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mercoledì 1 giugno 2016

Di ritorno alla strada, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juvantud Rebelde del 29/5/16

Lo sapevate che l’aristocratica anche se decaduta, calle O’ Reilly fu un tempo la calle Honda o del Sumidero, del Basurero y de la Aduana? Cha una cale tale rango come Tniente Rey, prima fu la calle di Santa Teresa y de San Salvador de la Horta e che mai lì ci fu nessun tenente reale se non un vivace tenente del governatore che viveva all’angolo con la calle Habana, di cognome Rey che finì per dare il nome alla via? Che Bernaza è Bernaza per un tale José Bernaza che vi ebbe una panetteria? Che San Ignacio prima fu la calle de la Cienaga per la palude che esistevatra la caserma di San Telmo e la Cattedrale? Che le decine di artigiani che risiedettero in Oficios tra la Plaza de San Francisco e quella de Armas terminarono per dar nome a questra strada? Che Muralla fu la calle Real e che uno dei sui tratti si battezzò come De la Cuna?
Quando la scriba cominciò i suoi studi alla scuola media inferiore – da allora piovvero diverse decadi – il professore della materia che allora chiamavano di Scienze Sociali cominciava sempre il suo discorso, il  primo anno, con la proposta di un lavoro d’investigazione. Noi studenti dovevavmo informarci sul nome della strada dove abitavamo e mettere per iscritto il frutto della nostra ricerca. Siccome io abitavo nella calle Diez, nel reparto Lawton, mi passai per furbo nella risposta e scrissi, come una revolverata: che la mia strada si chiamava così per la numerazione. Chiaro che era per questo, ma il professore che di cognome era Borroto –non mi ricordo il suo nome proprio che era composto- mi disse che dovevo acer lavorato un po’ di più e verificare approssimativamente in che data si dettero i numeri alle strade del reparto e perché le strade col numero si alternavano con quelle che furono battezzate con nomi diversi e a volte arbitrari come San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros...che non sempre rispondevano a una realtà concreta, un fatto o al nome di un abitante residente nella zona.
Apartire da questo momento cominciò a interessarmi il tema delle strade, il lettore, negli anni più recenti, è stato testimone di questo interesse per le volte che ho affrontato, in questa pagina, alludendo a strade particolari – Aguiar, Amargura, Prado, Infanta, 23, Línea e molte altre – o riferendomi congintamente a strade avanere.

Quartieri della città

Nel 1763, sotto il Governo del Conte de Ricla, la città, si divise per la prima volta in quartieri, si numerarono le case e si dettero nomi alle strade. Il fatto dei nomi prevalse per quello delle persone notabili, specialmente quelle che si distinsero nella difesa della piazza, quando l’aggressione inglese. Il medesimo bando di Polizia che contemplava queste misure, proibiva la costruzione di case con tetto di frasche e si raccomandava la costruzione di case “di certa altezza”. Nel 1808 si collocarono le targhette con i numeri nella case di muratura, costando 14 reales ciascuna. Siccome si ebbero variazioni, rispetto alla numerazione anteriore, si stabilì un “ducumento” con questa differenza, un
“documento” che si conservava nella segreteria del Municipio.
A parte di occuparsi della pavimentazione delle strade principali col sistema del “Macadam”, il governatore Miguel Tacón si occupò anche della catalogazione delle strade avanere e anche della numerazione dei locali. Lo dice nel documento che fece il riassunto del suo mandato: “Le strade erano carenti dell’iscrizione dei loro nomi e molte case del numero. Feci porre agli angoli, delle prime, le targhette di bronzo e numerare le seconde col semplice metodo di mettere i numeri pari su un marciapiedi e i dspari nell’altro”. Questo occorse tra il 1834 e il 1838. Non si tornò a catalogare né numerare l’Avana fino a circa cent’anni dopo.
Prima, verso il 1820, si era proibito nel modo più assoluto di costruire nuove case dentro delle mura. La disposizione determinava che essendo l’Avana una piazzaforte “non si possono costruire dentro le mura più casa di quelle che esistono di già”, misura che portava come conseguenza, per la scarsità di abitazioni che provocava, un alto costo degli affitti. Una famiglia agiata che volesse installarsi nella città fra le mura doveva pagare un affitto che oscillava tra gli 8.000 e i 14.000 pesos all’anno. Gli affitti non erano di questi livelli negli immobili siti fuori dalle mura, ma in ogni modo si affittavano per cifre elevate con la scusa che in quella zona si aveva il minor rischio di contrarre la febbre gialla.

Arriva l’acqua!

Le strade, strette e senza pavimentazione, appaiono piene d’immondizie. Nei solchi lasciati dalle ruote dei carri e le zampe dei cavalli si deposita il contenuto di bacinelle e vasi da notte che al grdo di “Arriva l’acqua!”, senza guardare nessuno, gettavano gli abitanti da balconi e finestre. Nella stagone delle piogge il transito si faceva difficile per i carri e i pedoni dovevano stare all’erta al passaggio degli oggetti volanti che navigavano nel pantano in cui si convertivano le strade. Circondata da mura da tute le parti, l’Avana durante la pioggia era un’immensa pozzanghera che scaricava nella baia da una sola parte: l’imbocco della pescheria, proprietà del nostro vecchio conoscente don Pancho Marty y Torrens, di fronte alla calle Empedrado. La forza era di tali proporzioni, dice l’erudito Juan Pérez de la Riva che tra il 1798 e 1844 il fondo della biaia diminuisce non meno di sei piedi di fronte ai moli. Anche la Plaza de Armas sembra, secondo l’epoca dell’anno, un tratto fangoso o un pianoro polveroso. Siccome il transito dei carri diventava molto difficile, durante le piogge in quelle strade strette e non pavimentate, si ideò di interrarvi in esse, traverse di legno duro che rimanevano perpendicolari all’asse della via. Il risultato di tale lavoro fu vano. Lungi dal risolvere la situazione la peggiorò, senza contare che se gli acquazzoni erano continui e intensi, i pollini sparivano inghiottiti dal suolo. Fu durante il Governo del maggior generale José Miguel Gómez (1909 -1913) quando si realizzò il primo tratto di strada con base in cemento e superficie di scorrimento in asfalto. Si chiamò strada sperimentale Verso il 1850, l’avana tra le mura aveva 39.980 abitanti, cifra che con la popolazione fluttuante superava le 55.000 persone. Allora si contabilizzavano 3.761 case. Di esse 1.282 erano accessorie e 56 “cittadelle”. Non esistevano ancora alberghi, ma si affittavano 1.157 “stanze interne”.
C’erano tra le mura 1.560 carozze e 352 calessi e fuori dalle mura 624 e 115, rispettivamente, ciò che equivaleva a un veicolo per ogni 24 persone bianche.

Altri nomi

La calle Cuba prima si chiamò calle de la Campana y de la fundición.
Lamparilla deve il suo nome alla luce che un devoto dell Anime accendeva tutte le sere a casa sua all’angolo della calle Habana.
L’angolo di Lamparilla e Aguacate si chiamò del Campanario per uno dipinto di blu che vi era e il tratto che da Lamparilla si estende tra Villegas e Bernaza si chiamò de la Cañas Bravas per quelle seminate al lato della parrocchia del Cristo e che si tagliarono nel 1808. Empedrado fu la prima strada acciottolata all’Avana. Si fece con “chinas pelonas” (particolari pietre di fiume. N.d.t.), dalla piazza della Cattedrale fino alla piazza San Juan de Dios e durarono fino al 1838 quando si sostituirono con porfido. O’ Reilly si chiama così perché il Conte di O’ Reilly, vice ispettore delle truppe alla restaurazione dell’Avana nel 1763 fece il suo ingresso per questa  strada, mentre il Conte di Albemarle, capo dell’occupazione britannica, usciva dalla calle Obispo.
Nel 1742 gli appezzamenti di questa strada si vendevano tra gli 8 e i 9 reales la “vara” (meno di un metro, n.d.t.). Cent’anni dopo il prè ezzo era di oltre un’oncia d’oro la “vara”.
L’avenida 23 nel Vedado si chiamò all’inizio, nel 1862, Paseo de Medina per questo contrattista di opere del Governo coloniale che aveva la sua residenza di fronte a dove si stabilirà il cine Riviera. Durante un breve periodo portò il nome di General Machado.
Línea, nel 1918, passò a chiamarsi Presidente Wilson e durante la dittatura batistiana fu ribatezzata come General Batista, nome che come quello di Machado, il popolo ripudiò. È sempre stata Línea, primo per i trenini che partivano vicino alla Punta e poi per i tram elettrici. La calle Manuel Sanguilly – di fianco al Palazzo del Secondo Capo – continua ad essere, purtroppo, conosciuta col suo vecchio nome di Tacón.

Dalla UPEC mi hanno dato un messaggio

Il compagno Antonio Moltó, presidente dell’Unione dei Giornalisti di Cuba (UPEC), ha fatto giungere al giornale elementi sull’esposto dallo scriba nella pagina corrispondente all’8 maggio passato (Quello che non ho detto della Cattedrale), sulla domanda per il destino dei pezzi giacenti al fondo del museo della stampa che esisteva nell’Associazione dei Reporters, della calle Zulueta.
Spiega nella sua lettera che l’UPEC, “al crearsi nel 1963, non fu continuatrice né dell’associazione dei Reporters dell’Avana, né del Collegio dei Giornalisti, sito in calle Zulueta. Incluso, nell’edificio sito in 20 de Mayo quasi angolo ad Ayestaran che si costruì per installarvi il Collegio dei Giornalisti, la Stato dispose che passasse ad Istituto linguistico”.
Aggiunge:
“Ciro Bianchi domanda nbel suo articoilo dove andarono a finire i pezzi che conformavano il museo della stama che era nell’Associazione dei Reporters dell’Avana. Non abbiamo risposta per questo. Quallo che sì, assicuriamo, è che l’UPEC non fu erede dei pezzi di questo museo né tantomeno dei pantheon della necropoli di Colón che per risoluzione del Governo Rivoluzionario passarono ad altre istituzioni”.
In fine il compagno Moltó segnala che il poco che si salvò della calle Zulueta furono alcuni fascicoli e libri del Colegio Nacional che il giornalista Baldomero Álvarez Ríos riscattò andando alla discarica. Questi documenti, dice Moltó, oggi si conservano nella sede dll’UPEC.

Ben venga il chiarimento del Presidente dell’UPEC. Lo sciba, da parte sua, desidera chiarire con non incolpò nessuno emen che mmeno l’organizzazione che capeggia Moltó, per la sparizione di questi materiali. Si interessava solo per il loro destino.


De vuelta a la calle

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
28 de Mayo del 2016 22:13:13 CDT

¿Sabía usted que la aristocrática aunque muy venida a menos calle O’Reilly fue en un tiempo la calle Honda o del Sumidero, del Basurero y de la Aduana? ¿Qué una calle de tanto ringo rango como Teniente Rey fue antes la calle de Santa Teresa y de San Salvador de la Horta y que nunca hubo allí teniente real alguno sino un avispado teniente de gobernador que vivía en la esquina con la calle Habana de apellido Rey que terminó dando su nombre a la vía? ¿Qué Bernaza es Bernaza por un tal José Bernaza que tuvo en ella una panadería? ¿Qué San Ignacio fue antes la calle de la Ciénaga por la que existía entre el cuartel de San Telmo y la Catedral? ¿Qué las decenas de artesanos que se radicaron en Oficios entre la Plaza de San Francisco y la de Armas terminaron por dar nombre a esa calle? ¿Qué Muralla fue la calle Real y que uno de sus tramos se bautizó como De la Cuna?
Cuando el escribidor comenzó sus estudios de Secundaría Básica —llovieron desde entonces ya unos cuantas décadas— el profesor de la asignatura que llamaron entonces de Ciencias Sociales iniciaba siempre su curso en el primer año con la propuesta de un trabajo investigativo. Debíamos los estudiantes inquirir sobre el nombre de la calle en que habitábamos y poner por escrito el fruto de nuestra pesquisa. Como yo entonces residía en la calle Diez, en el reparto Lawton, me pasé de listo en la respuesta y escribí, como un
pistoletazo: que mi calle se llamaba así por la numeración. Claro que era por eso, pero el profesor que era de apellido Borroto —no recuerdo su nombre de pila, que era compuesto— me dijo que debí haber trabajado un poco más y averiguar en qué fecha aproximada se numeraron las calles del reparto y por qué las calles con números alternaban con las que fueron bautizadas con los nombres más diversos y a veces arbitrarios como San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros,,, que no siempre respondían a una realidad concreta, un suceso o al nombre de un vecino asentado en la zona.
A partir de ese momento empezó a interesarme el tema de las calles, y el lector, en los años más recientes, ha sido testigo de ese interés por las veces que lo he abordado en esta página, bien en alusión a una calle en particular —Aguiar, Amargura, Prado, Infanta, 23, Línea y muchas otras— o refiriéndome a  calles habaneras en conjunto.

Barrios de la ciudad

En 1763, bajo el gobierno del Conde de Ricla, la ciudad, por primera vez, se dividió en barrios y se numeraron las casas y se dieron nombres a las calles. En el asunto de los nombres prevaleció el de las personas notables y en especial aquellas que se distinguieron en la defensa de la plaza cuando la agresión inglesa. El mismo bando policial que contemplaba esas medidas, prohibía la construcción de casas con techos de guano y se recomendaba la edificación de casas «de alto». En 1808 se colocaron las tarjetas con los números en las casas de intramuros, costando 14 reales cada una. Como hubo variaciones respecto a la numeración anterior, se estableció un padrón con esa diferencia, padrón que se conservaba en la secretaría del Ayuntamiento.
Aparte de ocuparse de la pavimentación de las calles principales con el sistema de Macadams, el gobernador Miguel Tacón se ocupó asimismo de la rotulación de las calles habaneras y también en la enumeración los locales. Lo dice en el documento en que hizo el resumen de su :mandato: «Carecían las calles de la inscripción de sus nombres y muchas casas de número. Hice poner en las esquinas de las primeras tarjetas de bronce y numerar la segundas por el sencillo método de poner los números pares en una acera y los impares en otra». Eso ocurrió en 1834 y 1838. No volvió a rotularse ni a enumerarse en La Habana hasta unos cien años después.
Antes, hacia 1820 se había prohibido  de manera terminante construir nuevas viviendas dentro de las murallas. La disposición estipulaba que por ser La Habana una plaza fuerte «no se pueden construir dentro de sus murallas más casas de las que ya existen», medida que traía como consecuencia, por la escasez de viviendas que provocaba, el alto monto de los alquileres. Una familia acomodada que quisiera asentarse en la ciudad intramural debía abonar una renta que oscilaba  entre los 8 000 y los 14 000 pesos al año. Los alquileres no eran de esa magnitud en los inmuebles ubicados fuera de las murallas, pero de todas formas se arrendaban por sumas elevadas con la excusa de que en esas zonas se hacía menor el riesgo de contraer la fiebre amarilla.

¡Agua va!

Las calles, estrechas y sin pavimentar, aparecen llenas de inmundicias. En los surcos que dejan las ruedas de los coches y las patas de los caballos se deposita el contenido de bacines y tibores que, al grito de « ¡Agua va!» y sin miramiento alguno, arrojan los vecinos desde balcones y ventanas. En época de lluvias el tránsito se hace difícil para los carruajes y los peatones deben estar alertas al paso de las volantas que navegan en el lodazal en que se convierten las calles. Rodeada de muros por todas partes, La Habana es, durante las lluvias, una inmensa charca que desagua en la bahía por un solo lugar: el boquete de la pescadería, propiedad de nuestro viejo conocido don Pancho Marty y Torrens, frente a la calle Empedrado. El arrastre es de tales proporciones, dice el erudito Juan Pérez de la Riva, que entre 1798 y 1844 el fondo de la bahía disminuye en no menos de seis pies, disminución que llega a los diez pies frente a los muelle. Incluso la Plaza de Armas parece, según la época del año, un páramo fangoso o un paraje polvoriento. Como el tránsito de carruajes llegaba  a hacerse muy difícil durante las lluvias en aquellas calles estrechas y sin pavimentar, se ideó enterrar en ellas  traviesas de madera dura que quedaban dispuestas de manera perpendicular al eje de la vía. Fue nulo el resultado de tal empeño. Lejos de solucionar la situación, la empeoró, sin contar que si los aguaceros eran seguidos e intensos, los polines desaparecían tragados por el subsuelo. Fue durante el gobierno del mayor general  José Miguel Gómez (1909-1913) cuando se realizó el primer tramo de calle con base de hormigón y superficie de rodamiento de asfalto. Se le llamó calle experimental Hacia 1850, La Habana intramuros tiene 39 980 habitantes, cifra que, con la población flotante, supera las 55 000 personas. Se contabilizan entonces 3 761 casas. De ella 1 282 son accesorias y 56 ciudadelas. No existen todavía hoteles, pero se alquilan 1 157 «cuartos interiores».
Hay en intramuros 1 560 volantas y 352 quitrines y en extramuros 624 y 115, respectivamente, lo que resultaba un vehículo por cada 24 personas blancas.

Otros nombres

La calle Cuba se llamó antes calle de la Campana y de la fundición.
Lamparilla debe su nombre a la luz que un devoto de las Ánimas encendía todas las noches en su casa de la esquina de la calle Habana.
La esquina de Lamparilla y Aguacate se llamó del Campanario por uno pintado de azul que allí había y el tramo de Lamparilla que se extiende entre Villegas y Bernaza se llamó de las Cañas Bravas por las que había sembradas al costado de la parroquial del Cristo y que se cortaron en 1808. Empedrado fue la primera calle empedrada en La Habana. Se hizo con chinas pelonas desde la Plaza de la Catedral hasta la Plaza de San Juan de Dios y duraron hasta 1838 cuando se sustituyeron por adoquines. O’Reilly se llama así porque el Conde de O’Reilly, subinspector de las tropas cuando la restauración de La Habana en 1763 hizo su entrada por esa calle, mientras que el Conde de Albemarle, jefe de la ocupación británica, salía por la calle Obispo.
En 1742 los solares de esta calle se vendían entre 8 y 9 reales la vara. Cien años después el precio era de más de una onza de oro la vara.
La avenida 23, en el Vedado, se llamó en sus inicios  en 1862 Paseo de Medina, por ese contratista de obras del Gobierno colonial que tenía su residencia frente a donde se emplazaría el cine Riviera. Durante un corto periodo llevó el nombre de General Machado. Línea, en 1918, pasó a llamarse Presidente Wilson, y durante la dictadura batistiana, fue rebautizada como General Batista, nombre que, al igual que el de Machado, el pueblo repudió. Siempre ha sido Línea, primero por los pequeños trenes que salían de cerca de La Punta y luego por los tranvías eléctricos. La calle Manuel Sanguily —al costado del palacio del Segundo Cabo— sigue siendo conocida, lamentablemente, por su viejo nombre de Tacón.

De la Upec me han dado un recado

El compañero Antonio Moltó, presidente de la Unión de Periodistas de Cuba (UPEC), hizo llegar al diario elementos sobre lo expuesto por el escribidor en la página correspondiente al 8 de mayo pasado (Lo que no dije de la Catedral), en la que pregunta por el destino de las piezas que obraban en los fondos del museo de la prensa que existía en la Asociación Reporters, de la calle Zulueta.
Y explica en su misiva que la UPEC, «al crearse en 1963, no fue continuadora ni de la Asociación de Reporters de La Habana ni del Colegio Provincial de Periodistas de La Habana, y menos aún heredera de los bienes inmuebles de esas instituciones periodísticas. A veces, por desconocimiento, eso se cree (…) Desde mucho antes del nacimiento de la UPEC, habían desaparecido la Asociación de Reporters y el Colegio de Periodistas, ubicados en la calle Zulueta. Incluso, el edificio ubicado en 20 de Mayo casi esquina a Ayestarán, que se construyó para instalar allí el Colegio de Periodistas, el Estado dispuso que pasara a un centro para estudio de idiomas».
Añade:
«Ciro Bianchi pregunta en su artículo sobre dónde fueron a parar las piezas que conformaron el museo de la prensa que estaba en la Asociación de Reporters de La Habana. No tenemos una respuesta para esto. Lo que sí aseguramos es que la UPEC no fue heredera de las piezas de ese museo ni tampoco de los panteones en la Necrópolis de Colón que por Resolución del Gobierno Revolucionario pasaron a otras instituciones».
Señala por último el compañero Moltó que lo único que logró salvarse del local de la calle Zulueta fueron algunos expedientes y libros del Colegio Nacional que el periodista Baldomero Álvarez Ríos rescató en su camino al basurero. Esos documentos, dice Moltó, se conservan hoy en la sede de la UPEC.
Valga la aclaración del Presidente de la UPEC. El escribidor solo desea aclarar por su parte que no culpó a nadie, y mucho menos a la organización que Moltó encabeza, de la desaparición de esos materiales. Solo se interesaba por su destino.

Ciro Bianchi Ross


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