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mercoledì 23 marzo 2016

Fantasmi in Jesús del Monte, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 20/3/16

Alla fine del XIX secolo e inizio del XX non figurava ancora, tra i personaggi avaneri popolari, lo strillone dei giornali. Non esisteva, semplicemente perché allora i giornali avevano una circolazione che raggiungeva solo i ricchi e potenti che per motivi culturali o per il desiderio di essere informati, appartenessero o meno a un’elite che fra i suoi privilegi aveva quello di godere dell’abbonamento a un giornale.
L’uomo che vendeva il giornale per strada e inoltre annunciava le notizie principali – diligente ausiliario della stampa, come qualcuno lo chiamò -, apparve più tardi come risultato delle crescenti tirature e le edizioni successive che durante la giornata, facevano i giornali e che necessitavano la loro distribuzione tra diversi settori del pubblico.

Fotografie e dettagli

Di uno di quei venditori di giornali – venditori sul serio – parlò José M. Muzaurieta, giornalista brillante, in una delle sue cronache. L’uomo nero, agile e scintillante, vendeva El Imparcial, lo stesso giornale che vendette Kid Chocolate e Muzaurieta che dirigeva tale giornale, ricordava che ogni giorno raccoglieva i primi pacchi, appena usciti dalla tipografia e con ansia scorreva un esemplare alla ricerca della notizia che avrebbe acclamato e che gli avrebbe permesso di muovere i compratori alla curiosità.
Se nella prima pagina non trovava niente che servisse per “l’attacco”, passava alle pagine interne, una a una, fino ad arrivare all’ultima. Se un giorno il giornale “non usciva buono”, esteriorizzava il suo disgusto, ma come venditore che era, tornava ad immergersi nelle sue pagine alla ricerca di un gancio per la vendita, come in quell’occasione, in cui stanco di cercare, tornò alla sezione della Polizia, dove un piccolo ritaglio dava conto della denuncia di un individuo nel cui domicilio, di notte, trascinavano catene e si produceva un rumore spaventoso che non lo lasciava dormire.
Lo strillone fece salti di gioia. Aveva trovato quello che cercava. Uscì come una freccia sulla strada. Gridava: “Come sono i fantasmi in Jesús del Monte! Maltrattano e tormentano una famiglia! El Imparcial con le ultime notizie! Fotografie e dettagli!”
A qualunque fatto, per insignificante che fosse, quello strillone strappava profitto e dopo aver venduto quattro o cinque pacchi, non era raro che tornasse al giornale per prenderne altri.
Il colmo, ricordava Muzaurieta, fu il giorno in cui non trovò nell’edizione del giorno niente, assolutamente niente che servisse per le sue declamazioni e “attacchi”. Protestò, si indignò, si rivolse malamente ai redattori fino a ricordare che era un venditore e il suo compito era vendere. Nell’uscire dal Reparto Vendite gridava: “El Imparcial! Figuratevi! El Imparcial con il crimine di domani!”

Il letto e il seggiolone

Attorno al 1830, non c’erano ancora alberghi all’Avana, ma nel 1828 si riportavano 1.157 “stanze interne da affittare”. L’arredamento di queste stanze era sconcertante, d’acchito però gli stranieri che le affittavano finivano per gradire sopratutto il letto.
Sui letti dell’epoca, afferma Robert Francis Jamesson, ufficiale della Marina britannica, nelle sue Cartas habaneras (Letters from the Havana, 1820):
La più comunemente usata è un semplice incrocio di legno sul quale si stende un pezzo di tela. Su di essa si collocano un paio di lenzuola fra le quali uno si stende, mentre un’armatura delicata sostiene una rete che lo avvolge per proteggerlo dalle zanzare. Questo è quello che si chiama giaciglio. Ci vuole un po’ di abitudine per riconciliare le ossa con lui, ma la freschezza che offre induce a preferirlo al materasso”.
Jamesson che fu il primo rappresentante dell’Inghilterra davanti alla Commissione Mista per l’abolizione della tratta dei negri – da lì il motivo del suo soggiorno sull’Isola – descrive la giornata tipo dell’uomo con risorse nell’Avana di allora.
Cosa fa l’avanero quando non ha niente da fare? Anche su  questo Jamesson si pronuncia nelle sue Cartas habaneras. Si fa un bagno, si veste per il pranzo che quasi sempre è verso le tre del pomeriggio, dorme la siesta..., dice. E indica in modo esplicito: “Quando non c’è niente da fare si dondola su un seggiolone...”
Nei suoi commenti al libro di Jamesson, l’erudito Juan Pérez de la Riva precisa che questo è uno dei riferimenti più antichi al seggiolone a dondolo che si trovano nella letteratura. Dondoli che secondo quello che crediamo, afferma Pérez de la Riva, fu inventato da qualche cubano alla fine del XVIII secolo.

La via della morte

Al principio, i condannati a morte all’Avana, compivano la loro sanzione sulla forca, Questa macchina per uccidere era installata nella piazza delle Orsoline, che sbocca nella calle di Egido, la Calle Bernaza la si chiamava la via della forca perché conduceva fino al luogo del patibolo. Nel 1810, quando non si era costruita ancora alla fine del Paseo del Prado il Carcere di Tacón, la forca si mise nella spianata della Punta. Nel 1834, Fernando VII, il re fellone, abolì l’uso della forca in Spagna e in tutti i suoi domini. Sarebbe sostituita per la garrota. Per decine di anni le esecuzioni erano state pubbliche, Poi, la garrota si mise all’interno dl recinto carcerario. In questa spianata morirono alla garrota vil Narciso López, Eduardo Facciolo e Ramon Pintó, fra gli altri. Anche Domingo Goicuría gardò prigione in quel luogo, ma fu giustiziato, sempre con la garrota, alla Loma del Príncipe, fortezza convertita in prigione politica dal 1976, quando la inaugurò come tale, Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia.
La Audiencia Pretorial ebbe sede e celebrò le sue riunioni nel piano principale del carcere di Tacón, dall’apertura di questa installazione penitenziaria. Rimase in quel posto già come Audiencia de La Habana, fino al 1938.
Nel 1930, eccetto la parte occupata dall’Audiencia, il Carcere Nuovo che per quella data era già vecchio, vecchissimo, rimase vuoto. Nel vetusto edificio allora si installarono gli uffici del Municipio e del Sindaco dell’Avana e lì rimasero, mentre si faceva il restauro del palazzo municipale – antico Palazzo dei Capitani Generali, oggi Museo della Città -, secondo quanto disposto dal sindaco Miguel Mariano Gómez.
Nove anni dopo, l’edificio del Carcere era smantellato. Sul terreno dove si ergeva si costruì il Parco dei Martiri, in ricordo di quanti soffrirono la prigione o la morte in quel luogo. Non furono demolite, e come reliquie storiche formano parte del parco, due celle di rigore dove si rinchiudevano i prigionieri più contumaci o quelli che si volevano castigare con maggiore durezza. Inoltre rimase in piedi la cappella dove numerosi eroi e martiri passarono le ultime ore della loro vita.

Quadrati del Malecón

Edoardo Robreño dice nel suo libro Cualquier tiempo pasado fue… che quando sucede un penetrazione del mare, è nella calle Galiano, dove l’acqua penetra per prima, dovuto a un dislivello abastanza profondo esistente in tale luogo. Senza dubbio, quando il ciclone del ’26, l’acqua arrivò per Prado, fino alla calle Colón. E quando il ciclone del ’19, giunse per Campanario fino alla calle Ánimas, con conseguente allarme degli abitanti.
Dei quadrati che ha il Malecón, quello compreso fra le calli San Nicolás e Manrique è dove battono più forte le onde a causa del basso muro e del piccolo spazio occupato dagli scogli. Il muro del Malecón che comincia in calle Lealtád è più basso del resto.

Plaza de Armas

Alla fine del XVI secolo, José Maria de la Torre, annota nel suo libro La Habana antigua y moderna, questo luogo, di piazza aveva solo il nome. Ma fu “il centro da dove si irradiò” la città. Le rialzarono le edificazioni dove, nel finale del XVIII secolo, si eressero attorno ad essa: il Palazzo dei Capitani Generali e la Casa dell’Intendente o del Secondo Capo. Governatori come il marchese de la Torre y de Someruelos, Juan Ruiz de Apodaca e Francisco Dionisio Vives fecero opere che la abbellirono. Indubbiamente la Plaza de Armas cadde in un abbandono totale negli anni finali della dominazione spagnola a Cuba. Cessarono di avere luogo lì, per la guerra, le frequentate riunioni serali e gli avaneri la frequentavano meno come luogo di svago.
La situazione si acutizzò negli anni della prima occupazione militare nordamericana. Leonard Wood, uno dei governatori intervenzionisti, fece togliere le panchine.
Occorreva che i giornalieri del porto e gli impiegati delle aziende vicine, aspettavano lì l’ora di iniziare il lavoro. Le loro conversazioni impedivano il sonno del proconsole, a cui piaceva dormire la mattina. E la Plaza de Armas perse, con le sue panchine, la sua condizione di bell’angolo coloniale.
Diciamo brevemente che fra il 1899 e il 1902, il tempo che durò il primo intervento, all’Avana si costruì un solo edificio pubblico, quello destinato alla Scuola di Arti e Mestieri, nella calle Belascoaín.
Si dovette aspettare il 1926 perché si facesse il restauro del Palazzo del Secondo Capo. L’anno successivo si restaurò il Tempietto e nel 1930 il Palazzo dei Capitani Generali.

In quella data, il Palazzo del Secondo Capo ospitava il Senato della Repubblica e quando questi si installò nel Capitolio, in questo edificio funzionò il Tribunale Supremo di Giustizia.

Fantasmas en Jesús del Monte
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT

A fines del siglo XIX y a comienzos del XX no figuraba aún entre los personajes populares habaneros el voceador de periódicos. No existía, sencillamente, porque los diarios de entonces tenían una circulación que solo alcanzaba a los adinerados y pudientes, quienes, por afanes culturales o por el deseo de estar informados, pertenecían o aspiraban a pertenecer a una élite que, entre sus privilegios, tenía el de gozar de la suscripción a un periódico.
El hombre que vendía el periódico por la calle y además pregonaba las noticias principales —diligente auxiliar de la prensa, como le llamó alguien—, apareció más tarde como resultado de las tiradas crecientes y las sucesivas ediciones que, a lo largo del día, hacían los diarios y que exigían su distribución entre sectores dispersos del público.

Fotografías y detalles

De uno de aquellos vendedores de periódicos —vendedores de verdad— habló José M. Muzaurieta, periodista de anjá, en una de sus crónicas. El hombre, negro y ágil y chispeante, vendía El Imparcial, el mismo periódico que vendió Kid Chocolate, y Muzaurieta, que dirigía dicho diario, recordaba que en cada jornada recogía los primeros los paquetes recién salidos de la imprenta y con afán revisaba un ejemplar en busca de la noticia que vocearía y que le permitiría mover la curiosidad de los compradores.
Si no encontraba en la primera página nada que le sirviera para el «ataque», pasaba a las páginas interiores, una a una hasta llegar a la última. Si un día el periódico «no venía bueno», exteriorizaba su desagrado, pero como vendedor que era volvía a sumergirse en sus páginas en busca de un gancho para la venta, como en aquella ocasión, en que cansado de buscar, volvió sobre la sección de Policía, donde un pequeño suelto daba cuenta de la denuncia de un individuo en cuyo domicilio arrastraban cadenas por la noche y se producía un ruido espantoso que le impedía dormir.
El voceador dio saltos de júbilo. Había encontrado lo buscado. Como una flecha salió a la calle. Gritaba: «¡Cómo están los espíritus en Jesús del Monte! ¡Maltratan y atormentan a una familia! ¡El Imparcial con las últimas noticias! ¡Fotografías y detalles!».
A cualquier suceso, por insignificante que fuera, aquel voceador le sacaba lascas y luego de vender cuatro o cinco paquetes, no era raro que volviera por más al periódico.
El colmo, recordaba Muzaurieta, fue la ocasión en que no encontró en el periódico del día nada, absolutamente nada que le sirviera para sus pregones y «ataques». Protestó, se indignó, despotricó contra los redactores hasta que recordó que él era un vendedor y lo suyo era vender. Al salir del Departamento de Ventas, gritaba: «¡El Imparcial! ¡Vaya! ¡El Imparcial con el crimen de mañana!».

La cama y el sillón

Hacia 1830 no existían aún hoteles en La Habana, pero, en 1828, se reportaban 1 157 «cuartos interiores» para alquilar. El mobiliario de esas habitaciones desconcertaba, de entrada, a los extranjeros que las rentaban, pero terminaban agradeciendo, sobre todo, la cama.
Sobre las camas de la época afirma Robert Francis Jamesson, oficial de la Marina británica, en sus Cartas habaneras (Letters from The Havana, 1820):
«La más comúnmente usada es una simple cruceta de madera en la que se extiende un pedazo de lona. Sobre ella se coloca un par de sábanas finas entre las cuales uno se acuesta, mientras una delicada armazón sostiene una red que lo envuelve a uno protegiéndolo de los mosquitos. Es lo que se llama catre. Hace falta un poco de hábito para reconciliar los huesos con él, pero la frescura que ofrece induce a uno a preferirlo al colchón».
Jamesson, que fue el primer representante de Inglaterra ante la Comisión Mixta para la abolición de la trata negrera —de ahí el motivo de su estancia en la Isla— describe el día tipo de un hombre con recursos en La Habana de entonces.
¿Qué hace el habanero cuando no tiene nada que hacer? Sobre ello también se pronuncia Jamesson en sus Cartas habaneras. Toma un baño, se viste para el almuerzo, que casi siempre es sobre las tres de la tarde, duerme la siesta…, dice. Apunta de manera explícita: «Cuando no hay nada que hacer, puede mecerse uno en un amplio sillón…».
En sus comentarios al libro de Jamesson, el erudito Juan Pérez de la Riva precisa que esa es una de las referencias más antiguas al sillón de balance que se hallan en la literatura. Balance que según creemos, afirma Pérez de la Riva, fue inventado por algún cubano a fines del siglo XVIII.

Camino de la muerte

En un comienzo los condenados a muerte en La Habana cumplían su sanción en la horca. Esa máquina de matar estaba instalada en la plaza de las Ursulinas, que se aboca sobre la calle de Egido. A la calle de Bernaza se le llamaba el camino de la horca, porque conducía hasta el lugar del patíbulo. En 1810, cuando aún no se había construido al final del Paseo del Prado la Cárcel de Tacón, la horca se situó en la explanada de la Punta. En 1834, Fernando VII, el rey felón, abolió el uso de la horca en España y en todos sus dominios. Sería sustituida por el garrote. Durante decenas de años las ejecuciones habían sido públicas. Luego el garrote se ubicó en el interior del recinto carcelario. En esa explanada murieron en garrote vil Narciso López, Eduardo Facciolo y Ramón Pintó, entre otros. Domingo Goicuría también guardó prisión en el lugar, pero fue ejecutado, igualmente en garrote, en la loma del Príncipe, fortaleza convertida en prisión política desde 1796, cuando la estrenó como tal Antonio Nariño, precursor de la independencia de Colombia.
La Audiencia Pretorial radicó y celebró sus reuniones en el piso principal de la Cárcel de Tacón desde la apertura de esa instalación penitenciaria. Y permaneció en ese sitio, ya como Audiencia de La Habana, hasta 1938.
En 1930, salvo la parte ocupada por la Audiencia, la Cárcel Nueva que en esa fecha era ya vieja, viejísima, quedó vacía. En el vetusto edificio se instalaron entonces las oficinas del Ayuntamiento y de la Alcaldía de La Habana, y allí estuvieron mientras se efectuaba la restauración del palacio municipal —antiguo Palacio de los Capitanes Generales, hoy Museo de la Ciudad—, según lo dispuesto por el alcalde Miguel Mariano Gómez.
Nueve años después el edificio de la Cárcel era desmantelado. Sobre el terreno donde se asentó se construyó el Parque de los Mártires en recuerdo de cuantos sufrieron prisión o muerte en ese lugar. No fueron demolidas y, como reliquias históricas, forman parte del parque dos celdas bartolinas donde se encerraban a los presos más contumaces o a aquellos a quienes se quería castigar con mayor dureza. Quedó en pie además la capilla donde numerosos héroes y mártires pasaron las últimas horas de su vida.
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Cuadrados del malecón
Dice Eduardo Robreño en su libro Cualquier tiempo pasado fue…, que cuando ocurre un ras de mar es por la calle Galiano donde primero penetra el agua, debido a un desnivel bastante profundo existente en dicho lugar. Sin embargo, cuando el ciclón del 26, el agua llegó por Prado hasta la calle Colón. Y cuando el ciclón del 19, llegó por Campanario hasta la calle Ánimas, con la alarma consiguiente del vecindario.
De los cuadrados que tiene el Malecón, el comprendido entre las calles San Nicolás y Manrique es por donde más fuerte baten las olas, a causa de lo bajo del muro y del pequeño espacio ocupado por los arrecifes.
El muro del Malecón que empieza en la calle Lealtad es más bajo que el resto.

Plaza de armas

A fines del siglo XVI, anota José María de la Torre en su libro La Habana antigua y moderna, ese sitio, de plaza, solo tenía el nombre. Pero fue «el centro de donde irradió» la ciudad. La realzaron las edificaciones donde en las postrimerías del XVIII se alzaron en torno a ella: el Palacio de los Capitanes Generales y la Casa del Intendente o del Segundo Cabo. Gobernadores como los marqueses de la Torre y de Someruelos, y Juan Ruiz de Apodaca y Francisco Dionisio Vives, acometieron obras que la embellecieron.
La Plaza de Armas, sin embargo, cayó en un total abandono en los años finales de la dominación española en Cuba. Dejaron de tener lugar allí, por la guerra, las concurridas retretas nocturnas, y los habaneros la frecuentaban menos como lugar para el esparcimiento.
La situación se agudizó en los años de la primera ocupación militar norteamericana. Leonard Wood, uno de los gobernadores intervencionistas, mandó a retirarle los bancos. Sucedía que los jornaleros del puerto y empleados de establecimientos cercanos esperaban allí la hora de empezar a trabajar. Sus conversaciones impedían el sueño del procónsul, que gustaba de dormir la mañana. Y la Plaza de Armas perdió con sus bancos su condición de bello rincón colonial.
Digamos de paso que entre 1899 y 1902, el tiempo que duró la primera intervención, solo se construyó en La Habana un edificio público, el destinado a la Escuela de Artes y Oficios, en la calle Belascoaín.
Hubo que esperar a 1926 para que se acometiera la restauración del Palacio del Segundo Cabo. Al año siguiente se restauró el Templete y, en 1930, el Palacio de los Capitanes Generales.
En esa fecha el Palacio del Segundo Cabo daba albergue al Senado de la República, y cuando este se instaló en el Capitolio, funcionó en ese edificio el Tribunal Supremo de Justicia.


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