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giovedì 10 marzo 2016
martedì 8 marzo 2016
Arrivano i Rolling Stone
Fervono i lavori per preparare lo scenario in cui si esibiranno i mitici rockers inglesi il prossimo 25 marzo. Gli ampi spazi aperti della Città Sportiva che consentono un capienza di circa 400.000 persone, sono invasi da materiali e lavoratori provenienti da diversi Paesi che stanno montando lo scenario in cui si muoveranno, è proprio il caso di dirlo nonostante la non più verde età, quelli che furono i "rivali" dei Beatles negli anni della moda del Rock nd' Roll, ma anche dopo, come dimostra questo concerto che chiude una tournée in America Latina, della band.
L'ampiezza del palco sarà di 80 metri per oltre 20 di profondità e altrettanti di altezza della scenografia.
L'ingresso al pubblico sarà completamente libero e si prevede che assistano anche spettatori che vengono appositamente dall'estero per assistere a questa occasione storica nella musica internazionale.
lunedì 7 marzo 2016
Il Tempietto, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 6/3/16
La ceiba (sorta di quercia tropicale,n.d.t) del Tempietto è diventata
secca. Per motivi che gli specialisti finiranno per spiegare, l’albero al quale
si formulava un desiderio mentre gli si facevano tre giri attorno e che fu
seminato nel 1959, non c’è più e sarà sostituito da un altro. Sotto una pianta
della stessa specie si celebrò il 16 novembre del 1519, secondo la tradizione,
la prima messa e la prima assemblea quando, in quella data, L’Avana si stabilì
nel luogo che occupa da allora.
La ceiba originale che sul lato nord est di quella che sarebbe stata
la Plaza de Armas, vide prostrati sotto la sua ombra quei valorosi
colonizzatori e che fu per decenni l’unico testimone di un fatto storico, ma
anche religioso e poetico, dovette essere sostituita col passare del tempo.
Quando nel 1754, Francisco Cagigal de la Vega, Governatore Generale dell’Isola,
fece erigere lì una colonna commemorativa, la ceiba originale già non esisteva. Tra il 1755 e il 1757 si
seminarono tre ceibas al posto della
primogenita. Di esse, due si rinsecchirono dopo poco tempo e la terza
sopravvisse fino al 1827, quando la mano dell’uomo la fece sparire per
facilitare la costruzione del Tempietto. Tre ceibas nuove si seminarono l’anno seguente e di esse solo una fece
le radici e sembra che durò fino al 1959. Altre due si piantarono nel 1873 e
morirono dieci anni dopo.
Detieni
il passo viandante
La memoria di quella prima
messa e quella prima assemblea celebrati sotto la ceiba sarebbe forse sparita se Cagigal de la Vega, nel 1754, non si
fosse occupato di raccogliere e perpetuare in maniera ostensibile la
tradizione. “L’iniziativa di quel governante fu rivolta al futuro”, scrive lo
storico Emeterio Santovenia. “Grazie a lei passò ai posteri una versione che in
altro modo poteva sperimentare trasformazioni o estinguersi per opera del tempo”,
aggiunge.
La già citata colonna
commemorativa del governatore Cagigal consta di tre facce, le tre province in
cui si divideva allora la colonia e portava, alla sommità, un’immagine della
Vergine del Pilár. Su di essa si leggevano due iscrizioni allusive. Una scritta
in latino e l’altra in castigliano antico. Questa diceva:
“Fondossi la villa (oggi
città) dell’Avana nell’anno 1515 e al trasferirsi dalla sua primitiva sede alla
riva di questo porto, nel 1519, è tradizione che in questo sito si trovò una
frondosa ceiba sotto la quale si
celebrò la prima messa e assemblea: rimase fino al 1753 quando si sterilizzò. E
per perpetuarne la memoria, governando le Spagne il nostro cattolico Monarca il
Signor Don Fernando VI, mandò ad erigere questo padrone il Signor Maresciallo
di Campo Don Francisco Cagigal de la Vega, dell’Ordine di Santiago, Governatore
e Capitano Generale di quest’Isola, essendo Procuratore Generale Dottor Don
Manuel Phelipe de Arango. Anno del 1754”.
La primitiva iscrizione
latina fu sostituita nel 1903, nel restaurare la colonna, con un’altra il cui
testo latino è una versione dell’antico. La fece il dottor Juan M. Dihigo,
all’epoca professore di latino dell’università dell’Avana, l’unica sede di alti
studi che esisteva allora a Cuba, detto giusto per saperlo diceva:
“Detieni il passo,
viandante; adorna questo sito un albero, una ceiba frondosa, dirò meglio segno memorabile della prudenza e
antica religione della giovane città (...) Fu tenuta per la prima volta la
riunione dei prudenti consiglieri già da oltre due secoli: era conservata per
una tradizione perpetua; indubbiamente cedette al tempo. Ebbene guarda e che
non muoia nel futuro la fede avanera. Vedrai un’immagine fatta con la pietra
oggi, vale a dire l’ultimo di novembre del 1754”.
Nella prima faccia del
triangolo della colonna che guarda al Nascente, c’è un rilievo del tronco di
quella che si ritiene sia la prima ceiba.
Appare coi rami tagliati, come se fosse carente di fogliame, come se fosse
secca.
Col tempo la colonna andò
sciupandosi. Si deteriorò, disgraziatamente, questo semplice monumento che
quasi rimaneva nascosto dai chioschi e bancarelle dei venditori di tutti i tipi
di generi che si installavano nella sua vicinanza.
Le
opere
Questo spinse don Francisco
Dionisio Vives y Planes, Conte di Cuba, governatore e Capitano Generale
dell’Isola a restaurare la colonna e inoltre a erigere un’altro monumento
maggiore. Fu un criterio suo e del municipio avanero quello di realizzare
un’opera durevole che fosse, non solo degna dei fatti che volevano perpetuarsi,
ma anche dell’importanza che andava prendendo la città. Nella sessione del 15
giugno del 1827, il sindaco-presidente del municipio sottolineò la necessità di
curare la conservazione della colonna di Cagigal e il corpo municipale,
cosciente del dovere in cui si trovava rispetto a quel punto, accordò di
restaurarla e sgombrare dai suoi dintorni le bancarelle e i chioschi che
deturpavano il luogo.
Prese corpo, quindi, l’idea
di un monumento di maggiori dimensioni e nel proprio anno 1827 si mise mano
all’opera che da allora ricevette il nome di Tempietto. Vives ordinò ad Antonio
María de la Torre y Cárdenas, suo segretario politico che si occupasse di tutto
ciò che fosse concernente ai piani e del lavori necessari, cosa in cui ebbe la
collaborazione di José Rodríguez Cabrera, reggente del municipio. Dovette
metterci molto interesse nel concludere l’opera, nel giro di pochi mesi fu
pronto l’edificio, mentre la colonna veniva collocata su quattro basi circolari
di pietra e si sostituí l’immagine della vergine del Pilar che la rifiniva con
un’altra, dorata a fuoco, di circa ottanta centimetri di altezza.
Con motivo della costruzione
del Tempietto, il vescovo Juan José Díaz de Espada fece erigere, a spese sue,
molto vicino all’edificio, un busto di marmo con piedestallo, dell’ammiraglio
Cristoforo Colombo, un’opera di autore sconosciuto e povera di esecuzione che
si conserva ancora. Dentro al recinto chiuso dalle sbarre che circondano il
Tempietto rimasero con questo busto, la ceiba
e la colonna di Cagigal.
Evidentemente
neoclassico
Il Tempietto è il più
piccolo e meno vistoso degli edifici che circondano la Plaza de Armas. È, senza
dubbio, la prima opera civile di carattere evidentemente neoclassico con cui
contò l’Avana. Si alza di fronte al Palazzo dei Capitani Generali –attuale
Museo della Città- e alla sinistra del Palazzo dei Conti Santovenia, dove
funziona l’hotel Santa Isabel. Misura circa otto metri di fronte e circa sei
metri e mezzo nei due lati, mentre la sua altezza è di circa otto metri. È di
stile greco ed è composto da un’architrave con sei colonne di capitelli dorici,
basamenti attici e altri quattro pilastri sui fianchi con altri ornamenti. Una
lapide rende conto della sua inagurazione. Dice:
“Regnando il signor don
Fernando VII, essendo presidente e governatore don Francisco Dionisio Vives, la
fedelissima Avana, religiosa e pacifica, eresse questo semplice monumento
adornando il luogo dove nell’anno 1519 si celebrarono la prima messa e
assemblea. Il vescovo don Juan José Díaz de Espada solennizzò il medesimo
augusto sacrificio il giorno diciannove di marzo del mille ottocento ventotto”.
Il Tempietto che questo mese
compie 188 anni dalla sua edificazione, è uno dei monumenti più visitati da
cubani e stranieri. Sembra sia stato sempre così. Lo scrittore galiziano
Jacinto Salas y Quiroga diceva nel 1840, nel suo libro di viaggio che si
trattava di “uno dei monumenti che il viaggiatore più desidera visitare
all’Avana, per poco che ami i ricordi storici”. A partire da lì si estende
nella descrizione dell’edificio e dei quadri di carattere storico che
tesaurizza. Dice: “Era giusto scendere a tanti dettagli perché questo é l’unico
monumento che ricordi fatti antichi, nell’opulenta città dell’Avana. Invasa, fino
a un certo punto, dal traffico e commercio, ancora instabile nel modo di essere
amministrata, insicura della sua ricchezza e potere, è difficile che si occupi
di altre opere che non siano quelle che le promettono un avvenire felice. Così
che il viaggiatore quì, più che rovine deve cercare semi”.
Solenne
e pomposa
Salas y Quiroga allude alle
tele di Juan Butista Vermay, pittore francese stabilitosi all’Avana, dove morì
a causa della febbre gialla, dopo aver fondato l’Accademia di Pittura di San
Alejandro. Sono opere (un trittico, n.d.t.), sopratutto, di valore storico che
si apprezzano ancora nel Tempietto. Due di esse evocano, con immaginazione, la
celebrazione della prima messa e la prima assemblea; l’altra ricrea la cerimonia inaugurale del monumento in quel
19 marzo 1828. Una cerimonia che la cronaca descrive come solenne e pomposa.
Consistette nella messa che officiò il vescovo Espada con la presenza del
Capitano Generale e le principali autorità civili e militari ed ecclesiastiche,
così come gli abitanti più in vista della città, ebbene il municipio si
incaricò di invitare tutte le corporazioni e persone in vista. Davanti ai
presenti, Espada pronunciò un discorso che lo storico Pezuela qualificò di
erudito. Álvaro de la Iglesia, il celebre autore de Las tradiciones cubanas, nel riferirsi a quest’opera, dice nel suo
libro Cosas de antaño che
all’apertura del Tempietto, Vermay raggiunse tale esattezza nella pittura delle
persone e vestiti che “è una vera e validissima testimonianza storica”.
Poveri e ricchi celebrarono
allo stesso modo l’inaugurazione del Tempietto. Ci fu un’ascensione
aerostatica, la prima che si faceva a Cuba dal 1796 e che apportò
all’aeronauta, giunto da New Orleans, la per niente disprezzabile somma di
15.000 pesos. Ci furono, inoltre, funzioni teatrali, ricevimenti e banchetti
nei palazzi, balli pubblici e privati nei quali si sperperò una fortuna. Dice
Álvaro de la Iglesia che “in fiori, gioielli, banchetti, ostentazione e
allegria il denaro scorse come un fiume in piena e l’Avana sembrava preda della
follia durante dette feste”. Ci fu, per non lasciar perdere, un ballo in una
delle navi della squadra alla fonda nel porto. Una festa per tutti i gusti,
dice de la Iglesia, giacché Vives “prestò grande attenzione a tre basi infallibili
della politica coloniale: ballo, bisca e bottiglia. Popolo che si diverte, non
cospira...”
Il proprio Vives lo dichiara
esplicitamente nel suo rapporto a Madrid: le feste avevano avuto un carattere e
un orientamento apertamente politico, incamminate a distrarre il popolo dalle
lotte emancipatrici che si svolgevano nel continente e per esaltare la pace, la
sicurezza e la prosperità di cui godevano “i fedeli cubani sotto l’impero delle
leggi e del dolce e paterno governo di Sua Maestà”.
El Templete
5 de Marzo del 2016 20:37:56 CDT
Se secó la
ceiba del Templete. Por razones que los especialistas terminarán por explicar,
el árbol al que se le formulaba un deseo mientras se daban tres vueltas a su
alrededor, y que fue sembrado en 1959, ya no está y será sustituido por otro.
Bajo una planta de la misma especie se celebró, el 16 de noviembre de 1519,
según la tradición, la primera misa y el primer cabildo cuando, en esa fecha,
La Habana se asentó en el lugar que ocupa desde entonces.
La ceiba
original que en el lado noroeste de lo que sería la Plaza de Armas vio,
postrados bajo su sombra, a aquellos valerosos colonizadores y que fue durante
décadas testigo único de un hecho histórico y también religioso y poético,
debió ser reemplazada oportunamente a lo largo del tiempo. Cuando en 1754
Francisco Cagigal de la Vega, Gobernador General de la Isla, hizo erigir allí
una columna conmemorativa, ya la ceiba original no existía. Entre 1755 y 1757
tres ceibas se sembraron en lugar de la primigenia. De ellas, dos se secaron al
poco tiempo y la tercera sobrevivió hasta 1827, cuando la mano del hombre la
hizo desaparecer para facilitar la construcción del Templete. Tres nuevas
ceibas se sembraron al año siguiente y de ellas solo arraigó una, que, al
parecer, duró hasta 1959. Dos más se plantaron en 1873 y murieron diez años más
tarde.
Detén el paso, caminante
La memoria de
aquella primera misa y aquel primer cabildo celebrados debajo de la ceiba
hubiese tal vez desaparecido de no haberse ocupado Cagigal de la Vega, en 1754,
de recoger y perpetuar de manera ostensible la tradición. «La iniciativa de
aquel gobernante estuvo fija en el porvenir», escribe el historiador Emeterio
Santovenia. «Gracias a ella pasó a la posteridad una versión que, de otra
manera, pudo experimentar transformaciones o extinguirse por obra del tiempo»,
añade.
La ya aludida
columna conmemorativa del gobernador Cagigal consta de tres caras, las tres
provincias en las que entonces se dividía la colonia, y lucía, en lo alto, una
imagen de la virgen del Pilar. Se leían en ella dos inscripciones alusivas. Una
escrita en latín. La otra en castellano antiguo. Decía esta:
«Fundóse la
villa (hoy ciudad) de La Habana el año de 1515, y al mudarse de su primitivo
asiento a la ribera de este puerto el de 1519, es tradición que en este sitio
se halló una frondosa ceiba bajo de la cual se celebró la primera misa y
cabildo: permaneció hasta el de 1753 que se esterilizó. Y para perpetuar la
memoria, gobernando las Españas nuestro católico Monarca el señor Dn. Fernando
VI, mandó erigir este padrón el señor Mariscal de Campo Dn. Francisco Cagigal
de la Vega, del orden de Santiago, Gobernador y Capitán General de esta Isla,
siendo Procurador General Doctor Dn. Manuel Phelipe de Arango. Año de 1754».
La primitiva
inscripción latina fue sustituida en 1903, al restaurarse la columna por otra
cuyo texto latino es una versión del antiguo. La hizo el doctor Juan M. Dihigo,
a la sazón profesor de latín de la Universidad de La Habana, la única casa de
altos estudios que existía entonces en Cuba, dicho sea de paso. Reza:
«Detén el
paso, caminante; adorna este sitio un árbol, una ceiba frondosa, más bien diré
signo memorable de la prudencia y antigua religión de la joven ciudad (…). Fue
tenida por primera vez la reunión de los prudentes concejales hace ya más de
dos siglos: era conservado por una tradición perpetua; sin embargo cedió al
tiempo. Mira, pues, y no perezca en lo porvenir la fe habanera. Verás una
imagen hecha hoy en la piedra, es decir, el último de noviembre de 1754».
En el primer
frente del triángulo de la columna, que mira al Naciente, hay un relieve del
tronco de la que se supone sea la primera ceiba. Luce con las ramas cortadas,
como si careciera de follaje, como si estuviera seca.
Con el tiempo,
la columna fue desgastándose. Se deterioró lamentablemente ese sencillo
monumento que casi permanecía oculto por las casillas y timbiriches de los
vendedores de todo tipo de artículos que en su cercanía se instalaban.
Las obras
Eso impulsó a
don Francisco Dionisio Vives y Planes, Conde de Cuba, gobernador y Capitán
General de la Isla, a restaurar la columna y a levantar además otro monumento
mayor. Fue criterio suyo y del ayuntamiento habanero realizar una obra durable,
que fuera no solo digna de los hechos que querían perpetuarse, sino también de
la importancia que iba adquiriendo la ciudad. En sesión de 15 de junio de 1827,
el alcalde-presidente del ayuntamiento apuntó la necesidad de atender a la
conservación de la columna de Cagigal y el cuerpo municipal, consciente del
deber en que se hallaba respecto a aquel punto, acordó restaurarla y despejar
sus alrededores de casillas y timbiriches que desdoraban el paraje.
Tomó cuerpo
entonces la idea de un monumento de mayores dimensiones, y en el propio año de
1827 se puso manos a la obra que desde entonces recibió el nombre de Templete.
Vives ordenó a Antonio María de la Torre y Cárdenas, su secretario político,
que se ocupase de todo lo concerniente a los planos y trabajos necesarios, en
lo que contó con la colaboración de José Rodríguez Cabrera, regidor del
ayuntamiento. Debió primar mucho interés en concluir las obras, pues a la
vuelta de pocos meses quedó listo el edificio, en tanto que la columna era
colocada sobre cuatro gradas circulares de piedra y se sustituía la imagen de
la virgen del Pilar que la remataba por otra dorada a fuego, de una vara de
alto.
Con motivo de
la construcción del Templete, el obispo Juan José Díaz de Espada hizo erigir a
sus expensas, muy cerca del edificio, un busto en mármol, con su pedestal, del
almirante Cristóbal Colón, una obra de autor desconocido y pobre ejecución que
aún se conserva. Dentro del recinto cerrado por las verjas que circundan el
Templete quedaron incluidos ese busto, la ceiba y la columna de Cagigal.
Notoriamente neoclásico
El Templete es
el más pequeño y menos vistoso de los edificios que rodean la Plaza de Armas.
Es, sin embargo, la primera obra civil de carácter notoriamente neoclásico con
que contó La Habana. Se alza frente al Palacio de los Capitanes Generales
—actual Museo de la Ciudad— y a la izquierda del Palacio de los Condes de
Santovenia, donde funciona el hotel Santa Isabel. Mide 12 varas de frente y
ocho y media varas por los dos costados, en tanto que su altura es de 11 varas
(una vara equivale a 0.84 metros aproximadamente). Es de estilo griego y está
compuesto de un arquitrabe de seis columnas de capiteles dóricos y zócalos
áticos, y cuatro pilastras más en los costados con otros adornos. Una lápida da
cuenta de su inauguración. Dice:
«Reinando el
señor don Fernando VII, siendo presidente y gobernador don Francisco Dionisio
Vives, la fidelísima Habana, religiosa y pacífica, erigió este sencillo
monumento decorando el sitio donde el año de 1519 se celebró la primera misa y
cabildo. El obispo don Juan José Díaz de Espada solemnizó el mismo augusto
sacrificio el día diez y nueve de marzo de mil ochocientos veinte y ocho».
El Templete,
que cumple este mes 188 años de edificado, es uno de los monumentos más
visitados por cubanos y extranjeros. Parece que así ha sido siempre. El
escritor gallego Jacinto Salas y Quiroga decía en 1840, en su libro de viajes,
que se trataba de «uno de los monumentos que más desea el viajero visitar en La
Habana por poco que ame los recuerdos históricos». A partir de ahí se explaya
en la descripción del edificio y los cuadros de carácter histórico que atesora.
Expresa: «Preciso era descender a tantos detalles porque es este el único
monumento que recuerde antiguos hechos, en la opulenta ciudad de La Habana.
Invadida, hasta cierto punto, por el tráfico y comercio, inestable todavía en
la forma de administración, insegura en su riqueza y poderío, es difícil que se
ocupe en otra especie de obras que aquellas que le prometen un porvenir feliz.
Así que el viajero aquí, más que ruinas, debe buscar gérmenes».
Solemne y pomposa
Salas y
Quiroga alude a los lienzos de Juan Bautista Vermay, pintor francés avecindado
en La Habana, donde murió a causa de la fiebre amarilla, luego de haber fundado
la Academia de pintura de San Alejandro. Son obras, sobre todo, de valor
histórico que todavía se aprecian en el Templete. Dos de ellas evocan, con
imaginación, la celebración de la primera misa y el primer cabildo; la otra
recrea la ceremonia inaugural del monumento aquel, el 19 de marzo de 1828. Una
ceremonia que la crónica describe como solemne y pomposa. Consistió en la misa
que ofició Espada con la asistencia del Capitán General y las principales
autoridades militares, civiles y eclesiásticas, así como los vecinos más
notables de la villa, pues el ayuntamiento se encargó de invitar a todas las
corporaciones y personas distinguidas. Ante los asistentes, Espada pronunció un
discurso que el historiador Pezuela calificó de erudito. Álvaro de la Iglesia,
el célebre autor de las Tradiciones cubanas, al referirse a esa obra, dice en
su libro Cosas de antaño que en la apertura del Templete, Vermay logró tal
exactitud en la pintura de personas y trajes que es «un verdadero y valioso
testimonio histórico».
Pobres y ricos
celebraron por igual la inauguración del Templete. Hubo una ascensión
aerostática, la primera que ocurría en Cuba desde 1796 y que reportó al
aeronauta, que había llegado desde New Orleans, la nada despreciable suma de 15
000 pesos. Hubo, además, funciones teatrales, recepciones y saraos en los
palacios y bailes públicos y privados en los que se derrochó una fortuna. Dice
Álvaro de la Iglesia que «en flores, joyas, banquetes, ostentación y alegría el
dinero corrió como un río desbordado y La Habana pareció presa de la locura
durante dichas fiestas». Hubo, por no dejar de haber, baile en uno de los
navíos de la escuadra surta en puerto. Una fiesta para todos los gustos, dice
De la Iglesia, ya que Vives «prestó gran atención a tres bases infalibles de la
política colonial: baile, baraja y botella. Pueblo que se divierte, no
conspira…».
El propio
Vives lo consigna explícitamente en su informe a Madrid; las fiestas habían
tenido un carácter y una orientación abiertamente políticos, encaminados a
distraer al pueblo de las luchas emancipadoras que se libraban en el continente
y a exaltar la paz, la seguridad y la prosperidad que disfrutaban «los fieles
cubanos bajo el imperio de las leyes y del suave y paternal gobierno de Su
Majestad».
domenica 6 marzo 2016
sabato 5 marzo 2016
venerdì 4 marzo 2016
giovedì 3 marzo 2016
mercoledì 2 marzo 2016
Un presidente nordamericano all'Avana, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventude Rebelde del 28/2/16
Solo un presidente nordamericano è stato all’Avana durante l’esercizio del suo mandato. Nel gennaio 1928, in risposta a un invito del generale Gerardo Machado, presidente della Repubblica di Cuba, giungeva all’Isola Calvin Coolidge, al fine di essere presente all’inaugurazione della Sesta Conferenza Panamericana che quì si sarebbe tenuta.
Il “più ermetico” dei presidenti nordamericani, scrisse nelle sue memorie Orestes Ferrara, ambasciatore cubano a Washington tra il 1926 e il 1932 e lo descrive come “serio, silenzioso e intelligente”.
“Io considero che il successo di questo presidente – scrisse Ferrara – che fu molto grande, nonostante non fosse un politico di livello, ebbe come base il suo equilibrio, la sua mancanza di vanità e il suo poco, o nessun, interesse che lo considerassero un gran personaggio. Era convinto che quanto meno facesse, al potere, fosse meglio e che come contrasto, i famosi redentori di popoli rincorrono la propria gloria. A Coolidge non lo illudeva l’applauso, non si affliggeva per la critica, non lo offendeva il polemista in mala fede. Chiuso in se stesso, sincero nelle sue meditazioni, sperava di servire il Paese come un funzionario che deve evitargli i mali che si presentano e solo quando si presentano”.
In ricevimenti e banchetti vari, si incontrarono diverse volte il Presidente nordamericano e l’Ambasciatore cubano. In un’occasione che lo ricevette nel suo studio alla Casa Bianca, Ferrara fu sorpreso nel vedere la scrivania completamente libera di scartoffie e gli chiese come faceva per ottenerlo. La risposta giunse rapida. Con la sua voce nasale e monotona Coolidge rispose:
- Perché lavoro poco.
Il diplomatico replicò che il presidente Taft che aveva visitato 15 anni prima, nello stesso ufficio, gli confidò che la vita di un presidente nordamericano era un tormento, perché adempiere agli obblighi dell’incarico era sovrumano. Coolidge non rispose. Mantenne un lungo silenzio che non fu sgradevole per l’Ambasciatore, perché il presidente lo guardava sorridendo.
-Chi distribuisce il lavoro del potere esecutivo? – chiese alla fine.
-Il Presidente – rispose Ferrara.
-È quello che faccio io. Divido il lavoro e prendo parte al problema se il gabinetto non si mette d’accordo – disse Coolidge abbassando lo sguardo, gesto che in modo inequivocabile metteva fine a una discussione.
Fuori dal Protocollo
Un giorno, quasi all’alba, squillò il telefono dell’Ambasciatore di Cuba a Washington.
Machado che si alzava sempre alle cinque, voleva comunicare a Ferrara che due giorni dopo sarebbe partito per quella città, con un seguito di otto o dieci persone e chiedeva se poteva alloggiare all’Ambasciata. In caso contrario non ci sarebbero stati problemi; sarebbe andato in un albergo. Ad ogni modo sarebbe rimasto solo due giorni nella capitale nordamericana e avrebbe proseguito verso New York. Machado spiegò che Enoch Crowder, ambasciatore nordamericano all’Avana, lo aveva invitato alla riunione annuale del Gridiron Club. A Ferrara sembrò un’idea poco felice. Era contrario a che un mandatario straniero partecipasse a una riunione come quella e inoltre era fuori dal protocollo che Machado si incontrasse con Coolidge che avrebbe assistito al banchetto, senza averlo visto prima.
Urgeva trovare una via d’uscita. Il Segretario di Stato era malato e Ferrara non volle rivolgersi a la capo del protocollo per timore che la sua decisione sminuisse o annullasse il Capo di Stato cubano. Preferì conversare con il direttore della Sezione Latinoamericana del Dipartimento di Stato. Criticò l’idea che Machado assistesse al banchetto del Gridiron Club, ma caldeggiò il proposito che visitasse Coolidge e lo invitasse alla Conferenza Panamericana dell’Avana.
Il funzionario si mostrò d’accordo con l’ambasciatore e corse a rendere conto del fatto al Segretario di Stato. Solamente un’ora dopo, giunse con l’approvazione del capo del Dipartimento: Machado sarebbe giunto a Washington e avrebbe invitato il Presidente alla riunione. Quello che non si sapeva era se Coolidge avrebbe accettato o no. Questo, al momento, era il meno, mancava ancora quasi un anno per la conferenza dell’Avana. In quanto al banchetto del Gridiron Club, il cui invito aveva accettato, Machado si sarebbe dichiarato ammalato e avrebbe delegato Ferrara a rappresentarlo.
La visita del Presidente cubano a Washington tardò più del previsto, circostanza che Ferrara aprofittò per ultimare con calma e giudiziosamente i preparativi del suo soggiorno. Rimase tre o quattro giorni nella capiatle nordamericana ed alloggiò nell’Ambasciata di Cuba. Ci furono cene e ricevimenti, si distinse fra questi atti il banchetto col quale Coolidge si congratulò col visitatore, alla Casa Bianca. Siccome Machado era arrivato senza sua moglie, corrispose alla signora María Luisa, moglie di Ferrara, sedersi alla destra del Presidente nordamericano. E fu a lei che comunicò che accettava l’invito di visitare l’Avana. Siccome quell’uomo silenzioso e riflessivo si espresse con l’Ambasciatrice nel momento quasi finale della cena, Alice Longworth, figlia dell’ex presidente Teodoro Roosvelt e moglie del Presidente della Camera dei Rappresentanti che occupava la sedia alla sinistra del mandatario, domandò a María Luisa, al di sopra di Coolidge, cosa avesse fatto perché l’uomo parlasse tanto, quando a lei non aveva rivolto una sola parola. Coolidge assistette all’Ambasciata di Cuba alla cena con cui Machado contraccambiava la sua. L’ultimo giorno di soggiorno del cubano a Washington, entrambi i presidenti affrontarono il tema della Conferenza Panamericana. A richiesta di Machado si toccò il tema zuccheriero e della crisi economica che si avvicinava. Anche, si dice, Machado chiese la deroga dell’Emendamento Platt. La stampa riferì, attribuendolo a Machado che la sua conversazione con Coolidge fu quasi completamente sui mutui vantaggi di rettificare l’Emendamento, ma Coolidge disse che non fu quello il tema affrontato nella conversazione.
Ferrara su questo punto si dimostrava ottimista. Dice che gli assicurarono che Coolidge avrebbe derogato l’Emendamento se Cuba riduceva il suo debito pubblico e realizzava le elezioni presidenziali del 1928 senza agitazioni faziose, frodi né violenza. Questa notizia non quadrava con quello che Coolidge disse alla moglie di Ferrara durante la cena alla Casa Bianca: “Se fino adesso vi è andato bene con l’Emendamento Platt, perché sopprimerlo?”.
Si dice che Machado fu a Washington in cerca di appoggio alla sua politica di rielezione e proroga dei poteri, offrendo come garanzia di non pronunciarsi contro l’Emendamento Platt e dare, durante la conferenza, il più servile appoggio alla delegazione nordamericana quando le delegazioni latino americane presenti inalberassero la tesi del non intervento. Nella sua docilità, il Governo Cubano, giunse a negare l’invito al presidente della Lega delle Nazioni e ai rappresentanti del governo spagnolo che chiedevano di partecipare.
Corona di frutta
L’Avana si preparò per la celebrazione della Sesta Conferenza Panamericana. Mesi prima, l’esperto diplomatico Manuel Márquez Sterling, divenuto ambasciatore speciale, visitò tutti i Paesi dell’America Latina ottenendo la presenza dei loro Governi al conclave.
La risposta fu unanime: inviarono tutti la loro rappresentanza all’Isola: mai prima, una riunione di quel tipo aveva avuto tanti paesi partecipanti. Si eresse la Scalinata dell’Università, si terminò il tracciato dell’Avenida de las Misiones e il vecchio Campo di Marte fu trasformato nella Piazza della Fraternità Americana. Nelle radici della ceiba che vi fu trapiantata per l’occasione, si sparse la terra di tutte le repubbliche americane, portata specialmente per i capi di ogni delegazione. Ai capi delegazione fu consegnata una chiave d’oro con cui si apriva il cancello che proteggeva la ceiba. Per certo, la chiave della delegazione del Messico si conserva nel museo della cancelleria di quel Paese.
Uno spettacolo brillante dette inizio alla conferenza al Teatro Nacional e nella sessione di appertura si ascoltarono i discorsi di Machado e Coolidge. La conferenza avrebbe avuto le sessioni all’Università. In quei giorni non si permise l’entrata degli alunni alla casa degli alti studi e oltre 200 lavoratori e studenti che il Governo considerava come indesiderabili o sovversivi vennero messi dietro le sbarre. Il giorno di apertura della riunione – 28 gennaio 1928 – fu dichiarato Festa Nazionale. Nelle giornate finali, il 17 febbraio, Machado invitò i delegati a che lo accompagnassero all’Isola dei Pini al fine di inaugurare la prima galera della cosiddetta Prigione Modello. La riunione si concluse il giorno 20.
Durante i suoi giorni a Cuba, Calvin Coolidge si alloggiò nel Palazzo Presidenziale. Lo si vide molto compiaciuto nel pranzo che Machado offrì in suo onore nella sua tenuta Nenita, sulla strada che va da Santiago de las Vegas a Managua. Il visitatore alterò tutta la disposizione del menù e mangiò abbondantemente frutta cubana che lo deliziò. La moglie di Ferrara, seduta alla sua sinistra e servendogli da interprete, si rese conto della sua curiosità e lo invitò a cominciare dalla frutta, col permesso di Elvira, la moglie di Machado. L’immenso portafrutta andò svuotandosi poco a poco, giacché Machado e gli altri invitati imitarono Coolidge. Il capo della sala da pranzo e i camerieri, portando ogni tipo di piatto squisito, non sapevano cosa fare; il banchetto si poté organizzare solo quando cominciarono a essere servite le estremità della tavola per arrivare poi, lentamente, fino al personaggio del centro. Machado lo omaggiò con una colonna confezionata con metalli che furono parte del monumento al Maine, distrutto dal ciclone del 20 ottobre del 1926.
“Durante la sua permanenza a Cuba, Coolidge non commise un solo errore e compì con buona volontà quanto gli fu indicato da coloro che prepararono il programma per i festeggiamenti che risultavano sempre eccessivi, senza manifestare nessuna contrarietà”. Scrisse Orestes Ferrara nelle sue memorie e aggiunse che quando lasciò l’Avana, cosa che successe molto prima che si concludesse la riunione, il conclave funzionò regolarmente.
Quando, alla viglia della Sesta Conferenza Panamericana, Márquez Sterling si preparava a compiere il suo periplo latino americano, il presidente Machado gli disse: “Márquez, ho bisogno che visiti quei paesi che sono renitenti a prendere parte alla riunione e che ci aiutino a fare dell’Emendamento Platt uno strumento obsoleto”.
Parole vane. Risultò tutto il contrario. Anche se l’agenda della riunione era carica di affari intrascendenti, si apriva il passo al tema del non intervento. Gli Stati Uniti erano intervenuti militarmente in Messico, Santo Domingo, Haiti, Nicaragua...In Brasile nel 1927, la riunione dei Giureconsulti aveva proclamato: “Nessuno Stato può intervenire negli affari interni di un altro”. All’Avana, la maggioranza delle delegazioni non volle opporsi a quello precettato dai Giureconsulti in Brasile. Machado, comunque esagerava con segnali e Ferrara, come
capo della delegazione cubana, dava il “la” nel proclamare cinicamente che Cuba non poteva unirsi al coro generale del non intervento, perché l’intervento aveva significato l’indipendenza per il Paese. Quindi espresse: “la parola intervento, nel mio Paese, è stata parola di gloria, è stata parola d’onore, è stata parola di vittoria; è stata parola di libertà; è stata l’indipendenza”.
capo della delegazione cubana, dava il “la” nel proclamare cinicamente che Cuba non poteva unirsi al coro generale del non intervento, perché l’intervento aveva significato l’indipendenza per il Paese. Quindi espresse: “la parola intervento, nel mio Paese, è stata parola di gloria, è stata parola d’onore, è stata parola di vittoria; è stata parola di libertà; è stata l’indipendenza”.
Il tema sarebbe stato definitivamente rinviato alla Settima Conferenza Panamericana da celebrarsi a Montevideo, nel 1934.
Un presidente norteamericano en La Habana
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
27 de Febrero del 2016 21:04:31 CDT
Solo un presidente norteamericano estuvo en La Habana durante el ejercicio de su cargo. En enero de 1928, en respuesta a una invitación del general Gerardo Machado, presidente de la República de Cuba, arribaba a la Isla Calvin Coolidge, a fin de estar presente en la inauguración de la Sexta Conferencia Panamericana que aquí tendría lugar.
Era «el más hermético» de los mandatarios norteamericanos, escribió en sus memorias Orestes Ferrara, embajador cubano en Washington entre 1926 y 1932, y lo describe como «serio, silencioso e inteligente».
«Yo considero que el éxito de ese Presidente —apuntó Ferrara—, que fue muy grande a pesar de no ser él un político de envergadura, tuvo como base su equilibrio, su falta de vanidad y su poco o ningún deseo de que lo considerasen un gran personaje. Estaba convencido de que cuanto menos hacía en el poder era mejor, y que por contraste los famosos redentores de pueblos corren detrás de su propia gloria. A Coolidge no le halagaba el aplauso, no le afligía la crítica, no le mortificaba el polemista de mala fe. Encerrado en sí mismo, sincero en sus meditaciones, esperaba servir al país como un funcionario que debe evitarle los males que se presenten y solo cuando se presenten».
En recepciones y banquetes alternaron varias veces el Presidente norteamericano y el Embajador cubano. En una ocasión en que lo recibió en su despacho de la Casa Blanca, Ferrara se sorprendió al ver el escritorio totalmente limpio de papeles y preguntó cómo se las arreglaba para conseguirlo. La respuesta llegó rápida. Con su voz nasal y monótona, Coolidge respondió:
—Porque trabajo poco.
Replicó el diplomático que el presidente Taft, a quien había visitado 15 años antes en el mismo despacho, le confió que la vida de un mandatario norteamericano era un tormento, porque cumplir con las obligaciones del cargo resultaba superior a lo humano. Coolidge no respondió. Guardó un largo silencio que no fue desagradable para el Embajador, porque el mandatario lo miraba sonriendo.
—¿Quién distribuye el trabajo del poder ejecutivo? —inquirió al fin.
—El Presidente —respondió Ferrara.
—Eso es lo que yo hago. Reparto el trabajo y solo tomo cartas en el asunto si el gabinete no se pone de acuerdo —dijo Coolidge y bajó los ojos, gesto con que de manera invariable daba por terminada una discusión.
Fuera de protocolo
Un día, casi de madrugada, sonó el teléfono del Embajador de Cuba en Washington. Machado, que se levantaba siempre a las cinco, quería comunicar a Ferrara que dos días después saldría para esa ciudad, con un séquito de ocho o diez personas, y preguntaba si podía alojarse en la Embajada. En caso negativo, no habría problema; se iría a un hotel.
De cualquier manera, permanecería solo dos días en la capital norteamericana y seguiría rumbo a Nueva York. Machado explicó que Enoch Crowder, exembajador norteamericano en La Habana, lo había invitado a la reunión anual del Gridiron Club. A Ferrara le pareció una idea poco feliz. Era contrario a la norma que un mandatario extranjero participara en una reunión como aquella y, además, estaba fuera del protocolo que Machado se encontrase con Coolidge, que asistiría al banquete, sin haberlo visto antes.
Urgía buscar una salida. El Secretario de Estado estaba enfermo, y Ferrara no quiso acudir al jefe del protocolo por temor a que su decisión disminuyera o ninguneara al Jefe del Estado cubano. Prefirió conversar con el director de la Sección Latinoamericana del Departamento de Estado. Criticó la idea de que Machado asistiera al banquete del Gridiron Club, pero calorizó el propósito de que visitara a Coolidge y lo invitara a la Conferencia Panamericana de La Habana.
El funcionario se mostró de acuerdo con el embajador y corrió a dar cuenta del asunto al Secretario de Estado. Apenas una hora después, regresó con la aprobación del jefe del Departamento: Machado viajaría a Washington e invitaría al Presidente a la reunión. Lo que no se sabía era si Coolidge aceptaría o no. Eso era lo de menos en ese momento, pues aún faltaba casi un año para la conferencia de La Habana. En cuanto al banquete del Gridiron Club, cuya invitación ya había aceptado, Machado se declararía enfermo y delegaría en Ferrara su representación.
La visita del Presidente cubano a Washington se retardó más de lo previsto, circunstancia que Ferrara aprovechó para ultimar tranquila y juiciosamente los preparativos de su estancia. Permaneció tres o cuatro días en la capital norteamericana y se alojó en la Embajada de Cuba. Hubo cenas y recepciones, y sobresalió entre esos actos el banquete con el que Coolidge congratuló en la Casa Blanca al visitante. Como Machado había viajado sin su esposa, correspondió a María Luisa, la señora de Ferrara, sentarse a la derecha del Presidente norteamericano. Y fue a ella a la que comunicó que aceptaba la invitación de viajar a La Habana. Porque aquel hombre callado y reflexivo se explayó con la Embajadora al punto de que, casi al final de la comida, Alice Longworth, hija del expresidente Teodoro Roosevelt y esposa del Presidente de la Cámara de Representantes, que ocupaba la silla de la izquierda del mandatario, preguntó a María Luisa, por encima de Coolidge, qué había hecho para que el hombre hablara tanto cuando a ella no le había dirigido una sola palabra.
Coolidge asistió, en la Embajada de Cuba, a la cena con que Machado reciprocó la suya. El último día de la estancia del cubano en Washington, ambos mandatarios abordaron el tema de la Conferencia Panamericana. A instancias de Machado se tocó el tema azucarero y el de la crisis económica que se avecinaba. También, se dice, Machado pidió la derogación de la Enmienda Platt. La prensa refirió, atribuyéndolo al general Machado, que su conversación con Coolidge versó casi en su totalidad sobre las mutuas ventajas de rectificar la Enmienda, pero Coolidge diría que ese tema no fue aludido en la entrevista.
Ferrara se mostraba optimista en ese punto. Dice que le aseguraron que Coolidge derogaría la Enmienda si Cuba rebajaba la deuda pública y realizaba las elecciones presidenciales de 1928 sin agitaciones facciosas y sin fraude ni violencia. Esa noticia no compaginaba con lo que Coolidge dijo a la esposa de Ferrara durante la cena en la Casa Blanca: «Si hasta ahora les ha ido bien con la Enmienda Platt, ¿por qué suprimirla?».
Se plantea que Machado fue a Washington en procura de apoyo a su política de reelección y prórroga de poderes, y ofreció como garantía no pronunciarse contra la Enmienda Platt y dar, durante la conferencia, el más servil apoyo a la delegación norteamericana cuando las delegaciones latinoamericanas presentes enarbolaran la tesis de la no intervención. En su docilidad, el Gobierno cubano llegó a negar la invitación al presidente de la Liga de las Naciones y a representantes del Gobierno español que pidieron participar.
Corona de las frutas
La Habana se alistó para la celebración de la Sexta Conferencia Panamericana. Meses antes, el experimentado diplomático Manuel Márquez Sterling, devenido embajador especial, visitó todos los países de la América Latina recabando la presencia de sus gobiernos en el cónclave.
La respuesta fue unánime: todos enviaron su representación a la Isla; nunca antes una reunión de ese tipo había tenido tantos países participantes. Se erigió la Escalinata de la Universidad, se terminó el trazado de la Avenida de las Misiones y el viejo Campo de Marte quedó transformado en la Plaza de la Fraternidad Americana. En las raíces de la ceiba que allí fue trasplantada para la ocasión, se regó tierra de todas las repúblicas americanas, traída especialmente por los jefes de cada una de las delegaciones. A los jefes de delegación se les entregó una llave de oro con la que se abría la reja que protegía la ceiba. Por cierto, la llave de la delegación de México se conserva en el museo de la Cancillería de ese país.
Un brillante espectáculo dio inicio a la conferencia en el Teatro Nacional, y la sesión de apertura escuchó los discursos de Machado y Coolidge. La conferencia sesionaría en la Universidad. Pero no se permitió en esos días la entrada del alumnado a la casa de altos estudios, y más de 200 trabajadores y estudiantes que el Gobierno consideró como indeseables o subversivos fueron puestos tras las rejas. El día de la apertura de la reunión —26 de enero de 1928— fue declarado por el Gobierno como de Fiesta Nacional. En las jornadas finales, el 17 de febrero, Machado invitó a los delegados a que lo acompañaran a Isla de Pinos a fin de dejar inaugurada la primera galera del llamado Presidio Modelo. La reunión concluyó el día 20.
Durante sus días en Cuba, Calvin Coolidge se alojó en el Palacio Presidencial. Se le vio muy complacido en el almuerzo que en su honor Machado ofreció en su finca Nenita, en la carretera que corre entre Santiago de las Vegas y Managua. El visitante alteró toda la disposición del menú y comió en abundancia frutas cubanas, que lo deleitaron. La esposa de Ferrara, sentada a su izquierda y sirviéndole de traductora, se dio cuenta de su curiosidad y lo invitó a empezar por la fruta, con el permiso de Elvira, la esposa de Machado. El inmenso frutero fue vaciándose poco a poco, ya que Machado y los demás invitados imitaron a Coolidge. El jefe de comedor y los camareros, portando toda la clase de platos exquisitos, no sabían qué hacer; solo pudo organizarse la comida cuando empezaron a ser servidos los extremos de la mesa, para llegar luego, lentamente, hasta el personaje del centro. Machado le obsequió una columna confeccionada con metales que fueron parte del monumento al Maine, destruido por el ciclón del 20 de octubre de 1926.
«Durante su estancia en Cuba, Coolidge no cometió un solo error y cumplió con buena voluntad cuanto le fue indicado por los que prepararon el programa de los festejos, que siempre resultan excesivos, y sin manifestar un solo desagrado», escribió Orestes Ferrara en sus memorias, y añadió que cuando abandonó La Habana, lo que ocurrió mucho antes de que concluyera la reunión, el cónclave funcionó regularmente.
Cuando, en vísperas de la Sexta Conferencia Panamericana, Márquez Sterling se disponía a iniciar su periplo latinoamericano, el presidente Machado le dijo: «Márquez, necesito que usted visite aquellos países que están renuentes a tomar parte en la reunión y que nos ayuden hacer de la Enmienda Platt una pragmática obsoleta».
Vanas palabras. Resultó todo lo contrario. Aunque la agenda de la reunión estaba cargada de asuntos intrascendentes, se abría paso el tema de la no intervención. Estados Unidos había intervenido militarmente en México, Santo Domingo, Haití, Nicaragua… En Brasil, en 1927, la reunión de Jurisconsultos había proclamado: «Ningún Estado puede intervenir en los asuntos internos de otro». En La Habana la mayoría de las delegaciones no quiso oponerse a lo preceptuado por los Jurisconsultos en Brasil. Machado, sin embargo, se pasaba con fichas, y Ferrara, como jefe de la delegación cubana, daba la nota al proclamar cínicamente que Cuba no podía unirse al coro general de la no intervención, porque la intervención había significado para el país la independencia. Expresó entonces: «la palabra intervención, en mi país, ha sido palabra de gloria, ha sido palabra de honor, ha sido palabra de triunfo; ha sido palabra de libertad: ha sido la independencia».
El tema quedaría definitivamente aplazado para la Séptima Conferencia Panamericana, a celebrarse en Montevideo, en 1934.
Ciro Bianchi Ross
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