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domenica 5 giugno 2016

L'incontro del Secolo (scorso) diventa dell'eternità

Cassius Clay, o Mohammed Alì, come aveva scelto di farsi chiamare ha raggiunto Teofilo Stevenson. Faranno l'incontro mai avvenuto?



























Dizionario del mare per lupi di terra

BENDA: protegge le ferite o, generalmente copre

mercoledì 1 giugno 2016

Di ritorno alla strada, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juvantud Rebelde del 29/5/16

Lo sapevate che l’aristocratica anche se decaduta, calle O’ Reilly fu un tempo la calle Honda o del Sumidero, del Basurero y de la Aduana? Cha una cale tale rango come Tniente Rey, prima fu la calle di Santa Teresa y de San Salvador de la Horta e che mai lì ci fu nessun tenente reale se non un vivace tenente del governatore che viveva all’angolo con la calle Habana, di cognome Rey che finì per dare il nome alla via? Che Bernaza è Bernaza per un tale José Bernaza che vi ebbe una panetteria? Che San Ignacio prima fu la calle de la Cienaga per la palude che esistevatra la caserma di San Telmo e la Cattedrale? Che le decine di artigiani che risiedettero in Oficios tra la Plaza de San Francisco e quella de Armas terminarono per dar nome a questra strada? Che Muralla fu la calle Real e che uno dei sui tratti si battezzò come De la Cuna?
Quando la scriba cominciò i suoi studi alla scuola media inferiore – da allora piovvero diverse decadi – il professore della materia che allora chiamavano di Scienze Sociali cominciava sempre il suo discorso, il  primo anno, con la proposta di un lavoro d’investigazione. Noi studenti dovevavmo informarci sul nome della strada dove abitavamo e mettere per iscritto il frutto della nostra ricerca. Siccome io abitavo nella calle Diez, nel reparto Lawton, mi passai per furbo nella risposta e scrissi, come una revolverata: che la mia strada si chiamava così per la numerazione. Chiaro che era per questo, ma il professore che di cognome era Borroto –non mi ricordo il suo nome proprio che era composto- mi disse che dovevo acer lavorato un po’ di più e verificare approssimativamente in che data si dettero i numeri alle strade del reparto e perché le strade col numero si alternavano con quelle che furono battezzate con nomi diversi e a volte arbitrari come San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros...che non sempre rispondevano a una realtà concreta, un fatto o al nome di un abitante residente nella zona.
Apartire da questo momento cominciò a interessarmi il tema delle strade, il lettore, negli anni più recenti, è stato testimone di questo interesse per le volte che ho affrontato, in questa pagina, alludendo a strade particolari – Aguiar, Amargura, Prado, Infanta, 23, Línea e molte altre – o riferendomi congintamente a strade avanere.

Quartieri della città

Nel 1763, sotto il Governo del Conte de Ricla, la città, si divise per la prima volta in quartieri, si numerarono le case e si dettero nomi alle strade. Il fatto dei nomi prevalse per quello delle persone notabili, specialmente quelle che si distinsero nella difesa della piazza, quando l’aggressione inglese. Il medesimo bando di Polizia che contemplava queste misure, proibiva la costruzione di case con tetto di frasche e si raccomandava la costruzione di case “di certa altezza”. Nel 1808 si collocarono le targhette con i numeri nella case di muratura, costando 14 reales ciascuna. Siccome si ebbero variazioni, rispetto alla numerazione anteriore, si stabilì un “ducumento” con questa differenza, un
“documento” che si conservava nella segreteria del Municipio.
A parte di occuparsi della pavimentazione delle strade principali col sistema del “Macadam”, il governatore Miguel Tacón si occupò anche della catalogazione delle strade avanere e anche della numerazione dei locali. Lo dice nel documento che fece il riassunto del suo mandato: “Le strade erano carenti dell’iscrizione dei loro nomi e molte case del numero. Feci porre agli angoli, delle prime, le targhette di bronzo e numerare le seconde col semplice metodo di mettere i numeri pari su un marciapiedi e i dspari nell’altro”. Questo occorse tra il 1834 e il 1838. Non si tornò a catalogare né numerare l’Avana fino a circa cent’anni dopo.
Prima, verso il 1820, si era proibito nel modo più assoluto di costruire nuove case dentro delle mura. La disposizione determinava che essendo l’Avana una piazzaforte “non si possono costruire dentro le mura più casa di quelle che esistono di già”, misura che portava come conseguenza, per la scarsità di abitazioni che provocava, un alto costo degli affitti. Una famiglia agiata che volesse installarsi nella città fra le mura doveva pagare un affitto che oscillava tra gli 8.000 e i 14.000 pesos all’anno. Gli affitti non erano di questi livelli negli immobili siti fuori dalle mura, ma in ogni modo si affittavano per cifre elevate con la scusa che in quella zona si aveva il minor rischio di contrarre la febbre gialla.

Arriva l’acqua!

Le strade, strette e senza pavimentazione, appaiono piene d’immondizie. Nei solchi lasciati dalle ruote dei carri e le zampe dei cavalli si deposita il contenuto di bacinelle e vasi da notte che al grdo di “Arriva l’acqua!”, senza guardare nessuno, gettavano gli abitanti da balconi e finestre. Nella stagone delle piogge il transito si faceva difficile per i carri e i pedoni dovevano stare all’erta al passaggio degli oggetti volanti che navigavano nel pantano in cui si convertivano le strade. Circondata da mura da tute le parti, l’Avana durante la pioggia era un’immensa pozzanghera che scaricava nella baia da una sola parte: l’imbocco della pescheria, proprietà del nostro vecchio conoscente don Pancho Marty y Torrens, di fronte alla calle Empedrado. La forza era di tali proporzioni, dice l’erudito Juan Pérez de la Riva che tra il 1798 e 1844 il fondo della biaia diminuisce non meno di sei piedi di fronte ai moli. Anche la Plaza de Armas sembra, secondo l’epoca dell’anno, un tratto fangoso o un pianoro polveroso. Siccome il transito dei carri diventava molto difficile, durante le piogge in quelle strade strette e non pavimentate, si ideò di interrarvi in esse, traverse di legno duro che rimanevano perpendicolari all’asse della via. Il risultato di tale lavoro fu vano. Lungi dal risolvere la situazione la peggiorò, senza contare che se gli acquazzoni erano continui e intensi, i pollini sparivano inghiottiti dal suolo. Fu durante il Governo del maggior generale José Miguel Gómez (1909 -1913) quando si realizzò il primo tratto di strada con base in cemento e superficie di scorrimento in asfalto. Si chiamò strada sperimentale Verso il 1850, l’avana tra le mura aveva 39.980 abitanti, cifra che con la popolazione fluttuante superava le 55.000 persone. Allora si contabilizzavano 3.761 case. Di esse 1.282 erano accessorie e 56 “cittadelle”. Non esistevano ancora alberghi, ma si affittavano 1.157 “stanze interne”.
C’erano tra le mura 1.560 carozze e 352 calessi e fuori dalle mura 624 e 115, rispettivamente, ciò che equivaleva a un veicolo per ogni 24 persone bianche.

Altri nomi

La calle Cuba prima si chiamò calle de la Campana y de la fundición.
Lamparilla deve il suo nome alla luce che un devoto dell Anime accendeva tutte le sere a casa sua all’angolo della calle Habana.
L’angolo di Lamparilla e Aguacate si chiamò del Campanario per uno dipinto di blu che vi era e il tratto che da Lamparilla si estende tra Villegas e Bernaza si chiamò de la Cañas Bravas per quelle seminate al lato della parrocchia del Cristo e che si tagliarono nel 1808. Empedrado fu la prima strada acciottolata all’Avana. Si fece con “chinas pelonas” (particolari pietre di fiume. N.d.t.), dalla piazza della Cattedrale fino alla piazza San Juan de Dios e durarono fino al 1838 quando si sostituirono con porfido. O’ Reilly si chiama così perché il Conte di O’ Reilly, vice ispettore delle truppe alla restaurazione dell’Avana nel 1763 fece il suo ingresso per questa  strada, mentre il Conte di Albemarle, capo dell’occupazione britannica, usciva dalla calle Obispo.
Nel 1742 gli appezzamenti di questa strada si vendevano tra gli 8 e i 9 reales la “vara” (meno di un metro, n.d.t.). Cent’anni dopo il prè ezzo era di oltre un’oncia d’oro la “vara”.
L’avenida 23 nel Vedado si chiamò all’inizio, nel 1862, Paseo de Medina per questo contrattista di opere del Governo coloniale che aveva la sua residenza di fronte a dove si stabilirà il cine Riviera. Durante un breve periodo portò il nome di General Machado.
Línea, nel 1918, passò a chiamarsi Presidente Wilson e durante la dittatura batistiana fu ribatezzata come General Batista, nome che come quello di Machado, il popolo ripudiò. È sempre stata Línea, primo per i trenini che partivano vicino alla Punta e poi per i tram elettrici. La calle Manuel Sanguilly – di fianco al Palazzo del Secondo Capo – continua ad essere, purtroppo, conosciuta col suo vecchio nome di Tacón.

Dalla UPEC mi hanno dato un messaggio

Il compagno Antonio Moltó, presidente dell’Unione dei Giornalisti di Cuba (UPEC), ha fatto giungere al giornale elementi sull’esposto dallo scriba nella pagina corrispondente all’8 maggio passato (Quello che non ho detto della Cattedrale), sulla domanda per il destino dei pezzi giacenti al fondo del museo della stampa che esisteva nell’Associazione dei Reporters, della calle Zulueta.
Spiega nella sua lettera che l’UPEC, “al crearsi nel 1963, non fu continuatrice né dell’associazione dei Reporters dell’Avana, né del Collegio dei Giornalisti, sito in calle Zulueta. Incluso, nell’edificio sito in 20 de Mayo quasi angolo ad Ayestaran che si costruì per installarvi il Collegio dei Giornalisti, la Stato dispose che passasse ad Istituto linguistico”.
Aggiunge:
“Ciro Bianchi domanda nbel suo articoilo dove andarono a finire i pezzi che conformavano il museo della stama che era nell’Associazione dei Reporters dell’Avana. Non abbiamo risposta per questo. Quallo che sì, assicuriamo, è che l’UPEC non fu erede dei pezzi di questo museo né tantomeno dei pantheon della necropoli di Colón che per risoluzione del Governo Rivoluzionario passarono ad altre istituzioni”.
In fine il compagno Moltó segnala che il poco che si salvò della calle Zulueta furono alcuni fascicoli e libri del Colegio Nacional che il giornalista Baldomero Álvarez Ríos riscattò andando alla discarica. Questi documenti, dice Moltó, oggi si conservano nella sede dll’UPEC.

Ben venga il chiarimento del Presidente dell’UPEC. Lo sciba, da parte sua, desidera chiarire con non incolpò nessuno emen che mmeno l’organizzazione che capeggia Moltó, per la sparizione di questi materiali. Si interessava solo per il loro destino.


De vuelta a la calle

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
28 de Mayo del 2016 22:13:13 CDT

¿Sabía usted que la aristocrática aunque muy venida a menos calle O’Reilly fue en un tiempo la calle Honda o del Sumidero, del Basurero y de la Aduana? ¿Qué una calle de tanto ringo rango como Teniente Rey fue antes la calle de Santa Teresa y de San Salvador de la Horta y que nunca hubo allí teniente real alguno sino un avispado teniente de gobernador que vivía en la esquina con la calle Habana de apellido Rey que terminó dando su nombre a la vía? ¿Qué Bernaza es Bernaza por un tal José Bernaza que tuvo en ella una panadería? ¿Qué San Ignacio fue antes la calle de la Ciénaga por la que existía entre el cuartel de San Telmo y la Catedral? ¿Qué las decenas de artesanos que se radicaron en Oficios entre la Plaza de San Francisco y la de Armas terminaron por dar nombre a esa calle? ¿Qué Muralla fue la calle Real y que uno de sus tramos se bautizó como De la Cuna?
Cuando el escribidor comenzó sus estudios de Secundaría Básica —llovieron desde entonces ya unos cuantas décadas— el profesor de la asignatura que llamaron entonces de Ciencias Sociales iniciaba siempre su curso en el primer año con la propuesta de un trabajo investigativo. Debíamos los estudiantes inquirir sobre el nombre de la calle en que habitábamos y poner por escrito el fruto de nuestra pesquisa. Como yo entonces residía en la calle Diez, en el reparto Lawton, me pasé de listo en la respuesta y escribí, como un
pistoletazo: que mi calle se llamaba así por la numeración. Claro que era por eso, pero el profesor que era de apellido Borroto —no recuerdo su nombre de pila, que era compuesto— me dijo que debí haber trabajado un poco más y averiguar en qué fecha aproximada se numeraron las calles del reparto y por qué las calles con números alternaban con las que fueron bautizadas con los nombres más diversos y a veces arbitrarios como San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros,,, que no siempre respondían a una realidad concreta, un suceso o al nombre de un vecino asentado en la zona.
A partir de ese momento empezó a interesarme el tema de las calles, y el lector, en los años más recientes, ha sido testigo de ese interés por las veces que lo he abordado en esta página, bien en alusión a una calle en particular —Aguiar, Amargura, Prado, Infanta, 23, Línea y muchas otras— o refiriéndome a  calles habaneras en conjunto.

Barrios de la ciudad

En 1763, bajo el gobierno del Conde de Ricla, la ciudad, por primera vez, se dividió en barrios y se numeraron las casas y se dieron nombres a las calles. En el asunto de los nombres prevaleció el de las personas notables y en especial aquellas que se distinguieron en la defensa de la plaza cuando la agresión inglesa. El mismo bando policial que contemplaba esas medidas, prohibía la construcción de casas con techos de guano y se recomendaba la edificación de casas «de alto». En 1808 se colocaron las tarjetas con los números en las casas de intramuros, costando 14 reales cada una. Como hubo variaciones respecto a la numeración anterior, se estableció un padrón con esa diferencia, padrón que se conservaba en la secretaría del Ayuntamiento.
Aparte de ocuparse de la pavimentación de las calles principales con el sistema de Macadams, el gobernador Miguel Tacón se ocupó asimismo de la rotulación de las calles habaneras y también en la enumeración los locales. Lo dice en el documento en que hizo el resumen de su :mandato: «Carecían las calles de la inscripción de sus nombres y muchas casas de número. Hice poner en las esquinas de las primeras tarjetas de bronce y numerar la segundas por el sencillo método de poner los números pares en una acera y los impares en otra». Eso ocurrió en 1834 y 1838. No volvió a rotularse ni a enumerarse en La Habana hasta unos cien años después.
Antes, hacia 1820 se había prohibido  de manera terminante construir nuevas viviendas dentro de las murallas. La disposición estipulaba que por ser La Habana una plaza fuerte «no se pueden construir dentro de sus murallas más casas de las que ya existen», medida que traía como consecuencia, por la escasez de viviendas que provocaba, el alto monto de los alquileres. Una familia acomodada que quisiera asentarse en la ciudad intramural debía abonar una renta que oscilaba  entre los 8 000 y los 14 000 pesos al año. Los alquileres no eran de esa magnitud en los inmuebles ubicados fuera de las murallas, pero de todas formas se arrendaban por sumas elevadas con la excusa de que en esas zonas se hacía menor el riesgo de contraer la fiebre amarilla.

¡Agua va!

Las calles, estrechas y sin pavimentar, aparecen llenas de inmundicias. En los surcos que dejan las ruedas de los coches y las patas de los caballos se deposita el contenido de bacines y tibores que, al grito de « ¡Agua va!» y sin miramiento alguno, arrojan los vecinos desde balcones y ventanas. En época de lluvias el tránsito se hace difícil para los carruajes y los peatones deben estar alertas al paso de las volantas que navegan en el lodazal en que se convierten las calles. Rodeada de muros por todas partes, La Habana es, durante las lluvias, una inmensa charca que desagua en la bahía por un solo lugar: el boquete de la pescadería, propiedad de nuestro viejo conocido don Pancho Marty y Torrens, frente a la calle Empedrado. El arrastre es de tales proporciones, dice el erudito Juan Pérez de la Riva, que entre 1798 y 1844 el fondo de la bahía disminuye en no menos de seis pies, disminución que llega a los diez pies frente a los muelle. Incluso la Plaza de Armas parece, según la época del año, un páramo fangoso o un paraje polvoriento. Como el tránsito de carruajes llegaba  a hacerse muy difícil durante las lluvias en aquellas calles estrechas y sin pavimentar, se ideó enterrar en ellas  traviesas de madera dura que quedaban dispuestas de manera perpendicular al eje de la vía. Fue nulo el resultado de tal empeño. Lejos de solucionar la situación, la empeoró, sin contar que si los aguaceros eran seguidos e intensos, los polines desaparecían tragados por el subsuelo. Fue durante el gobierno del mayor general  José Miguel Gómez (1909-1913) cuando se realizó el primer tramo de calle con base de hormigón y superficie de rodamiento de asfalto. Se le llamó calle experimental Hacia 1850, La Habana intramuros tiene 39 980 habitantes, cifra que, con la población flotante, supera las 55 000 personas. Se contabilizan entonces 3 761 casas. De ella 1 282 son accesorias y 56 ciudadelas. No existen todavía hoteles, pero se alquilan 1 157 «cuartos interiores».
Hay en intramuros 1 560 volantas y 352 quitrines y en extramuros 624 y 115, respectivamente, lo que resultaba un vehículo por cada 24 personas blancas.

Otros nombres

La calle Cuba se llamó antes calle de la Campana y de la fundición.
Lamparilla debe su nombre a la luz que un devoto de las Ánimas encendía todas las noches en su casa de la esquina de la calle Habana.
La esquina de Lamparilla y Aguacate se llamó del Campanario por uno pintado de azul que allí había y el tramo de Lamparilla que se extiende entre Villegas y Bernaza se llamó de las Cañas Bravas por las que había sembradas al costado de la parroquial del Cristo y que se cortaron en 1808. Empedrado fue la primera calle empedrada en La Habana. Se hizo con chinas pelonas desde la Plaza de la Catedral hasta la Plaza de San Juan de Dios y duraron hasta 1838 cuando se sustituyeron por adoquines. O’Reilly se llama así porque el Conde de O’Reilly, subinspector de las tropas cuando la restauración de La Habana en 1763 hizo su entrada por esa calle, mientras que el Conde de Albemarle, jefe de la ocupación británica, salía por la calle Obispo.
En 1742 los solares de esta calle se vendían entre 8 y 9 reales la vara. Cien años después el precio era de más de una onza de oro la vara.
La avenida 23, en el Vedado, se llamó en sus inicios  en 1862 Paseo de Medina, por ese contratista de obras del Gobierno colonial que tenía su residencia frente a donde se emplazaría el cine Riviera. Durante un corto periodo llevó el nombre de General Machado. Línea, en 1918, pasó a llamarse Presidente Wilson, y durante la dictadura batistiana, fue rebautizada como General Batista, nombre que, al igual que el de Machado, el pueblo repudió. Siempre ha sido Línea, primero por los pequeños trenes que salían de cerca de La Punta y luego por los tranvías eléctricos. La calle Manuel Sanguily —al costado del palacio del Segundo Cabo— sigue siendo conocida, lamentablemente, por su viejo nombre de Tacón.

De la Upec me han dado un recado

El compañero Antonio Moltó, presidente de la Unión de Periodistas de Cuba (UPEC), hizo llegar al diario elementos sobre lo expuesto por el escribidor en la página correspondiente al 8 de mayo pasado (Lo que no dije de la Catedral), en la que pregunta por el destino de las piezas que obraban en los fondos del museo de la prensa que existía en la Asociación Reporters, de la calle Zulueta.
Y explica en su misiva que la UPEC, «al crearse en 1963, no fue continuadora ni de la Asociación de Reporters de La Habana ni del Colegio Provincial de Periodistas de La Habana, y menos aún heredera de los bienes inmuebles de esas instituciones periodísticas. A veces, por desconocimiento, eso se cree (…) Desde mucho antes del nacimiento de la UPEC, habían desaparecido la Asociación de Reporters y el Colegio de Periodistas, ubicados en la calle Zulueta. Incluso, el edificio ubicado en 20 de Mayo casi esquina a Ayestarán, que se construyó para instalar allí el Colegio de Periodistas, el Estado dispuso que pasara a un centro para estudio de idiomas».
Añade:
«Ciro Bianchi pregunta en su artículo sobre dónde fueron a parar las piezas que conformaron el museo de la prensa que estaba en la Asociación de Reporters de La Habana. No tenemos una respuesta para esto. Lo que sí aseguramos es que la UPEC no fue heredera de las piezas de ese museo ni tampoco de los panteones en la Necrópolis de Colón que por Resolución del Gobierno Revolucionario pasaron a otras instituciones».
Señala por último el compañero Moltó que lo único que logró salvarse del local de la calle Zulueta fueron algunos expedientes y libros del Colegio Nacional que el periodista Baldomero Álvarez Ríos rescató en su camino al basurero. Esos documentos, dice Moltó, se conservan hoy en la sede de la UPEC.
Valga la aclaración del Presidente de la UPEC. El escribidor solo desea aclarar por su parte que no culpó a nadie, y mucho menos a la organización que Moltó encabeza, de la desaparición de esos materiales. Solo se interesaba por su destino.

Ciro Bianchi Ross


lunedì 30 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BECCHEGGIO: movimento del capo degli uccelli quando mangiano

domenica 29 maggio 2016

Dizionario di mare per lupi di terra

BAVA DI VENTO: la producono i venti anziani

venerdì 27 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BATTIGIA: percuotiadesso

Cuba e l'informazione

In questi ultimi anni, anche l’informazione cubana ha fatto notevoli progressi, purtroppo mi sembra che restino antichi retaggi di “incompletezza professionale” dei giornalisti. Si danno spesso e volentieri notizie incomprensibilmente incomplete.
Al di la che personalmente non credo alla “stampa libera” in nessuna parte del mondo , tutt’al più “pluralista” che non è lo stesso, ma mi sembra che dare informazioni su fatti culturali non dovrebbe avere “censure” nella loro completezza. Faccio degli esempi: grande (giusto) orgoglio per il prossimo riconoscimento (7 giugno) dell’Avana come una delle “Sette città Meraviglia del mondo”. Perfetto e ne sono contento, se lo merita, ma le altre 6 quali sono? Qua nessuno lo ha detto.

Spesso e volentieri, direi ogni giorno, si annunciano mostre, esposizioni, avvenimenti culturali di vario genere, ma...salvo rarissime eccezioni,  si da l’indirizzo esatto di dove si svolgono, come se tutti fossero obbligati a sapere dove si trova la galleria tale, il museo talaltro o il centro culturale pinco pallino...Non credo che sia un grande sforzo dare le notizie complete...

mercoledì 25 maggio 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BATTICULO: caduta sulle terga

martedì 24 maggio 2016

L'Avana, panni stesi


lunedì 23 maggio 2016

Aguiar, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 22/5/16

 Aguiar è la strada avanera che comincia nell’Avenida del Las Misiones e si introduce per 15 isolati nella città vecchie per morire in Sol, vicino alle mura del convento di Santa Clara, deve il suo nome a Luis José Aguiar, uno dei reggenti del municipio dell’Avana che si distinse in modo straordinario nella difesa della città di fronte all’aggressione inglese nel 1762. Uno dei ristoranti più emblematici dell’urbe all’Hotel nacional, porta anch’esso il suo nome, la sala da pranzo Aguiar.
Questa strada – che conta con una magnifica sala da concerto nell’antico Oratorio di San Filippo Neri, angolo con Obrapía, e dove tra poco avrá la sua sede il Tribunale Supremo, al numero 367, antica sede della Royal Bank of Canada e l’Istituto di Storia di cuba, nel tratto di via che corre tra Obispo e O’Reilly lato numeri dispari – fu, a parere dello scriba, fino al 1958 e anche un po’ dopo, la via dei soldi.
Lì avavno le case madri o le succursali nove banche e un elevato numero di di compagnie e agenzie di assicurazioni e numerose associazioni commerciali come la Camera di Commercio Britannica, l’Associazione delle Banche di Cuba e la Camera Nazionale di Commercianti e Industriali.
Come se ciò fosse poco, nella calle Aguiar aprivano le loro porte gli studi di oltre 105 avvocati, alcuni di loro pescecani del regime batistiano come Rafael Guas Inclán, vice presidente della Repubblica, al numero 574 della via; Jorge García Montes, primo ministro, al 310. Gastón Godoy, presidente della Camera dei Rappresentanti, al numero 360 e al 305, Marino Lòpez Blanco, ministro dell’Industria. Anche alcuni avvocati oppositori alla dittatura,, dalle file dell’Ortodossia, come Francisco Carone ed Ernesto Dihigo, entrambi con ufficio nell’edificio contrassegnato dal numero 556.
Naturalmente non mancavano le case di abitazione e i locali che davano spazio a esercizi commerciali come i Magazzini di Seteria e Chincaglieria,al 560, la sartoria e camiceria di Ramón Gómez al numero 408 e il negozio di abiti da uomo di José Wladawsky, al 609. Al 402 si trovava il Club dello Sport e Sviluppo del Turismo all’Avana e all’angolo di O’ Reilly, il bar dell’hotel Lafayette dove, si dice, si impose “il cubanito”, il delizioso cocktail che si elabora con rum bianco, succo di pomodoro, salsa inglese e pepe e che si guarnisce con sale. L’azionista principale della fabbrica di cappelli di Barquín e Compagnia, numero 602, era membro della Camera di Commercio della Repubblica.
In Aguiar 569, si confezionavana le lenzuola Palacio. Un slogan commerciale viene dalla notte dei tempi. Forse lo ricordano i maggiori dei 70 anni. Dice: “Lenzuola Palacio, morbide come la seta e forti come il lino. Garntite per 360 lavaggi”.
Lo scriba ignora se qualcuno si è messo di buzzo a contarle, qualche volta.

Il Distretto Bancario

José María de la Torre scrive nel suo libro Los que fuimos y lo que somos; La Habana antigua y moderna, pubblicato in questa città nel 1857 che don Luis José Aguiar, il quale finì per dare nome a questa strada, abitava all’angolo di Tejadillo. Aggiunge che il tratto di Aguiar fra Teniente Rey e Muralla si chiamò Carnicería perché lì vi si trovava seconda casa a destra entrando da Teniente Rey – la macelleria reale, mentre all’angolo di Amargura la si chiamò De los Terceros per la cappella di Terzo Ordine di Sant’Agostino e quella di O’ Reilly fu quella dell’Anticristo. Ad Aguiar, in certi scritti, si da il nome di Contias, ma de la Torre dice che non ne conosce il motivo.
Il cosiddetto Distretto Bancario avanero, la nostra piccola Wall Street, si trovava fra O’ Reilly, Amargura, Mercaderes e Compostela. In questo spazio si trovavano le sedi dell banche principali; edifici maestosi, con facciate di colonne monumentali che non lasciavano dubbi sulla loro solidità, la ricchezza el’eternità delle istituzioni che vi albergavano anche se alcune crollavano appena c’era un venticello che le sfiorava. Lì c’erano la Borsa dell’Avana, la Loggia del Commercio, la Camera di Commercio della Repubblica – in quello che sarà l’Hotel Raquel – e le camere di commercio spagnola, italiana, francese, britannica e tedesca oltre alla Camera di Commercio Americana di Cuba. Uffici di assicurazioni e prestiti, imprese dello zucchero e non...La Camera di Commercio Cinese si trovava in Reina, numero 601, ai piani superiori, quella ebraica alla fine della calle Muralla.
Aguiar era uno degli assi di questo distretto. A parte dellla citata Banca del Canada, vi aveva sede una succursale della Trust Company de Cuba, installata in quella che fu sede della Banca del Commercio, all’angolo di Obrapía. Nell’edificio dell’Oratorio di San Filippo Neri e di fronte, una succursale della Banca Nuñez. La Banca Gelats, la più antica fra le case bancarie nazionali, occupava il bellissimo edificio contrassegnato dal numero 456 della strada, oggi sede della Tele Banca. Al numero 306 si trovava la Banca di Coloni, un immobile attualmente in restauro. L’edificio del Chase Manhattan Bank – numero 310 – appartiene al Banco de Credito y Comercio e la locale Banca Hispano Cubana, al numero 305, si suddivise in due o tre appartamenti. L’edificio della banca di Boston, al 411, angolo Lamparilla, è una dipendenza della Banca Centrale di Cuba e la Banca Pedroso, all’angolo di Empedrado, è una mensa per lavoratori.
Lo scriba ignora a quanto ascendessero i depositi del Chase e della banca di Boston. Né quanto accumulava la Banca Pedroso, sebbene alla fine degli anni ’50 riportasse utilità superiori ai 100.000 pesos annuali. I depositi del resto delle sei entità citate ascendevano a circa 530 milioni di pesos, secondo i dati che apporta Guillermo Jímenez nella sua opera Las empresas de Cuba en 1958.

Banche e banchieri

Il Trust, nonostante il suo nome, era una banca cubana, la principale, con depositi per 232 milioni di pesos, 26 agenzie e 800 impiegati.
Era l’anello bancario del più importante finanaziario e zuccheriero del Paese, la Sucesión Falla Gutiérrez, proprietaria di sette centrali e il secondo maggiore fra i gruppi zuccherieri installati sull’Isola.
Il Trust comprò varie banche. Acquisì, fra gli altri il Banco de Comercio, in quella che si considera la maggior transazione bancaria dal crack degli anni ’20, operazione che gli permise di ascendere al primo posto. Jiménez scrive che contava di un’amministrazione molto efficiente e capace, la sua situazione economica e finanziaria risultava molto buona e la sua espansione era straordinaria, captava affari e depositi di continuo. Era una della ziende cubane più redditizie, con utili che superavano il milione e mezzo di pesos annuali.
La Banca Nuñez, con 22 agenzie, era per l’importo dei suoi depositi -97 milioni – la quarta tra le entità bancarie. Carlos Nuñez, suo unico proprietario, nato nel 1885 a Holguin, non aveva acquisito la sua fortuna per eredità, matrimonio o sostegni politici. Figlio di un umile spagnolo, frequentò solo le elementari. All’inizio comprò varie carrette per il trasporto della canna e poi comprò terreni coltivati a canna. Il 21 marzo 1921, in pieno crack bancario, inaugurò in un locale prestato, la sua banca di successo, una della ziende cubane più redditizie con più di un milone di pesos di utile. Nel 1939 la portò all’Avana e tre anni più tardi la strutturò come una società anonima i cui azinisti erano lui e i suoi sette figli.
La Banca Gelats era la nona nel Paese a ragione della quantità dei suoi depositi: 46 milioni di pesos nel 1956 ed era molto relazionata con gli interessi dela Spagna, dove possedeva investimenti sostanziali in valori. Operava con conti in dollari nel Convegno di Pagamento dei due Paesi. Gelats era la maggior personalità degli interessi economici della Chiesa Cattolica, consigliere economico dell’Arcivescovado dell’Avana e banchiere a Cuba di Sua Santità il Papa.
Gelats controllava in modo unipersolnale la politica della sua banca e gli si addossavano metodi di direzione obsoleti, Jiménez nel citato libro dice: “La sua rinuncia ad agenzie gli causò la perdita di clienti; ne aprì solo una all’inizio della calle Linea, già nel 1958. Nonostante la sua banca perdesse posizioni, continuava ad essere uno dei più importanti, con solide radici tra i capitali più tradizionali del Paese”.
La Banca del Canada, con 23 agenzie, aveva depositi per 127 milioni di pesos. La Banca dei Coloni – 22 milioni in depoositi – fu fondata nel 1942 da un gruppo di coloni oriundi delle Canarie, con il proposito di finanziare piccoli agricoltori, ma in meno di dieci anni abbandonò questa politica per convertirsi in finanzieri dei proprietari dei grandi zuccherifici. Il suo ultimo presidente fu il già citato Gastón Godoy, molto legato al regime batistiano: fuggì con batista, nel suo stesso aereo, il 1° gennaio del 1959 e alla sua morte, nell’agosto del 1973, si fece carico delle onoranze funebri. Presiedette l’Associazione Nazionale dei Coloni di Cuba che aveva sede nell’edificio della banca.
Di quelli ubicati nella calle Aguiar, la banca con il minor saldo in depositi era l ‘Hispano Cubana. La sua fondazione fu idea di quattro investitori italiani presieduti da Guido Pereda, ma alla sua morte prima che si inaugurasse la banca, l’affare passò nelle mani di due prestanome di Batista: Manuel Pérez Benitoa e José López Vilavoy che controllavano quasi in parti uguali l’80% delle azioni del dittatore. Si immagini, il lettore, come andavano le cose fino a che Il Banco Nacional de Cuba lo ipotecò a partire dal settembre 1957 e nel luglio dell’anno seguente immpose ai suoi proprietari a che lo vendessero per insolvenza a salsare debiti in sospeso, per cinque milioni di pesos.

Pranzo a Wall Street

In quel distretto bancario ci fu un ristorante che si chiamò, naturalmente, Wall Street al numero 370 della calle Aguiar. Il 14 marzo del 1945, il Dottor Eugenio Llanillo un avvocato grosso, di statura bassa con sorriso e sigaro in permanenza, pranzò nel ristorante Wall Street e accompagnò il cibo con vino Marqués de Riscal. Poi salì nel suo ufficio nell’edificio dalla Banca del Canada e poco dopo tornò al ristorante per bere un bicchiere di sidro. Alcune ore dopo apparve assassinato nella strada che va da Punta Brava alla spiaggia di Santa Fe. Il letterato era stato oggetto di una detenzione illegale della polizia che eccedette nel dargli un trattamento troppo severo per fulminarlo con due colpi alla testa.
Perché uccisero Llanillo? Perché, come altri crimini dell’epoca non si chiarì mai del tutto? Fu un regolamento di conti i cosiddetti “uomini d’azione” per essere stato, fino alla sua morte avvocato di Batista e Marta o come supposto complice dell’ingresso clandestino all’Isola dell’ex colonnello José Eleuterio Pedraza, col proposito di rovesciare il Governo del presidente Grau San Martín? Furono gli uomini di Pedraza che lo ultimarono per aver dlatato il loro capo?
Lo vedremo in un’altra occasione. 

Aguiar, la calle del dinero

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
21 de Mayo del 2016 21:51:24 CDT

Aguiar, esa calle habanera que comienza en la Avenida de las Misiones y se interna a lo largo de unas 15 cuadras en la ciudad vieja para morir en Sol, junto a los muros del convento de Santa Clara, debe su nombre a Luis José Aguiar, uno de los regidores del Ayuntamiento de La Habana, que se destacó de manera extraordinaria en la defensa de la ciudad ante la agresión inglesa de 1762. Uno de los restaurantes más emblemáticos de la urbe, en el Hotel Nacional, lleva también su nombre, El Comedor de Aguiar.
Esta calle —que cuenta con una magnífica sala de conciertos en el antiguo Oratorio de San Felipe Neri, en la esquina con Obrapía, y donde pronto tendrán su sede el Tribunal Supremo, en el número 367, antigua sede de The Royal Bank of Canada, y el Instituto de Historia de Cuba, en el tramo de la vía que corre entre Obispo y O’Reilly, acera de los nones— fue, en opinión del escribidor, hasta 1958 e incluso un poco después, la calle del dinero.
Allí tenían casas matrices o sucursales nueve bancos y un elevado número de compañías, agencias de seguro y numerosas asociaciones comerciales como la Cámara de Comercio Británica, la Asociación de Bancos de Cuba y la Cámara Nacional de Comerciantes e Industriales.
Como si eso fuese poco, sobre la calle Aguiar abrían sus puertas los bufetes de más de 105 abogados, entre ellos algunos pejes gordos del régimen batistiano como Rafael Guas Inclán, vicepresidente de la República, en el número 574 de la calle; Jorge García Montes, primer ministro, en el 310. Gastón Godoy, presidente de la Cámara de Representantes, en el número 360, y en el 305, Marino López Blanco, ministro de Hacienda. Y también algunos abogados opuestos a la dictadura, desde las filas de la Ortodoxia, como Francisco Carone y Ernesto Dihigo, ambos con oficinas en el edificio marcado con el número 556.
No faltaban, desde luego, las casas de vivienda y los locales que daban cabida a establecimientos comerciales, como los Almacenes de Sedería y Quincallería, en el 560, la sastrería y camisería de Ramón Gómez, en el número 408, y la tienda de ropa hecha para caballeros de José Wladawsky, en el 609. En el 402 se hallaba el Club de Sport y Fomento del Turismo de La Habana, y, en la esquina de O’Reilly, el bar del hotel Lafayette donde, se dice, se impuso el «cubanito», el sabroso coctel que se elabora con ron blanco, zumo de tomate, salsa inglesa y pimienta, y que se puntea con sal. El propietario principal de la fábrica de sombreros de Barquín y Compañía, número 602, era miembro de la Cámara de Comercio de la República.
En Aguiar 569 se confeccionaban las sábanas Palacio. Un eslogan comercial viene desde el fondo de los tiempos. Acaso lo recuerden los mayores de 70 años. Dice: «Sábanas Palacio. Suaves como la seda y fuertes como el lino. Garantizadas por 360 lavadas».
Desconoce el escribidor si alguien se animó a contarlas alguna vez.

El distrito bancario

Escribe José María de la Torre en su libro Lo que fuimos y lo que somos; La Habana antigua y moderna, publicado en esta ciudad en 1857, que don Luis José Aguiar, que terminó dando nombre a esta calle, vivía en la esquina de Tejadillo. Añade que al tramo de Aguiar entre Teniente Rey y Muralla se le llamó Carnicería por hallarse allí —segunda casa a la derecha según se entraba por Teniente Rey— la carnicería real, mientras que a la esquina de Amargura se le llamó De los Terceros por la capilla de la Tercera Orden de San Agustín, y la de O’Reilly fue la del Anticristo. A Aguiar se da el nombre de Contias en algunas escrituras, pero dice De la Torre que desconoce los motivos.
El llamado Distrito Bancario habanero, nuestro pequeño Wall Street, se enmarcaba entre O’Reilly y Amargura, y Mercaderes y Compostela. En ese espacio se hallaban las sedes de los bancos principales; edificios majestuosos y con fachadas de columnas monumentales que no dejaban duda sobre la solidez, la riqueza y la eternidad de las instituciones que albergaban, aunque a veces algunos se desmoronaban cuando les soplaba un vientecito platanero. Estaban allí la Bolsa de La Habana, la Lonja del Comercio, la Cámara de Comercio de la República —en lo que sería el Hotel Raquel— y las cámaras de comercio española, italiana, francesa, británica y alemana, y también la Cámara de Comercio Americana de Cuba. Oficinas de agencias de seguro y fianzas y de empresas azucareras y no azucareras… La Cámara de Comercio China radicaba en Reina número 161, altos, y la hebrea, al final de la calle Muralla.
Aguiar era uno de los ejes de ese Distrito. Aparte del ya mencionado Banco de Canadá, radicaba allí una sucursal del Trust Company de Cuba, instalada en lo que fuera la sede del Banco del Comercio, en la esquina con Obrapía, en el edificio del Oratorio de San Felipe Neri, y enfrente, una sucursal del Banco Núñez. El Banco Gelats, el más antiguo entre las casas bancarias nacionales, ocupaba el bellísimo edificio marcado con el 456 de la calle, sede hoy de la Tele Banca. En el número 360 se hallaba el edificio del Banco de los Colonos, un inmueble ahora en remodelación. El edificio del Chase Manhattan Bank —número 310— pertenece al Banco de Crédito y Comercio, y el local del Banco Hispano Cubano, en el número 305, se subdividió en dos o tres apartamentos. El edificio del Banco de Boston, en el 411 esquina a Lamparilla, es una dependencia del Banco Central de Cuba, y el Banco Pedroso, en la esquina de Empedrado, es un comedor obrero.
Desconoce el escribidor a cuánto ascendían los depósitos del Chase y del Banco de Boston. Ni cuánto acumulaba el Banco Pedroso, si bien a fines de los años 50 reportaba utilidades superiores a los 100 000 pesos anuales. Los depósitos del resto de las seis entidades mencionadas ascendían a unos 530 millones de pesos, según datos que aporta Guillermo Jiménez en su obra Las empresas de Cuba 1958.

Bancos y banqueros

El Trust, pese a su nombre, era un banco cubano, el principal, con depósitos por 232 millones de pesos, 26 sucursales y 800 empleados.
Era el eslabón bancario del más importante grupo financiero-azucarero del país, la Sucesión Falla Gutiérrez, propietaria de siete centrales y el segundo mayor entre los grupos azucareros asentados en la Isla.
El Trust compró varios bancos. Adquirió entre otros el Banco del Comercio, en lo que se considera la más importante transacción bancaria desde el crack de los años 20, operación que le permitió ascender al primer lugar. Escribe Jiménez que contaba con una administración muy eficiente y capaz. Su situación económica y financiera resultaba muy buena y su expansión era extraordinaria, captaba negocios y depósitos continuamente. Era una de las empresas cubanas más rentables, con utilidades que superaban el millón y medio de pesos anuales.
El Banco Núñez, con 22 sucursales, era, por el monto de sus depósitos
—97 millones—, el cuarto entre las entidades bancarias. Carlos Núñez, su propietario único, nacido en Holguín, en 1885, no había adquirido su fortuna por herencia, matrimonio ni prebendas políticas. Hijo de un español humilde, apenas cursó estudios primarios. Compró en un inicio varias carretas para el transporte de caña y adquirió luego colonias cañeras. El 21 de marzo de 1921, en pleno crack bancario, inauguró en un local prestado su exitoso banco, una de las empresas cubanas más rentables con utilidades superiores al millón de pesos. En 1939 lo trasladó para La Habana y tres años más tarde lo reestructuró como una sociedad anónima cuyos accionistas eran él y sus siete hijos.
El Banco Gelats era el noveno del país en razón del monto de sus
depósitos: 46 millones de pesos en 1956, y estaba muy relacionado con los intereses de España, donde poseía inversiones sustanciales en valores. Operaba la cuenta en dólares del Convenio de Pago entre los dos países. Gelats era la más alta personalidad de los intereses económicos de la Iglesia Católica, consejero económico del Arzobispado de La Habana y banquero en Cuba de Su Santidad el Papa.
Gelats controlaba de manera unipersonal la política de su banco y se le achacaban métodos de dirección obsoletos, dice Jiménez en el libro citado. Su renuncia a las sucursales le causó pérdida de clientes; solo abrió una, al comienzo de la calle Línea, ya en 1958. Aunque su banco descendía en posición, seguía siendo de los más importantes, sólidamente arraigado entre los capitales más tradicionales del país.
El Banco de Canadá, con 23 sucursales, tenía depósitos por 127 millones de pesos. El Banco de los Colonos —22 millones en depósitos— fue fundado en 1942 por un grupo de colonos oriundos de Canarias, con el propósito de refaccionar a pequeños cosecheros, pero en menos de diez años abandonó esa política para convertirse en prestamista de propietarios de grandes centrales azucareros. Su último presidente fue el ya mencionado Gastón Godoy, muy vinculado al régimen batistiano: huyó con Batista en su mismo avión el 1ro. de enero de 1959, y a su muerte, en agosto de 1973, asumiría la despedida de duelo. Presidió la Asociación Nacional de Colonos de Cuba, que radicaba en el edificio del banco.
De los ubicados en la calle Aguiar, el banco con menor monto de depósitos era el Hispano Cubano. Su fundación fue idea de cuatro inversionistas italianos presididos por Guido Pereda, pero al fallecer este antes de que el banco se inaugurara, el negocio fue a parar a manos de dos testaferros de Batista: Manuel Pérez Benitoa y José López Vilavoy, quien controlaba casi a partes iguales el 80% de las acciones con la esposa del dictador. Imagine el lector cómo andarían las cosas allí, que el Banco Nacional de Cuba lo intervino a partir de septiembre de 1957 y en julio del año siguiente apremió a sus propietarios a que lo vendieran por incumplimiento del compromiso de saldar deudas pendientes por cinco millones de pesos.

Almuerzo en Wall Street

En aquel distrito bancario hubo un restaurante que se llamó, por supuesto, Wall Street, en el 370 de la calle Aguiar. El 14 de marzo de 1945 el Doctor Eugenio Llanillo, un abogado grueso, de baja estatura, con sonrisa y tabaco perpetuos, almorzó en el restaurante Wall Street y acompañó la comida con vino Marqués de Riscal. Luego subió a su oficina en el edificio del Banco de Canadá y poco después volvió al restaurante para beber una copa de sidra. Horas después aparecía asesinado en la carretera que va de Punta Brava a la playa de Santa Fe. El letrado había sido objeto de una detención ilegal por la policía, que se excedió al propinarle un trato demasiado severo y fulminarlo con dos balazos en la cabeza.
¿Por qué mataron a Llanillo? Como otros crímenes de la época, este suceso no se dilucidó del todo. ¿Le pasaron la cuenta los llamados «hombres de acción» por haber sido hasta su muerte, abogado de Batista y Marta, o por suponerlo cómplice de la entrada clandestina en la Isla del excoronel José Eleuterio Pedraza, con el propósito de derrocar al gobierno del presidente Grau San Martín? ¿Fueron los hombres de Pedraza los que lo ultimaron, al suponer que había delatado a su jefe?
Ya lo veremos en otra ocasión.

Ciro Bianchi Ross