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mercoledì 2 marzo 2016

Un presidente nordamericano all'Avana, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventude Rebelde del 28/2/16


Solo un presidente nordamericano è stato all’Avana durante l’esercizio del suo mandato. Nel gennaio 1928, in risposta a un invito del generale Gerardo Machado, presidente della Repubblica di Cuba, giungeva all’Isola Calvin Coolidge, al fine di essere presente all’inaugurazione della Sesta Conferenza Panamericana che quì si sarebbe tenuta.
Il “più ermetico” dei presidenti nordamericani, scrisse nelle sue memorie Orestes Ferrara, ambasciatore cubano a Washington tra il 1926 e il 1932 e lo descrive come “serio, silenzioso e intelligente”.
“Io considero che il successo di questo presidente – scrisse Ferrara – che fu molto grande, nonostante non fosse un politico di livello, ebbe come base il suo equilibrio, la sua mancanza di vanità e il suo poco, o nessun, interesse che lo considerassero un gran personaggio. Era convinto che quanto meno facesse, al potere, fosse meglio e che come contrasto, i famosi redentori di popoli rincorrono la propria gloria. A Coolidge non lo illudeva l’applauso, non si affliggeva per la critica, non lo offendeva il polemista in mala fede. Chiuso in se stesso, sincero nelle sue meditazioni, sperava di servire il Paese come un funzionario che deve evitargli i mali che si presentano e solo quando si presentano”.
In ricevimenti e banchetti vari, si incontrarono diverse volte il Presidente nordamericano e l’Ambasciatore cubano. In un’occasione che lo ricevette nel suo studio alla Casa Bianca, Ferrara fu sorpreso nel vedere la scrivania completamente libera di scartoffie e gli chiese come faceva per ottenerlo. La risposta giunse rapida. Con la sua voce nasale e monotona Coolidge rispose:
- Perché lavoro poco.
Il diplomatico replicò che il presidente Taft che aveva visitato 15 anni prima, nello stesso ufficio, gli confidò che la vita di un presidente nordamericano era un tormento, perché adempiere agli obblighi dell’incarico era sovrumano. Coolidge non rispose. Mantenne un lungo silenzio che non fu sgradevole per l’Ambasciatore, perché il presidente lo guardava sorridendo.
-Chi distribuisce il lavoro del potere esecutivo? – chiese alla fine.
-Il Presidente – rispose Ferrara.
-È quello che faccio io. Divido il lavoro e prendo parte al problema se il gabinetto non si mette d’accordo – disse Coolidge abbassando lo sguardo, gesto che in modo inequivocabile metteva fine a una discussione.

Fuori dal Protocollo

Un giorno, quasi all’alba, squillò il telefono dell’Ambasciatore di Cuba a Washington.
Machado che si alzava sempre alle cinque, voleva comunicare a Ferrara che due giorni dopo sarebbe partito per quella città, con un seguito di otto o dieci persone e chiedeva se poteva alloggiare all’Ambasciata. In caso contrario non ci sarebbero stati problemi; sarebbe andato in un albergo. Ad ogni modo sarebbe rimasto solo due giorni nella capitale nordamericana e avrebbe proseguito verso New York. Machado spiegò che Enoch Crowder, ambasciatore nordamericano all’Avana, lo aveva invitato alla riunione annuale del Gridiron Club. A Ferrara sembrò un’idea poco felice. Era contrario a che un mandatario straniero partecipasse a una riunione come quella e inoltre era fuori dal protocollo che Machado si incontrasse con Coolidge che avrebbe assistito al banchetto, senza averlo visto prima.
Urgeva trovare una via d’uscita. Il Segretario di Stato era malato e Ferrara non volle rivolgersi a la capo del protocollo per timore che la sua decisione sminuisse o annullasse il Capo di Stato cubano. Preferì conversare con il direttore della Sezione Latinoamericana del Dipartimento di Stato. Criticò l’idea che Machado assistesse al banchetto del Gridiron Club, ma caldeggiò il proposito che visitasse Coolidge e lo invitasse alla Conferenza Panamericana dell’Avana.
Il funzionario si mostrò d’accordo con l’ambasciatore e corse a rendere conto del fatto al Segretario di Stato. Solamente un’ora dopo, giunse con l’approvazione del capo del Dipartimento: Machado sarebbe giunto a Washington e avrebbe invitato il Presidente alla riunione. Quello che non si sapeva era se Coolidge avrebbe accettato o no. Questo, al momento, era il meno, mancava ancora quasi un anno per la conferenza dell’Avana. In quanto al banchetto del Gridiron Club, il cui invito aveva accettato, Machado si sarebbe dichiarato ammalato e avrebbe delegato Ferrara a rappresentarlo.
La visita del Presidente cubano a Washington tardò più del previsto, circostanza che Ferrara aprofittò per ultimare con calma e giudiziosamente i preparativi del suo soggiorno. Rimase tre o quattro giorni nella capiatle nordamericana ed alloggiò nell’Ambasciata di Cuba. Ci furono cene e ricevimenti, si distinse fra questi atti il banchetto col quale Coolidge si congratulò col visitatore, alla Casa Bianca. Siccome Machado era arrivato senza sua moglie, corrispose alla signora María Luisa, moglie di Ferrara, sedersi alla destra del Presidente nordamericano. E fu a lei che comunicò che accettava l’invito di visitare l’Avana. Siccome quell’uomo silenzioso e riflessivo si espresse con l’Ambasciatrice nel momento quasi finale della cena, Alice Longworth, figlia dell’ex presidente Teodoro Roosvelt e moglie del Presidente della Camera dei Rappresentanti che occupava la sedia alla sinistra del mandatario, domandò a María Luisa, al di sopra di Coolidge, cosa avesse fatto perché l’uomo parlasse tanto, quando a lei non aveva rivolto una sola parola. Coolidge assistette all’Ambasciata di Cuba alla cena con cui Machado contraccambiava la sua. L’ultimo giorno di soggiorno del cubano a Washington, entrambi i presidenti affrontarono il tema della Conferenza Panamericana. A richiesta di Machado si toccò il tema zuccheriero e della crisi economica che si avvicinava. Anche, si dice, Machado chiese la deroga dell’Emendamento Platt. La stampa riferì, attribuendolo a Machado che la sua conversazione con Coolidge fu quasi completamente sui mutui vantaggi di rettificare l’Emendamento, ma Coolidge disse che non fu quello il tema affrontato nella conversazione.
Ferrara su questo punto si dimostrava ottimista. Dice che gli assicurarono che Coolidge avrebbe derogato l’Emendamento se Cuba riduceva il suo debito pubblico e realizzava le elezioni presidenziali del 1928 senza agitazioni faziose, frodi né violenza. Questa notizia non quadrava con quello che Coolidge disse alla moglie di Ferrara durante la cena alla Casa Bianca: “Se fino adesso vi è andato bene con l’Emendamento Platt, perché sopprimerlo?”.
Si dice che Machado fu a Washington in cerca di appoggio alla sua politica di rielezione e proroga dei poteri, offrendo come garanzia di non pronunciarsi contro l’Emendamento Platt e dare, durante la conferenza, il più servile appoggio alla delegazione nordamericana quando le delegazioni latino americane presenti inalberassero la tesi del non intervento. Nella sua docilità, il Governo Cubano, giunse a negare l’invito al presidente della Lega delle Nazioni e ai rappresentanti del governo spagnolo che chiedevano di partecipare.

Corona di frutta

L’Avana si preparò per la celebrazione della Sesta Conferenza Panamericana. Mesi prima, l’esperto diplomatico Manuel Márquez Sterling, divenuto ambasciatore speciale, visitò tutti i Paesi dell’America Latina ottenendo la presenza dei loro Governi al conclave.
La risposta fu unanime: inviarono tutti la loro rappresentanza all’Isola: mai prima, una riunione di quel tipo aveva avuto tanti paesi partecipanti. Si eresse la Scalinata dell’Università, si terminò il tracciato dell’Avenida de las Misiones e il vecchio Campo di Marte fu trasformato nella Piazza della Fraternità Americana. Nelle radici della ceiba che vi fu trapiantata per l’occasione, si sparse la terra di tutte le repubbliche americane, portata specialmente per i capi di ogni delegazione. Ai capi delegazione fu consegnata una chiave d’oro con cui si apriva il cancello che proteggeva la ceiba. Per certo, la chiave della delegazione del Messico si conserva nel museo della cancelleria di quel Paese.
Uno spettacolo brillante dette inizio alla conferenza al Teatro Nacional e nella sessione di appertura si ascoltarono i discorsi di Machado e Coolidge. La conferenza avrebbe avuto le sessioni all’Università. In quei giorni non si permise l’entrata degli alunni alla casa degli alti studi e oltre 200 lavoratori e studenti che il Governo considerava come indesiderabili o sovversivi vennero messi dietro le sbarre. Il giorno di apertura della riunione – 28 gennaio 1928 – fu dichiarato Festa Nazionale. Nelle giornate finali, il 17 febbraio, Machado invitò i delegati a che lo accompagnassero all’Isola dei Pini al fine di inaugurare la prima galera della cosiddetta Prigione Modello. La riunione si concluse il giorno 20.
Durante i suoi giorni a Cuba, Calvin Coolidge si alloggiò nel Palazzo Presidenziale. Lo si vide molto compiaciuto nel pranzo che Machado offrì in suo onore nella sua tenuta Nenita, sulla strada che va da Santiago de las Vegas a Managua. Il visitatore alterò tutta la disposizione del menù e mangiò abbondantemente frutta cubana che lo deliziò. La moglie di Ferrara, seduta alla sua sinistra e servendogli da interprete, si rese conto della sua curiosità e lo invitò a cominciare dalla frutta, col permesso di Elvira, la moglie di Machado. L’immenso portafrutta andò svuotandosi poco a poco, giacché Machado e gli altri invitati imitarono Coolidge. Il capo della sala da pranzo e i camerieri, portando ogni tipo di piatto squisito, non sapevano cosa fare; il banchetto si poté organizzare solo quando cominciarono a essere servite le estremità della tavola per arrivare poi, lentamente, fino al personaggio del centro. Machado lo omaggiò con una colonna confezionata con metalli che furono parte del monumento al Maine, distrutto dal ciclone del 20 ottobre del 1926.
“Durante la sua permanenza a Cuba, Coolidge non commise un solo errore e compì con buona volontà quanto gli fu indicato da coloro che prepararono il programma per i festeggiamenti che risultavano sempre eccessivi, senza manifestare nessuna contrarietà”. Scrisse Orestes Ferrara nelle sue memorie e aggiunse che quando lasciò l’Avana, cosa che successe molto prima che si concludesse la riunione, il conclave funzionò regolarmente.
Quando, alla viglia della Sesta Conferenza Panamericana, Márquez Sterling si preparava a compiere il suo periplo latino americano, il presidente Machado gli disse: “Márquez, ho bisogno che visiti quei paesi che sono renitenti a prendere parte alla riunione e che ci aiutino a fare dell’Emendamento Platt uno strumento obsoleto”.
Parole vane. Risultò tutto il contrario. Anche se l’agenda della riunione era carica di affari intrascendenti, si apriva il passo al tema del non intervento. Gli Stati Uniti erano intervenuti militarmente in Messico, Santo Domingo, Haiti, Nicaragua...In Brasile nel 1927, la riunione dei Giureconsulti aveva proclamato: “Nessuno Stato può intervenire negli affari interni di un altro”. All’Avana, la maggioranza delle delegazioni non volle opporsi a quello precettato dai Giureconsulti in Brasile. Machado, comunque esagerava con segnali e Ferrara, come
capo della delegazione cubana, dava il “la” nel proclamare cinicamente che Cuba non poteva unirsi al coro generale del non intervento, perché l’intervento aveva significato l’indipendenza per il Paese. Quindi espresse: “la parola intervento, nel mio Paese, è stata parola di gloria, è stata parola d’onore, è stata parola di vittoria; è stata parola di libertà; è stata l’indipendenza”.
Il tema sarebbe stato definitivamente rinviato alla Settima Conferenza Panamericana da celebrarsi a Montevideo, nel 1934.

Un presidente norteamericano en La Habana

Ciro Bianchi Rossdigital@juventudrebelde.cu
27 de Febrero del 2016 21:04:31 CDT

Solo un presidente norteamericano estuvo en La Habana durante el ejercicio de su cargo. En enero de 1928, en respuesta a una invitación del general Gerardo Machado, presidente de la República de Cuba, arribaba a la Isla Calvin Coolidge, a fin de estar presente en la inauguración de la Sexta Conferencia Panamericana que aquí tendría lugar.
Era «el más hermético» de los mandatarios norteamericanos, escribió en sus memorias Orestes Ferrara, embajador cubano en Washington entre 1926 y 1932, y lo describe como «serio, silencioso e inteligente».
«Yo considero que el éxito de ese Presidente —apuntó Ferrara—, que fue muy grande a pesar de no ser él un político de envergadura, tuvo como base su equilibrio, su falta de vanidad y su poco o ningún deseo de que lo considerasen un gran personaje. Estaba convencido de que cuanto menos hacía en el poder era mejor, y que por contraste los famosos redentores de pueblos corren detrás de su propia gloria. A Coolidge no le halagaba el aplauso, no le afligía la crítica, no le mortificaba el polemista de mala fe. Encerrado en sí mismo, sincero en sus meditaciones, esperaba servir al país como un funcionario que debe evitarle los males que se presenten y solo cuando se presenten».
En recepciones y banquetes alternaron varias veces el Presidente norteamericano y el Embajador cubano. En una ocasión en que lo recibió en su despacho de la Casa Blanca, Ferrara se sorprendió al ver el escritorio totalmente limpio de papeles y preguntó cómo se las arreglaba para conseguirlo. La respuesta llegó rápida. Con su voz nasal y monótona, Coolidge respondió:
—Porque trabajo poco.
Replicó el diplomático que el presidente Taft, a quien había visitado 15 años antes en el mismo despacho, le confió que la vida de un mandatario norteamericano era un tormento, porque cumplir con las obligaciones del cargo resultaba superior a lo humano. Coolidge no respondió. Guardó un largo silencio que no fue desagradable para el Embajador, porque el mandatario lo miraba sonriendo.
—¿Quién distribuye el trabajo del poder ejecutivo? —inquirió al fin.
—El Presidente —respondió Ferrara.
—Eso es lo que yo hago. Reparto el trabajo y solo tomo cartas en el asunto si el gabinete no se pone de acuerdo —dijo Coolidge y bajó los ojos, gesto con que de manera invariable daba por terminada una discusión.

Fuera de protocolo

Un día, casi de madrugada, sonó el teléfono del Embajador de Cuba en Washington. Machado, que se levantaba siempre a las cinco, quería comunicar a Ferrara que dos días después saldría para esa ciudad, con un séquito de ocho o diez personas, y preguntaba si podía alojarse en la Embajada. En caso negativo, no habría problema; se iría a un hotel.
De cualquier manera, permanecería solo dos días en la capital norteamericana y seguiría rumbo a Nueva York. Machado explicó que Enoch Crowder, exembajador norteamericano en La Habana, lo había invitado a la reunión anual del Gridiron Club. A Ferrara le pareció una idea poco feliz. Era contrario a la norma que un mandatario extranjero participara en una reunión como aquella y, además, estaba fuera del protocolo que Machado se encontrase con Coolidge, que asistiría al banquete, sin haberlo visto antes.
Urgía buscar una salida. El Secretario de Estado estaba enfermo, y Ferrara no quiso acudir al jefe del protocolo por temor a que su decisión disminuyera o ninguneara al Jefe del Estado cubano. Prefirió conversar con el director de la Sección Latinoamericana del Departamento de Estado. Criticó la idea de que Machado asistiera al banquete del Gridiron Club, pero calorizó el propósito de que visitara a Coolidge y lo invitara a la Conferencia Panamericana de La Habana.
El funcionario se mostró de acuerdo con el embajador y corrió a dar cuenta del asunto al Secretario de Estado. Apenas una hora después, regresó con la aprobación del jefe del Departamento: Machado viajaría a Washington e invitaría al Presidente a la reunión. Lo que no se sabía era si Coolidge aceptaría o no. Eso era lo de menos en ese momento, pues aún faltaba casi un año para la conferencia de La Habana. En cuanto al banquete del Gridiron Club, cuya invitación ya había aceptado, Machado se declararía enfermo y delegaría en Ferrara su representación.
La visita del Presidente cubano a Washington se retardó más de lo previsto, circunstancia que Ferrara aprovechó para ultimar tranquila y juiciosamente los preparativos de su estancia. Permaneció tres o cuatro días en la capital norteamericana y se alojó en la Embajada de Cuba. Hubo cenas y recepciones, y sobresalió entre esos actos el banquete con el que Coolidge congratuló en la Casa Blanca al visitante. Como Machado había viajado sin su esposa, correspondió a María Luisa, la señora de Ferrara, sentarse a la derecha del Presidente norteamericano. Y fue a ella a la que comunicó que aceptaba la invitación de viajar a La Habana. Porque aquel hombre callado y reflexivo se explayó con la Embajadora al punto de que, casi al final de la comida, Alice Longworth, hija del expresidente Teodoro Roosevelt y esposa del Presidente de la Cámara de Representantes, que ocupaba la silla de la izquierda del mandatario, preguntó a María Luisa, por encima de Coolidge, qué había hecho para que el hombre hablara tanto cuando a ella no le había dirigido una sola palabra.
Coolidge asistió, en la Embajada de Cuba, a la cena con que Machado reciprocó la suya. El último día de la estancia del cubano en Washington, ambos mandatarios abordaron el tema de la Conferencia Panamericana. A instancias de Machado se tocó el tema azucarero y el de la crisis económica que se avecinaba. También, se dice, Machado pidió la derogación de la Enmienda Platt. La prensa refirió, atribuyéndolo al general Machado, que su conversación con Coolidge versó casi en su totalidad sobre las mutuas ventajas de rectificar la Enmienda, pero Coolidge diría que ese tema no fue aludido en la entrevista.
Ferrara se mostraba optimista en ese punto. Dice que le aseguraron que Coolidge derogaría la Enmienda si Cuba rebajaba la deuda pública y realizaba las elecciones presidenciales de 1928 sin agitaciones facciosas y sin fraude ni violencia. Esa noticia no compaginaba con lo que Coolidge dijo a la esposa de Ferrara durante la cena en la Casa Blanca: «Si hasta ahora les ha ido bien con la Enmienda Platt, ¿por qué suprimirla?».
Se plantea que Machado fue a Washington en procura de apoyo a su política de reelección y prórroga de poderes, y ofreció como garantía no pronunciarse contra la Enmienda Platt y dar, durante la conferencia, el más servil apoyo a la delegación norteamericana cuando las delegaciones latinoamericanas presentes enarbolaran la tesis de la no intervención. En su docilidad, el Gobierno cubano llegó a negar la invitación al presidente de la Liga de las Naciones y a representantes del Gobierno español que pidieron participar.

Corona de las frutas

La Habana se alistó para la celebración de la Sexta Conferencia Panamericana. Meses antes, el experimentado diplomático Manuel Márquez Sterling, devenido embajador especial, visitó todos los países de la América Latina recabando la presencia de sus gobiernos en el cónclave.
La respuesta fue unánime: todos enviaron su representación a la Isla; nunca antes una reunión de ese tipo había tenido tantos países participantes. Se erigió la Escalinata de la Universidad, se terminó el trazado de la Avenida de las Misiones y el viejo Campo de Marte quedó transformado en la Plaza de la Fraternidad Americana. En las raíces de la ceiba que allí fue trasplantada para la ocasión, se regó tierra de todas las repúblicas americanas, traída especialmente por los jefes de cada una de las delegaciones. A los jefes de delegación se les entregó una llave de oro con la que se abría la reja que protegía la ceiba. Por cierto, la llave de la delegación de México se conserva en el museo de la Cancillería de ese país.
Un brillante espectáculo dio inicio a la conferencia en el Teatro Nacional, y la sesión de apertura escuchó los discursos de Machado y Coolidge. La conferencia sesionaría en la Universidad. Pero no se permitió en esos días la entrada del alumnado a la casa de altos estudios, y más de 200 trabajadores y estudiantes que el Gobierno consideró como indeseables o subversivos fueron puestos tras las rejas. El día de la apertura de la reunión —26 de enero de 1928— fue declarado por el Gobierno como de Fiesta Nacional. En las jornadas finales, el 17 de febrero, Machado invitó a los delegados a que lo acompañaran a Isla de Pinos a fin de dejar inaugurada la primera galera del llamado Presidio Modelo. La reunión concluyó el día 20.
Durante sus días en Cuba, Calvin Coolidge se alojó en el Palacio Presidencial. Se le vio muy complacido en el almuerzo que en su honor Machado ofreció en su finca Nenita, en la carretera que corre entre Santiago de las Vegas y Managua. El visitante alteró toda la disposición del menú y comió en abundancia frutas cubanas, que lo deleitaron. La esposa de Ferrara, sentada a su izquierda y sirviéndole de traductora, se dio cuenta de su curiosidad y lo invitó a empezar por la fruta, con el permiso de Elvira, la esposa de Machado. El inmenso frutero fue vaciándose poco a poco, ya que Machado y los demás invitados imitaron a Coolidge. El jefe de comedor y los camareros, portando toda la clase de platos exquisitos, no sabían qué hacer; solo pudo organizarse la comida cuando empezaron a ser servidos los extremos de la mesa, para llegar luego, lentamente, hasta el personaje del centro. Machado le obsequió una columna confeccionada con metales que fueron parte del monumento al Maine, destruido por el ciclón del 20 de octubre de 1926.
«Durante su estancia en Cuba, Coolidge no cometió un solo error y cumplió con buena voluntad cuanto le fue indicado por los que prepararon el programa de los festejos, que siempre resultan excesivos, y sin manifestar un solo desagrado», escribió Orestes Ferrara en sus memorias, y añadió que cuando abandonó La Habana, lo que ocurrió mucho antes de que concluyera la reunión, el cónclave funcionó regularmente.
Cuando, en vísperas de la Sexta Conferencia Panamericana, Márquez Sterling se disponía a iniciar su periplo latinoamericano, el presidente Machado le dijo: «Márquez, necesito que usted visite aquellos países que están renuentes a tomar parte en la reunión y que nos ayuden hacer de la Enmienda Platt una pragmática obsoleta».
Vanas palabras. Resultó todo lo contrario. Aunque la agenda de la reunión estaba cargada de asuntos intrascendentes, se abría paso el tema de la no intervención. Estados Unidos había intervenido militarmente en México, Santo Domingo, Haití, Nicaragua… En Brasil, en 1927, la reunión de Jurisconsultos había proclamado: «Ningún Estado puede intervenir en los asuntos internos de otro». En La Habana la mayoría de las delegaciones no quiso oponerse a lo preceptuado por los Jurisconsultos en Brasil. Machado, sin embargo, se pasaba con fichas, y Ferrara, como jefe de la delegación cubana, daba la nota al proclamar cínicamente que Cuba no podía unirse al coro general de la no intervención, porque la intervención había significado para el país la independencia. Expresó entonces: «la palabra intervención, en mi país, ha sido palabra de gloria, ha sido palabra de honor, ha sido palabra de triunfo; ha sido palabra de libertad: ha sido la independencia».
El tema quedaría definitivamente aplazado para la Séptima Conferencia Panamericana, a celebrarse en Montevideo, en 1934.

Ciro Bianchi Ross




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