
Sasn Francisco, nella strada
dallo stesso nome fra Delicias e Diez de Octubre; La Princesa al 16 angolo
Concepción e El Bombero, in Porvenir angolo B che è, credo l’unico di questi
quattro esercizi che è rimasto aperto.
Tanto si arrostisse nella
panetteria come a casa, il procedimento aveva le sue complessità. Il giorno
anteriore si ammazzava l’animale e si raccoglieva il sangue per i sanguinacci.
Gli si gettava acqua bollente, si sfregava con un mattone per togliergli la
pelle e sbiancarlo. Si radeva e si sciacquava.
Si apriva, e si toglievano
le viscere. Quindi si sciacquava dentro e si appendeva perché scolasse. Si
addobbava la sera e il giorno seguente si scolava la guarnitura e si metteva il
maiale sulla graticola. Se si era deciso di arrostirlo in casa un’opzione era
quella di aprire un buco di un metro quadrato nella terra, rifornirlo di
carbone o legna sufficiente e collocare la graticola su quattro sostegni.
L’arrosto si allontanava dalle fiamme a misura che l’animale si cucinava.
Mentre il maiale si arrostiva, le viscere fritte che erano le prime ad essere
mangiate, erano accompagnate da rum o birra. Tutto ciò era parte del folklore.
Aguinaldo
Si avvicinano le feste di
fine anno e i raccoglitori di spazzatura e quelli che spazzavano le strade
bussavano alle porte delle case per fare gli auguri alle famiglie. Le avevano
servite durante i mesi precedenti e col loro saluto suggerivano una piccola
ricompensa chiamata “aguinaldo”. La
suggeriva anche il postino che lasciava, come gli altri, una piccola cartolina
con un messaggio cordiale e speranzoso. Tutto in cambio della classica “peseta”; i 20 centesimi che era
generalmente quello che si ossequiava. Giunta la data, il bottegaio regalava ai
suoi clienti: una lattina di dolce sciroppato, un torrone, una bottiglia di rum
o di vino, una regalia che era in proporzione con le spese che il cliente aveva
fatto durante l’anno e che garantiva che il cliente continuasse a fare lì i
suoi acquisti.
Allora non eravamo ancora
utenti.
Ancora, fino ai primi anni
della Rivoluzione, sulla stampa si annunciava il saluto del corpo diplomatico
accreditato al Presidente della Repubblica e il cocktail con cui il primo
cittadino corrispondeva al saluto, il primo giorno dell’anno, nel Salone degli
Specchi del Palazzo. Il 31 dicembre del 1966, si celebrò l’anniversario della
vittoria del 1959 con una cena gigante nella Piazza della Rivoluzione, alla
quale assistettero i principali dirigenti e funzionari dell Stato.
Il
secchio
Una tradizione che ha
resistito a tutte le epoche è quella del secchio. Quando l’orologio segna le 12
del giorno 31, il cubano ha già preparato dietro la porta un secchi pieno
d’acqua che getta in strada conil dodicesimo rintocco, con la speranza che si
porti via tutto il male e che per buono che fosse l’anno che va, sia migliore
quello che arriva.
Ci sono i 12 chicchi d’uva e
la coppa di champagne o di sidro, una tradizione che è tornata. Ma mai prima
che si lanci il secchio in strada con allegria e speranza.
Abbiamo avuto fine d’anno
meglio di altri. Il 31 dicembre del 1898 cessò, a Cuba, la dominazione
spagnola. La nuova situazione ha provocato sentimenti contrastanti nei cubani
più semplici. Alcuni piangevano, altri ridevano, scriveva il cronista Federico
Villoch.
Era una commozione nervosa,
difficile da contenere, non si lottò per tanti anni perché alla fine fosse la
bandiera nordamericana a sventolare in Plaza de Armas e nel Morro. Ma l’uscita
della Spagna, dopo 400 anni di dominazione procurava sollievo e allegria.
Sessant’un anni dopo,
l’acqua del secchio della fine anno 1958 portava via Batista e la sua banda. E
tutto un regime sociale. Per la prima volta nella storia, la frase “Anno nuovo,
vita nuova” cominciava a essere una realtà per i cubani.
Fin de año
en Cuba
Ciro
Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
26 de
Diciembre del 2015 20:19:20 CDT
El año es
ejemplo de proceso cíclico; guarda una relación analógica con procesos tales
como el día, la vida humana, el devenir
de una cultura… todos con una fase ascendente y otra, descendente. El fin de un
año es siempre para el ser humano ocasión de balance y recuento; momento
propicio para repasar éxitos y fracasos, y contrastar lo conseguido con lo que
no se alcanzó. A las 12 de la noche del 31 de diciembre se cierra una etapa que
da paso enseguida a otra que se abre con nuevas metas, que a veces vienen de
antes como esos siempre anhelados e invariablemente incumplidos propósitos de
abandonar el cigarrillo, visitar a la vieja tía enferma o rebajar el peso
corporal.
Se dice:
«Año nuevo; vida nueva».
Las
fiestas navideñas y de fin de año comienzan con bastante anticipación. Desde
que entra diciembre los grandes comercios nos recuerdan, con motivos alegóricos
y tímidas rebajas de precio, su cercanía, y la puesta del arbolito, con sus
luces y bolas de colores, es una fiesta para la familia. Crece el júbilo y el
ritmo laboral decrece. Las enfermedades dan un respiro. O la gente da un
respiro a sus enfermedades y, aunque los males sigan ahí, se aplaza hasta enero
la visita al médico. Los que muy de tarde en tarde prueban las bebidas
alcohólicas, no vacilan entonces, por
aquello de que «un día es un día», en darse su trago, y a veces más de uno, y
el que mira hacia otro lado para no saludar a nadie, hay que aguantarlo para
que no apurruñe entre los brazos al vecino. Llegan las tarjetas de
felicitación. Dicen más o menos lo mismo: «Felices fiestas y Próspero año
nuevo».
Son las
fiestas por el nacimiento del Niño Dios. Pero en Cuba, al igual que sucede en
otros muchos países, la celebración se ha desacralizado y esos días pasaron a
ser grato motivo de reunión familiar y de reencuentro de amigos, aunque los
templos católicos se llenen de feligreses, no siempre devotos, para escuchar la
Misa del Gallo, que se oficia a las 11 de la noche del 24 y que ahora puede ser
a las nueve o a cualquier otra hora.
Lo que sobró
La cena
del día 24, la Nochebuena propiamente dicha, es el centro de la celebración.
Ese día —puede ser también el 31— para muchos es importante estrenar una pieza
de ropa, sea una chaqueta o un calzoncillo. La familia cubana no tiene, en la
ocasión, una hora fija para cenar. Se impone, sí, en la mayoría de la Isla,
hacerlo en familia, y se espera tenerla toda a la mesa para empezar a degustar
los frijoles negros dormidos y el arroz blanco desgranado y reluciente, la yuca
con mojo, el puerco asado o el guanajo relleno o sin rellenar que, junto con
los postres caseros, como los buñuelos de navidad, y una amplia gama de dulces
en almíbar y turrones españoles, son los platos —también el guineo en salsa
negra— que conforman la comilona de la fecha que, en un país sin tradición ni
cultura vinícola, se riega por lo general con cerveza helada. No son frecuentes
en la Nochebuena cubana el cordero ni los pescados y mariscos, tampoco el
bacalao, habituales en otras latitudes.
En una
fina evocación de la cocina cubana escribía el poeta Miguel Barnet:
«No
escapan a mi memoria las nochebuenas de mi casa marina, con el lechón al
pincho, el pavo gigante o el pargo asado a la catalana, todo acompañado de
plátano maduro frito, tostones rubicundos o yuca con mojo de ajos».
Sabe el
escribidor que en la Cuba de hoy no todos comen siempre lo que quieren. Pero está convencido de que no hay familia
cubana que se acueste sin comer. Por modestos que sean sus recursos, siempre se
reserva algo especial o al menos distinto para esa noche.
Decía uno
de nuestros grandes costumbristas, que para el cubano promedio no es tan
importante lo que llevó a la mesa en la Nochebuena, sino lo que sobró, a fin de
poder comentar que hubo tanta comida que en su casa no se hizo necesario
cocinar al día siguiente. En realidad, la cubana no suele meterse en la cocina
el 25, que es el día de la llamada montería, esto es, de comer lo que
quedó de la noche anterior.
Se quiere
un 25 lo más tranquilo posible, ideal para la visita, acabar la botella que
quedó mediada de la noche o para aliviar
el ajetreo de jornadas anteriores. Aunque ha ganado espacio en los últimos años
la cena del 31, se prefiere una comida ligera en casa para celebrar la fecha en
grande en la calle y recibir el año y empezar un nuevo ciclo con el almuerzo
del 1ro. de enero.
Tanta
proeza metabólica deja, al que más y al que menos, con el aparato digestivo
sobresaltado. Queda aún un día más, el de la llegada de los reyes magos, los
tres sabios que aparecen en los Salmos y que, como una representación
omnisciente de la humanidad toda, rindieron homenaje al niño de Belén.
Con ellos,
se acaban las fiestas. Queda en un rincón, nadie sabe por cuántos días más, el
arbolito ya oscuro y cada vez más empolvado. Si se montó con la ilusión de los
días por venir, quitarlo se convierte en una tortura que se pospone una y otra
vez hasta que alguien en la casa se llena de valor y lo desmonta para guardar
con cuidado las bolas de colores y las luces que se utilizarán de nuevo al
final de ese año.
El muñeco y la maleta
Hay en
esto del fin de año costumbres que se mantienen y nuevos usos que pugnan por
perpetuarse.
El
escribidor, que está ya a las puertas de los 70 años, no recuerda haber visto
nunca antes de 1959 salir a nadie, a las 12 de la noche del 31 de diciembre,
con una maleta en la mano a fin de darle la vuelta a la manzana. Se trata de
una costumbre que ahora se va extendiendo y los que la practican refieren que
es la forma de asegurarse un viaje al exterior. O de propiciarlo. Tampoco vio
el escribidor quemar un muñeco que simbolizara el año viejo, como se hace hoy
en algunas localidades, con el pretexto de eliminar lo malo del período que
termina. Un muñeco de trapo que conforman los más jóvenes de la zona y que, con
nuevos añadidos, va engrosando día a día
hasta el final. En algunas ciudades, como Remedios, en la región central del
país, el 24 de diciembre es la fecha de la celebración de sus célebres
Parrandas. Los remedianos entonces cenan temprano para estar en la plaza
central cuando se inicie una fiesta en que «carmelitas» y «sansaríes»
discutirán el triunfo a cohetazo limpio.
Cuando yo
era niño, el lechón, que era como le llamábamos, o, en su defecto, el
pernilito, se asaba en la panadería. Llegado el 24, la familia sacaba del
cuarto de los trastos la tártara o
plancha, guardada desde el año anterior, que el panadero metería en el
horno y que, ya asado el animal o su pata, oficiaba como una especie de
parihuela para trasladarlo a la casa. La cosa se ponía fea cuando el reloj
empezaba a correr, llegaban las ocho o las nueve de la noche, la ansiedad
comenzaba a hacer estragos y el lechón no regresaba de la panadería, aunque
desde temprano en la mañana se había solicitado el servicio. Y es que debía
esperar su turno. De aquella época
vienen a la memoria del escribidor los nombres de algunas panaderías, todas en
el reparto Lawton: El Buen Gusto, en Concepción esquina a Armas; San Francisco,
en la calle del mismo nombre entre
Delicias y Diez de Octubre; La Princesa,
en 16 esquina a Concepción y El Bombero, en Porvenir esquina a B, que es, creo,
el único de estos cuatro establecimientos que permanece abierto.
Tanto si
se asaba en la panadería o en la casa, el proceso tenía sus complejidades. Se
mataba el animal el día antes y se recogía la sangre para las morcillas. Se le
echaba agua hirviendo, y se frotaba con
un ladrillo para sacarle la piel y blanquearlo. Se afeitaba y enjuagaba.
Se abría y
se extraían las vísceras. Se enjuagaba entonces por dentro y se colgaba para
que escurriera. Se adobaba por la noche y al día siguiente se escurría ese
adobo y se ponía el cerdo en la parrilla. Si se había decidido asarlo en la
casa una opción era de la abrir en la tierra un hueco de medio metro cuadrado,
abastecerlo de carbón o leña suficiente, y colocar la parrilla sobre cuatro
estacas. El asado se alejaba de la candela a medida que el animal se cocinaba.
Mientras el puerco se asaba, las vísceras fritas, que era lo primero que se comía, acompañaban el ron o
la cerveza. Todo eso era parte del folclor.
Aguinaldo
Se
aproximaban las fiestas de fin de año y los recogedores de basura y los que
barrían la calle tocaban a las puertas de las casas para felicitar a las
familias. Las habían servido durante los meses precedentes y con su saludo sugerían una pequeña
recompensa, el llamado «aguinaldo». La sugería también el cartero, que dejaba,
al igual que los otros, una pequeña tarjeta con un mensaje amable y
esperanzador. Todo a cambio de la clásica peseta; los 20 centavos que era lo
que por lo general se obsequiaba. Llegada la fecha, el bodeguero recompensaba a
sus clientes: una lata de dulces en almíbar, un turrón o una botella de ron o
de vino, una dádiva que estaba en proporción con el gasto en que el cliente
hubiera incurrido durante el año y que aseguraba que el sujeto siguiera
haciendo allí sus compras.
Entonces,
todavía no éramos usuarios.
Todavía
hasta los primeros años de la Revolución se anunciaba en la prensa el saludo
del cuerpo diplomático acreditado al Presidente de la República y el coctel con
que el mandatario correspondía al saludo
el día primero del año en el Salón de los Espejos de Palacio. El 31 de
diciembre de 1966 se celebró el aniversario del triunfo de 1959 con una cena
gigante en la Plaza de la Revolución, a la que asistieron los principales
dirigentes y funcionarios del Estado.
El cubo
Una
tradición que ha resistido todas las épocas es la del cubo. Cuando el reloj va
a marcar las 12 del día 31, tiene ya el cubano preparado detrás de la puerta un
cubo lleno de agua que lanza a la calle
con la duodécima campanada, con la esperanza de que se lleve todo lo malo y
que, por bueno que fuera el año que se va, sea mejor el que llega.
Están las
12 uvas y la copa de champán o de sidra, una tradición que ha vuelto. Pero
nunca antes que el cubo que se lanza a la calle con alegría y esperanza.
Hemos
tenido fines de año mejores que otros. El 31 de diciembre de
1898 cesó
en Cuba la soberanía española. La nueva situación provocó sentimientos
encontrados en el cubano de a pie. Unos lloraban, otros reían, escribía el
cronista Federico Villoch. Era una conmoción nerviosa difícil de contener. No
se luchó durante tantos años para que al final fuera la bandera norteamericana
la que tremolara en la Plaza de Armas y en el Morro. Pero la salida de España,
luego de 400 años de dominación, ocasionaba alivio y alegría.
Sesenta y
un años después, el agua del cubo del fin de año de 1958 arrastraba a
Batista y a su camarilla. Y a todo un régimen social. Por primera vez en la
historia la frase «Año nuevo; vida nueva» empezaba a ser una realidad para los
cubanos.
Ciro Bianchi Ross