Pubblicato
su Juventud Rebelde del 10/3/16
Lo scriba non crede che
siano molti gli avaneri che sappiano che la calle Revillagigedo, in questa
capitale, debba il suo nome a un governatore spagnolo dalla mano dura, le cui
eccellenti doti come governante si videro eclissate per un’ambizione e
un’altaneria censurabili che fecero si che si guadagnasse l’epiteto di “il
tiranno”. Assunse il comando dell’Isola il 18 marzo del 1734 e durante gli 11
anni che si mantenne come governatore generale della Colonia, fu immune alle
critiche e denunce del patriziato creolo, alla minaccia degli inglesi nella
loro infinita guerra contro la Spagna ed anche alle malattie. Quando i suoi
nemici pensarono che non si riprendesse da un attacco apoplettico fulminante
che lo paralizzò e lo mise sulla soglia della morte, lo videro tornare alla
casa del Governo più grasso e colorito di prima e più disposto che mai a
continuare ad arricchirsi con i vantaggi del potere e a far tremare di rabbia
quelli che non lo amavano. Quando giunse all’Avana la notizia che lo avevano
destituito dall’incarico, ai suoi rivali si congelò l’allegria venendo a sapere
che lo avevano nominato viceré del Messico.
Il maresciallo di campo Juan
Francisco Güemes de Horcasitas, primo conte di Revillagigedo, titolo che gli
conferì la Corona durante il suo comando a Cuba, è il protagonista di questa
storia.
La cronaca lo descrive come
un uomo dall’aspetto terribile, occhi dominatori, unghie molto lunghe e spesse
sopracciglia sugli occhi da imporre paura ai suoi nemici.
“Solamente col presentarsi a
cavallo nella piazza soffocò un ammutinamento in Messico, essendo viceré”,
ricorda Álvaro de la Iglesia in una delle sue Tradiciones cubanas. Non era solo coraggioso, ma lo dimostrava
sempre quando si presentasse l’occasione per farlo. Non si lasciò imporre da
nessuno e chi osasse minacciarlo vinceva la lotteria senza aver comprato il
biglietto perché compiva la sua minaccia o andava in carcere a pentirsene.
Il conte di Revillagigedo sostituì
al Governo il brigadiere Dionisio Martínez de la Vega. Giunse a Cuba in
un’epoca in cui il contrabbando che conquistava il diritto di legittimità e le
immoralità amministrative mantenevano esausto il tesoro dell’Isola. Per
compiacenze e riguardi della prima autorità le rendite della Colonia, si
trovavano in estremo collasso e la condotta dei funzionari subalterni non era
migliore.
Álvaro de la Iglesia scrive:
“Dentro quella razza di
disordine, è chiaro che chi arrivasse con spinte moralizzatrici, se non moriva
di un colpo come successe al santo vescovo Montiel, moriva diffamato o gli
elevavano un monumento di calunnie tale da fargli perdere i capelli in
prigione. Ma Güemes era un asturiano dai mille diavoli per cui gli era
indifferente che parlassro bene o male di lui, molto soddisfatto che non fosse
nato un uomo che osasse guardare di traverso il conte di Revillagigedo”.
La
real compagnia
Si necessitava una mano
forte per porre fine ai molti e gravi
mali della Colonia. E questa fu la mano di Juan Francisco Güemes de
Horcasitas. Cominciò con castigare abusi e peculati. Nominò tenenti
capaci, per attitudini e severità, di incamminare l’ordine in giurisdizioni
dell’importanza di Puerto Príncipe, Sancti Spíritus e San Juan de los Remedios.
Sottomise alla sua potestà il Governo di Santiago de Cuba. I 22 bandi che il
Governo emise per dettare la disciplina all’amministrazione e l’ordine pubblico
della Colonia, sono prove delle sue eccellenti doti di comando.
Revillagigedo regolò la pulizia
delle strade e degli spazi pubblici, così come del porto avanero. Trasferì il
mattatoio in luogo adeguato, fu implacabile con queli che esageravano coi
prezzi e speculavano coi prodotti agricoli. Favorì la riapertura dell’ospedale
di San Lázaro, riorganizzò il Municipio e regolarizzò la giustizia. Ristabilì
l’impero della legge. Molte furono le sue misure efficaci contro chi si beffava
del fisco.
Lo si considera il vero
fondatore della Reale Compagnia di Commercio dell’Avana che per oltre 20 anni
mantenne il più mostruoso monopolio delle produzioni cubane.
La ricchezza dell’Isola
andava aumentando e siccome il settore del tabacco aveva riportato grandi
ricchezze in Spagna, diversi commercianti spagnoli e alcuni coltivatori creoli
accalorarono l’idea di monopolizzare tutto il commercio della Colonia. Fu così
che accordarono di costituire la Reale Compagnia di Commercio dell’Avana,
autorizzata dal Re, con la raccomandazione preventiva del conte di
Revillagigedo. Al fine di ottenere i maggiori privilegi, l’entità nascente
dette al monarca e al governatore la partecipazione ai guadagni. Ottenne prima
il monopolio del tabacco e un anno dopo quello di tutto il commercio
d’importazione ed esportazione dell’Isola.
Il Governo concesse alla
Compagnia il privilegio di introdurre in Spagna, esenti da dazi, i prodotti del
Paese - cuoio, legname, zucchero, miele... - e quello di importare articoli di
consumo. In cambio si vide obbligata a costruire navi per la marina da guerra e
quella mercantile, di rifornire le navi da guerra che ormeggiassero nel porto
dell’Avana e di mantenere dieci imbarcazioni armate per combattere il
contrabbando e proteggere le navi che realizzavano il traffico tra il porto di
Cadice e l’Avana. Ebbe anche a suo carico il commercio degli schiavi.
I risultati della Compagnia
furono l’arricchimento smisurato dei commercianti spagnoli e di alcuni pochi
possidenti creoli dell’Avana. Nel resto dell’Isola si sopportarono i privilegi
della Compagnia, dovendo pagare a prezzi elevatissimi gli articoli d’importazione
e vendere a prezzi miserabili i propri prodotti. Le assemblee delle città
dell’interno si stancarono di inviare proteste alla metropoli (spagnola,
n.d.t.) chiedendo la cessazione della Compagnia. Si dovette attendere che gli
inglesi si impadronissero dell’Avana, nel 1762, molti anni dopo che il conte di
Revillagigedo fosse uscito dal potere. Allora gli occupanti britannici si
impossessarono di tutte le proprietà della Compagnia alla quale, Carlos III
darà il colpo di grazia nel decretare le franchige nel 1765.
Ma prima si arricchirono i
possidenti dell’Avana e quei possessori di zuccherifici che avevano azioni
della Reale Compagnia. Per capire la lucratività dei suoi affari, basti dire
che un barile di farina o di grano comprato in Spagna per 5 o 6 pesos era
venduto all’Avana per 35 o 36 pesos.
Il governatore Juan
Francisco Güemes de Horcasitas, propiziatore ufficiale del monopolio della
Reale Compagnia, si arricchì con la sua partecipazione nell’affare. Ricevette
il titolo di conte e giunse all’ambito incarico di viceré del Messico.
Da allora, l’incarico di
capitano generale e di governatore di Cuba si convertì in una posizione molto
ambita.
Il
vassallo più ricco
Il conte di Revillagigedo
era avaro e rapace, Questo era, dice Álvaro de la Iglesia, il suo difetto
maggiore. Quando si presentava un affare nel quale vedeva la possibilità di
guadagnare, lo approvava anche sapendo che poteva essere causa di scandalo.
L’enorme fortuna che giunse ad accaparrare in questo modo, gli permise di
creare in Spagna un azienda per ognuno dei suoi figli ed erano diversi, mentre
ne La Gazzetta d’Olanda si qualificava come il “vassallo più ricco che aveva
Ferdinando VI”.
Revillagigedo rubava, ma non
lasciava rubare. Se avesse fatto finta di niente con i ladri e malversatori che
lo circondavano, nessuno avrebbe detto mezza parola contro di lui. Ma lui la
vedeva in altro modo, suscitando contro di se e tutti i suoi atti di Governo
una tempesta di censure e anche di calunnie. Le denunce contro di lui si
ripetevano, ma a Madrid compresero che anche se il conte rubava, i redditi di
Cuba non avrebbero mai raggiunto la somma di quello che egli rimetteva
dall’Avana. A questo si univa la sua difesa adeguata dell’Isola, ebbene teneva
in scacco le armate nemiche. Da quì che Madrid lo mantenesse nel suo incarico
contro venti e maree.
I suoi nemici nominarono
l’avvocato Lorenzo Hernández Tinoco come una specie di accusatore privato
contro Güemes e Güemes, senza perdere tempo lo deportò in Spagna. Non gli
restava altro da fare che chiedere al cielo cho lo fulminasse, com’era successo
in quei giorni a un vascello nella baia avanera.
Non venne fulminato, ma un
attacco apoplettico sembrò che lo mettesse fuori gioco in modo definitivo. I
suoi nemici cantarono vittoria, senza contare sulla resistenza dell’asturiano.
La famiglia Chacón lo portò nei suoi possedimenti di Santa María del Rosario e
le acque medicinali del posto fecero in modo che si ristabilisse in un mese.
Tornò all’Avana disposto a continuare ad arricchirsi e a far inferocire sempre
di più i suoi nemici.
Álavaro de la Iglesia dice
che nei giorni della sua grave malattia circolò un detto popolare che alludendo
ala sua meschina avarizia diceva:
“Né conte né marchese; Juan
é”. “Più che degli attacchi di cui fu oggetto, a Revillagigedo dovette far male
quel detto che correva di bocca in bocca, da quel momento divenne più acido e
temibile di prima, mettendo in guardia i suoi persecutori che lo temevano come
il colera”.
Lo
appresi da mio padre
Suo figlio maggiore, Juan
Vicente Güemes Pacheco, secondo conte di Revillagigedo, nato all’Avana nel
1738, fu pure viceré del Messico, il viceré numero 52 che governò quel Paese
per cinque anni. A otto giorni scarsi dall’aver assunto il suo incarico
condannò a morte gli assassini di un agiato commerciante. Il suo procedere gli
dette fama di giusto.
Modificò l’amministrazione
pubblica e trasformò intendenze e tribunali, cosa che permise una manovra più
efficiente della Colonia. Fondò varie scuole, fra di esse il Reale Collegio di
Mineraria. Ai suoi tempi la Città del Messico si rimodernò e si eressero nuovi
edifici. Il municipio della città lo citò a giudizio per illecito, ma i suoi
accusatori furono obbligati a pagare le spese del processo nel domostrarsi
l’innocenza del viceré. Morì a Madrid nel 1799.
Revillagigedo
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
12 de
Marzo del 2016 20:42:38 CDT
No cree el
escribidor que sean muchos los habaneros que sepan que la calle Revillagigedo,
en esta capital, deba su nombre a un gobernador español de mano dura, cuyas
excelentes dotes como gobernante se vieron eclipsadas por una codicia y una
altivez censurables y que hicieron que ganara el epíteto de «tirano». Asumió el
mando de la Isla el 18 de marzo de 1734 y durante los 11 años que se mantuvo
como gobernador general de la Colonia fue inmune a las críticas y denuncias del
patriciado criollo, a la amenaza de los ingleses en su inacabable guerra contra
España e incluso a la enfermedad. Cuando sus enemigos pensaron que no se
repondría de un ataque de apoplejía fulminante que lo paralizó y lo puso a las
puertas de la muerte, lo vieron regresar a la casa de Gobierno más gordo y
colorado que antes y más dispuesto que nunca a seguirse enriqueciendo con los
gajes del poder y a hacer temblar de rabia a los que no lo querían. Cuando
llegó a La Habana la noticia de que lo habían cesado en el cargo, a sus rivales
pronto se les congeló la alegría al enterarse de que lo habían nombrado virrey
de México.
El
mariscal de campo Juan Francisco Güemes de Horcasitas, primer conde de
Revillagigedo, título que le otorgó la Corona durante su mando en Cuba, es el
protagonista de esta historia. La crónica lo describe como un hombre de aspecto
terrible, ojos dominadores y uñas tan largas y espesas cerdas sobre los ojos
que imponía miedo a sus mismos enemigos.
«Solo con
presentarse a caballo en la plaza sofocó un motín en México, siendo virrey»,
recuerda Álvaro de la Iglesia en una de sus Tradiciones cubanas. No solo era
valiente, sino que lo demostraba siempre que se le presentara ocasión para
ello. No se dejó imponer de nadie y el que osara amenazarle se sacaba la
lotería sin haber comprado el billete, porque cumplía su amenaza o iba a
arrepentirse de ella en la cárcel.
El conde
de Revillagigedo sustituyó en el Gobierno al brigadier Dionisio Martínez de la
Vega. Llegó a Cuba en una época en que el contrabando, que conquistaba carta de
legitimidad, y las inmoralidades administrativas tenían exhausto el tesoro de
la Isla. Por complacencias y miramientos de la primera autoridad las rentas de
la Colonia se hallaban en abatimiento extremo y no era mejor la conducta de los
funcionarios subalternos.
Escribe
Álvaro de la Iglesia:
«Dentro de
aquel medio de desorden, claro está que quien llegara con pujos moralizadores,
si no moría de un jicarazo, como ocurrió con el santo obispo Montiel, moría
difamado o le levantaban un monumento de calumnias capaz de hacerle perder el
pelo en presidio. Pero Güemes era un asturiano de mil demonios que tanto le daba
que hablaran de él bien como mal, muy satisfecho de que por delante no había
nacido hombre que se atreviera a mirar atravesado al conde de Revillagigedo».
La real compañía
Se
requería de una mano fuerte para poner coto a los muchos y graves males de la
Colonia. Esa fue la mano de Juan Francisco Güemes de Horcasitas. Empezó por
hacer castigar abusos y peculados. Nombró tenientes, capaces por sus actitudes
y severidad, de encauzar el orden en jurisdicciones de la importancia de Puerto
Príncipe, Sancti Spíritus y San Juan de los Remedios. Sometió a su potestad al
Gobierno de Santiago de Cuba. Los 22 bandos que en el curso de 11 años de
Gobierno dictó para disciplinar a la administración y el orden público de la
Colonia son prueba de sus excelentes condiciones de mando.
Revillagigedo
reguló la limpieza de las calles y de los espacios públicos, así como del
puerto habanero. Trasladó el matadero a un lugar apropiado y fue implacable con
los que exageraban los precios y especulaban con los productos del agro.
Favoreció la apertura del hospital de San Lázaro, reorganizó el Ayuntamiento y
regularizó la justicia. Restableció el imperio de la ley. Fueron muy eficaces
sus medidas contra los que burlaban el fisco.
Se le
considera el verdadero fundador de la Real Compañía de Comercio de La Habana,
que durante más de 20 años llevó a cabo el más monstruoso monopolio con las
producciones cubanas.
La riqueza
de la Isla iba en aumento y como el estanco del tabaco había reportado a España
grandes riquezas, varios comerciantes españoles y algunos hacendados criollos
calorizaron la idea de monopolizar todo el comercio de la Colonia. Fue así que
acordaron constituir la Real Compañía de Comercio de La Habana, que fue
autorizada por el Rey con la recomendación previa del conde de Revillagigedo.
Con el fin de obtener los mayores privilegios, la naciente entidad dio al
monarca y al gobernador participación en las ganancias. Obtuvo primero el
monopolio del tabaco y un año después el de todo el comercio de importación y
exportación de la Isla.
El
Gobierno concedió a la Compañía el privilegio de introducir en España, libre de
derechos, los productos del país —cuero, madera, azúcar, miel…— y el de
importar artículos de consumo. A cambio, se vio obligada a construir barcos
para la marina de guerra y la mercante, de abastecer los barcos de guerra que
fondearan en el puerto de La Habana y de mantener diez embarcaciones armadas
para perseguir el contrabando y proteger a los barcos que realizaban el tráfico
entre los puertos de Cádiz y La Habana. También tuvo a su cargo el comercio de
esclavos.
Los
resultados de la Compañía fueron el enriquecimiento desmedido de comerciantes
españoles y de algunos pocos hacendados criollos de La Habana. En el resto de
la Isla se soportaron los privilegios de la Compañía, teniendo que pagar a
precios elevadísimos los artículos de importación y vender sus productos a
precios de miseria. Los cabildos de ciudades del interior se cansaron de enviar
quejas a la metrópoli demandando el cese de la Compañía. Hubo que esperar a que
los ingleses se apoderaran de La Habana, en 1762, muchos años después de que el
conde de Revillagigedo saliera del poder. Entonces los ocupantes británicos se
apoderaron de todas las propiedades de la Compañía, a la que Carlos III daría
el tiro de gracia al decretar las franquicias en 1765.
Pero antes
se enriquecieron los hacendados de La Habana y aquellos dueños de ingenios que
poseían acciones en la Real Compañía. Para comprender lo lucrativo de su
negocio baste decir que un barril de harina de trigo comprado en España por
cinco o seis pesos era vendido en La Habana en 35 o 36 pesos.
El
gobernador Juan Francisco Güemes de Horcasitas, propiciador oficial del monopolio
de la Real Compañía, se enriqueció con su participación en el negocio. Recibió
el título de conde y llegó al codiciado cargo de virrey de México.
Desde
entonces, el cargo de capitán general y de gobernador de Cuba se convirtió en
una posición muy codiciada.
El vasallo más rico
El conde
de Revillagigedo era avaro y rapaz. Era ese, dice Álvaro de la Iglesia, su
mayor defecto. Cuando se presentaba un negocio en el que veía la posibilidad de
ganar, lo acometía aunque supiera que sería causa de escándalo. La enorme
fortuna que llegó a acaparar por esa vía le permitió crear en España un
mayorazgo para cada uno de sus hijos, y fueron varios, mientras que en La
Gaceta de Holanda se le calificaba como «el vasallo más rico que tenía Fernando
VI».
Revillagigedo
robaba, pero no dejaba robar. Si hubiese hecho la vista gorda con los ladrones
y malversadores que lo rodeaban, nadie hubiera dicho media palabra en su
contra. Pero él lo entendió de otra forma, suscitando contra su persona y todos
sus actos de Gobierno una tempestad de censuras y aun de calumnias. Se repetían
las denuncias en su contra, pero en Madrid comprendieron que si el conde
robaba, las rentas de Cuba no habían alcanzado nunca antes el monto de lo que
él remitía desde La Habana. A eso se unía su adecuada defensa de la Isla, pues
tenía a raya a las armadas enemigas. De ahí que Madrid lo mantuviera en su
cargo contra viento y marea.
Nombraron
sus enemigos al abogado Lorenzo Hernández Tinoco como una especie de acusador
privado contra Güemes, y Güemes sin perder tiempo lo deportó a España. No les
quedaba ya nada que hacer como pedir al cielo que lo partiera un rayo, al igual
que le había sucedido en esos días al navío Invencible en la bahía habanera.
No lo
partió el rayo, pero un ataque de apoplejía pareció que lo sacaría del juego de
manera definitiva. Cantaron victoria sus enemigos, que no contaron con la
resistencia del asturiano. La familia Chacón lo llevó a sus predios de Santa
María del Rosario y las aguas medicinales del lugar hicieron que se restableciera
en un mes. Volvió a La Habana dispuesto a seguir enriqueciéndose y a hacer
rabiar aún más a sus enemigos.
Dice
Álvaro de la Iglesia que por los días de su grave dolencia fue que circuló un
dicho popular que aludía a su mezquina avaricia. Decía:
«Ni conde
ni marqués; Juan es». «Más que los ataques de que había sido objeto, debió
dolerle a Revillagigedo aquel dicho que corría de boca en boca, pues desde
entonces se hizo aún más avinagrado y terrible que antes, poniendo en cuidado a
sus perseguidores, que le temían como al cólera».
Pasó el
tiempo. Los que seguían en espera de verlo caer, creyeron volverse locos al
saber que Juan Francisco Güemes de Horcasitas era nombrado virrey de México.
De mi padre lo aprendí
Su hijo
mayor, Juan Vicente Güemes Pacheco, segundo conde de Revillagigedo, nacido en
La Habana en 1738, fue también virrey de México, el virrey número 52 que
gobernó ese país durante cinco años. A escasos ocho días de haber asumido su
mandato condenó a muerte a los asesinos de un acaudalado mercader. Su proceder
le ganó fama de justo.
Modificó
la administración pública y transformó intendencias y tribunales, lo que
permitió un manejo más eficiente de los recursos de la Colonia. Fundó varias
escuelas, entre estas el Real Colegio de Minería. En su tiempo la ciudad de
México se remozó y se levantaron nuevos edificios. El Ayuntamiento de la ciudad
le formó un juicio de residencia, pero sus acusadores fueron obligados a pagar
los gastos del proceso al demostrarse la inocencia del virrey. Murió en Madrid
en 1799.
Ciro
Bianchi Ross
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