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lunedì 28 dicembre 2015

Fine anno a Cuba, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/12/15

L’anno è esempio di processo ciclico: ha una relazione analogica con processi tali come il giorno, la vita umana, il future di una cultura…tutti con una fase ascendente e un’altra discendente. La fine dell’anno per l’essere umano è sempre un occasione di bilancio e revisione; momento propizio per ripassare successi e sconfitte e contrapporre l’ottenuto con quello che non si è raggiunto. Alle 12 di sera del 31 dicembre si chiude una tappa che apre subito il passo a un’altra che si apre con nuove mete che a volte arrivano sempre prima di questi anelati e invariabilmente inconclusi propositi di abbandonare la sigaretta, visitare la vecchia zia malata o calare di peso corporeo.
Si dice; “Anno nuovo, vita nuova”.
La feste natalizie e di fine anno cominciano con sufficiente anticipo. Da quando inizia dicembre i grandi commerci ci ricordano, con motivi allegorici e timidi ribassi di prezzo, la loro vicinanza, l’installazione dell’alberello con le sue luci e palle colorate è una festa per la famiglia. Cresce l’allegria e cala il ritmo di lavoro. Le malattie danno un respiro. O la gente da un respiro alle sue malattie e nonostante i mali continuino ad esserci, si pospone fino a gennaio la visita medica. Quelli che pomeriggio dopo pomeriggio provano le bevande alcoliche allora non vacillano, in quello che “un giorno è un giorno”, nel mettersi un goccetto, avolte più di uno e quello che guarda da un’altra parte per non salutare nessuno, bisogna sopportarlo perché non stringa fra le braccia il vicino. Arrivano biglietti di auguri. Più o meno dicono lo stesso: “Buone feste e prospero anno nuovo”.
Sono le feste per la nascita del Figlio di Dio. Ma a Cuba, come succede in molti altri Paesi, la celebrazione si è dissacrata e questi giorni sono passati ad essere grato motivo di riunione familiare e di reincontro con amici, anche se i templi cattolici si riempiono di fedeli, non sempre devoti, per ascoltare la Messa di Mezzanotte che si officia alle 11 di sera del 24 e che adesso può essere alle nove o a qualsiasi altra ora.

Quello che è avanzato

La cena del 24, la Vigilia propriamente detta, è il centro della celebrazione. Questo giorno – può essere anche il 31 – per molti rende importante indossare un capo nuovo, sia una giacca che un paio di mutande. La famiglia cubana non ha, per l’occasione, un’ora fissa per cenare. Si impone, sí, nella maggior parte dell’Isola, di farlo con la famiglia e si spera di averla tutta a tavola per cominciare a degustare i fagioli neri “addormentati”  e il riso bianco sgranato e risplendente, la yuca con la salsa, il maiale al forno o il tacchino ripieno o senza ripieno che assieme ai dolci caserecci, come i krapfen di Natale e un’ampia gamma di dolci sciroppati e torroni spagnoli, sono piatti – anche il fagiano in salsa nera – che conformano la spanciata della data che, in un Paese senza tradizione né cultura vinicola, si annaffia generalmente con birra ghiacciata. Non sono frequenti nella Vigilia cubana l‘agnello né il pesce con frutti di mare, nemmeno il baccalà, abituali in altre latitudini.
In una fine evocazione della cucina cubana il poeta Miguel Barnet scriveva:
“Non sfuggono alla mia memoria le vigilie nella mia casa al mare, con il maialino allo spiedo, il tacchino gigante o il pargo arrostito alla catalana, tutto accompagnato dalla banana matura fritta, rotelle di banana tostata rubiconde o yuca con salsa d’aglio”.
Lo scriba sa che nella Cuba di oggi, non tutti mangiano sempre quello che vorrebbero. Me è convinto che non c’è famiglia cubana che vada a letto senza cena. Per modeste che siano le risorse, si riserva sempre qualcosa di speciale o diverso per questa sera.
Uno dei nostri grandi osservatori del costume diceva che per il cubano medio non è tanto importante quello che ha messo in tavola alla Vigilia, ma quello che è avanzato, al fine di poter commentare che c’è stato tanto da mangiare che in casa sua non è stato necessario cucinare il giorno seguente. In realtà la cubana non usa mettersi in cucina il 25 che è il giorno dei cosiddetti avanzi, questo è, mangiare quello che è rimasto dalla sera precedente.
Ci vuole un  25 il più tranquillo possibile, ideale per le visite, finire la bottiglia che è rimasta a metà dalla sera o per alleggerire l’agitazione dei giorni precedenti. Anche se ha guadagnato terreno negli ultimi anni la cena del 31, si preferisce una cena leggera in casa,per celebrare alla grande la data in strada, ricevere l’anno e cominciare un nuovo ciclo con il pranzo del 1° gennaio.
Tanta prodezza metabolica lascia, chi più chi meno, con l’apparato digesto scombussolato. Rimane ancora un giorno, quello dell’arrivo dei Re Magi, i tre savi che appaiono nei Salmi e che, come una rappresentazione omniscente dell’umanità intera, resero omaggio al bambino di Betlemme.
Con loro finiscono le feste. Rimane in un angolo, nessuno sa per quanti giorni ancora, l’alberello già buio e sempre più impolverato. Se si è montato con l’illusione dei giorni a venire, toglierlo diventa una tortura che si pospone di volta in volta fino a che qualcuno, in casa, si riempie di valore e lo si smonta per conservare con cura le palle colorate e le luci che si utilizzeranno di nuovo alla fine di quest’anno.

Il pupazzo e la valigia

Nelle fine anno ci sono usanze che si mantengono e nuove che lottano per perpetuarsi.
Lo scriba che è già alla soglia dei 70 anni, non ricorda di aver visto mai, prima del 1959, uscire nessuno alle 12 di sera del 31 di dicembre, con una valigia in mano per fare il giro dell’isolato. Si tratta di un’usanza che adesso si va estendendo e quelli che la praticano dicono che è il modo di assicurarsi un viaggio all’estero. O di propiziarlo. Lo scriba non ha nemmeno visto bruciare un pupazzo che simbolizzasse l’anno vecchio, come si fa oggi in alcune località col pretesto di eliminare i mali del periodo che termina. Un pupazzo di stracci che modellano i più giovani della zona e che con nuovi annessi, si va ingrossando giorno dopo giorno fino alla fine. In alcune città, come Remedios, nella regione centrale del Paese, il 24 dicembre è la data di celebrazione delle sue celebri “Parrandas”. I remediani, allora, cenano presto per essere nella piazza centrale quando comincia la festa in cui “carmelitas” e “sansariés”   si disputeranno la vittoria a colpi di razzi.
Quando ero bambino, il porcellino che era come lo chiamavamo, o in sua mancanza la zampetta, si arrostiva in panetteria. Giunto il 24, la famiglia toglieva dal ripostiglio il vassoio o l’asse, riposte dall’anno prima che il panettiere metteva nel forno e che, già arrostito l’animale o la sua zampa, officiavano come una specie di barella per trasferirlo a casa. La cosa diventava brutta qyando l’orologio cominciava a correre, giungevano le otto o le nove di sera, l’ansietà cominciava a fare danni e il porcellino non arrivava dalla panetteria anche se dalle prime ore della mattina si era sollecitato il servizio. È che bisognava aspettare il proprio turno. Di quei tempi tornano alla memoria dello scriba i nomi di alcune panetterie, tutte nel reparto Lawton; Il buon Gusto, in Concepción angolo Armas;
Sasn Francisco, nella strada dallo stesso nome fra Delicias e Diez de Octubre; La Princesa al 16 angolo Concepción e El Bombero, in Porvenir angolo B che è, credo l’unico di questi quattro esercizi che è rimasto aperto.
Tanto si arrostisse nella panetteria come a casa, il procedimento aveva le sue complessità. Il giorno anteriore si ammazzava l’animale e si raccoglieva il sangue per i sanguinacci. Gli si gettava acqua bollente, si sfregava con un mattone per togliergli la pelle e sbiancarlo. Si radeva e si sciacquava.
Si apriva, e si toglievano le viscere. Quindi si sciacquava dentro e si appendeva perché scolasse. Si addobbava la sera e il giorno seguente si scolava la guarnitura e si metteva il maiale sulla graticola. Se si era deciso di arrostirlo in casa un’opzione era quella di aprire un buco di un metro quadrato nella terra, rifornirlo di carbone o legna sufficiente e collocare la graticola su quattro sostegni. L’arrosto si allontanava dalle fiamme a misura che l’animale si cucinava. Mentre il maiale si arrostiva, le viscere fritte che erano le prime ad essere mangiate, erano accompagnate da rum o birra. Tutto ciò era parte del folklore.

Aguinaldo

Si avvicinano le feste di fine anno e i raccoglitori di spazzatura e quelli che spazzavano le strade bussavano alle porte delle case per fare gli auguri alle famiglie. Le avevano servite durante i mesi precedenti e col loro saluto suggerivano una piccola ricompensa chiamata “aguinaldo”. La suggeriva anche il postino che lasciava, come gli altri, una piccola cartolina con un messaggio cordiale e speranzoso. Tutto in cambio della classica “peseta”; i 20 centesimi che era generalmente quello che si ossequiava. Giunta la data, il bottegaio regalava ai suoi clienti: una lattina di dolce sciroppato, un torrone, una bottiglia di rum o di vino, una regalia che era in proporzione con le spese che il cliente aveva fatto durante l’anno e che garantiva che il cliente continuasse a fare lì i suoi acquisti.
Allora non eravamo ancora utenti.
Ancora, fino ai primi anni della Rivoluzione, sulla stampa si annunciava il saluto del corpo diplomatico accreditato al Presidente della Repubblica e il cocktail con cui il primo cittadino corrispondeva al saluto, il primo giorno dell’anno, nel Salone degli Specchi del Palazzo. Il 31 dicembre del 1966, si celebrò l’anniversario della vittoria del 1959 con una cena gigante nella Piazza della Rivoluzione, alla quale assistettero i principali dirigenti e funzionari dell Stato.

Il secchio

Una tradizione che ha resistito a tutte le epoche è quella del secchio. Quando l’orologio segna le 12 del giorno 31, il cubano ha già preparato dietro la porta un secchi pieno d’acqua che getta in strada conil dodicesimo rintocco, con la speranza che si porti via tutto il male e che per buono che fosse l’anno che va, sia migliore quello che arriva.
Ci sono i 12 chicchi d’uva e la coppa di champagne o di sidro, una tradizione che è tornata. Ma mai prima che si lanci il secchio in strada con allegria e speranza.
Abbiamo avuto fine d’anno meglio di altri. Il 31 dicembre del 1898 cessò, a Cuba, la dominazione spagnola. La nuova situazione ha provocato sentimenti contrastanti nei cubani più semplici. Alcuni piangevano, altri ridevano, scriveva il cronista Federico Villoch.
Era una commozione nervosa, difficile da contenere, non si lottò per tanti anni perché alla fine fosse la bandiera nordamericana a sventolare in Plaza de Armas e nel Morro. Ma l’uscita della Spagna, dopo 400 anni di dominazione procurava sollievo e allegria.
Sessant’un anni dopo, l’acqua del secchio della fine anno 1958 portava via Batista e la sua banda. E tutto un regime sociale. Per la prima volta nella storia, la frase “Anno nuovo, vita nuova” cominciava a essere una realtà per i cubani.


Fin de año en Cuba
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
26 de Diciembre del 2015 20:19:20 CDT

El año es ejemplo de proceso cíclico; guarda una relación analógica con procesos tales como el día, la vida humana,  el devenir de una cultura… todos con una fase ascendente y otra, descendente. El fin de un año es siempre para el ser humano ocasión de balance y recuento; momento propicio para repasar éxitos y fracasos, y contrastar lo conseguido con lo que no se alcanzó. A las 12 de la noche del 31 de diciembre se cierra una etapa que da paso enseguida a otra que se abre con nuevas metas, que a veces vienen de antes como esos siempre anhelados e invariablemente incumplidos propósitos de abandonar el cigarrillo, visitar a la vieja tía enferma o rebajar el peso corporal.
Se dice: «Año nuevo; vida nueva».
Las fiestas navideñas y de fin de año comienzan con bastante anticipación. Desde que entra diciembre los grandes comercios nos recuerdan, con motivos alegóricos y tímidas rebajas de precio, su cercanía, y la puesta del arbolito, con sus luces y bolas de colores, es una fiesta para la familia. Crece el júbilo y el ritmo laboral decrece. Las enfermedades dan un respiro. O la gente da un respiro a sus enfermedades y, aunque los males sigan ahí, se aplaza hasta enero la visita al médico. Los que muy de tarde en tarde prueban las bebidas alcohólicas, no vacilan entonces,  por aquello de que «un día es un día», en darse su trago, y a veces más de uno, y el que mira hacia otro lado para no saludar a nadie, hay que aguantarlo para que no apurruñe entre los brazos al vecino. Llegan las tarjetas de felicitación. Dicen más o menos lo mismo: «Felices fiestas y Próspero año nuevo».
Son las fiestas por el nacimiento del Niño Dios. Pero en Cuba, al igual que sucede en otros muchos países, la celebración se ha desacralizado y esos días pasaron a ser grato motivo de reunión familiar y de reencuentro de amigos, aunque los templos católicos se llenen de feligreses, no siempre devotos, para escuchar la Misa del Gallo, que se oficia a las 11 de la noche del 24 y que ahora puede ser a las nueve o a cualquier otra hora.

Lo que sobró

La cena del día 24, la Nochebuena propiamente dicha, es el centro de la celebración. Ese día —puede ser también el 31— para muchos es importante estrenar una pieza de ropa, sea una chaqueta o un calzoncillo. La familia cubana no tiene, en la ocasión, una hora fija para cenar. Se impone, sí, en la mayoría de la Isla, hacerlo en familia, y se espera tenerla toda a la mesa para empezar a degustar los frijoles negros dormidos y el arroz blanco desgranado y reluciente, la yuca con mojo, el puerco asado o el guanajo relleno o sin rellenar que, junto con los postres caseros, como los buñuelos de navidad, y una amplia gama de dulces en almíbar y turrones españoles, son los platos —también el guineo en salsa negra— que conforman la comilona de la fecha que, en un país sin tradición ni cultura vinícola, se riega por lo general con cerveza helada. No son frecuentes en la Nochebuena cubana el cordero ni los pescados y mariscos, tampoco el bacalao, habituales en otras latitudes.
En una fina evocación de la cocina cubana escribía el poeta Miguel Barnet:
«No escapan a mi memoria las nochebuenas de mi casa marina, con el lechón al pincho, el pavo gigante o el pargo asado a la catalana, todo acompañado de plátano maduro frito, tostones rubicundos o yuca con mojo de ajos».
Sabe el escribidor que en la Cuba de hoy no todos comen siempre lo que quieren.  Pero está convencido de que no hay familia cubana que se acueste sin comer. Por modestos que sean sus recursos, siempre se reserva algo especial o al menos distinto para esa noche.
Decía uno de nuestros grandes costumbristas, que para el cubano promedio no es tan importante lo que llevó a la mesa en la Nochebuena, sino lo que sobró, a fin de poder comentar que hubo tanta comida que en su casa no se hizo necesario cocinar al día siguiente. En realidad, la cubana no suele meterse en la cocina el 25, que es el día de la llamada montería, esto es, de comer lo que quedó  de la noche anterior.
Se quiere un 25 lo más tranquilo posible, ideal para la visita, acabar la botella que quedó mediada de la noche  o para aliviar el ajetreo de jornadas anteriores. Aunque ha ganado espacio en los últimos años la cena del 31, se prefiere una comida ligera en casa para celebrar la fecha en grande en la calle y recibir el año y empezar un nuevo ciclo con el almuerzo del 1ro. de enero.
Tanta proeza metabólica deja, al que más y al que menos, con el aparato digestivo sobresaltado. Queda aún un día más, el de la llegada de los reyes magos, los tres sabios que aparecen en los Salmos y que, como una representación omnisciente de la humanidad toda, rindieron homenaje al niño de Belén.
Con ellos, se acaban las fiestas. Queda en un rincón, nadie sabe por cuántos días más, el arbolito ya oscuro y cada vez más empolvado. Si se montó con la ilusión de los días por venir, quitarlo se convierte en una tortura que se pospone una y otra vez hasta que alguien en la casa se llena de valor y lo desmonta para guardar con cuidado las bolas de colores y las luces que se utilizarán de nuevo al final de ese año.

El muñeco y la maleta

Hay en esto del fin de año costumbres que se mantienen y nuevos usos que pugnan por perpetuarse.
El escribidor, que está ya a las puertas de los 70 años, no recuerda haber visto nunca antes de 1959 salir a nadie, a las 12 de la noche del 31 de diciembre, con una maleta en la mano a fin de darle la vuelta a la manzana. Se trata de una costumbre que ahora se va extendiendo y los que la practican refieren que es la forma de asegurarse un viaje al exterior. O de propiciarlo. Tampoco vio el escribidor quemar un muñeco que simbolizara el año viejo, como se hace hoy en algunas localidades, con el pretexto de eliminar lo malo del período que termina. Un muñeco de trapo que conforman los más jóvenes de la zona y que, con nuevos añadidos,  va engrosando día a día hasta el final. En algunas ciudades, como Remedios, en la región central del país, el 24 de diciembre es la fecha de la celebración de sus célebres Parrandas. Los remedianos entonces cenan temprano para estar en la plaza central cuando se inicie una fiesta en que «carmelitas» y «sansaríes» discutirán el triunfo a cohetazo limpio.
Cuando yo era niño, el lechón, que era como le llamábamos, o, en su defecto, el pernilito, se asaba en la panadería. Llegado el 24, la familia sacaba del cuarto de los trastos la tártara o  plancha, guardada desde el año anterior, que el panadero metería en el horno y que, ya asado el animal o su pata, oficiaba como una especie de parihuela para trasladarlo a la casa. La cosa se ponía fea cuando el reloj empezaba a correr, llegaban las ocho o las nueve de la noche, la ansiedad comenzaba a hacer estragos y el lechón no regresaba de la panadería, aunque desde temprano en la mañana se había solicitado el servicio. Y es que debía esperar su turno.  De aquella época vienen a la memoria del escribidor los nombres de algunas panaderías, todas en el reparto Lawton: El Buen Gusto, en Concepción esquina a Armas; San Francisco, en la calle del  mismo nombre entre Delicias y Diez de Octubre;  La Princesa, en 16 esquina a Concepción y El Bombero, en Porvenir esquina a B, que es, creo, el único de estos cuatro establecimientos que permanece abierto.
Tanto si se asaba en la panadería o en la casa, el proceso tenía sus complejidades. Se mataba el animal el día antes y se recogía la sangre para las morcillas. Se le echaba  agua hirviendo, y se frotaba con un ladrillo para sacarle la piel y blanquearlo. Se afeitaba y enjuagaba.
Se abría y se extraían las vísceras. Se enjuagaba entonces por dentro y se colgaba para que escurriera. Se adobaba por la noche y al día siguiente se escurría ese adobo y se ponía el cerdo en la parrilla. Si se había decidido asarlo en la casa una opción era de la abrir en la tierra un hueco de medio metro cuadrado, abastecerlo de carbón o leña suficiente, y colocar la parrilla sobre cuatro estacas. El asado se alejaba de la candela a medida que el animal se cocinaba. Mientras el puerco se asaba, las vísceras fritas, que era  lo primero que se comía, acompañaban el ron o la cerveza. Todo eso era parte del folclor.

Aguinaldo

Se aproximaban las fiestas de fin de año y los recogedores de basura y los que barrían la calle tocaban a las puertas de las casas para felicitar a las familias. Las habían servido durante los meses precedentes  y con su saludo sugerían una pequeña recompensa, el llamado «aguinaldo». La sugería también el cartero, que dejaba, al igual que los otros, una pequeña tarjeta con un mensaje amable y esperanzador. Todo a cambio de la clásica peseta; los 20 centavos que era lo que por lo general se obsequiaba. Llegada la fecha, el bodeguero recompensaba a sus clientes: una lata de dulces en almíbar, un turrón o una botella de ron o de vino, una dádiva que estaba en proporción con el gasto en que el cliente hubiera incurrido durante el año y que aseguraba que el sujeto siguiera haciendo allí sus compras.
Entonces, todavía no éramos usuarios.
Todavía hasta los primeros años de la Revolución se anunciaba en la prensa el saludo del cuerpo diplomático acreditado al Presidente de la República y el coctel con que el mandatario correspondía al saludo  el día primero del año en el Salón de los Espejos de Palacio. El 31 de diciembre de 1966 se celebró el aniversario del triunfo de 1959 con una cena gigante en la Plaza de la Revolución, a la que asistieron los principales dirigentes y funcionarios del Estado.

El cubo

Una tradición que ha resistido todas las épocas es la del cubo. Cuando el reloj va a marcar las 12 del día 31, tiene ya el cubano preparado detrás de la puerta un cubo lleno de  agua que lanza a la calle con la duodécima campanada, con la esperanza de que se lleve todo lo malo y que, por bueno que fuera el año que se va, sea mejor el que llega.
Están las 12 uvas y la copa de champán o de sidra, una tradición que ha vuelto. Pero nunca antes que el cubo que se lanza a la calle con alegría y esperanza.
Hemos tenido fines de año mejores que otros. El 31 de diciembre de
1898 cesó en Cuba la soberanía española. La nueva situación provocó sentimientos encontrados en el cubano de a pie. Unos lloraban, otros reían, escribía el cronista Federico Villoch. Era una conmoción nerviosa difícil de contener. No se luchó durante tantos años para que al final fuera la bandera norteamericana la que tremolara en la Plaza de Armas y en el Morro. Pero la salida de España, luego de 400 años de dominación, ocasionaba alivio y alegría.
Sesenta y un  años después, el agua del  cubo del fin de año de 1958 arrastraba a Batista y a su camarilla. Y a todo un régimen social. Por primera vez en la historia la frase «Año nuevo; vida nueva» empezaba a ser una realidad para los cubanos.

Ciro Bianchi Ross


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