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martedì 15 dicembre 2015

La porta segreta di Batista, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 13/12/15

Nella storia di Cuba non manca una porta segreta quando non appare un tunnel o un passaggio mimetizzato da un armadio. Sembra che abbiamo visto troppe pellicole, come quelle di Zorro nelle quali, il soggetto col suo abito di tutti i giorni, si infilava in un camino e riappariva a cavallo e mascherato, da una cascata che riusciva ad attraversare senza che l’acqua gli bagnasse nemmeno il cappello. Zorro “mascherato e fuggiasco” come si diceva in quella serie di avventure delle sette e mezza di sera e che andavano in onda in diretta, con Julito Martínez e Jorge Sosías, ai tempi in cui la televisione era un cassone di legno.
Si parla di un tunnell che allaccia l’antico Palazo Presidenziale – oggi Museo della Rivoluzione – col Capitolio. Di quello che unisce la residenza dell’ex presidente Ramón Grau San Martín, nella quinta Avenida tra 12 e 14 a Miramar, con una casa della calle Tercera.
Del corridoio sotterraneo che porta dalla casa di Orestes Ferrara – attuale Museo Napoleonico – in San Miguel e Ronda, fino alla costa. Del passaggio segreto che corre tra il castello di Averhoff a Mantilla e il vecchio castello di Atarés, all’altro lato della città!
Se si visita Kuquine, la tenuta di riposo di Fulgencio Batista, qualcuno parlerà del passaggio sotto terra che unisce la casa del suddetto con la residenza del generale Roberto Fernández Miranda, cognatissimo del dittatore, a un kilometro di distanza dalla tenuta medesima. E non mancherà la menzione di un altro tunnel che se esistesse, sarebbe il più spettacolare dell’epoca: quello che unisce Kuquine con la città militare di Columbia, a circa 15 km. di distanza.
Il curioso di tutto ciò è che c’è sempre qualcuno che assicura di aver visto questi corridoi e di averci camminato, ma non danno mai l’ubicazione esatta della casa dove sbocca il tunnel di Grau né la parte della costa dove si apre quello di Ferrara. Non spiegano nemmeno il senso che avrebbe un passaggio segreto tra il Palazzo Presidenziale e il Capitolio né se Batista, da Kuquine, avrebbe percorso il tratto che lo separava dal campo di Columbia a piedi, cavallo o in bicicletta. Su ciò ci sono confessioni patetiche, come di quella persona che garantì allo scriba di aver scoperto il tunnel di Ferrara solo nel comprovare che un cancello con grosse sbarre di ferro lo chiudeva sotto l’intersezione di Infanta e San Lázaro. Se questo era certo, come sapeva che arrivava alla costa?
Si è parlato molto di questi tunnel. Ma niente ha fatto correre l’immaginazione come la cosiddetta porta segreta di Batista.

L’oroscopo dell’anno

Il mercoledì 13 marzo del 1957, un commando del Directorio Revolucionario assalì il Palazzo Presidenziale con l’intenzione di giustiziare il dittatore Fulgencio Batista. Diversi di questi giovani salirono al secondo piano e penetrarono nello studio ufficiale del presidente, ma l’ufficio era deserto. Si parlò in seguito di una porta segreta che si apriva in una scala che conduceva alle stanze private di Batista, al terzo piano. Fu questa porta che si trova nel breve corridoio che unisce lo studio col salone di riunione del Consiglio dei Ministri e che era allora nascosta da una tenda di velluto rosso, quella che permise al dittatore, dissero gli assaltanti, di fuggire miracolosamente. Aggiunsero che pur sapendo di un passaggio segreto, non poterono trovarlo e che il medesimo non era riportato nei disegni del Palazzo che avevano potuto reperire.
L’etnologa Natalia Bolívar, studiosa di religioni di origine africana, assicura che la fuga di Batista quel 13 di marzo, si relaziona con la cerimonia che nella santeria si conosce come “l’oroscopo dell’anno”, nella quale un gruppo di babalaos predice i fatti a venire e l’orisha che governerà in quel periodo. Natalia precisa che il segno reggente nel 1957 era Obbara Meyi che indica che il re deve cercare costantemente un’uscita, un’uscita segreta. Fu allora, ribadisce Natalia che Batista fece costruire non uno, ma tre passaggi segreti. Quello del Palazzo; quello di Kuquine e un’altro nella casa presidenziale di Columbia.
Victor Betancourt, altro studioso di religioni afrocubane, non è d’accordo con la famosa autrice di Los orishas en Cuba  e afferma che l’oroscopo vigente quell’anno era Odí Iká, segno che allude a un governante che sarà attaccato ddai suoi nemici.
Natalia menziona il foglietto intitolato Los babalaos tenían razón pubblicato, secondo lei,dalla rivista Bohemia in quella data e nella quale si appoggia la sua versione. Detto opuscolo non appare in nessuna biblioteca cubana né della Florida. Un altro studioso del tema, Abel Sierra Madero, scrive in un articolo che in nessuna delle cronache che si pubblicarono al momento dell’assalto al Palazzo, si fa menzione dell’oroscopo dell’anno e nemmeno della porta segreta.
Quanto era segreta davvero questa porta?

Changò gira le spalle al generale

Si suppone che Batista fece costruire la porta in questione quando, nel gennaio 1957, si fecero conoscere i risultati dell’oroscopo dell’anno e che il 13 marzo successivo fosse già pronta. Il capitano Alfredo J. Sadulé, l’unico dei sei aiutanti presidenziali di Batista che è ancora vivo, in una lunga conversazione che abbiamo avuto a Miami alla fine del 2014 smentì l’esistenza di queste tre porte segrete e negò che quella del palazzo fosse stata costruita da Batista “almeno negli anni ‘50”. Precisò che il dittatore si serviva di questa porta quando voleva entrare o uscire dallo studio senza che lo vedessero, ma che abitualmente usava l’ascensore.
Batista seppe, all’inizio di gennaio delle minacce che gravavano su di lui in quel 1957? Conobbe e prese sul serio le previsioni dei babalaos?
Nella sua infanzia ebbe un’educazione protestante e già nel suo esilio in Spagna, dopo la morte a 19 anni di suo figlio Carlos Manuel, sembrò inclinarsi verso il cattolicesimo. Però si dice, anche se non si è potuto comprovare che ricevette la mano di Orula ed era figlio di Changó.
In una cronaca su Kuquine pubblicata su Bohemia – Edicción de la Libertad – il giornalista insiste nell’affermare che vide nella casa principale della tenuta, altari di santeria con chiocciole, zampe di gallo, e pannocchie di granoturco, ma...nelle sue pagine non c’è una sola foto che avalli l’affermazione.
Sempre su Bohemia, il 24 maggio del 1959, un’altro servizio con il titolo di Io sono stato lo stregone di Batista, firmato da Guillermo Villaronda, rende nota l’esistenza di Chano Betongó, una relazione che se fosse vera, si era tenuta nascosta per diversi anni.
Secondo Villaronda, Batista fu a “consultarsi” con Betongó che risiedeva al Calvario, quando era ancora un oscuro sergente. Il soggetto invocò Changó per predire il futuro del suo cliente Batista avrebbe percorso un cammino lungo e tranquillo, anche se alla fine lo attendeva “un mare immenso, agitato dall’uragano, spesso e rosso”. Era un mare che cominciava in “una riva d’oro” e finiva per unirsi a un cielo di un rosso più vivo di quello del sangue. Batista sarebbe arrivato alla fine di questo cammino, ma dipendeva da lui farlo felicemente. Non doveva nemmeno arrivare alla fine, quando poteva fermarsi all’ombra di un albero e ricevere il saluto affettuoso dei passanti. Poco dopo, Betongó, venne a sapere che quel soggetto dai capelli lisci, pelle da indio e con le narici dilatate era stato protagonista, il 4 settembre del 1933, del colpo di Stato contro il presidente Céspedes.
Batista convocò Betongó a Kuquine, prima delle elezioni generali del 1952. Voleva sapere se avesse conquistato la presidenza della Repubblica. Non coi voti, rispose Betongó, ma qualcosa si poteva realizzare se si sacrificavano un vitello e un cervo. Batista fu d’accordo e nella tenuta si fecero i sacrifici. Ci fu un’altra convocazione. Questa volta Betongó entrò a Palazzo. I venti che guarivano lo spirito di Batista si stavano allontanando, per contrastare le avversità lo stregone sacrificò, nel medesimo studio presidenziale, vari galli neri e un porcellino.  Ciò nonostante non era sufficiente e raccomandò inoltre di prendere la terra delle sei province e quindi di ricoprire galli e galline con molto miele. Disse a Bohemia: “Io volevo rimuovere la coscienza di Changó, ma non fu possibile”. A partire da lì tutto andò crollando. Il dittatore chiamò Betongó dopo le elezioni spurie del 1954. Questa volta la sua sentenza fu lapidaria. Le strade di batista erano chiuse “vicino al mare dalle acque rosse” una mare che finirebbe inghiottendolo. Non c’era già salvezza possibile. Disse Betongó: “Changó girava le spalle al generale”.
Elogiato da Juan Ramón Jiménez e da Pablo Neruda, Guillermo Villaronda era un poeta, il suo libro Hontanar meritò il Premio Nazionale di Poesia nel 1937. La cronaca citata, a giudizio dello scriba, ha più della poesia che della realtà. Accettiamo che un intervistatore colorisca in qualche modo il linguaggio del suo intervistato, ma il linguaggio di Betongó non è quello di un letterato, cosa che mette in crisi la credibilità del testo di Villaronda, a parte che sacrificare un porcellino nello studio ufficiale dei presidenti cubani è qualcosa di inconcepibile. Per fortuna, allora, non si parlava ancora della porta segreta, se no Betongó avrebbe avuto qualcosa da dire al rispetto. Alcuni anni or sono ho cercato di rintracciare Chano Betongó al Calvario; non lo conosceva nessuno.
Non se lo ricorda nemmeno il capitano Sadulé. Mentre pranzavamo, invitati da Max Lesnik, presidente dell’Alleanza Martiana, nel miglior ristorante di cucina spagnola di Miami, l’aiutante presidenziale negava con enfasi qualunque relazione di Batista con le religioni di origine africana. “Marta, sua moglie ne aveva terrore”, disse mentre degustava un piatto di riso nero. Rivela peraltro che nel 1954 alla vigilia delle elezioni, il dittatore consultò uno spiritista. Poi non tornò a vederlo, ma alla fine del 1956 Sadulé si imbatté casualmente con lui. Gli disse che presentiva che il palazzo sarebbe stato assaltato e che per 13 pesos avrebbe fatto un amuleto a lui e a suo padre, membro della scorta di Batista. Sadulé chiese a suo padre se dovevano dirlo al presidente, ma accordarono di non farlo.
Sierra Madero dice, anche se non ha potuto confermarlo che il “padrino” di Batista fu Bernardo Rojas, sacerdote di Ifá molto rispettato. Aggiunge che fu lui, anche se nemmeno questo ha potuto confermarlo, che fece la previsione dell’assalto al Palazzo. Quel 13 di marzo il dittatore non scappò da una porta segreta. Non  poteva farlo, semplicemente perché non era nello studio ufficiale. Salvo eccezioni, non scendeva al secondo piano prima delle cinque del pomeriggio. Quel giorno, all’ora dell’assalto, si preparava a pranzare al terzo piano con Marta e Andrés Domingo, segretario della Presidenza. Ma esisteva quella porta?
“Oltre mezzo secolo dopo, risulta difficile stabilire con certezza che e quando si costruì la porta, e meno ancora se fu costruita a seguito di qualche previsione religiosa”, scrive Sierra Madero. Indubbiamente la risposta è semplice.
Questa porta non ebbe mai niente di segreto. Era lì fin dalla costruzione del Palazzo Presidenziale e nella stessa posizione, si ripete al primo piano dell’edificio. La usò Batista così come la usarono i suoi predecessori dal presidente Menocal e continuarono ad usarla quelli che gli succedettero.



La puerta secreta de Batista
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
12 de Diciembre del 2015 21:43:18 CDT

En la historia de Cuba no falta una puerta secreta cuando no aparece un túnel o pasadizo disimulado por un escaparate. Parece que hemos visto demasiadas películas, como aquellas del Zorro en las que el sujeto, con su atuendo de calle, se escabullía por una chimenea y reaparecía, a caballo y disfrazado, por una cascada que lograba atravesar sin que el agua le mojara siquiera el sombrero. El Zorro «enmascarado y fugitivo», como se decía en aquellas Aventuras de las siete y treinta de la tarde, que salían al aire en vivo, con Julito Martínez y Jorge Sosías, en tiempos en que la TV era de palo.
Se habla del túnel  que enlaza el antiguo Palacio Presidencial —hoy Museo de la Revolución— con el Capitolio. Del que conecta la residencia del ex presidente Ramón Grau San Martín, en Quinta Avenida entre 12 y 14, en Miramar, con una casa de la calle Tercera. Del corredor subterráneo que lleva desde la casa de Orestes Ferrara —actual Museo Napoleónico—, en San Miguel y Ronda, a la costa. Del pasadizo que corre entre el castillo de Averhoff, en Mantilla, y el viejo castillo de Atarés, ¡al otro lado de la ciudad!
Si se visita Kuquine, la finca de descanso de Fulgencio Batista, alguien le hablará del paso bajo tierra que une la casa de vivienda del predio con la residencia del general Roberto Fernández Miranda, cuñadísimo del dictador, a un kilómetro de distancia en la propia finca. Y no faltará la mención de otro túnel que, de existir, sería el más espectacular de la época: el que conecta Kuquine con la Cuidad Militar de Columbia, a unos 15 kilómetros de distancia.
Lo curioso de todo esto es que siempre hay alguien que asegura haber visto esos corredores y haber caminado por ellos, pero nunca dejan claro la ubicación exacta de la casa donde desemboca el túnel de Grau ni el lugar de la costa donde se abre el de Ferrara. Tampoco explican el sentido que tendría un paso secreto entre el Palacio Presidencial y el Capitolio ni si Batista, desde Kuquine, recorrería el tramo que lo separaba del campamento de Columbia a pie, a caballo o bicicleta. Hay en esto confesiones patéticas, como la de la persona que aseguró al escribidor haber descubierto el túnel de Ferrara solo para comprobar que una reja de gruesos barrotes lo cerraba bajo la intersección de Infanta y San Lázaro. Si eso era así, ¿cómo supo entonces que llegaba a la costa?
Mucho se ha hablado sobre esos túneles. Pero nada ha hecho correr tanto la imaginación  como la llamada puerta secreta de Batista.

La letra del año

El miércoles 13 de marzo de 1957, un comando del Directorio Revolucionario asaltó el Palacio Presidencial con la intención de ajusticiar al dictador Fulgencio Batista. Varios de esos jóvenes subieron al segundo piso y penetraron en el despacho oficial del mandatario, pero la oficina estaba desierta. Se habló después de una puerta secreta que se abría a una escalera que conducía a las habitaciones privadas de Batista, en la tercera planta. Fue esa puerta, que se halla en el breve pasillo que une el despacho con el salón de reuniones del Consejo de Ministros, y que estaba entonces disimulada por una cortina de terciopelo rojo, la que permitió al dictador, dijeron los asaltantes,  escapar milagrosamente. Añadieron que aunque sabían de un pasadizo secreto, no pudieron hallarlo y que el mismo no aparecía reflejado en los planos del Palacio que habían podido allegar.
La etnóloga Natalia Bolívar, estudiosa de las religiones de origen africano, asegura que la huida de Batista aquel 13 de marzo se relaciona con la ceremonia que en la santería se conoce como «la letra del año», en la que un grupo de babalaos predice los sucesos venideros  y el orisha que gobernará  en el período. Precisa Natalia que el signo regente  en 1957 fue Obbara Meyi, que indica que el Rey debe buscar constantemente una salida, una salida oculta. Fue entonces, recalca Natalia, que Batista hizo construir no uno, sino tres escapes secretos. El de Palacio; el de Kuquine y otro más en la casa presidencial de Columbia.
Víctor Betancourt, otro estudioso de las religiones afrocubanas, no coincide con la célebre autora de Los orishas en Cuba y afirma que la letra vigente en ese año fue Odí Iká, signo que alude a un gobernante que será atacado por sus enemigos.
Natalia menciona el folleto titulado Los babalaos tenían razón, publicado, según ella, por la revista Bohemia en esa fecha y en el que apoya su versión. Dicho opúsculo no aparece en ninguna biblioteca cubana ni de Florida. Otro estudioso del tema, Abel Sierra Madero, escribe en un artículo que en ninguno de los reportajes que en su momento se publicaron sobre el asalto a Palacio se menciona la letra del año ni tampoco la puerta secreta.
¿Cuán secreta era en verdad esa puerta?

Changó da la espalda al general

Se ha sugerido que Batista mandó a construir la puerta en cuestión cuando en enero de 1957 se dieron a conocer los resultados de la letra del año y que ya estaba lista el 13 de marzo siguiente. El capitán Alfredo J. Sadulé, el único de los seis ayudantes presidenciales de Batista que aún vive, en una larga conversación que sostuvimos en Miami a fines del año 2014 desmintió la existencia de esas tres salidas secretas y negó que la de Palacio fuese construida por Batista «al menos en los años 50». Precisó que el dictador se valía de  esa puerta cuando quería entrar o salir del despacho sin que lo vieran, pero que usualmente utilizaba el ascensor.
¿Supo Batista, a inicios de enero, de las amenazas que lo asechaban en aquel 1957? ¿Conoció y tomó en serio las predicciones de los babalaos?
Tuvo en su infancia una formación protestante, y ya en su exilio en España, luego de la muerte, con 19 años, de su hijo Carlos Manuel, pareció inclinarse hacia el catolicismo. Pero se dice, aunque no ha podido comprobarse, que recibió la mano de Orula y era hijo de Changó.
En un reportaje gráfico sobre Kuquine publicado en Bohemia —Edición de la Libertad— el periodista insiste en afirmar que vio en la casa de vivienda de la finca altares de santería con caracoles, patas de gallo y mazorcas de maíz… pero no hay en sus páginas una sola foto que avale la afirmación.
También en Bohemia, el 24 de  mayo de 1959 otro reportaje bajo el título de Yo fui el brujo de Batista y firmado por Guillermo Villaronda, da cuenta de la existencia de Chano Betongó, una relación que, de ser cierta, se había mantenido oculta durante años.
Según Villaronda, Batista fue a «consultarse» con Betongó, que residía en el Calvario, cuando era todavía un oscuro sargento. El sujeto invocó a Changó para predecir el futuro de su cliente. Batista recorrería un camino largo y plácido, aunque al final lo esperaba «un mar inmenso, agitado por el huracán, espeso y rojo». Era un mar que empezaba en «una orilla de oro» y terminaba junto a un cielo de un rojo más vivo que el de la sangre. Batista llegaría al final de ese camino, pero de él dependía hacerlo felizmente. Tampoco tenía porqué llegar al final cuando podía detenerse y a la sombra de un árbol recibir el saludo afectuoso de los caminantes. Poco después, Betongó se enteraba que aquel sujeto de pelo lacio y tez aindiada, que no se había relajado durante la «consulta» y que lo escuchó con las aletas de la nariz dilatadas, había protagonizado, el 4 de septiembre de 1933, el golpe de Estado contra el presidente Céspedes.
Batista llamó a Betongó a Kuquine antes de las elecciones generales de 1952. Quería saber si ganaría la presidencia de la República. No por votos, respondió Betongó, pero algo podría lograrse si se sacrificaban un novillo y un venado. Batista estuvo de acuerdo y los sacrificios se hicieron en la finca. Hubo otro llamado. Esta vez Betongó entró en Palacio. Los vientos que sanaban el espíritu de Batista iban alejándose, y, para contrarrestar las adversidades, el brujo sacrificó, en el propio despacho presidencial, varios gallos negros y un becerro. Con todo, no era suficiente y recomendó además tomar tierra de las seis provincias  de entonces y ofrendar gallos y gallinas con mucha miel. Dijo a Bohemia: «Yo quería remover la conciencia de Changó, pero no fue posible». A partir de ahí todo fue cuesta abajo. El dictador llamó a Betongó luego de la elecciones espurias de 1954. Esta vez su sentencia fue lapidaria. Los caminos de Batista estaban cerrados «junto al mar de agua roja», un mar que terminaría tragándoselo. Ya no había salvación posible. Decía Betongó:
«Changó le daba la espalda al General».
Elogiado por Juan Ramón Jiménez y por Pablo Neruda, Guillermo Villaronda era un poeta, Su libro Hontanar mereció Premio Nacional de Poesía en 1937. El  reportaje citado, a juicio del escribidor, tiene más de poesía que de realidad. Aceptemos que un entrevistador matice de alguna manera el lenguaje de su entrevistado. Pero el lenguaje de Betongó no es el de un mayombero, lo que pone en crisis la credibilidad del texto de Villaronda, aparte de que sacrificar un becerro  en el despacho oficial de los presidentes cubanos, es algo inconcebible. Por suerte, no se hablaba entonces de la puerta secreta, si no Betongó hubiera tenido algo que decir al respecto. Hace unos diez años traté de rastrear la huella de Chano Betongó en el Calvario; nadie lo conocía.
Tampoco lo recuerda el capitán Sadulé. Mientras almorzamos, invitados por Max Lesnik, presidente de la Alianza Martiana,  en el mejor restaurante de cocina española de Miami, el ayudante presidencial niega con énfasis cualquier relación de Batista con religiones de origen africano. «Marta, su esposa, le tenía terror a eso», dice mientras degusta un plato de arroz negro. Revela, sin embargo, que en 1954, en vísperas de los comicios, el dictador consultó a un espiritista. Luego no lo volvió a ver, pero a fines de 1956 Sadulé se lo tropezó de manera casual. Le dijo que presentía que Palacio sería asaltado y que por 13 pesos le haría un amuleto a él y a su padre, miembro de la escolta de Batista. Sadulé preguntó a su padre si se lo decían al Presidente, y acordaron no hacerlo.
Dice Sierra Madero, aunque no pudo confirmarlo, que el «padrino» de Batista fue Bernardo Rojas, sacerdote de Ifá muy respetado. Añade que fue él, aunque tampoco pudo confirmarlo, quien hizo la predicción del asalto a Palacio. Aquel 13 de marzo de 1957 el dictador no escapó por una puerta secreta. No podía hacerlo sencillamente porque no estaba en el despacho oficial. Salvo excepciones, no bajaba al segundo piso antes de las cinco de la tarde. Aquel día, a la hora del asalto, se disponía a almorzar en la tercera planta con Marta y Andrés Domingo, secretario de la Presidencia. Pero ¿existía esa puerta?
«Más de medio siglo después, resulta difícil establecer con certeza quién y cuándo se construyó la puerta, mucho menos si fue construida a raíz de alguna predicción religiosa», escribe Sierra Madero. Sin embargo, la respuesta es simple.
Esa puerta no tuvo nunca nada de secreta. Estuvo allí desde la construcción del Palacio Presidencial, y, con idéntica posición, se repite en el primer piso del edificio. La usó Batista así como la usaron sus antecesores desde el presidente Menocal y siguieron usándola los que le sucedieron.

Ciro Bianchi Ross






















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