Ieri, a Washington, è stato firmato un memorandum d'intesa per il ristabilimento dei voli commerciali tra i due Paesi che dovrebbero iniziare in un lasso di tempo compreso fra i tre e i sei mesi. Un'altra barriera che cade. In tempi relativamente brevi chiunque, escluso i turisti nordamericani, potrà usufruire di collegamenti fra le due nazioni. per il momento le altre norme rimangono, seppure alleggerite con il "decreto Obama" che permette una maggior frequentazione di cittadini statunitensi di Cuba con motivi extra turistici.
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venerdì 18 dicembre 2015
martedì 15 dicembre 2015
La porta segreta di Batista, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 13/12/15
Nella storia di Cuba non
manca una porta segreta quando non appare un tunnel o un passaggio mimetizzato
da un armadio. Sembra che abbiamo visto troppe pellicole, come quelle di Zorro
nelle quali, il soggetto col suo abito di tutti i giorni, si infilava in un
camino e riappariva a cavallo e mascherato, da una cascata che riusciva ad attraversare
senza che l’acqua gli bagnasse nemmeno il cappello. Zorro “mascherato e
fuggiasco” come si diceva in quella serie di avventure delle sette e mezza di
sera e che andavano in onda in diretta, con Julito Martínez e Jorge Sosías, ai
tempi in cui la televisione era un cassone di legno.
Si parla di un tunnell che
allaccia l’antico Palazo Presidenziale – oggi Museo della Rivoluzione – col
Capitolio. Di quello che unisce la residenza dell’ex presidente Ramón Grau San
Martín, nella quinta Avenida tra 12 e 14 a Miramar, con una casa della calle
Tercera.
Del corridoio sotterraneo
che porta dalla casa di Orestes Ferrara – attuale Museo Napoleonico – in San
Miguel e Ronda, fino alla costa. Del passaggio segreto che corre tra il
castello di Averhoff a Mantilla e il vecchio castello di Atarés, all’altro lato
della città!
Se si visita Kuquine, la
tenuta di riposo di Fulgencio Batista, qualcuno parlerà del passaggio sotto
terra che unisce la casa del suddetto con la residenza del generale Roberto
Fernández Miranda, cognatissimo del dittatore, a un kilometro di distanza dalla
tenuta medesima. E non mancherà la menzione di un altro tunnel che se
esistesse, sarebbe il più spettacolare dell’epoca: quello che unisce Kuquine
con la città militare di Columbia, a circa 15 km. di distanza.
Il curioso di tutto ciò è
che c’è sempre qualcuno che assicura di aver visto questi corridoi e di averci
camminato, ma non danno mai l’ubicazione esatta della casa dove sbocca il
tunnel di Grau né la parte della costa dove si apre quello di Ferrara. Non
spiegano nemmeno il senso che avrebbe un passaggio segreto tra il Palazzo
Presidenziale e il Capitolio né se Batista, da Kuquine, avrebbe percorso il
tratto che lo separava dal campo di Columbia a piedi, cavallo o in bicicletta.
Su ciò ci sono confessioni patetiche, come di quella persona che garantì allo
scriba di aver scoperto il tunnel di Ferrara solo nel comprovare che un
cancello con grosse sbarre di ferro lo chiudeva sotto l’intersezione di Infanta
e San Lázaro. Se questo era certo, come sapeva che arrivava alla costa?
Si è parlato molto di questi
tunnel. Ma niente ha fatto correre l’immaginazione come la cosiddetta porta
segreta di Batista.
L’oroscopo
dell’anno
Il mercoledì 13 marzo del
1957, un commando del Directorio Revolucionario assalì il Palazzo Presidenziale
con l’intenzione di giustiziare il dittatore Fulgencio Batista. Diversi di
questi giovani salirono al secondo piano e penetrarono nello studio ufficiale
del presidente, ma l’ufficio era deserto. Si parlò in seguito di una porta
segreta che si apriva in una scala che conduceva alle stanze private di
Batista, al terzo piano. Fu questa porta che si trova nel breve corridoio che
unisce lo studio col salone di riunione del Consiglio dei Ministri e che era
allora nascosta da una tenda di velluto rosso, quella che permise al dittatore,
dissero gli assaltanti, di fuggire miracolosamente. Aggiunsero che pur sapendo
di un passaggio segreto, non poterono trovarlo e che il medesimo non era
riportato nei disegni del Palazzo che avevano potuto reperire.
L’etnologa Natalia Bolívar,
studiosa di religioni di origine africana, assicura che la fuga di Batista quel
13 di marzo, si relaziona con la cerimonia che nella santeria si conosce come
“l’oroscopo dell’anno”, nella quale un gruppo di babalaos predice i fatti a venire e l’orisha che governerà in quel periodo. Natalia precisa che il segno
reggente nel 1957 era Obbara Meyi che indica che il re deve cercare
costantemente un’uscita, un’uscita segreta. Fu allora, ribadisce Natalia che
Batista fece costruire non uno, ma tre passaggi segreti. Quello del Palazzo;
quello di Kuquine e un’altro nella casa presidenziale di Columbia.
Victor Betancourt, altro
studioso di religioni afrocubane, non è d’accordo con la famosa autrice di Los orishas en Cuba e afferma che l’oroscopo vigente quell’anno
era Odí Iká, segno che allude a un governante che sarà attaccato ddai suoi
nemici.
Natalia menziona il
foglietto intitolato Los babalaos tenían
razón pubblicato, secondo lei,dalla rivista Bohemia in quella data e nella
quale si appoggia la sua versione. Detto opuscolo non appare in nessuna biblioteca
cubana né della Florida. Un altro studioso del tema, Abel Sierra Madero, scrive
in un articolo che in nessuna delle cronache che si pubblicarono al momento
dell’assalto al Palazzo, si fa menzione dell’oroscopo dell’anno e nemmeno della
porta segreta.
Quanto era segreta davvero
questa porta?
Changò
gira le spalle al generale
Si suppone che Batista fece
costruire la porta in questione quando, nel gennaio 1957, si fecero conoscere i
risultati dell’oroscopo dell’anno e che il 13 marzo successivo fosse già
pronta. Il capitano Alfredo J. Sadulé, l’unico dei sei aiutanti presidenziali
di Batista che è ancora vivo, in una lunga conversazione che abbiamo avuto a
Miami alla fine del 2014 smentì l’esistenza di queste tre porte segrete e negò
che quella del palazzo fosse stata costruita da Batista “almeno negli anni
‘50”. Precisò che il dittatore si serviva di questa porta quando voleva entrare
o uscire dallo studio senza che lo vedessero, ma che abitualmente usava
l’ascensore.
Batista seppe, all’inizio di
gennaio delle minacce che gravavano su di lui in quel 1957? Conobbe e prese sul
serio le previsioni dei babalaos?
Nella sua infanzia ebbe
un’educazione protestante e già nel suo esilio in Spagna, dopo la morte a 19
anni di suo figlio Carlos Manuel, sembrò inclinarsi verso il cattolicesimo.
Però si dice, anche se non si è potuto comprovare che ricevette la mano di
Orula ed era figlio di Changó.
In una cronaca su Kuquine
pubblicata su Bohemia – Edicción de la Libertad – il giornalista insiste
nell’affermare che vide nella casa principale della tenuta, altari di santeria
con chiocciole, zampe di gallo, e pannocchie di granoturco, ma...nelle sue
pagine non c’è una sola foto che avalli l’affermazione.
Sempre su Bohemia, il 24
maggio del 1959, un’altro servizio con il titolo di Io sono stato lo stregone di Batista, firmato da Guillermo
Villaronda, rende nota l’esistenza di Chano Betongó, una relazione che se fosse
vera, si era tenuta nascosta per diversi anni.
Secondo Villaronda, Batista
fu a “consultarsi” con Betongó che risiedeva al Calvario, quando era ancora un
oscuro sergente. Il soggetto invocò Changó per predire il futuro del suo
cliente Batista avrebbe percorso un cammino lungo e tranquillo, anche se alla
fine lo attendeva “un mare immenso, agitato dall’uragano, spesso e rosso”. Era
un mare che cominciava in “una riva d’oro” e finiva per unirsi a un cielo di un
rosso più vivo di quello del sangue. Batista sarebbe arrivato alla fine di
questo cammino, ma dipendeva da lui farlo felicemente. Non doveva nemmeno
arrivare alla fine, quando poteva fermarsi all’ombra di un albero e ricevere il
saluto affettuoso dei passanti. Poco dopo, Betongó, venne a sapere che quel
soggetto dai capelli lisci, pelle da indio e con le narici dilatate era stato
protagonista, il 4 settembre del 1933, del colpo di Stato contro il presidente
Céspedes.
Batista convocò Betongó a
Kuquine, prima delle elezioni generali del 1952. Voleva sapere se avesse
conquistato la presidenza della Repubblica. Non coi voti, rispose Betongó, ma
qualcosa si poteva realizzare se si sacrificavano un vitello e un cervo.
Batista fu d’accordo e nella tenuta si fecero i sacrifici. Ci fu un’altra
convocazione. Questa volta Betongó entrò a Palazzo. I venti che guarivano lo
spirito di Batista si stavano allontanando, per contrastare le avversità lo
stregone sacrificò, nel medesimo studio presidenziale, vari galli neri e un
porcellino. Ciò nonostante non era
sufficiente e raccomandò inoltre di prendere la terra delle sei province e
quindi di ricoprire galli e galline con molto miele. Disse a Bohemia: “Io
volevo rimuovere la coscienza di Changó, ma non fu possibile”. A partire da lì
tutto andò crollando. Il dittatore chiamò Betongó dopo le elezioni spurie del 1954.
Questa volta la sua sentenza fu lapidaria. Le strade di batista erano chiuse
“vicino al mare dalle acque rosse” una mare che finirebbe inghiottendolo. Non
c’era già salvezza possibile. Disse Betongó: “Changó girava le spalle al
generale”.
Elogiato da Juan Ramón
Jiménez e da Pablo Neruda, Guillermo Villaronda era un poeta, il suo libro Hontanar meritò il Premio Nazionale di
Poesia nel 1937. La cronaca citata, a giudizio dello scriba, ha più della
poesia che della realtà. Accettiamo che un intervistatore colorisca in qualche
modo il linguaggio del suo intervistato, ma il linguaggio di Betongó non è
quello di un letterato, cosa che mette in crisi la credibilità del testo di
Villaronda, a parte che sacrificare un porcellino nello studio ufficiale dei
presidenti cubani è qualcosa di inconcepibile. Per fortuna, allora, non si
parlava ancora della porta segreta, se no Betongó avrebbe avuto qualcosa da
dire al rispetto. Alcuni anni or sono ho cercato di rintracciare Chano Betongó
al Calvario; non lo conosceva nessuno.
Non se lo ricorda nemmeno il
capitano Sadulé. Mentre pranzavamo, invitati da Max Lesnik, presidente
dell’Alleanza Martiana, nel miglior ristorante di cucina spagnola di Miami,
l’aiutante presidenziale negava con enfasi qualunque relazione di Batista con
le religioni di origine africana. “Marta, sua moglie ne aveva terrore”, disse
mentre degustava un piatto di riso nero. Rivela peraltro che nel 1954 alla
vigilia delle elezioni, il dittatore consultò uno spiritista. Poi non tornò a
vederlo, ma alla fine del 1956 Sadulé si imbatté casualmente con lui. Gli disse
che presentiva che il palazzo sarebbe stato assaltato e che per 13 pesos
avrebbe fatto un amuleto a lui e a suo padre, membro della scorta di Batista.
Sadulé chiese a suo padre se dovevano dirlo al presidente, ma accordarono di non
farlo.
Sierra Madero dice, anche se
non ha potuto confermarlo che il “padrino” di Batista fu Bernardo Rojas,
sacerdote di Ifá molto rispettato. Aggiunge che fu lui, anche se nemmeno questo
ha potuto confermarlo, che fece la previsione dell’assalto al Palazzo. Quel 13
di marzo il dittatore non scappò da una porta segreta. Non poteva farlo, semplicemente perché non era
nello studio ufficiale. Salvo eccezioni, non scendeva al secondo piano prima
delle cinque del pomeriggio. Quel giorno, all’ora dell’assalto, si preparava a
pranzare al terzo piano con Marta e Andrés Domingo, segretario della
Presidenza. Ma esisteva quella porta?
“Oltre mezzo secolo dopo,
risulta difficile stabilire con certezza che e quando si costruì la porta, e
meno ancora se fu costruita a seguito di qualche previsione religiosa”, scrive
Sierra Madero. Indubbiamente la risposta è semplice.
Questa porta non ebbe mai
niente di segreto. Era lì fin dalla costruzione del Palazzo Presidenziale e
nella stessa posizione, si ripete al primo piano dell’edificio. La usò Batista
così come la usarono i suoi predecessori dal presidente Menocal e continuarono
ad usarla quelli che gli succedettero.
La puerta secreta de Batista
Ciro
Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
12 de
Diciembre del 2015 21:43:18 CDT
En la
historia de Cuba no falta una puerta secreta cuando no aparece un túnel o
pasadizo disimulado por un escaparate. Parece que hemos visto demasiadas
películas, como aquellas del Zorro en las que el sujeto, con su atuendo de
calle, se escabullía por una chimenea y reaparecía, a caballo y disfrazado, por
una cascada que lograba atravesar sin que el agua le mojara siquiera el
sombrero. El Zorro «enmascarado y fugitivo», como se decía en aquellas
Aventuras de las siete y treinta de la tarde, que salían al aire en vivo, con
Julito Martínez y Jorge Sosías, en tiempos en que la TV era de palo.
Se habla
del túnel que enlaza el antiguo Palacio
Presidencial —hoy Museo de la Revolución— con el Capitolio. Del que conecta la
residencia del ex presidente Ramón Grau San Martín, en Quinta Avenida entre 12
y 14, en Miramar, con una casa de la calle Tercera. Del corredor subterráneo
que lleva desde la casa de Orestes Ferrara —actual Museo Napoleónico—, en San
Miguel y Ronda, a la costa. Del pasadizo que corre entre el castillo de
Averhoff, en Mantilla, y el viejo castillo de Atarés, ¡al otro lado de la ciudad!
Si se
visita Kuquine, la finca de descanso de Fulgencio Batista, alguien le hablará
del paso bajo tierra que une la casa de vivienda del predio con la residencia
del general Roberto Fernández Miranda, cuñadísimo del dictador, a un kilómetro
de distancia en la propia finca. Y no faltará la mención de otro túnel que, de
existir, sería el más espectacular de la época: el que conecta Kuquine con la
Cuidad Militar de Columbia, a unos 15 kilómetros de distancia.
Lo curioso
de todo esto es que siempre hay alguien que asegura haber visto esos corredores
y haber caminado por ellos, pero nunca dejan claro la ubicación exacta de la
casa donde desemboca el túnel de Grau ni el lugar de la costa donde se abre el
de Ferrara. Tampoco explican el sentido que tendría un paso secreto entre el
Palacio Presidencial y el Capitolio ni si Batista, desde Kuquine, recorrería el
tramo que lo separaba del campamento de Columbia a pie, a caballo o bicicleta.
Hay en esto confesiones patéticas, como la de la persona que aseguró al escribidor
haber descubierto el túnel de Ferrara solo para comprobar que una reja de
gruesos barrotes lo cerraba bajo la intersección de Infanta y San Lázaro. Si
eso era así, ¿cómo supo entonces que llegaba a la costa?
Mucho se
ha hablado sobre esos túneles. Pero nada ha hecho correr tanto la
imaginación como la llamada puerta
secreta de Batista.
La letra del año
El
miércoles 13 de marzo de 1957, un comando del Directorio Revolucionario asaltó
el Palacio Presidencial con la intención de ajusticiar al dictador Fulgencio
Batista. Varios de esos jóvenes subieron al segundo piso y penetraron en el
despacho oficial del mandatario, pero la oficina estaba desierta. Se habló
después de una puerta secreta que se abría a una escalera que conducía a las
habitaciones privadas de Batista, en la tercera planta. Fue esa puerta, que se
halla en el breve pasillo que une el despacho con el salón de reuniones del
Consejo de Ministros, y que estaba entonces disimulada por una cortina de
terciopelo rojo, la que permitió al dictador, dijeron los asaltantes, escapar milagrosamente. Añadieron que aunque
sabían de un pasadizo secreto, no pudieron hallarlo y que el mismo no aparecía
reflejado en los planos del Palacio que habían podido allegar.
La
etnóloga Natalia Bolívar, estudiosa de las religiones de origen africano,
asegura que la huida de Batista aquel 13 de marzo se relaciona con la ceremonia
que en la santería se conoce como «la letra del año», en la que un grupo de
babalaos predice los sucesos venideros y
el orisha que gobernará en el período.
Precisa Natalia que el signo regente en
1957 fue Obbara Meyi, que indica que el Rey debe buscar constantemente una
salida, una salida oculta. Fue entonces, recalca Natalia, que Batista hizo
construir no uno, sino tres escapes secretos. El de Palacio; el de Kuquine y
otro más en la casa presidencial de Columbia.
Víctor
Betancourt, otro estudioso de las religiones afrocubanas, no coincide con la
célebre autora de Los orishas en Cuba
y afirma que la letra vigente en ese año fue Odí Iká, signo que alude a un
gobernante que será atacado por sus enemigos.
Natalia
menciona el folleto titulado Los
babalaos tenían razón, publicado, según ella, por la revista Bohemia en esa
fecha y en el que apoya su versión. Dicho opúsculo no aparece en ninguna biblioteca
cubana ni de Florida. Otro estudioso del tema, Abel Sierra Madero, escribe en
un artículo que en ninguno de los reportajes que en su momento se publicaron
sobre el asalto a Palacio se menciona la letra del año ni tampoco la puerta
secreta.
¿Cuán
secreta era en verdad esa puerta?
Changó da la espalda al general
Se ha
sugerido que Batista mandó a construir la puerta en cuestión cuando en enero de
1957 se dieron a conocer los resultados de la letra del año y que ya estaba
lista el 13 de marzo siguiente. El capitán Alfredo J. Sadulé, el único de los
seis ayudantes presidenciales de Batista que aún vive, en una larga
conversación que sostuvimos en Miami a fines del año 2014 desmintió la
existencia de esas tres salidas secretas y negó que la de Palacio fuese
construida por Batista «al menos en los años 50». Precisó que el dictador se
valía de esa puerta cuando quería entrar
o salir del despacho sin que lo vieran, pero que usualmente utilizaba el
ascensor.
¿Supo
Batista, a inicios de enero, de las amenazas que lo asechaban en aquel 1957?
¿Conoció y tomó en serio las predicciones de los babalaos?
Tuvo en su
infancia una formación protestante, y ya en su exilio en España, luego de la
muerte, con 19 años, de su hijo Carlos Manuel, pareció inclinarse hacia el
catolicismo. Pero se dice, aunque no ha podido comprobarse, que recibió la mano
de Orula y era hijo de Changó.
En un
reportaje gráfico sobre Kuquine publicado en Bohemia —Edición de la Libertad—
el periodista insiste en afirmar que vio en la casa de vivienda de la finca
altares de santería con caracoles, patas de gallo y mazorcas de maíz… pero no
hay en sus páginas una sola foto que avale la afirmación.
También en
Bohemia, el 24 de mayo de 1959 otro
reportaje bajo el título de Yo fui el brujo de Batista y firmado por Guillermo
Villaronda, da cuenta de la existencia de Chano Betongó, una relación que, de
ser cierta, se había mantenido oculta durante años.
Según
Villaronda, Batista fue a «consultarse» con Betongó, que residía en el
Calvario, cuando era todavía un oscuro sargento. El sujeto invocó a Changó para
predecir el futuro de su cliente. Batista recorrería un camino largo y plácido,
aunque al final lo esperaba «un mar inmenso, agitado por el huracán, espeso y
rojo». Era un mar que empezaba en «una orilla de oro» y terminaba junto a un
cielo de un rojo más vivo que el de la sangre. Batista llegaría al final de ese
camino, pero de él dependía hacerlo felizmente. Tampoco tenía porqué llegar al
final cuando podía detenerse y a la sombra de un árbol recibir el saludo
afectuoso de los caminantes. Poco después, Betongó se enteraba que aquel sujeto
de pelo lacio y tez aindiada, que no se había relajado durante la «consulta» y
que lo escuchó con las aletas de la nariz dilatadas, había protagonizado, el 4
de septiembre de 1933, el golpe de Estado contra el presidente Céspedes.
Batista
llamó a Betongó a Kuquine antes de las elecciones generales de 1952. Quería
saber si ganaría la presidencia de la República. No por votos, respondió
Betongó, pero algo podría lograrse si se sacrificaban un novillo y un venado.
Batista estuvo de acuerdo y los sacrificios se hicieron en la finca. Hubo otro
llamado. Esta vez Betongó entró en Palacio. Los vientos que sanaban el espíritu
de Batista iban alejándose, y, para contrarrestar las adversidades, el brujo
sacrificó, en el propio despacho presidencial, varios gallos negros y un
becerro. Con todo, no era suficiente y recomendó además tomar tierra de las
seis provincias de entonces y ofrendar
gallos y gallinas con mucha miel. Dijo a Bohemia: «Yo quería remover la
conciencia de Changó, pero no fue posible». A partir de ahí todo fue cuesta
abajo. El dictador llamó a Betongó luego de la elecciones espurias de 1954.
Esta vez su sentencia fue lapidaria. Los caminos de Batista estaban cerrados
«junto al mar de agua roja», un mar que terminaría tragándoselo. Ya no había
salvación posible. Decía Betongó:
«Changó le
daba la espalda al General».
Elogiado
por Juan Ramón Jiménez y por Pablo Neruda, Guillermo Villaronda era un poeta,
Su libro Hontanar mereció Premio Nacional de Poesía en 1937. El reportaje citado, a juicio del escribidor,
tiene más de poesía que de realidad. Aceptemos que un entrevistador matice de
alguna manera el lenguaje de su entrevistado. Pero el lenguaje de Betongó no es
el de un mayombero, lo que pone en crisis la credibilidad del texto de
Villaronda, aparte de que sacrificar un becerro
en el despacho oficial de los presidentes cubanos, es algo inconcebible.
Por suerte, no se hablaba entonces de la puerta secreta, si no Betongó hubiera
tenido algo que decir al respecto. Hace unos diez años traté de rastrear la
huella de Chano Betongó en el Calvario; nadie lo conocía.
Tampoco lo
recuerda el capitán Sadulé. Mientras almorzamos, invitados por Max Lesnik,
presidente de la Alianza Martiana, en el
mejor restaurante de cocina española de Miami, el ayudante presidencial niega
con énfasis cualquier relación de Batista con religiones de origen africano.
«Marta, su esposa, le tenía terror a eso», dice mientras degusta un plato de
arroz negro. Revela, sin embargo, que en 1954, en vísperas de los comicios, el
dictador consultó a un espiritista. Luego no lo volvió a ver, pero a fines de
1956 Sadulé se lo tropezó de manera casual. Le dijo que presentía que Palacio
sería asaltado y que por 13 pesos le haría un amuleto a él y a su padre,
miembro de la escolta de Batista. Sadulé preguntó a su padre si se lo decían al
Presidente, y acordaron no hacerlo.
Dice
Sierra Madero, aunque no pudo confirmarlo, que el «padrino» de Batista fue
Bernardo Rojas, sacerdote de Ifá muy respetado. Añade que fue él, aunque
tampoco pudo confirmarlo, quien hizo la predicción del asalto a Palacio. Aquel
13 de marzo de 1957 el dictador no escapó por una puerta secreta. No podía
hacerlo sencillamente porque no estaba en el despacho oficial. Salvo
excepciones, no bajaba al segundo piso antes de las cinco de la tarde. Aquel
día, a la hora del asalto, se disponía a almorzar en la tercera planta con
Marta y Andrés Domingo, secretario de la Presidencia. Pero ¿existía esa puerta?
«Más de
medio siglo después, resulta difícil establecer con certeza quién y cuándo se
construyó la puerta, mucho menos si fue construida a raíz de alguna predicción
religiosa», escribe Sierra Madero. Sin embargo, la respuesta es simple.
Esa puerta
no tuvo nunca nada de secreta. Estuvo allí desde la construcción del Palacio
Presidencial, y, con idéntica posición, se repite en el primer piso del
edificio. La usó Batista así como la usaron sus antecesores desde el presidente
Menocal y siguieron usándola los que le sucedieron.
Ciro Bianchi Ross
lunedì 14 dicembre 2015
Chiuso il 37° Festival del Nuovo Cine Latinoamericano
Con le parole del Presidente del Festival, Ivan Giroud che ha ricordato i grandi cineasti che hanno contribuito alla creazione del Nuovo Cine Latinoamericano compreso lo stesso festival dell'Avana, la Fondazione e la Scuola Internazionale di Cinema e Televisione di S. Antonio de los Baños si è conclusa anche questa edizione che oltre alle centinaia di proiezioni offerte, non solo nella capitale, ha visto svolgere seminari, conferenze, colloqui, mostre, lezioni magistrali e una vasta serie di attività collaterali, si sono spenti i riflettori anche su questa edizione 2015 che ha visto premiato con il "Coral" per il miglior film, "El Club" del cileno Pablo Larrain che ha ricevuto il trofeo dalle mani di Geraldine Chaplin, presidentessa della giuria per i lungometraggi di fiction.
Facce da Festival
Una piccola galleria di personaggi famosi a Cuba, ma non solo...incrociati al Festival del Nuovo Cine Latinoamericano
Geraldine Chaplin (GBR)
Ethan Hawke (USA) attore e soggettista
Laura de la Uz (Cuba) attrice
Mirtha Ibarra (Cuba) attrice
Enrique Molina (Cuba) attore
Vladimir Cruz (Cuba) attore-regista
Daisy Granados e Manuel Porto (Cuba) attori
Benicio del Toro (Portorico) attore - regista
venerdì 11 dicembre 2015
Visite al Festival: Ethan Hawke
L’attore e soggettista
nordamericano Ethan Hawke, nominato 4 volte all’Oscar, due come attore e 2 come
autore di soggetto, è fra gli ospiti del Festival. Ha partecipato ad oltre 50
film el il suo “lancio” è stata una scelta di Robin Williams. Fra i suoi
progetti e desideri c’è la possibilità di “girare” a Cuba e non esclude di
poterlo fare nel prossimo anno.
mercoledì 9 dicembre 2015
Cuba/USA, disgelo su tutti i fronti
Proseguono a ritmo serrato le conversazioni fra le delegazioni di Governo dei due Paesi. Dopo un primo approccio alla possibilità di riannodare le comunicazioni commerciali aeree e navali, adesso si sta affrontando il tema dei risarcimenti richiesti da ambo le parti per differenti cause. Naturalmente l'argomento è lungo e spinoso e le cifre in discussione sono da capogiro...speriamo che almeno nei primi due casi (navigazione aerea e marittima) si giunga presto a un accordo con beneficio di tutti.
Nel frattempo prosegue la collaborazione nel campo culturale con una nuova presentazione al Trianón della compagnia mista diretta da Carlos Díaz che ha partecipato al recente Festival del Teatro e che adesso partecipa alle attività collaterali di quello del cinema con l'esordio di "Yellow Dream Road", sempre una storia, anzi cinque, di emigrazione cubana negli Stati Uniti con lo sfondo religioso rappresentato dal sogno di una di loro riguardante la Caridad del Cobre, Patrona di Cuba.
Sempre nel quadro del Festival cinematografico, è stata presentata la prima coproduzione cubano-statunitense con il film "Papa", con soggetto di Denne Bart Petitclerc e direzione artistica di Aramís Balebona Recio,sulla presenza a Cuba di Ernest Hemingway con sottofondo dell'incipiente Rivoluzione e la storia di un giovane giornalista testimone del declino dello scrittore per depressione e alcolismo.
Carlos Finlay ha compiuto 182 anni, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 6/12/15
Il dottor Carlos Juan Finlay
ha appena fatto una proposta assolutamente originale e scruta i volti dei suoi
compagni accademici di lavoro. Ha demolito tutte le teorie sulla febbre gialla.
Di più. Formula una nuova concezione circa il contagio, basata nel ruolo del
vettore nella trasmissione di malattie, visto che non si era mai esposta prima
e men che meno fu avallata sperimentalmente, la possibilità che gli insetti
servissero di ente trasmettitore di microrganismi patogeni.
Si conosce in un momento
chiave della sua esistenza. La profonda emozione che lo avvolge e la sicurezza
nella certezza delle sue esposizioni, gli servono appena per alleggerire
l’attitudine ostile del suo uditorio. Pensa che gli increduli dovranno cambiare
parere quando da a conoscere le prove che appoggiano le sue affermazioni.
Ma Finlay non riesce a
entusiasmare nessuno. Quando il presidente della sessione annuncia che darà la
parola a coloro che ne vogliano fare uso, si sente solo la voce del segretario
generale della corporazione per chiedere che il lavoro dell’illustre scienziato
“rimanga sul tavolo”, formula significante che non ci sarebbero stati commenti.
Nessuno degli studiosi che parteciparono quel 14 agosto del 1881 nella Sala
degli Atti dell’Accademia delle Scienze Mediche, Fisiche e Naturali dell’Avana,
impugnò i punti esposti da Finlay nella terra della zanzara Aedes aegypti come
agente trasmettitore della febbre gialla, né si mostrò d’accordo con essi. Il
silenzio fu l’unica risposta a un concetto che renderà possibile in futuro di
sradicare l’allora chiamato “vomito nero”, ma che aprì un capitolo nuovo nella
storia della Medicina tropicale.
Contro
l’avversità
Finlay fu un uomo in lotta
permanente con le avversità e le vicissitudini. Nella sua adolescenza fu
vittima di due gravi malattie, una delle quali gli lasciò un serio difetto di
pronuncia che non superò mai del tutto. Fece gli studi di medicina fuori di
Cuba, quando tornò all’isola per esercitare la sua professione lo bocciarono
all’esame di convalida del titolo, cosa che lo obbligò ad aspettare il tempo
regolamentare per tornare a presentarsi. Aspirò ad essere socio in sovrannumero
dell’Accademia delle Scienze e si vide frustrato al primo tentativo. Allora
reiterò la domanda come socio corrispondente e la risposta fu sfavorevole...Quando,
alla fine venne accettato all’Accademia, la sua teoria sulla relazione tra la
zanzara e la febbre gialla si accolse con indifferenza e si vide obbligato ad
aspettare più di 30 anni perché si comprovasse ufficialmente la sua scoperta e
si mettessero in pratica le misure sanitarie che raccomandò per l’estirpazione
del vettore.
Dopo la morte gli resteranno
due battaglie da vincere. Nonostante il XV Congresso Internazionale di Storia
della Medicina (1956) stabilì in modo definitivo che “a Carlos J. Finlay di
Cuba e solo a lui, corrisponde la scoperta dell’agente trasmettitore della
febbre gialla e l’applicazione della sua dottrina, il risanamento del tropico”,
alcune entità straniere, essenzialmente nordamericane, cercarono di
disconoscere la paternità dei suoi concetti. Da lì è che uno dei suoi biografi
afferma che Finlay è un omo avvolto dalla polemica permanente.
I suoi profusi e concludenti
esperimenti e le investigazioni in merito al morbo giallo e l’importanza della
sua scoperta, hanno fatto si che questo cubano geniale sia considerato e
valutato oggi a partire e attraverso la sua teoria sensazionale sul ruolo delle
zanzare nella trasmissione di malattie. Fra l’altro non fu questo l’unico ramo
della Medicina in cui si cimentò. Fu un eminente oculista, un internista
consumato e i suoi apporti alle malattie tropicali furono significativi come il
gozzo, la lebbra, la filariasi, la trichinellosi, il beri beri e il colera,
così come i suoi studi nel campo della parassitologia.
Nel 1911, nel prologo a Lavori scelti di Finlay, Juan Guiteras
scriveva: “La laboriosità del dottor Finlay è incredibile. In mezzo al lavoro
costante della sua professione e della produzione permanente di scritti su
fatti di patologia e terapeutica, nei quali si anticipò generalmente ai suoi
contemporanei, come si può vedere nei suoi lavori sulla trasmissione cutanea e
il colera, trova il tempo per decifrare un antico mnoscritto in latino,
immagazzinando fonti storiche, araldiche e filologiche per comprovare che la
Bibbia in cui appare lo scritto, dovette appartenere all’imperatore Carlo V nel
suo ritiro di Yuste, o lavora nella soluzione di problemi di scacchi, di alta
matematica o di filologia: o elabora complicate e originali teorie sul
Cosmo...”.
Medico
delle zanzare
Carlos J. Finlay nacque
nella città di Camagüey il 3 dicembre del 1833, data che si scelse per
celebrare la Giornata della Medicina Latinoamericana. Cominciò ad interessarsi
agli studi sulla febbre gialla nel 1870. Allora la malattia, endemica nel
continente americano, era già considerata una specie di male inevitabile e
contro di essa si provavano le misure più peregrine. Allora prevalevano due
ipotesi. Una diceva che si trasmetteva da malati a sani e che dove si
presentava un caso non tardavano a presentarsene molti altri.
L’altra diceva che nel caso
di questa malattia, le persone sane non la contraevano anche se usavano
indumenti del malato, fossero a contatto con lui, respirassero il suo alito o
fossero a contatto in qualsiasi modo con prodotti della malattia.
Siccome le due congetture si
basavano su fatti obiettivi e reali e sembrava che fossero certezze, Finlay
scelse un’altra strada ed elaborò il concetto della trasmissione meta....delle
malattie infettivo-contagiose. La rivelazione di questo modo nuovo e diverso
della trasmissione delle malattie, ha risolto grandi e complessi problemi
epidemiologici.
Durante più di tre decadi lo
scienziato affondò come mai nessuno nella patogenesi, epidemiologia, clinica e
trattamento della febbre gialla.
Giunsero a chiamarlo “il
medico delle zanzare”. Indifferenza, burle e ironia non riuscirono a erodere in
Finlay la fiducia in se stesso né la sua tenacia. Era frequente vederlo per le
strade avanere con varie provette dove aveva raccolto zanzare infettate e che
portava abitualmente nel taschino superiore sinistro della giacchetta, vicino
al cuore.
L’infamia
La teoria di Finlay prese
cammino. Gli abitanti dell’Isola non potevano evitare di stabilire una stretta
relazione fra l’apparizione della malattia e le pessime condizioni sanitarie
esistenti nella Cuba coloniale. D’altra parte, i medici d’idee più avanzate
finirono per accettarla. Mancava la pratica sociale che la confermasse
pienamente.
Durante il primo intervento
nordamericano a Cuba, il Governo degli Stati Uniti premette sui suoi medici
militari, staccati nell’Isola al fine di trovare una soluzione alla febbre
gialla.
Impotenti davanti alla
malattia, decisero di provare la teoria di Finlay.
Un pomeriggio del duro
inverno del 1900, i dottori Reed, Carrol e Lazear, fecero visita al loro
collega cubano nella sua casa di Paseo del Prado. Finlay in quel momento stava
discutendo con un altro illustre medico cubano, il dottor Díaz Albertini. I
nordamericani chiesero a Finlay dettagli delle sue investigazioni con la
promessa di comprovarle in pratica. Finlay, con una generosità straordinaria,
mise a disposizione dei visitatori il risultato dei suoi 30 anni di lavoro nel
tema e gli consegnò, in un portasapone di porcellana, uova di una zanzara
infettata.
La commissione medica
nordamericana fece i suoi esperimenti a Marianao. Cominciò a prendere sul serio
la teoria di Finlay solo quando due dei suoi membri si contagiarono con le
zanzare infettate.
Carroll riuscì a
sopravvivere, Lazear morì: si era lasciato pungere coscientemente. I
nordamericani si avvantaggiarono su Finlay nella determinazione della natura
virale della malattia.
Fin dai primi contatti dei
nordamericani con Finlay cominciò la gestazione dell’infamia, ebbene, Reed che
fungeva da capo del gruppo, non si mostrò mai partitario di riconoscere al
cubano la paternità della scoperta nel caso si giungesse a corroborare la sua
teoria. Voleva il merito per sé solo e non tardò ad aggiudicarselo.
In questo obbediva a
orientamenti molto precisi che ricevette da Washington. Agli occhi di tutto il
mondo il Governo degli Stati Uniti voleva far passare il suo intervento a Cuba
come opera umanitaria e civilizzatrice, non come militare. Niente si prestava
meglio, a questo proposito, di far credere che il risanamento del Paese con il
combattimento alle zanzare e la scomparsa della febbre gialla erano il
risultato solo dei loro “umanitari” e “civilizzatori” progetti.
Gloria
Finlay reagì vigorosamente
di fronte all’usurpazione e i più distinti professionisti del suo tempo lo
assecondarono, così come prima si negarono a credere alle sue proposte. Presto
la gloria del medico cubano superò i limiti territoriali e il riconoscimento
universale giunse al saggio cubano. L’Università di Filadelfia, dove fece gli
studi, gli assegnò la Laurea in legge ad Honorem. La Scuola di Medicina
Tropicale di Liverpool, la Medaglia Mary Kingsley e il Governo francese lo
decorò con l’insegna di Ufficiale della legione d’Onore.
Quando, nel febbraio 1901,
si convocò all’Avana il III Congresso Panamericano di Medicina, regnava una
grande aspettativa tra i presenti. Nelle sue sessioni si sarebbero tornati a
incontrare, faccia a faccia, Finlay e Reed. Il cubano presiedeva la sezione di
Medicina Generale e avrebbe dato lettura a un saggio sui progressi contro la
propagazione della febbre gialla. Quando venne il turno di dar a conoscere la
sua esposizione, dice il suo biografo Rodríguez Expósito, “un’ovazione scrosciante
ricevette la figura venerabile, serena e degna del nobile anziano. I medici di
tutto il continente, rappresentati lì, rendevano un emotivo ed eloquente
omaggio, in questo modo, allo scopritore dell’agente trasmettitore della febbre
gialla”.
Il giorno seguente Reed si
diresse al Congresso. Lesse anch’egli un rapporto sulla febbre gialla, ma nelle
sue pagine non si menziona il nome di Finlay.
Già per allora si erano
iniziati i piani di risanamento dell’Avana e i suoi dintorni, così come nel
resto dell’Isola. Si bonificarono col petrolio aree suscettibili di alloggiare
zanzare e presto fu evidente la scomparsa di casi di morte a causa della
malattia. Tra settembre del 1901 e luglio del 1902 non si riportò un solo caso.
La notizia corse rapidamente per il mondo. L’applicazione delle raccomandazioni
del medico cubano rese possibile il risanamento, con risparmio conseguente di
vite umane di regioni estese in Brasile, sud degli Stati Uniti e in Paesi
dell’Africa e Asia. Così, si concluse la costruzione del canale di Panama.
Nel commemorare
l’anniversario 182 della nascita di Carlos J. Finlay, merita ricordare la
figura dell’illustre scienziato, la cui prodezza esce dal quadro dell’epoca che
toccò vivere alla Medicina del suo tempo e gettò a scala universale la base per
la ricerca e la soluzione dei problemi medico-sanitari.
Carlo J.Finlay morì
all’Avana, nella sua residenza di calle G tra 15 e 17, nel Vedado, il 20 agosto
del 1915.
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
5 de Diciembre
del 2015 20:26:26 CDT
El doctor
Carlos Juan Finlay acaba de hacer un planteamiento absolutamente original y
escruta los rostros de sus compañeros de labores académicas. Ha echado por
tierra todas las teorías sobre la fiebre amarilla. Es más. Formula una nueva
concepción acerca del contagio basada en el papel de los vectores en la
transmisión de enfermedades, ya que nunca antes se expuso, y mucho menos se
avaló experimentalmente, la posibilidad de que los insectos sirviesen de entes
transmisores de microorganismos patógenos.
Se sabe en un
momento clave de su existencia. La honda emoción que lo embarga y la confianza
en la certeza de sus postulados apenas le deja reparar en la actitud hostil de
su auditorio. Piensa que los incrédulos tendrán que mudar de parecer cuando dé
a conocer las pruebas que respaldan sus afirmaciones.
Pero Finlay no
logra entusiasmar a nadie. Cuando el
presidente de la sesión anuncia que concederá la palabra a los que quieran
hacer uso de ella, solo se escucha la voz del secretario general de la
corporación para solicitar que el trabajo del ilustre científico «quede sobre
la mesa», formulismo que indicaba que no
habría comentarios. Ninguno de los estudiosos que concurrieron aquel 14 de
agosto de 1881 a la sala de actos de la Academia de Ciencias Médicas, Físicas y
Naturales de La Habana, impugnó los puntos expuestos por Finlay en la teoría
del mosquito Aedes aegypti como agente transmisor de la fiebre amarilla, ni se
mostró de acuerdo con ellos. El silencio
fue la única respuesta a una concepción que no solo posibilitaría a la postre
la erradicación del entonces llamado «vómito negro», sino que abrió un nuevo
capítulo en la historia de la Medicina tropical.
Contra la adversidad
Finlay fue un
hombre en lucha permanente contra la adversidad y las vicisitudes. En su
adolescencia fue víctima de dos graves enfermedades, una de las cuales le dejó
un serio trastorno de pronunciación que nunca superó del todo. Hizo estudios de
Medicina fuera de Cuba y, cuando regresó a la Isla para ejercer su profesión,
lo suspendieron en el examen de reválida del título, lo que lo obligó a esperar
el tiempo reglamentario para volver a presentarse. Aspiró a socio
supernumerario de la Academia de Ciencias y se vio frustrado en el primer
intento; reiteró entonces su solicitud para socio corresponsal y la respuesta
fue desfavorable… Cuando por fin resultó aceptado en la Academia, su teoría
sobre la relación entre el mosquito y la fiebre amarilla se acogió con
indiferencia y se vio precisado a esperar más de 30 años para que se comprobara
oficialmente su descubrimiento y se pusieran en práctica las medidas sanitarias
que recomendó para la erradicación del vector.
Después de
muerto le quedarían batallas por ganar. Pese a que el XV Congreso Internacional
de Historia de la Medicina (1956) estableció de manera definitiva que «a Carlos
J. Finlay, de Cuba, y solo a él, corresponde el descubrimiento del agente
transmisor de la fiebre amarilla y a la aplicación de su doctrina, el
saneamiento del trópico», algunas entidades extranjeras, esencialmente
norteamericanas, trataron de escamotearle la paternidad de su concepción. De
ahí que uno de sus biógrafos afirme que
Finlay es un hombre envuelto en una polémica permanente.
Sus profusos y
concluyentes experimentos e investigaciones en cuanto al morbo amarillo y la
importancia de su descubrimiento, han hecho que este genial cubano sea
considerado y valorado hoy a partir y a través de su teoría sensacional sobre
el papel de los mosquitos en la transmisión de enfermedades. Sin embargo, no
fue esa la única rama de la Medicina en la cual descolló. Fue un oculista
eminente y un internista consumado, y resultaron significativos sus aportes en
enfermedades tropicales como el bocio exoftálmico, la lepra, la filaria, la
triquinosis, el beri-beri y el cólera, así como sus estudios en el campo de la
parasitología.
En 1911, en el
prólogo a Trabajos selectos, de Finlay, escribía Juan Guiteras:
«La
laboriosidad del doctor Finlay es pasmosa. En medio del trabajo constante de su
profesión y de la producción permanente de escritos sobre asuntos de patología
y terapéutica, en los que se adelantó generalmente a sus contemporáneos, como
puede verse en sus trabajos sobre la filaria y el cólera, encuentra tiempo, por
ejemplo, para descifrar un antiguo manuscrito de latín, haciendo acopio de
fuentes históricas, heráldicas y filológicas para comprobar que la Biblia en que
aparece el escrito hubo de pertenecer al emperador Carlos V en su retiro de
Yuste, o trabaja en la resolución de problemas de ajedrez, de altas matemáticas
o de filología: o elabora complicadas y originales teorías sobre el Cosmos…».
Médico de los mosquitos
Carlos J.
Finlay nació en la ciudad de Camagüey, el 3 de diciembre de 1833, fecha que se escogió para la celebración del Día de
la Medicina Latinoamericana. Comenzó a interesarse en los estudios sobre la
fiebre amarilla en 1870. Entonces la enfermedad, endémica del continente
americano, era considerada ya una especie de mal inevitable y contra ella se
ensayaban las medidas más peregrinas. Dos hipótesis prevalecían entonces. Una
decía que se transmitía de enfermos a sanos y que donde se presentaba un caso,
no tardaban en aparecer muchos más.
La otra
planteaba que en el caso de este padecimiento, las personas sanas no lo
contraían aun cuando usaran las ropas del enfermo, estuvieran en contacto con
él, respiraran sus hálitos o fueran afectados de algún modo con los productos
de la enfermedad.
Como las dos
conjeturas se basaban en hechos objetivos y reales, y parecían estar en lo
cierto, Finlay se decidió por otro camino y elaboró el concepto de la
transmisión metaxénica de las enfermedades infecto-contagiosas. La revelación
de este modo nuevo y distinto de la transmisión de enfermedades ha resuelto
grandes y complejos problemas epidemiológicos.
Durante más de
tres décadas el científico ahondó como nadie en la patogenia, epidemiología,
clínica y tratamiento de la fiebre amarilla.
Llegaron a
apodarle «el médico de los mosquitos». Indiferencia, burlas e ironía no
lograron erosionar en Finlay la fe en sí mismo ni su tenacidad. Era frecuente
verlo por las calles habaneras con varios tubos de ensayo donde había recogido
mosquitos infectados y que solía llevar en el bolsillo superior izquierdo de la
levita, junto al corazón.
La infamia
La teoría de
Finlay se abrió paso. Los habitantes de la Isla no podían dejar de establecer
una estrecha relación entre la aparición de la enfermedad y las pésimas
condiciones sanitarias existentes en la Cuba colonial. Por otra parte, los
médicos de ideas más avanzadas terminaron por aceptarla. Faltaba la práctica
social que la confirmara plenamente.
Durante la
primera intervención norteamericana en Cuba, el Gobierno de Estados Unidos
presionó a sus médicos militares destacados en la Isla para que buscasen una
solución al problema de la fiebre amarilla.
Impotentes ante
la enfermedad, decidieron ensayar la teoría de Finlay.
Una tarde del
duro verano de 1900 los doctores Reed, Carroll y Lazear visitaron a su colega
cubano en su casa del Paseo del Prado. Discurría Finlay en aquel momento con
otro ilustre médico cubano, el doctor Díaz Albertini. Los norteamericanos
pidieron a Finlay detalles de sus investigaciones con la promesa de
comprobarlas en la práctica. Finlay, con una generosidad extraordinaria, puso a
disposición de los visitantes el resultado de sus 30 años de trabajo en el tema
y les hizo entrega, en una jabonera de porcelana, de huevos de un mosquito
infectado.
En Marianao
acometió la comisión médica norteamericana sus experimentos. Solo comenzó a
tomar en serio la teoría de Finlay cuando dos de sus miembros se contagiaron
con los moquitos infectados.
Carroll logró
sobrevivir; Lazear falleció: se había dejado picar conscientemente. Los
norteamericanos solo aventajaron a Finlay en la determinación de la naturaleza
viral de la enfermedad.
Desde los
primeros contactos de los norteamericanos con Finlay comenzó a gestarse la
infamia, pues Reed, quien fungía como jefe del grupo, nunca se mostró
partidario de reconocer al cubano la paternidad del descubrimiento en caso de
que llegase a corroborarse su teoría. Quería el mérito solo para sí y no demoró
en adjudicárselo.
Obedecía en eso
a orientaciones muy precisas que recibió de Washington. Ante los ojos del mundo
entero el Gobierno de Estados Unidos quería hacer pasar su intervención en Cuba
como una obra humanitaria y civilizadora, no militar. Nada se prestaba mejor a
ese propósito que hacer creer que el saneamiento del país con el combate del
mosquito y la erradicación de la fiebre amarilla eran colofón únicamente de sus
«humanitarios» y «civilizadores» desvelos.
Gloria
Finlay
reaccionó vigorosamente ante la usurpación, y los más distinguidos
profesionales de su tiempo lo secundaron, así como antes se negaron a creer en
sus planteamientos. Pronto la gloria del médico rebasó nuestros límites
territoriales, y el reconocimiento universal llegó al sabio cubano. La
Universidad de Filadelfia, donde cursó estudios, le otorgó, ad honorem, el
doctorado en Leyes. La Escuela de Medicina Tropical de Liverpool, la Medalla
Mary Kingsley, y el Gobierno francés lo condecoró con la insignia de Oficial de
la Legión de Honor.
Cuando en
febrero de 1901 se convocó en La Habana el III Congreso Panamericano de
Medicina, una gran expectación reinaba entre los asistentes. En sus sesiones
volverían a encontrarse cara a cara Finlay y Reed. El cubano presidía la
sección de Medicina General y daría lectura a un informe sobre los adelantos
contra la propagación de la fiebre amarilla.
Cuando le tocó
el turno para dar a conocer su ponencia, dice su biógrafo Rodríguez Expósito,
«una ovación cerrada recibió la figura venerable, serena y digna del noble
anciano. Los médicos de todo el continente allí representados rendían de ese
modo un emotivo y elocuente homenaje al descubridor del agente transmisor de la
fiebre amarilla».
Al día
siguiente, Reed se dirigió al Congreso. Leyó asimismo un informe sobre la
fiebre amarilla, pero el nombre de Finlay no se menciona en sus páginas.
Ya para
entonces se habían iniciado los planes para la higienización de La Habana y sus
alrededores, y también del resto de la Isla. Se petrolizaron áreas susceptibles
de alojar mosquitos y pronto se evidenció que desaparecían los casos de muerte
a causa de la enfermedad. Entre septiembre de 1901 y julio de 1902 no se
reportó un solo caso. La noticia corrió rápidamente por el mundo. La aplicación
de las recomendaciones del médico cubano posibilitó el saneamiento, con el
ahorro consiguiente de vidas humanas, de extensas regiones en Brasil, el sur de
Estados Unidos y en países de África y Asia. Así, se concluyó la construcción
del canal de Panamá.
Al conmemorarse
el aniversario 182 del natalicio de Carlos J. Finlay, vale recordar la figura
del ilustre científico, cuya proeza se sale del marco de la época que le tocó
vivir a la Medicina de su tiempo y sentó, a escala universal, la base para la
búsqueda y la solución de los problemas
médico-sanitarios.
Carlos Juan
Finlay murió en La Habana, en su residencia de la calle G entre 15 y 17, en el
Vedado, el 20 de agosto de 1915.
Ciro Bianchi Ross
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