Pubblicato su Juventud Rebelde del 20/3/16
Alla fine del XIX secolo e
inizio del XX non figurava ancora, tra i personaggi avaneri popolari, lo
strillone dei giornali. Non esisteva, semplicemente perché allora i giornali
avevano una circolazione che raggiungeva solo i ricchi e potenti che per motivi
culturali o per il desiderio di essere informati, appartenessero o meno a
un’elite che fra i suoi privilegi aveva quello di godere dell’abbonamento a un
giornale.
L’uomo che vendeva il
giornale per strada e inoltre annunciava le notizie principali – diligente
ausiliario della stampa, come qualcuno lo chiamò -, apparve più tardi come risultato
delle crescenti tirature e le edizioni successive che durante la giornata, facevano
i giornali e che necessitavano la loro distribuzione tra diversi settori del
pubblico.
Fotografie
e dettagli
Di uno di quei venditori di
giornali – venditori sul serio – parlò José M. Muzaurieta, giornalista
brillante, in una delle sue cronache. L’uomo nero, agile e scintillante,
vendeva El Imparcial, lo stesso giornale che vendette Kid Chocolate e
Muzaurieta che dirigeva tale giornale, ricordava che ogni giorno raccoglieva i
primi pacchi, appena usciti dalla tipografia e con ansia scorreva un esemplare
alla ricerca della notizia che avrebbe acclamato e che gli avrebbe permesso di muovere
i compratori alla curiosità.
Se nella prima pagina non
trovava niente che servisse per “l’attacco”, passava alle pagine interne, una a
una, fino ad arrivare all’ultima. Se un giorno il giornale “non usciva buono”,
esteriorizzava il suo disgusto, ma come venditore che era, tornava ad
immergersi nelle sue pagine alla ricerca di un gancio per la vendita, come in
quell’occasione, in cui stanco di cercare, tornò alla sezione della Polizia,
dove un piccolo ritaglio dava conto della denuncia di un individuo nel cui
domicilio, di notte, trascinavano catene e si produceva un rumore spaventoso
che non lo lasciava dormire.
Lo strillone fece salti di
gioia. Aveva trovato quello che cercava. Uscì come una freccia sulla strada.
Gridava: “Come sono i fantasmi in Jesús del Monte! Maltrattano e tormentano una
famiglia! El Imparcial con le ultime notizie! Fotografie e dettagli!”
A qualunque fatto, per
insignificante che fosse, quello strillone strappava profitto e dopo aver
venduto quattro o cinque pacchi, non era raro che tornasse al giornale per
prenderne altri.
Il colmo, ricordava
Muzaurieta, fu il giorno in cui non trovò nell’edizione del giorno niente,
assolutamente niente che servisse per le sue declamazioni e “attacchi”. Protestò,
si indignò, si rivolse malamente ai redattori fino a ricordare che era un
venditore e il suo compito era vendere. Nell’uscire dal Reparto Vendite
gridava: “El Imparcial! Figuratevi! El Imparcial con il crimine di domani!”
Il
letto e il seggiolone
Attorno al 1830, non c’erano
ancora alberghi all’Avana, ma nel 1828 si riportavano 1.157 “stanze interne da
affittare”. L’arredamento di queste stanze era sconcertante, d’acchito però gli
stranieri che le affittavano finivano per gradire sopratutto il letto.
Sui letti dell’epoca,
afferma Robert Francis Jamesson, ufficiale della Marina britannica, nelle sue Cartas habaneras (Letters from the Havana,
1820):
La più comunemente usata è
un semplice incrocio di legno sul quale si stende un pezzo di tela. Su di essa
si collocano un paio di lenzuola fra le quali uno si stende, mentre un’armatura
delicata sostiene una rete che lo avvolge per proteggerlo dalle zanzare. Questo
è quello che si chiama giaciglio. Ci vuole un po’ di abitudine per riconciliare
le ossa con lui, ma la freschezza che offre induce a preferirlo al materasso”.
Jamesson che fu il primo
rappresentante dell’Inghilterra davanti alla Commissione Mista per l’abolizione
della tratta dei negri – da lì il motivo del suo soggiorno sull’Isola –
descrive la giornata tipo dell’uomo con risorse nell’Avana di allora.
Cosa fa l’avanero quando non
ha niente da fare? Anche su questo
Jamesson si pronuncia nelle sue Cartas
habaneras. Si fa un bagno, si veste per il pranzo che quasi sempre è verso
le tre del pomeriggio, dorme la siesta..., dice. E indica in modo esplicito:
“Quando non c’è niente da fare si dondola su un seggiolone...”
Nei suoi commenti al libro
di Jamesson, l’erudito Juan Pérez de la Riva precisa che questo è uno dei
riferimenti più antichi al seggiolone a dondolo che si trovano nella letteratura.
Dondoli che secondo quello che crediamo, afferma Pérez de la Riva, fu inventato
da qualche cubano alla fine del XVIII secolo.
La
via della morte
Al principio, i condannati a
morte all’Avana, compivano la loro sanzione sulla forca, Questa macchina per
uccidere era installata nella piazza delle Orsoline, che sbocca nella calle di
Egido, la Calle Bernaza la si chiamava la via della forca perché conduceva fino
al luogo del patibolo. Nel 1810, quando non si era costruita ancora alla fine
del Paseo del Prado il Carcere di Tacón, la forca si mise nella spianata della
Punta. Nel 1834, Fernando VII, il re fellone, abolì l’uso della forca in Spagna
e in tutti i suoi domini. Sarebbe sostituita per la garrota. Per decine di anni
le esecuzioni erano state pubbliche, Poi, la garrota si mise all’interno dl
recinto carcerario. In questa spianata morirono alla garrota vil Narciso López,
Eduardo Facciolo e Ramon Pintó, fra gli altri. Anche Domingo Goicuría gardò
prigione in quel luogo, ma fu giustiziato, sempre con la garrota, alla Loma del
Príncipe, fortezza convertita in prigione politica dal 1976, quando la inaugurò
come tale, Antonio Nariño, precursore dell’indipendenza della Colombia.
La Audiencia Pretorial ebbe
sede e celebrò le sue riunioni nel piano principale del carcere di Tacón,
dall’apertura di questa installazione penitenziaria. Rimase in quel posto già
come Audiencia de La Habana, fino al 1938.
Nel 1930, eccetto la parte
occupata dall’Audiencia, il Carcere Nuovo che per quella data era già vecchio,
vecchissimo, rimase vuoto. Nel vetusto edificio allora si installarono gli
uffici del Municipio e del Sindaco dell’Avana e lì rimasero, mentre si faceva
il restauro del palazzo municipale – antico Palazzo dei Capitani Generali, oggi
Museo della Città -, secondo quanto disposto dal sindaco Miguel Mariano Gómez.
Nove anni dopo, l’edificio
del Carcere era smantellato. Sul terreno dove si ergeva si costruì il Parco dei
Martiri, in ricordo di quanti soffrirono la prigione o la morte in quel luogo.
Non furono demolite, e come reliquie storiche formano parte del parco, due
celle di rigore dove si rinchiudevano i prigionieri più contumaci o quelli che
si volevano castigare con maggiore durezza. Inoltre rimase in piedi la cappella
dove numerosi eroi e martiri passarono le ultime ore della loro vita.
Quadrati
del Malecón
Edoardo Robreño dice nel suo
libro Cualquier tiempo pasado fue…
che quando sucede un penetrazione del mare, è nella calle Galiano, dove l’acqua
penetra per prima, dovuto a un dislivello abastanza profondo esistente in tale
luogo. Senza dubbio, quando il ciclone del ’26, l’acqua arrivò per Prado, fino
alla calle Colón. E quando il ciclone del ’19, giunse per Campanario fino alla
calle Ánimas, con conseguente allarme degli abitanti.
Dei quadrati che ha il Malecón,
quello compreso fra le calli San Nicolás e Manrique è dove battono più forte le
onde a causa del basso muro e del piccolo spazio occupato dagli scogli. Il muro
del Malecón che comincia in calle Lealtád è più basso del resto.
Plaza
de Armas
Alla fine del XVI secolo,
José Maria de la Torre, annota nel suo libro La Habana antigua y moderna, questo luogo, di piazza aveva solo il
nome. Ma fu “il centro da dove si irradiò” la città. Le rialzarono le
edificazioni dove, nel finale del XVIII secolo, si eressero attorno ad essa: il
Palazzo dei Capitani Generali e la Casa dell’Intendente o del Secondo Capo. Governatori
come il marchese de la Torre y de Someruelos, Juan Ruiz de Apodaca e Francisco
Dionisio Vives fecero opere che la abbellirono. Indubbiamente la Plaza de Armas
cadde in un abbandono totale negli anni finali della dominazione spagnola a
Cuba. Cessarono di avere luogo lì, per la guerra, le frequentate riunioni
serali e gli avaneri la frequentavano meno come luogo di svago.
La situazione si acutizzò
negli anni della prima occupazione militare nordamericana. Leonard Wood, uno
dei governatori intervenzionisti, fece togliere le panchine.
Occorreva che i giornalieri
del porto e gli impiegati delle aziende vicine, aspettavano lì l’ora di
iniziare il lavoro. Le loro conversazioni impedivano il sonno del proconsole, a
cui piaceva dormire la mattina. E la Plaza de Armas perse, con le sue panchine,
la sua condizione di bell’angolo coloniale.
Diciamo brevemente che fra
il 1899 e il 1902, il tempo che durò il primo intervento, all’Avana si costruì
un solo edificio pubblico, quello destinato alla Scuola di Arti e Mestieri,
nella calle Belascoaín.
Si dovette aspettare il 1926
perché si facesse il restauro del Palazzo del Secondo Capo. L’anno successivo
si restaurò il Tempietto e nel 1930 il Palazzo dei Capitani Generali.
In quella data, il Palazzo
del Secondo Capo ospitava il Senato della Repubblica e quando questi si
installò nel Capitolio, in questo edificio funzionò il Tribunale Supremo di
Giustizia.
Fantasmas en Jesús del Monte
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT
19 de Marzo del 2016 21:11:58 CDT
A fines del
siglo XIX y a comienzos del XX no figuraba aún entre los personajes populares habaneros
el voceador de periódicos. No existía, sencillamente, porque los diarios de
entonces tenían una circulación que solo alcanzaba a los adinerados y
pudientes, quienes, por afanes culturales o por el deseo de estar informados,
pertenecían o aspiraban a pertenecer a una élite que, entre sus privilegios,
tenía el de gozar de la suscripción a un periódico.
El hombre que
vendía el periódico por la calle y además pregonaba las noticias principales
—diligente auxiliar de la prensa, como le llamó alguien—, apareció más tarde
como resultado de las tiradas crecientes y las sucesivas ediciones que, a lo
largo del día, hacían los diarios y que exigían su distribución entre sectores
dispersos del público.
Fotografías y detalles
De uno de
aquellos vendedores de periódicos —vendedores de verdad— habló José M.
Muzaurieta, periodista de anjá, en una de sus crónicas. El hombre, negro y ágil
y chispeante, vendía El Imparcial, el mismo periódico que vendió Kid Chocolate,
y Muzaurieta, que dirigía dicho diario, recordaba que en cada jornada recogía
los primeros los paquetes recién salidos de la imprenta y con afán revisaba un
ejemplar en busca de la noticia que vocearía y que le permitiría mover la
curiosidad de los compradores.
Si no
encontraba en la primera página nada que le sirviera para el «ataque», pasaba a
las páginas interiores, una a una hasta llegar a la última. Si un día el
periódico «no venía bueno», exteriorizaba su desagrado, pero como vendedor que
era volvía a sumergirse en sus páginas en busca de un gancho para la venta,
como en aquella ocasión, en que cansado de buscar, volvió sobre la sección de
Policía, donde un pequeño suelto daba cuenta de la denuncia de un individuo en
cuyo domicilio arrastraban cadenas por la noche y se producía un ruido
espantoso que le impedía dormir.
El voceador
dio saltos de júbilo. Había encontrado lo buscado. Como una flecha salió a la
calle. Gritaba: «¡Cómo están los espíritus en Jesús del Monte! ¡Maltratan y
atormentan a una familia! ¡El Imparcial con las últimas noticias! ¡Fotografías
y detalles!».
A cualquier
suceso, por insignificante que fuera, aquel voceador le sacaba lascas y luego
de vender cuatro o cinco paquetes, no era raro que volviera por más al
periódico.
El colmo,
recordaba Muzaurieta, fue la ocasión en que no encontró en el periódico del día
nada, absolutamente nada que le sirviera para sus pregones y «ataques».
Protestó, se indignó, despotricó contra los redactores hasta que recordó que él
era un vendedor y lo suyo era vender. Al salir del Departamento de Ventas,
gritaba: «¡El Imparcial! ¡Vaya! ¡El Imparcial con el crimen de mañana!».
La cama y el sillón
Hacia 1830 no
existían aún hoteles en La Habana, pero, en 1828, se reportaban 1 157 «cuartos
interiores» para alquilar. El mobiliario de esas habitaciones desconcertaba, de
entrada, a los extranjeros que las rentaban, pero terminaban agradeciendo,
sobre todo, la cama.
Sobre las
camas de la época afirma Robert Francis Jamesson, oficial de la Marina
británica, en sus Cartas habaneras (Letters from The Havana, 1820):
«La más
comúnmente usada es una simple cruceta de madera en la que se extiende un
pedazo de lona. Sobre ella se coloca un par de sábanas finas entre las cuales
uno se acuesta, mientras una delicada armazón sostiene una red que lo envuelve
a uno protegiéndolo de los mosquitos. Es lo que se llama catre. Hace falta un
poco de hábito para reconciliar los huesos con él, pero la frescura que ofrece
induce a uno a preferirlo al colchón».
Jamesson, que
fue el primer representante de Inglaterra ante la Comisión Mixta para la
abolición de la trata negrera —de ahí el motivo de su estancia en la Isla—
describe el día tipo de un hombre con recursos en La Habana de entonces.
¿Qué hace el
habanero cuando no tiene nada que hacer? Sobre ello también se pronuncia Jamesson
en sus Cartas habaneras. Toma un baño, se viste para el
almuerzo, que casi siempre es sobre las tres de la tarde, duerme la siesta…,
dice. Apunta de manera explícita: «Cuando no hay nada que hacer, puede mecerse
uno en un amplio sillón…».
En sus comentarios
al libro de Jamesson, el erudito Juan Pérez de la Riva precisa que esa es una
de las referencias más antiguas al sillón de balance que se hallan en la
literatura. Balance que según creemos, afirma Pérez de la Riva, fue inventado
por algún cubano a fines del siglo XVIII.
Camino de la muerte
En un comienzo
los condenados a muerte en La Habana cumplían su sanción en la horca. Esa
máquina de matar estaba instalada en la plaza de las Ursulinas, que se aboca
sobre la calle de Egido. A la calle de Bernaza se le llamaba el camino de la
horca, porque conducía hasta el lugar del patíbulo. En 1810, cuando aún no se
había construido al final del Paseo del Prado la Cárcel de Tacón, la horca se
situó en la explanada de la Punta. En 1834, Fernando VII, el rey felón, abolió
el uso de la horca en España y en todos sus dominios. Sería sustituida por el
garrote. Durante decenas de años las ejecuciones habían sido públicas. Luego el
garrote se ubicó en el interior del recinto carcelario. En esa explanada
murieron en garrote vil Narciso López, Eduardo Facciolo y Ramón Pintó, entre
otros. Domingo Goicuría también guardó prisión en el lugar, pero fue ejecutado,
igualmente en garrote, en la loma del Príncipe, fortaleza convertida en prisión
política desde 1796, cuando la estrenó como tal Antonio Nariño, precursor de la
independencia de Colombia.
La Audiencia
Pretorial radicó y celebró sus reuniones en el piso principal de la Cárcel de
Tacón desde la apertura de esa instalación penitenciaria. Y permaneció en ese
sitio, ya como Audiencia de La Habana, hasta 1938.
En 1930, salvo
la parte ocupada por la Audiencia, la Cárcel Nueva que en esa fecha era ya
vieja, viejísima, quedó vacía. En el vetusto edificio se instalaron entonces
las oficinas del Ayuntamiento y de la Alcaldía de La Habana, y allí estuvieron
mientras se efectuaba la restauración del palacio municipal —antiguo Palacio de
los Capitanes Generales, hoy Museo de la Ciudad—, según lo dispuesto por el
alcalde Miguel Mariano Gómez.
Nueve años
después el edificio de la Cárcel era desmantelado. Sobre el terreno donde se
asentó se construyó el Parque de los Mártires en recuerdo de cuantos sufrieron
prisión o muerte en ese lugar. No fueron demolidas y, como reliquias
históricas, forman parte del parque dos celdas bartolinas donde se encerraban a
los presos más contumaces o a aquellos a quienes se quería castigar con mayor
dureza. Quedó en pie además la capilla donde numerosos héroes y mártires
pasaron las últimas horas de su vida.
l
Cuadrados del malecón
Dice Eduardo
Robreño en su libro Cualquier tiempo pasado fue…,
que cuando ocurre un ras de mar es por la calle Galiano donde primero penetra
el agua, debido a un desnivel bastante profundo existente en dicho lugar. Sin
embargo, cuando el ciclón del 26, el agua llegó por Prado hasta la calle Colón.
Y cuando el ciclón del 19, llegó por Campanario hasta la calle Ánimas, con la
alarma consiguiente del vecindario.
De los
cuadrados que tiene el Malecón, el comprendido entre las calles San Nicolás y
Manrique es por donde más fuerte baten las olas, a causa de lo bajo del muro y
del pequeño espacio ocupado por los arrecifes.
El muro del
Malecón que empieza en la calle Lealtad es más bajo que el resto.
Plaza de armas
A fines del
siglo XVI, anota José María de la Torre en su libro La Habana antigua y moderna, ese sitio, de plaza, solo
tenía el nombre. Pero fue «el centro de donde irradió» la ciudad. La realzaron
las edificaciones donde en las postrimerías del XVIII se alzaron en torno a
ella: el Palacio de los Capitanes Generales y la Casa del Intendente o del
Segundo Cabo. Gobernadores como los marqueses de la Torre y de Someruelos, y
Juan Ruiz de Apodaca y Francisco Dionisio Vives, acometieron obras que la
embellecieron.
La Plaza de
Armas, sin embargo, cayó en un total abandono en los años finales de la
dominación española en Cuba. Dejaron de tener lugar allí, por la guerra, las
concurridas retretas nocturnas, y los habaneros la frecuentaban menos como
lugar para el esparcimiento.
La situación
se agudizó en los años de la primera ocupación militar norteamericana. Leonard
Wood, uno de los gobernadores intervencionistas, mandó a retirarle los bancos.
Sucedía que los jornaleros del puerto y empleados de establecimientos cercanos
esperaban allí la hora de empezar a trabajar. Sus conversaciones impedían el
sueño del procónsul, que gustaba de dormir la mañana. Y la Plaza de Armas
perdió con sus bancos su condición de bello rincón colonial.
Digamos de
paso que entre 1899 y 1902, el tiempo que duró la primera intervención, solo se
construyó en La Habana un edificio público, el destinado a la Escuela de Artes
y Oficios, en la calle Belascoaín.
Hubo que
esperar a 1926 para que se acometiera la restauración del Palacio del Segundo
Cabo. Al año siguiente se restauró el Templete y, en 1930, el Palacio de los
Capitanes Generales.
En esa fecha
el Palacio del Segundo Cabo daba albergue al Senado de la República, y cuando
este se instaló en el Capitolio, funcionó en ese edificio el Tribunal Supremo
de Justicia.