Pubblicato su Juventud Rebelde del 27/3/16
Con motivo dell’apparizione
in questo giornale, della mia pagina sulla visita all’Avana del presidente nordamericano Calvin Coolidge, in un giornale del sud della Florida si è
pubblicato, con la firma di Glenn Garvin, un articolo che affronta altri
aspetti del soggiorno avanero del citato presidente che soprannominavano,
ricorda la nota “Cal il silenzioso” e di cui si giunse a dire che mostrava
l’espressione di qualcuno “allattato con un cetriolino sottaceto”.
Garvin mette alla sua nota
il titolo di Sconfitta della democrazia e vittoria della baldoria, così,
d’acchito, da l’idea al lettore di dove andranno gli spari. Afferma subito che
quella visita fu “un festival di ubriacature e libertinaggio, contrabbando
salace e perfino atti innaturali con torte di limone”. La stampe, al suo
momento, non rivelò niente di questo. Questo sfondo venne a lla luce 30 anni
dopo, quando il giornalista Beverly Smith fece suonare un’allarme in un
articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Un racconto di fate – scrive
Garvin -, con elementi di pompa, dramma, commedia e farsa; di dignità rigida e
comportamento indecoroso; di diplomazia del cappello di bicchieri con un tocco
di alcolismo”
Garvin precisa che Coolidge
non partecipò alla depravazione generale. Se alcuni avaneri credettero di
vedere il presidente scivolando per le vie delle zone di tolleranza della
città, elegante, con un cappello a bombetta completamente fuori luogo, si
sbagliarono completamente. È che tra i giornalisti che lo accompagnavano, uno
che somigliava molto al Presidente, si faceva passare per lui. Lo stesso che
sostituendo il presidente frequentava i bar dell’Avana suscitando l’ammirazione
e la simpatia della clientela, splendida al momento del convivio e che non
risparmiava di pagargli tutte le bevute che fosse capace di ingerire. Smith
scriveva sul suo articolo del 1959: “Sospetto che ci siano ancora alcuni
avaneri vecchi che credono che Cal, fuori dal suo orario di lavoro, era un
allegro bevitore”.
In ogni modo l’aneddoto
segnò il soggiorno avanero del Presidente nordamericano. Si dice che il
presidente Gerardo Machado invitò Coolidge e la sua signora e che visitassero
la tenuta avicola sperimentale che alimentava il Governo cubano. Quando la
prima dama si avvicinò a uno dei pollai, osservò stupita come un gallo
“calpestava” freneticamente una gallina.
- “Con che frequenza lo fa?”
– chiese a uno dei lavoratori.
-“Decine di volte al giorno
– rispose l’interpellato.
-Bene lo dica al presidente,
quando passa.
Così fece il lavoratore.
Coolidge allora domandò se il gallo “calpestasse” sempre la stessa gallina.
-“No, è una diversa ogni
volta – rispose il lavoratore e il presidente non tardo con la sua risposta:
-“Dica questo a mia moglie.
L’aneddoto, naturalmente è
apocrifo. La storica Amity Shales, nella sua biografia di Coolidge, pubblicata
nel 2013, afferma che fece l’impossibile per trovare elementi che lo
confermassero. “Non ho trovato prove che fosse certo”, conclude.
Un
presidente uscente
In quel già lontano mese di
gennaio del 1928, quando venne a Cuba, Coolidge era un presidente uscente che
cercava di chiudere il suo soggiorno alla casa Bianca con un successo nella
politica estera”, scrive Glenn Garvin nel suo articolo. Aggiunge che cercava di
calmare la crescente avversità dei cubani con le alte tariffe zuccheriere degli
U.S.A. che danneggiavano l’economia dell’Isola e di placare le critiche
generalizzate in America Latina per gli interventi militari statunitensi in
Nicaragua, Haiti e nella Repubblica Dominicana. Questi furono i suoi propositi
nel rispondere in modo affermativo all’invito di Machado per assistere alla
Sesta Conferenza Panamericana dell’Avana.
Si dice che si proponeva di
usare la riunione per dare impulso alla sua campagna a favore di un trattato, a
livello mondiale, di rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale.
Il Senato degli U.S.A. si era negato ad approvare la partecipazione del Paese
alla Lega delle Nazioni otto anni prima, ma Coolidge pensò che poteva riuscire
a che fosse approvata se ci si concentrava semplicemente nel proibire la
guerra, senza creare una burocrazia internazionale come parte dell’accordo.
In ultima istanza perse in
tutto ciò che si propose, affermano gli specialisti. Nonostante Coolidge
promise al governante cubano di abbassare le tariffe, questo non avvenne mai –
di fatto, un paio d’anni dopo si alzarono le imposte sullo zucchero che gli
U.S.A. compravano da Cuba. D’altra parte, gli sforzi per placare l’America
Latina rispetto agli interventi statunitensi non vennero mai messi in pratica,
perché Coolidge ordinò ai suoi marines che tornassero in Nicaragua, giusto poco
prima di partire per l’Avana.
Il trattato di pace a
livello mondiale di Coolidge che finì per essere conosciuto come il Patto
Briand-Kellogg, fu approvato da oltre cinque dozzine di Paesi. Ma questo non
impedì a nessuno di tuffarsi di testa nella Seconda Guerra Mondiale, una decade
più tardi, ciò che fece dell’accordo citato, l’atto diplomatico più inutile
della storia universale.
“Non sono sicura di quanto
fosse convinto di ciò”, afferma Amity Shales nella biografia. “Egli fece tutto
con certa malinconia, il tipo di cose che uno fa quando qualcosa è d’accordo
coi suoi principi, ma non prova molta gioia nel farlo. Coolidge non si sentiva
bene; pensava che la presidenza lo stesse sfinendo, ma in realtà era malato di
cuore. E stava sentendo la solitudine che circonda un presidente quando tutti
quanti si rendono conto che non contuerà ad essere presidente per molto tempo e
cominciano ad adulare il nuovo”.
Ricevimento
da apoteosi
Otto navi della Marina
Militare nordamericana si resero necessari per trasportare, da Key West, il
Presidente e la sua comitiva, della quale faceva parte il famoso aviatore
Charles Lindbergh il primo ad attraversare, in solitario, l’oceano Atlantico a
bordo del suo aereo Spirit of St. Luis. Già di fronte all’Avana, una piccola
imbarcazione lo portò sulla sponda. Si riunirono duecentomila persone, lungo le
strade, per acclamarlo nel suo breve percorso dal porto al Palazzo
Presidenziale, dove si sarebbe alloggiato con sua moglie e i suoi principali
collaboratori, mentre il resto della comitiva alloggiava all’hotel Sevilla e
altre installazioni. Ci fu una nota simpatica al ricevimento; otto o dieci
ragazze vestite in modo vistoso e molto truccate, lanciarono rose al passaggio
dell’automobile che trasportava il presidente. Erano le pupille di un vicino
postribolo, portavano la bandiera nordamericana e assistettero all’atto di
benvenuto in compagnia della loro maitresse che pure non volle restare nella
casa.
Quando Coolidge, alla fine,
si ritirò a riposare al terzo piano della magione della calle Refugio, numero 1,
giornalisti ed editorialisti rimasero liberi per iniziare il giornalismo
investigativo...nei bar della città. Venivano da un Paese nel quale vigeva il
Proibizionismo dal 1920 che proibiva le bevande alcoliche e obbligava ad
arrischiarsi in cantine clandestine, dove l’accesso dipendeva da parole d’ordine
o frasi in codice. Per i giornalisti e funzionari del Governo che si aggiunsero
all’avventura, si apriva la città che a detta di Alejo Carpentier, poteva
offrire la maggior quantità di bevute al palato del viaggiatore curioso, dove
una coppia non doveva esibire il certificato di matrimonio per trovare
ospitalità in un hotel e nella quale si poteva scommettere –vincere o perdere- qualsiasi somma di denaro nelle roulettes del
Casinò Nazionale senza richiamare l’attenzione delle autorità. I visitatori
cercarono bar come il Floridita o lo Sloppy Joe’s, o quelli degli alberghi
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, i più intraprendenti si spostavano fino
ai bar o ai piccoli cabaret che nella Playa di Marianao si conoscevano col nome
generico de “las fritas”. Ci furono visite ai teatri pornografici e non furono
pochi quelli che si recarono al quartiere di Colón al fine di cercare emozioni
indimenticabili tra le gambe di una ragazza cubana.
Alcuni degli articoli che
apparvero su Coolidge e la sua visita a Cuba nella stampa nordamericana, furono
scritti sotto l’influenza dell’alcol, dice Glenn Garvin e offre questa perla che
pubblicò The New York Times nella quale si inizia riferendosi all’abbigliamento
protocollare dei funzionari cubani e termina facendosi incoerente. Dice:
“Siccome non si poteva trovare un paio di calzini corti grigi in tutta
l’Avana, uno stato di perturbazione prevalse fino a che gli investigatori si
accertarono che fu un falso allarme”.
In realtà la festa e il
divertimento erano cominciati a Key West, quando i passeggeri si resero conto
di aver lasciato indietro un Paese col Proibizionismo per trovare che a West con i suoi bar a porte spalancate, era semplicemente Key West. Ci furono
scherzi crudeli come quelle dei letti spalmati di torta di limone, con i quali
gli ubriachi si trovavano all’ora di andare a dormire.
Il presidente Calvin
Coolidge assistette, all’Avana, a una partita di pelota basca. L’ora del ritorno
intristì i membri della sua comitiva: tornavano al Paese della proibizione.
Presto un’altra notizia li rianimò: nessuno, nemmeno i reporters avrebbe fatto
dogana a Key West all’ingresso negli Stati Uniti, cosa che significava che chi
lo volesse, poteva portarsi tutto il rum che voleva. I venditori di liquore
cubani fecero festa. Furono molte le valigie che si comprarono in fretta e
furia per trasportare il miglior rum cubano contenuto in recipienti di circa
due litri e che più tardi i marines, con sogghigni complici, avrebbero messo a
bordo delle navi.
Chi approvò questa
gigantesca operazione di contrabbando? Si domandava, nel 1959, il giornalista
Beverly Smith nel suo articolo pubblicato nel Saturday Evening Post. “Sarebbe
stato, incredibilmente lo stesso Calvin, in un attacco di umore capriccioso che
qualcuno supponeva si nascondesse dietro la sua faccia acida del Vermont?”
Cal, el Callado
Ciro Bianchi Ross
26 de
Marzo del 2016 22:51:24 CDT
A raíz de
la aparición en este diario de mi página sobre la visita a La Habana del
presidente norteamericano Calvin Coolidge, se publicó en un periódico del sur
de Florida, y con la firma de Glenn Garvin, un artículo que aborda otras
aristas de la estancia habanera de dicho mandatario, a quien apodaban, recuerda
la nota, «Cal, el Callado» y de quien se llegó a decir que lucía la expresión
de «alguien a quien destetaron con un pepinillo encurtido».
Garvin da
a su nota el título de Fracaso de la diplomacia y triunfo de la juerga, y así,
de entrada, da al lector la idea de por dónde irán los tiros. Afirma enseguida
que aquella visita fue «un festival de borrachera y libertinaje, contrabando
salaz y hasta actos antinaturales con tartas de Key Lime». Nada de eso reveló
la prensa en su momento. Ese trasfondo salió a relucir 30 años después, cuando
el reportero Beverly Smith hizo sonar la alarma en un artículo publicado en el
Saturday Evening Post. «Un cuento de hadas —escribe Garvin—, con elementos de
pompa, drama, comedia y farsa; de dignidad rígida y juerga indecorosa; de
diplomacia de sombrero de copa con un toque de alcoholismo».
Precisa
Garvin que Coolidge no participó de la depravación general. Si algunos
habaneros creyeron ver al mandatario escurriéndose por las calles de las zonas
de tolerancia de la ciudad, tocado con un sombrero de copa totalmente fuera de
lugar, se equivocaron por completo. Y es que venía entre los periodistas que lo
acompañaron uno que se parecía mucho al Presidente y se hacía pasar por él. El
mismo que, suplantando al mandatario, recorría los bares de La Habana
despertando la admiración y la simpatía de la clientela, espléndida a la hora
de la convidada y que no escatimaba en pagarle todos los tragos que fuera capaz
de beber. Escribía Smith en su reportaje de 1959: «Sospecho que todavía hay
algunos habaneros viejos que creen que Cal, fuera de su horario de oficina, era
un alegre bebedor».
De
cualquier manera la anécdota matizó la estancia habanera del Presidente
norteamericano. Se dice que el presidente Gerardo Machado invitó a Coolidge y a
su esposa a que visitaran una granja avícola experimental que fomentaba el
Gobierno cubano. Cuando la Primera Dama se acercó a uno de los gallineros,
observó asombrada cómo un gallo «pisaba» frenéticamente a una gallina.
—¿Con qué
frecuencia hace eso? —preguntó a uno de los peones.
—Decenas
de veces al día —respondió el aludido.
—Pues
dígaselo al Presidente cuando pase.
Así lo
hizo el peón. Coolidge inquirió entonces si el gallo «pisaba» siempre a la misma
gallina.
—No, es
una diferente cada vez —contestó el peón, y el mandatario no demoró su
respuesta:
—Dígale
eso a mi esposa.
La
anécdota desde luego es apócrifa. La historiadora Amity Shlaes, en su biografía
de Coolidge publicada en 2013, afirma que hizo lo imposible por hallar
elementos que la sustentaran. «No encontré pruebas de que fuera cierta»,
concluye.
Un presidente saliente
En aquel
lejano ya mes de enero de 1928, cuando vino a Cuba, Coolidge era «un presidente
saliente que intentaba cerrar su estancia en la Casa Blanca con un logro de
política exterior», escribe Glenn Garvin en su artículo. Añade que trataba de
calmar la creciente inconformidad de los cubanos con las altas tarifas
azucareras de EE. UU. que acababan con la economía de la Isla, y de aplacar las
críticas generalizadas en Latinoamérica a las intervenciones militares
estadounidenses en Nicaragua, Haití y República Dominicana. Fueron esos sus
propósitos al responder de manera afirmativa a la invitación de Machado para
asistir a la Sexta Conferencia Panamericana de La Habana.
Se dice
que se proponía usar la reunión para impulsar su campaña a favor de un tratado
a nivel mundial de renuncia de la guerra como instrumento de política nacional.
El Senado de EE. UU. se había negado a aprobar la participación del país en la
Liga de las Naciones ocho años antes, pero Coolidge pensó que podría conseguir
que fuese aprobado si se concentraba simplemente en prohibir la guerra sin
crear una burocracia internacional como parte del acuerdo.
En última
instancia, fracasó en todo lo que se propuso, afirman especialistas. Aunque
Coolidge prometió al gobernante cubano bajar las tarifas, eso nunca sucedió —de
hecho, un par de años más tarde subieron los impuestos al azúcar que EE. UU.
adquiría en Cuba. Por otra parte, los esfuerzos por aplacar al resto de América
Latina con respecto a las intervenciones estadounidenses nunca se pusieron en
práctica, porque Coolidge ordenó a sus marines que regresaran a Nicaragua justo
antes de partir rumbo a La Habana.
El tratado
de paz a nivel mundial de Coolidge, que acabó siendo conocido como el Pacto
Briand-Kellogg, fue aprobado por más de cinco docenas de países. Pero eso no
impidió a nadie lanzarse de cabeza a la Segunda Guerra Mundial una década más
tarde, lo cual hizo del mencionado acuerdo el acto de diplomacia más inútil de
la historia universal.
«No estoy
segura de cuán convencido estaba él de nada de esto», afirma Amity Shlaes en la
biografía. «Él lo hizo todo con cierta melancolía, el tipo de cosas que uno
hace cuando algo está de acuerdo con sus principios, pero no encuentra mucho
placer en hacerlo. Coolidge no se sentía bien; pensaba que la presidencia
estaba agotándolo, pero en realidad estaba enfermo del corazón. Y estaba
sintiendo la soledad que rodea a un presidente cuando todo el mundo se da
cuenta de que él no va a seguir siendo presidente por mucho tiempo y empieza a
adular al nuevo».
Recibimiento apoteósico
Ocho
buques de la Marina de Guerra norteamericana se hicieron necesarios para
transportar desde Cayo Hueso al Presidente y su comitiva, de la que formaba
parte el famoso aviador Charles Lindbergh, el primero en atravesar en solitario
el océano Atlántico a bordo de su avión Espíritu de San Luis. Ya frente a La
Habana, una pequeña embarcación lo trajo a la orilla. Doscientas mil personas
se congregaron a lo largo de las calles para aclamarlo en su breve recorrido
desde el puerto hasta el Palacio Presidencial, donde se alojaría con su esposa y
sus principales colaboradores, mientras que el resto de la comitiva se alojaba
en el hotel Sevilla y otros establecimientos. Hubo una nota simpática en el
recibimiento: ocho o diez muchachas llamativamente vestidas y muy maquilladas
lanzaron rosas al paso del automóvil que conducía al mandatario. Eran las
pupilas de un prostíbulo cercano, portaban una bandera norteamericana y
acudieron al acto de bienvenida en compañía de su matrona, que tampoco quiso
quedarse en casa.
Cuando
Coolidge se retiró al fin a descansar en el tercer piso de la mansión de la
calle Refugio número 1, reporteros y editorialistas quedaron libres para
acometer el periodismo de investigación… en los bares de la ciudad. Venían de
un país donde, desde 1920, primaba la llamada Ley Seca, que prohibía las
bebidas alcohólicas y obligaba a arriesgarse en cantinas clandestinas, donde la
entrada dependía de contraseñas y toques en clave. Para los periodistas y
funcionarios del Gobierno, que se sumaron también a la aventura, se abría la
ciudad que, al decir de Alejo Carpentier, mayor cantidad de bebidas podía
mostrar al paladar curioso del viajero, donde una pareja no tenía que mostrar
el certificado de matrimonio para encontrar albergue en un hotel y en la que se
podía apostar —y ganar o perder— cualquier cantidad de dinero en las ruletas
del Casino Nacional sin llamar la atención de las autoridades. Buscaron los
visitantes bares como el Floridita y el Sloppy Joe’s o los de los hoteles
Florida, Sevilla, Plaza e Inglaterra, y los más osados se desplazaron hasta los
bares y cabaretuchos que en la playa de Marianao se conocían con el nombre
genérico de «las fritas». Hubo visitas a teatros pornográficos y no fueron
pocos los que acudieron al barrio de Colón a fin de buscar emociones
inolvidables entre las piernas de una muchacha cubana.
Algunos de
los artículos que sobre Coolidge y su visita a Cuba aparecieron en la prensa
norteamericana fueron escritos bajo la influencia del alcohol, dice Glenn
Garvin, y ofrece esta perla que publicó The New York Times en la que se comenzó
aludiendo al vestuario protocolar de los funcionarios cubanos y termina
haciéndose incoherente. Dice: «Como no se podía encontrar un par de polainas
cortas grises en toda La Habana, un estado de perturbación prevaleció hasta que
los investigadores se cercioraron de que se trataba de una falsa alarma».
En
realidad, la fiesta y la diversión habían comenzado en Cayo Hueso, cuando los
viajeros descubrieron que dejaban atrás un país sometido a la Ley Seca para
encontrar que Cayo Hueso, con sus bares abiertos de par en par, era
sencillamente Cayo Hueso. Hubo bromas crueles como las de las camas embarradas
con tartas de Key Lime, con las que se encontraban los borrachos a la hora de
acostarse.
El
presidente Calvin Coolidge asistió en La Habana a un partido de jai alai. La
hora del regreso entristeció a los miembros de su comitiva:
volverían
al país de la prohibición. Pronto otra noticia les devolvió el alma al cuerpo:
nadie, ni siquiera los reporteros, haría aduana en Cayo Hueso a su entrada en
Estados Unidos, lo que quería decir que el que lo deseara podría llevar todo el
ron que quisiera. Los licoreros cubanos hicieron su agosto. Fueron muchas las
maletas que se adquirieron de prisa para transportar el mejor ron cubano
envasado en recipientes de medio galón, que más tarde los marines, entre guiños
cómplices, subirían a los barcos.
¿Quién
aprobó esa gigantesca operación de contrabando?, se preguntaba en 1959 el
periodista Beverly Smith en su artículo publicado en el Saturday Evening Post.
«¿Habría sido, increíblemente, el mismo Calvin, en un arranque del humor
caprichoso que algunos suponían se ocultaba tras su cara de avinagrado de
Vermont?».
Ciro Bianchi Ross
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