Pubblicato su Juventud Rebelde del 6/3/16
La ceiba (sorta di quercia tropicale,n.d.t) del Tempietto è diventata
secca. Per motivi che gli specialisti finiranno per spiegare, l’albero al quale
si formulava un desiderio mentre gli si facevano tre giri attorno e che fu
seminato nel 1959, non c’è più e sarà sostituito da un altro. Sotto una pianta
della stessa specie si celebrò il 16 novembre del 1519, secondo la tradizione,
la prima messa e la prima assemblea quando, in quella data, L’Avana si stabilì
nel luogo che occupa da allora.
La ceiba originale che sul lato nord est di quella che sarebbe stata
la Plaza de Armas, vide prostrati sotto la sua ombra quei valorosi
colonizzatori e che fu per decenni l’unico testimone di un fatto storico, ma
anche religioso e poetico, dovette essere sostituita col passare del tempo.
Quando nel 1754, Francisco Cagigal de la Vega, Governatore Generale dell’Isola,
fece erigere lì una colonna commemorativa, la ceiba originale già non esisteva. Tra il 1755 e il 1757 si
seminarono tre ceibas al posto della
primogenita. Di esse, due si rinsecchirono dopo poco tempo e la terza
sopravvisse fino al 1827, quando la mano dell’uomo la fece sparire per
facilitare la costruzione del Tempietto. Tre ceibas nuove si seminarono l’anno seguente e di esse solo una fece
le radici e sembra che durò fino al 1959. Altre due si piantarono nel 1873 e
morirono dieci anni dopo.
Detieni
il passo viandante
La memoria di quella prima
messa e quella prima assemblea celebrati sotto la ceiba sarebbe forse sparita se Cagigal de la Vega, nel 1754, non si
fosse occupato di raccogliere e perpetuare in maniera ostensibile la
tradizione. “L’iniziativa di quel governante fu rivolta al futuro”, scrive lo
storico Emeterio Santovenia. “Grazie a lei passò ai posteri una versione che in
altro modo poteva sperimentare trasformazioni o estinguersi per opera del tempo”,
aggiunge.
La già citata colonna
commemorativa del governatore Cagigal consta di tre facce, le tre province in
cui si divideva allora la colonia e portava, alla sommità, un’immagine della
Vergine del Pilár. Su di essa si leggevano due iscrizioni allusive. Una scritta
in latino e l’altra in castigliano antico. Questa diceva:
“Fondossi la villa (oggi
città) dell’Avana nell’anno 1515 e al trasferirsi dalla sua primitiva sede alla
riva di questo porto, nel 1519, è tradizione che in questo sito si trovò una
frondosa ceiba sotto la quale si
celebrò la prima messa e assemblea: rimase fino al 1753 quando si sterilizzò. E
per perpetuarne la memoria, governando le Spagne il nostro cattolico Monarca il
Signor Don Fernando VI, mandò ad erigere questo padrone il Signor Maresciallo
di Campo Don Francisco Cagigal de la Vega, dell’Ordine di Santiago, Governatore
e Capitano Generale di quest’Isola, essendo Procuratore Generale Dottor Don
Manuel Phelipe de Arango. Anno del 1754”.
La primitiva iscrizione
latina fu sostituita nel 1903, nel restaurare la colonna, con un’altra il cui
testo latino è una versione dell’antico. La fece il dottor Juan M. Dihigo,
all’epoca professore di latino dell’università dell’Avana, l’unica sede di alti
studi che esisteva allora a Cuba, detto giusto per saperlo diceva:
“Detieni il passo,
viandante; adorna questo sito un albero, una ceiba frondosa, dirò meglio segno memorabile della prudenza e
antica religione della giovane città (...) Fu tenuta per la prima volta la
riunione dei prudenti consiglieri già da oltre due secoli: era conservata per
una tradizione perpetua; indubbiamente cedette al tempo. Ebbene guarda e che
non muoia nel futuro la fede avanera. Vedrai un’immagine fatta con la pietra
oggi, vale a dire l’ultimo di novembre del 1754”.
Nella prima faccia del
triangolo della colonna che guarda al Nascente, c’è un rilievo del tronco di
quella che si ritiene sia la prima ceiba.
Appare coi rami tagliati, come se fosse carente di fogliame, come se fosse
secca.
Col tempo la colonna andò
sciupandosi. Si deteriorò, disgraziatamente, questo semplice monumento che
quasi rimaneva nascosto dai chioschi e bancarelle dei venditori di tutti i tipi
di generi che si installavano nella sua vicinanza.
Le
opere
Questo spinse don Francisco
Dionisio Vives y Planes, Conte di Cuba, governatore e Capitano Generale
dell’Isola a restaurare la colonna e inoltre a erigere un’altro monumento
maggiore. Fu un criterio suo e del municipio avanero quello di realizzare
un’opera durevole che fosse, non solo degna dei fatti che volevano perpetuarsi,
ma anche dell’importanza che andava prendendo la città. Nella sessione del 15
giugno del 1827, il sindaco-presidente del municipio sottolineò la necessità di
curare la conservazione della colonna di Cagigal e il corpo municipale,
cosciente del dovere in cui si trovava rispetto a quel punto, accordò di
restaurarla e sgombrare dai suoi dintorni le bancarelle e i chioschi che
deturpavano il luogo.
Prese corpo, quindi, l’idea
di un monumento di maggiori dimensioni e nel proprio anno 1827 si mise mano
all’opera che da allora ricevette il nome di Tempietto. Vives ordinò ad Antonio
María de la Torre y Cárdenas, suo segretario politico che si occupasse di tutto
ciò che fosse concernente ai piani e del lavori necessari, cosa in cui ebbe la
collaborazione di José Rodríguez Cabrera, reggente del municipio. Dovette
metterci molto interesse nel concludere l’opera, nel giro di pochi mesi fu
pronto l’edificio, mentre la colonna veniva collocata su quattro basi circolari
di pietra e si sostituí l’immagine della vergine del Pilar che la rifiniva con
un’altra, dorata a fuoco, di circa ottanta centimetri di altezza.
Con motivo della costruzione
del Tempietto, il vescovo Juan José Díaz de Espada fece erigere, a spese sue,
molto vicino all’edificio, un busto di marmo con piedestallo, dell’ammiraglio
Cristoforo Colombo, un’opera di autore sconosciuto e povera di esecuzione che
si conserva ancora. Dentro al recinto chiuso dalle sbarre che circondano il
Tempietto rimasero con questo busto, la ceiba
e la colonna di Cagigal.
Evidentemente
neoclassico
Il Tempietto è il più
piccolo e meno vistoso degli edifici che circondano la Plaza de Armas. È, senza
dubbio, la prima opera civile di carattere evidentemente neoclassico con cui
contò l’Avana. Si alza di fronte al Palazzo dei Capitani Generali –attuale
Museo della Città- e alla sinistra del Palazzo dei Conti Santovenia, dove
funziona l’hotel Santa Isabel. Misura circa otto metri di fronte e circa sei
metri e mezzo nei due lati, mentre la sua altezza è di circa otto metri. È di
stile greco ed è composto da un’architrave con sei colonne di capitelli dorici,
basamenti attici e altri quattro pilastri sui fianchi con altri ornamenti. Una
lapide rende conto della sua inagurazione. Dice:
“Regnando il signor don
Fernando VII, essendo presidente e governatore don Francisco Dionisio Vives, la
fedelissima Avana, religiosa e pacifica, eresse questo semplice monumento
adornando il luogo dove nell’anno 1519 si celebrarono la prima messa e
assemblea. Il vescovo don Juan José Díaz de Espada solennizzò il medesimo
augusto sacrificio il giorno diciannove di marzo del mille ottocento ventotto”.
Il Tempietto che questo mese
compie 188 anni dalla sua edificazione, è uno dei monumenti più visitati da
cubani e stranieri. Sembra sia stato sempre così. Lo scrittore galiziano
Jacinto Salas y Quiroga diceva nel 1840, nel suo libro di viaggio che si
trattava di “uno dei monumenti che il viaggiatore più desidera visitare
all’Avana, per poco che ami i ricordi storici”. A partire da lì si estende
nella descrizione dell’edificio e dei quadri di carattere storico che
tesaurizza. Dice: “Era giusto scendere a tanti dettagli perché questo é l’unico
monumento che ricordi fatti antichi, nell’opulenta città dell’Avana. Invasa, fino
a un certo punto, dal traffico e commercio, ancora instabile nel modo di essere
amministrata, insicura della sua ricchezza e potere, è difficile che si occupi
di altre opere che non siano quelle che le promettono un avvenire felice. Così
che il viaggiatore quì, più che rovine deve cercare semi”.
Solenne
e pomposa
Salas y Quiroga allude alle
tele di Juan Butista Vermay, pittore francese stabilitosi all’Avana, dove morì
a causa della febbre gialla, dopo aver fondato l’Accademia di Pittura di San
Alejandro. Sono opere (un trittico, n.d.t.), sopratutto, di valore storico che
si apprezzano ancora nel Tempietto. Due di esse evocano, con immaginazione, la
celebrazione della prima messa e la prima assemblea; l’altra ricrea la cerimonia inaugurale del monumento in quel
19 marzo 1828. Una cerimonia che la cronaca descrive come solenne e pomposa.
Consistette nella messa che officiò il vescovo Espada con la presenza del
Capitano Generale e le principali autorità civili e militari ed ecclesiastiche,
così come gli abitanti più in vista della città, ebbene il municipio si
incaricò di invitare tutte le corporazioni e persone in vista. Davanti ai
presenti, Espada pronunciò un discorso che lo storico Pezuela qualificò di
erudito. Álvaro de la Iglesia, il celebre autore de Las tradiciones cubanas, nel riferirsi a quest’opera, dice nel suo
libro Cosas de antaño che
all’apertura del Tempietto, Vermay raggiunse tale esattezza nella pittura delle
persone e vestiti che “è una vera e validissima testimonianza storica”.
Poveri e ricchi celebrarono
allo stesso modo l’inaugurazione del Tempietto. Ci fu un’ascensione
aerostatica, la prima che si faceva a Cuba dal 1796 e che apportò
all’aeronauta, giunto da New Orleans, la per niente disprezzabile somma di
15.000 pesos. Ci furono, inoltre, funzioni teatrali, ricevimenti e banchetti
nei palazzi, balli pubblici e privati nei quali si sperperò una fortuna. Dice
Álvaro de la Iglesia che “in fiori, gioielli, banchetti, ostentazione e
allegria il denaro scorse come un fiume in piena e l’Avana sembrava preda della
follia durante dette feste”. Ci fu, per non lasciar perdere, un ballo in una
delle navi della squadra alla fonda nel porto. Una festa per tutti i gusti,
dice de la Iglesia, giacché Vives “prestò grande attenzione a tre basi infallibili
della politica coloniale: ballo, bisca e bottiglia. Popolo che si diverte, non
cospira...”
Il proprio Vives lo dichiara
esplicitamente nel suo rapporto a Madrid: le feste avevano avuto un carattere e
un orientamento apertamente politico, incamminate a distrarre il popolo dalle
lotte emancipatrici che si svolgevano nel continente e per esaltare la pace, la
sicurezza e la prosperità di cui godevano “i fedeli cubani sotto l’impero delle
leggi e del dolce e paterno governo di Sua Maestà”.
El Templete
5 de Marzo del 2016 20:37:56 CDT
Se secó la
ceiba del Templete. Por razones que los especialistas terminarán por explicar,
el árbol al que se le formulaba un deseo mientras se daban tres vueltas a su
alrededor, y que fue sembrado en 1959, ya no está y será sustituido por otro.
Bajo una planta de la misma especie se celebró, el 16 de noviembre de 1519,
según la tradición, la primera misa y el primer cabildo cuando, en esa fecha,
La Habana se asentó en el lugar que ocupa desde entonces.
La ceiba
original que en el lado noroeste de lo que sería la Plaza de Armas vio,
postrados bajo su sombra, a aquellos valerosos colonizadores y que fue durante
décadas testigo único de un hecho histórico y también religioso y poético,
debió ser reemplazada oportunamente a lo largo del tiempo. Cuando en 1754
Francisco Cagigal de la Vega, Gobernador General de la Isla, hizo erigir allí
una columna conmemorativa, ya la ceiba original no existía. Entre 1755 y 1757
tres ceibas se sembraron en lugar de la primigenia. De ellas, dos se secaron al
poco tiempo y la tercera sobrevivió hasta 1827, cuando la mano del hombre la
hizo desaparecer para facilitar la construcción del Templete. Tres nuevas
ceibas se sembraron al año siguiente y de ellas solo arraigó una, que, al
parecer, duró hasta 1959. Dos más se plantaron en 1873 y murieron diez años más
tarde.
Detén el paso, caminante
La memoria de
aquella primera misa y aquel primer cabildo celebrados debajo de la ceiba
hubiese tal vez desaparecido de no haberse ocupado Cagigal de la Vega, en 1754,
de recoger y perpetuar de manera ostensible la tradición. «La iniciativa de
aquel gobernante estuvo fija en el porvenir», escribe el historiador Emeterio
Santovenia. «Gracias a ella pasó a la posteridad una versión que, de otra
manera, pudo experimentar transformaciones o extinguirse por obra del tiempo»,
añade.
La ya aludida
columna conmemorativa del gobernador Cagigal consta de tres caras, las tres
provincias en las que entonces se dividía la colonia, y lucía, en lo alto, una
imagen de la virgen del Pilar. Se leían en ella dos inscripciones alusivas. Una
escrita en latín. La otra en castellano antiguo. Decía esta:
«Fundóse la
villa (hoy ciudad) de La Habana el año de 1515, y al mudarse de su primitivo
asiento a la ribera de este puerto el de 1519, es tradición que en este sitio
se halló una frondosa ceiba bajo de la cual se celebró la primera misa y
cabildo: permaneció hasta el de 1753 que se esterilizó. Y para perpetuar la
memoria, gobernando las Españas nuestro católico Monarca el señor Dn. Fernando
VI, mandó erigir este padrón el señor Mariscal de Campo Dn. Francisco Cagigal
de la Vega, del orden de Santiago, Gobernador y Capitán General de esta Isla,
siendo Procurador General Doctor Dn. Manuel Phelipe de Arango. Año de 1754».
La primitiva
inscripción latina fue sustituida en 1903, al restaurarse la columna por otra
cuyo texto latino es una versión del antiguo. La hizo el doctor Juan M. Dihigo,
a la sazón profesor de latín de la Universidad de La Habana, la única casa de
altos estudios que existía entonces en Cuba, dicho sea de paso. Reza:
«Detén el
paso, caminante; adorna este sitio un árbol, una ceiba frondosa, más bien diré
signo memorable de la prudencia y antigua religión de la joven ciudad (…). Fue
tenida por primera vez la reunión de los prudentes concejales hace ya más de
dos siglos: era conservado por una tradición perpetua; sin embargo cedió al
tiempo. Mira, pues, y no perezca en lo porvenir la fe habanera. Verás una
imagen hecha hoy en la piedra, es decir, el último de noviembre de 1754».
En el primer
frente del triángulo de la columna, que mira al Naciente, hay un relieve del
tronco de la que se supone sea la primera ceiba. Luce con las ramas cortadas,
como si careciera de follaje, como si estuviera seca.
Con el tiempo,
la columna fue desgastándose. Se deterioró lamentablemente ese sencillo
monumento que casi permanecía oculto por las casillas y timbiriches de los
vendedores de todo tipo de artículos que en su cercanía se instalaban.
Las obras
Eso impulsó a
don Francisco Dionisio Vives y Planes, Conde de Cuba, gobernador y Capitán
General de la Isla, a restaurar la columna y a levantar además otro monumento
mayor. Fue criterio suyo y del ayuntamiento habanero realizar una obra durable,
que fuera no solo digna de los hechos que querían perpetuarse, sino también de
la importancia que iba adquiriendo la ciudad. En sesión de 15 de junio de 1827,
el alcalde-presidente del ayuntamiento apuntó la necesidad de atender a la
conservación de la columna de Cagigal y el cuerpo municipal, consciente del
deber en que se hallaba respecto a aquel punto, acordó restaurarla y despejar
sus alrededores de casillas y timbiriches que desdoraban el paraje.
Tomó cuerpo
entonces la idea de un monumento de mayores dimensiones, y en el propio año de
1827 se puso manos a la obra que desde entonces recibió el nombre de Templete.
Vives ordenó a Antonio María de la Torre y Cárdenas, su secretario político,
que se ocupase de todo lo concerniente a los planos y trabajos necesarios, en
lo que contó con la colaboración de José Rodríguez Cabrera, regidor del
ayuntamiento. Debió primar mucho interés en concluir las obras, pues a la
vuelta de pocos meses quedó listo el edificio, en tanto que la columna era
colocada sobre cuatro gradas circulares de piedra y se sustituía la imagen de
la virgen del Pilar que la remataba por otra dorada a fuego, de una vara de
alto.
Con motivo de
la construcción del Templete, el obispo Juan José Díaz de Espada hizo erigir a
sus expensas, muy cerca del edificio, un busto en mármol, con su pedestal, del
almirante Cristóbal Colón, una obra de autor desconocido y pobre ejecución que
aún se conserva. Dentro del recinto cerrado por las verjas que circundan el
Templete quedaron incluidos ese busto, la ceiba y la columna de Cagigal.
Notoriamente neoclásico
El Templete es
el más pequeño y menos vistoso de los edificios que rodean la Plaza de Armas.
Es, sin embargo, la primera obra civil de carácter notoriamente neoclásico con
que contó La Habana. Se alza frente al Palacio de los Capitanes Generales
—actual Museo de la Ciudad— y a la izquierda del Palacio de los Condes de
Santovenia, donde funciona el hotel Santa Isabel. Mide 12 varas de frente y
ocho y media varas por los dos costados, en tanto que su altura es de 11 varas
(una vara equivale a 0.84 metros aproximadamente). Es de estilo griego y está
compuesto de un arquitrabe de seis columnas de capiteles dóricos y zócalos
áticos, y cuatro pilastras más en los costados con otros adornos. Una lápida da
cuenta de su inauguración. Dice:
«Reinando el
señor don Fernando VII, siendo presidente y gobernador don Francisco Dionisio
Vives, la fidelísima Habana, religiosa y pacífica, erigió este sencillo
monumento decorando el sitio donde el año de 1519 se celebró la primera misa y
cabildo. El obispo don Juan José Díaz de Espada solemnizó el mismo augusto
sacrificio el día diez y nueve de marzo de mil ochocientos veinte y ocho».
El Templete,
que cumple este mes 188 años de edificado, es uno de los monumentos más
visitados por cubanos y extranjeros. Parece que así ha sido siempre. El
escritor gallego Jacinto Salas y Quiroga decía en 1840, en su libro de viajes,
que se trataba de «uno de los monumentos que más desea el viajero visitar en La
Habana por poco que ame los recuerdos históricos». A partir de ahí se explaya
en la descripción del edificio y los cuadros de carácter histórico que atesora.
Expresa: «Preciso era descender a tantos detalles porque es este el único
monumento que recuerde antiguos hechos, en la opulenta ciudad de La Habana.
Invadida, hasta cierto punto, por el tráfico y comercio, inestable todavía en
la forma de administración, insegura en su riqueza y poderío, es difícil que se
ocupe en otra especie de obras que aquellas que le prometen un porvenir feliz.
Así que el viajero aquí, más que ruinas, debe buscar gérmenes».
Solemne y pomposa
Salas y
Quiroga alude a los lienzos de Juan Bautista Vermay, pintor francés avecindado
en La Habana, donde murió a causa de la fiebre amarilla, luego de haber fundado
la Academia de pintura de San Alejandro. Son obras, sobre todo, de valor
histórico que todavía se aprecian en el Templete. Dos de ellas evocan, con
imaginación, la celebración de la primera misa y el primer cabildo; la otra
recrea la ceremonia inaugural del monumento aquel, el 19 de marzo de 1828. Una
ceremonia que la crónica describe como solemne y pomposa. Consistió en la misa
que ofició Espada con la asistencia del Capitán General y las principales
autoridades militares, civiles y eclesiásticas, así como los vecinos más
notables de la villa, pues el ayuntamiento se encargó de invitar a todas las
corporaciones y personas distinguidas. Ante los asistentes, Espada pronunció un
discurso que el historiador Pezuela calificó de erudito. Álvaro de la Iglesia,
el célebre autor de las Tradiciones cubanas, al referirse a esa obra, dice en
su libro Cosas de antaño que en la apertura del Templete, Vermay logró tal
exactitud en la pintura de personas y trajes que es «un verdadero y valioso
testimonio histórico».
Pobres y ricos
celebraron por igual la inauguración del Templete. Hubo una ascensión
aerostática, la primera que ocurría en Cuba desde 1796 y que reportó al
aeronauta, que había llegado desde New Orleans, la nada despreciable suma de 15
000 pesos. Hubo, además, funciones teatrales, recepciones y saraos en los
palacios y bailes públicos y privados en los que se derrochó una fortuna. Dice
Álvaro de la Iglesia que «en flores, joyas, banquetes, ostentación y alegría el
dinero corrió como un río desbordado y La Habana pareció presa de la locura
durante dichas fiestas». Hubo, por no dejar de haber, baile en uno de los
navíos de la escuadra surta en puerto. Una fiesta para todos los gustos, dice
De la Iglesia, ya que Vives «prestó gran atención a tres bases infalibles de la
política colonial: baile, baraja y botella. Pueblo que se divierte, no
conspira…».
El propio
Vives lo consigna explícitamente en su informe a Madrid; las fiestas habían
tenido un carácter y una orientación abiertamente políticos, encaminados a
distraer al pueblo de las luchas emancipadoras que se libraban en el continente
y a exaltar la paz, la seguridad y la prosperidad que disfrutaban «los fieles
cubanos bajo el imperio de las leyes y del suave y paternal gobierno de Su
Majestad».
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