Pubblicato su Juventud Rebelde del 26/6/16
Fin da
prima di rompere le ostilità, Washington aveva ordinato il blocco navale
dell’Isola cosa che impediva alla Spagna, da una parte, di portare truppe
fresche, armamenti e munizioni e dall’altra, muovere risorse tra i diversi
porti del territorio. Navi da guerra statunitensi stazionate di fronte ai porti
di Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos e l’Avana erano visibili
dalla costa e impedivano l’entrata e l’uscita di imbarcazioni di qualunque
bandiera. Non meno di dieci mercantili spagnoli furono sequestrati e portati a
Key West. La misura aveva anche altri obbiettivi strategici: aspettare che le
truppe regolari nordamericane destinate a sbarcare completassero le loro
manovre durante l’estate, a New Orleans, Mobile e Tampa e lasciare che le forze
cubane continuassero a dissanguare gli spagnoli.
Fu così
che il capitano generale Ramón Blanco y Erenas, Marchese di Peña Plata,
sollecitò a Madrid l’invio della truppa spagnola dell’Atlantico che in quel
momento aspettava gli ordini di fronte alle isole di Cabo Verde, nell’Africa
Occidentale.
Questa
era comandata dall’ammiraglio Pascual Cervera, un marinaio di quasi 60 anni
d’età – nato a Jerez de la Frontera il 18 febbraio del 1839 – che dopo essere
uscito dalla scuola navale di San Fernando ascese grado a grado, grazie alla
sua partecipazione ai fatti più importanti della storia del suo Paese nella
seconda metà del XIX secolo, un’epoca il cui finale tragico sarebbe stato
simbolizzato con l’affondamento della squadra che gli toccò comandare.
Cervera
prese parte a, campagna del Marocco (1853), nella spedizione spagnola contro la
Cocincina (1862) e già come capitano di vascello assunse, nel 1866, il
pattugliamento delle coste del Perù. Durante la guerra dei dieci anni fu di
vigilanza alle coste cubane. Partecipò inoltre alla guerra carlista distinguendosi
nella difesa dell’arsenale de La Carraca. Nel 1891 presiedette la delegazione
del suo Paese alla Conferenza Navale di Londra e l’anno seguente lo nominarono
ministro della Marina nel Governo di
Madrid nel gabinetto del presidente Sagasta, incarico a cui rinunciò per
protesta per la scrsa dotazione economica destinata al suo ministero come se
prevedesse, come dicono gli storici, la tragedia che avrebbe sofferto la flotta
spagnola quando le sarebbe toccato afffrontare forze superiori, più moderne e
meglio equipaggiate.
Facevano
parte della flotta dell’Atlantico quattro incrociatori corazzati e tre
destroyer che stazzavano un complesso di 28.600 tonnellate e disponevano,
almeno in teoria, di 120 cannoni, otto mitragliatrici pesanti e 24 tubi lancia
siluri, installati nei piccoli destroyer.
Cervera
fece quanto alla sua portata al fine di convincere il ministro della Marina e
il Governo di Madrid che non mandassero la flotta a Cuba o a Portorico.
Suggeriva che facesse base alle Canarie per proteggere, da quella posizione, le
isole e il territorio della Penisola. Il fatto, secondo lui, era di evitare uno
scontro frontale con i nordamericani nei Caraibi.
“Vado al sacrificio”
La
flotta nordamericana dell’Atlantico, al comando dell’ammiraglio William T.
Sampson, era molto superiore alla spagnola. Disponeva di nove incrociatori
corazzati che stazzavano oltre 65.000 tonnellate e aveva installati quasi 300
cannoni, 22 mitragliatrici pesanti e 37 tubi lancia siluri. Non solo superava
la spagnole per numero di imbarcazioni, tonnellaggio e potenza di fuoco, le
navi erano più moderne, possedevano una blindatura più forte e la loro
abilitazione era più completa. Inoltre c’era la questione del combustibile.
L’armata statunitense poteva rifornirsi di tutto il carbone che ci fosse stato
nelle sue basi che si trovavano a poche ore di distanza mentre gli spagnoli,
con seri problemi in questo senso, avevano le loro basi di rifornimento a
migliaia di chilometri dai Caraibi.
L’ammiraglio
Cervera insistette invano. Conosceva la superiorità del suo nemico. Per questo,
alla vigilia della sua partenza per Cuba, informò nuovamente il Ministro della
Marina circa le condizioni delle sue navi che lasciavano molto a desiderare. La
sua artiglieria era incompleta o difettosa, non contava con munizioni adeguate
né sufficienti e non disponeva nemmeno di quantità di carbone di qualità. Nel
suo rapporto, il marinaio diceva che la sua squadra si sarebbe messa in un
vicolo cieco. Una situazione dalla quale non poteva aspettarsi altro che la
distruzione delle sue navi o la demoralizzazione dei suoi uomini.
Alle
porte del terribile inverno del 1898, le alte sfere spagnole sembravano vivere,
senza dubbio, un’euforia trionfalista che raggiungeva anche la popolazione.
Molti avaneri comuni non restavano indietro, nei caffè evocavano le battaglie
di Lepanto o del Callao e incensavano fino allo sfinimento la superiorità
dell’armata spagnola, mentre nel vestibolo del teatro Albisu, l’illustre
comandante della marina spagnola don Pedro Peral, fratello di Isaac,
l’inventore del sommergibile, si impegnava a dimostrare giustamente il
contrario.
In una
pagina deliziosa delle sue Viejas
postales descoloridas, l’osservatore dei costumi Federico Villoch dice che a
Cuba, in quel momento, si parlò di Cabo Verde come mai prima né dopo e che
c’era chi osservava le mappe per vaticinare da che parti le due squadre si
sarebbero distrutte a cannonate. “Gli yankee hanno paura del terribile
abbordaggio spagnolo”, dicevano alcuni. Le immaginazioni surriscaldate
tracciavano quadri raccapriccianti di pirateria, col sollevare le maniche dei
marinai armati di grandi e affilati coltelli, il sangue scorrendo a bordo.
Lo
stesso Ministro della Marina spagnolo, con la testa fra le nuvole, dava a
Cervera prima di partire verso i Caraibi, la seguente missione: Andare negli
Stati Uniti, difendere le isole di Cuba e Portorico, bloccare i porti americani
del Golfo del Messico, distruggere la base navale di Key West, sede della
flotta dell’Atlantico e se possibile bloccare porti nell’est...”
Alcuni
vaporetti riuscirono, dal porto avanero, burlare l’accerchiamento nordamericano
o, entravano e uscivano col permesso degli assedianti. Con autorizzazione lo
fece Lafayette, della Compagnia Transatlantica Francese, traboccante di
passeggeri che abbandonavano la città per paura delle future contingenze, gli
seguì il brigantino messicano Arturo, carico di fuggitivi. Gli speculatori di
sempre fecero i soldi con l’affare improvvisato di convertire golette
scalcagnate in navi per passeggeri che per 50 o 100 pesos a biglietto,
trasportavano dall’Avana a Vera Cruz.
Ma le
corazzate Brooklyn, Texas, Iowa, Luisiana..., dice Villoch, continuavano
imperturbabili all’orizzonte, fermi come se avessero messo le radici nelle
rocce del fondo, forando le notti coi loro potenti fari elettrici. Questa
vigilanza non fu sufficiente perché il vapore spagnolo Monserrat, con tutte le
luci spente burlasse il blocco, arrivando due giorni dopo, a un vicino porto
del Messico per poter, a sua volta, rifornire di viveri l’Avana. Una nave da
guerra spagnbole chiamata Conde de Venadito, un pomeriggio si arrischiò a
uscire dal porto per provocare l’aggressione delle navi nordamericane e
obbligarle ad avvicinarsi alla costa perché fossero cannoneggiate dal Morro,
cosa che risultò vana in quanto quello che fecero gli yankee fu di scaricargli
poderose bordate e rimanere impavidi sulle lo ricevette gli ordini di ro linee. Fra le altre cose si verificò
l’ingresso spettacolare della goletta Santiago che uscì una mattina a tutta
vela da Bahía Honda e penetrò salva nel
nostro porto, sotto le cannonate che si incrociavano tra una delle corazzate
americane e la batteria di Santa Clara, piazzata dove si costruì l’Hotel
Nacional de Cuba.
Il 24
di aprile, Cervera ricevette l’ordine di muoversi verso i Caraibi e si dispose
a compierli non senza avvertire i suoi superiori che andava al sacrificio con
la coscienza tranquilla. Il giorno seguente, gli Stati Uniti dichiararono
formalmente la guerra alla Spagna. Una settimana più tardi, nella baia di
Cavite, Filippine, la flotta nordamericana del Pacifico distruggeva, in poche
ore, la squadra spagnola lì concentrata. La notizia provocò la commozione che
c’era da aspettarsi in Spagna. Il 12 maggio, il Ministro della Marina inviò un
telegramma a Fort de France, in Martinica, autorizzando Cervera a tornare in
Spagna. Ma Cervera non vide mai questo messaggio. Il giorno prima, lasciava
indietro Fort de France dirigendo la prora verso Cuba.
Il tragico eroe
Il 14 maggio,
navi nordamericane bombardarono, con totale impunità, San Juan di Portorico.
Cinque giorni dopo, il 19, la flotta di Cervera entrava nella baia di Santiago
de Cuba. All’inizio di giugno, la squadra dell’ammiraglio Sampson bombardava
questa città. Con oggetto di imbottigliare Cervera, i suoi avversari
affondarono il pontone Merrimac nella bocca santiaghera. A partire da lì se le
navi spagnole volevano uscire, dovevano farlo una alla volta, trasformate in
una sorta di tiro al bersaglio per i nordamericani.
Si
intervistarono col maggior generale Calixto García, luogotenente generale dell’
Esercito di Liberazione, l’ammiraglio Sampson, capo della flotta, il generale
Shafter, capo dell’ Esrcito di terra. Le truppe nordamericanesbarcarono
avanzando verso Santiago. Il generale Linares, capo di quella piazza militare,
non si fece illusioni sulla vittoria spagnola e sapeva che la sconfitta avrebbe
messo in grave rischio la flotta ancorata nella baia. Il capitano generale
Ramón Blanco che ricevette da madrid la potestà di decidere su tutte le forze
militari staccate sull’Isola, inclusa la squadra e che sapeva come pensava
Cervera, telegrafò all’ammiraglio: “Lei dice che la caduta di Santiago è certa,
in quel caso lei dovrà distruggere le sue navi e questa è una ragione di più
per tentare una sortita, già che è preferibile, per l’onore delle armi,
soccombere combattendo...”. Allora Cervera scrisse a Linares: “...affermo con
la magior enfasi che non sarò mai chi decida l’orribile e inutile
ecatombe...Compete a Blanco decidere se devo andare al suicidio trascinando con
me questi 2.000 spagnoli”.
Prima
dell’attacco imminente, i marinai di Cervera si aggiunsero alla difesa
terrestre di Santiago. Il 1° di luglio occorsero le battaglie di El Caney e di
San Juan dove, in un tentativo disperato di recuperare le posizioni, il
generale Linares risultò gravemente ferito. Il giorno 2, dall’Avana, il
Capitano Generale ordinò a Cervera di uscire dalla baia santiaghera con le sue
navi. Il giorno dopo, alle 9.45 del mattino, sparando all’impazzata da entrambi
i lati, la squadra spagnola cominciò a uscire in direzione est. Un’ora più
tardi, la flotta dell’Atlantico soccombeva davanti alla potenza nordamericana e
lo stesso ammiraglio Pascual Cervera, il tragico eroe, raggiungeva a nuoto la
costa dove venne fatto prigioniero. In Spagna dovette affrontare un consiglio
di guerra accusato per la perdita della squadra. Fu assolto e rimase in
servizio attivo ancora diversi anni. Morì il 3 aprile del1909.
La
battaglia navale di Santiago ebbe, per la Spagna, il saldo di 326 morti, 215
feriti e 1.720 prigionieri. I nordamericani ebbero un morto e un ferito. “Non
sempre al valore si accompagna la fortuna” diceva il Capitano Generale nel suo
messaggio agli abitanti dell’Isola e “fermi e risoluti davanti al pericolo” li
chiamava a confidare in Dio “e nel nostro diritto a lasciare incolumi l’onore e
l’integrità della patria”. Il generale Shafter, da parte sua, presentava un
ultimatum: Se Santiago de Cuba non si fosse arresa, sarebbe stata bombardata. Ma
questo lo vedremo domenica prossima.
25 de Junio del 2016 19:51:56 CDT
Desde antes de romperse las
hostilidades, Washington había ordenado el bloqueo naval de la Isla, lo que
impedía a España, por una parte, traer tropas frescas, pertrechos y municiones,
y por otra, mover recursos entre diferentes puertos del territorio. Barcos de
guerra estadounidenses surtos frente a los puertos de Mariel, Cabañas,
Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos y La Habana se hacían visibles desde la costa e
impedían la entrada y la salida de embarcaciones de cualquier bandera. No menos
de diez mercantes españoles fueron apresados y conducidos a Cayo Hueso. La
medida tenía otros objetivos estratégicos:
esperar a que las tropas regulares
norteamericanas destinadas a desembarcar completaran durante el verano su
entrenamiento en Nueva Orleans, Mobile y Tampa, y dejar que las fuerzas cubanas
continuaran desangrado a las españolas.
Fue así que el capitán general Ramón
Blanco y Erenas, Marqués de Peña Plata, solicitó a Madrid el envío a Cuba de la
flota española del Atlántico, que en esos momentos esperaba órdenes frente a
las islas de Cabo Verde, en África occidental.
Esta era mandada por el almirante
Pascual Cervera, un marino de casi
60 años de edad —nacido en Jerez de
la Frontera, el 18 de febrero de 1839— y que luego de egresar de la escuela
naval de San Fernando ascendió grado a grado, gracias a su participación en los
más importantes sucesos de la historia de su país durante la segunda mitad del
siglo XIX, una época cuyo trágico final sería simbolizado justamente con el
hundimiento de la escuadra que le tocó comandar.
Tomó parte Cervera en la campaña de
Marruecos (1853), en la expedición española contra la Conchinchina (1862) y ya
como capitán de navío asumió en 1866 el patrullaje de las costas de Perú.
Durante la Guerra de los Diez Años estuvo en la vigilancia de las costas
cubanas.
Participó además en la guerra
carlista, distinguiéndose en la defensa del arsenal de La Carraca. Presidió en
1891 la delegación de su país a la Conferencia Naval de Londres y, al año
siguiente, lo nombraron ministro de Marina en el gabinete del presidente
Sagasta, cargo al que renunció en protesta por la escasa dotación económica
destinada a su ministerio, como si previera desde entonces, dicen
historiadores, la tragedia que sufriría la flota española cuando le tocara
enfrentarse a fuerzas superiores, más modernas y mejor dotadas.
Conformaban la flota del Atlántico
cuatro cruceros acorazados y tres destructores, que desplazaban en conjunto 28
600 toneladas, y disponían, en teoría al menos, de 120 cañones, ocho
ametralladoras pesadas y 24 tubos lanzatorpedos, además de unos pocos cañones
de tiro rápido y algunos tubos lanzatorpedos instalados en los pequeños
destructores.
Hizo Cervera cuanto estuvo a su
alcance a fin de convencer al Ministro de Marina y al Gobierno de Madrid de que
no mandaran la flota a Cuba o a Puerto Rico. Sugería que la basaran en Canarias,
para proteger desde esa posición las islas y el territorio de la Península. El
asunto, a su juicio, era evitar un encuentro frontal con los norteamericanos en
el Caribe.
«Voy al sacrificio»
La flota norteamericana del
Atlántico, al mando del almirante William T. Sampson, era muy superior a la
española. Disponía de nueve cruceros acorazados, que desplazaban más de 65 000
toneladas y tenía instalados casi 300 cañones, 22 ametralladoras pesadas y 37
tubos lanzatorpedos.
No solo superaba a la española en
número de embarcaciones, tonelaje y potencia de fuego, sino que los buques eran
más modernos, poseían un blindaje más fuerte y su habilitación era más
completa. Estaba además la cuestión del combustible. La armada estadounidense
podía contar con cuanto carbón quisiera estando sus bases como estaban a pocas
horas de distancia, mientras que los españoles, con serios problemas en este
campo, tenían sus fuentes de abasto a miles de kilómetros del Caribe.
En vano insistió el almirante
Pascual Cervera. Conocía la superioridad de su enemigo. Por eso, en la víspera
de su partida hacia Cuba, informó nuevamente al Ministro de Marina acerca de
las condiciones de sus barcos, que dejaban mucho que desear. Su artillería
estaba incompleta o defectuosa, no contaba con municiones adecuadas ni
suficientes y tampoco disponía de carbón de calidad. En su informe, el marino
decía que su escuadra se colocaría en un callejón sin salida; una situación de
la que no podía esperarse más que la destrucción de sus barcos o la desmoralización
de sus hombres.
A las puertas del terrible verano de
1898, las altas autoridades españolas parecían vivir, sin embargo, en una
borrachera triunfalista que alcanzaba también a la población. No se quedaban
atrás muchos habaneros de a pie que en los cafés evocaban las batallas de
Lepanto y El Callao y pregonaban hasta el cansancio la superioridad de la
armada española, mientras que en el vestíbulo del teatro Albisu, el ilustrado
comandante de la marina española don Pedro Peral, hermano de Isaac, el inventor
del submarino, se empeñaba en demostrar justamente lo contrario.
En una página deliciosa de sus Viejas postales descoloridas, el
costumbrista Federico Villoch dice que en Cuba por aquel entonces se habló de
Cabo Verde como nunca antes ni después y que había quien escrutaba los mapas
para vaticinar en qué paraje ambas escuadras se desbaratarían a cañonazos. «Los
yanquis le tienen un miedo terrible al abordaje español», decían algunos. Y las
imaginaciones calenturientas trazaban cuadros espeluznantes de piratería,
remangados los puños de los marineros armados de grandes y afilados cuchillos,
y la sangre corriendo a bordo.
El propio Ministro de Marina
español, con la cabeza en las nubes, daba a Cervera, antes de su partida hacia
el Caribe, la misión siguiente:
«Ir a EE. UU., defender las islas de
Cuba y Puerto Rico, bloquear los puertos norteamericanos del golfo de México,
destruir la base naval de Cayo Hueso, sede de la flota del Atlántico, y de ser
posible bloquear puertos del este…».
Algunos vapores lograron burlar,
desde el puerto habanero, el cerco norteamericano, o salían y entraban con
permiso de los sitiadores. Con autorización lo hizo el Lafayette, de la
Compañía Trasatlántica Francesa, atestado de viajeros que abandonaban la ciudad
por miedo a las futuras contingencias, y le siguió el bergantín mexicano
Arturo, cargado de fugitivos. Los especuladores de siempre hicieron dinero con
el improvisado negocio de convertir goletas desvencijadas en barcos de
pasajeros que, por 50 o 100 pesos el boleto, transportaban pasaje desde La
Habana a Veracruz.
Pero los acorazados Brooklyn, Texas,
Iowa, Louisana…, dice Villoch, continuaban imperturbables en el horizonte,
firmes como si hubiesen echado raíces en las rocas del fondo, bañando las
noches con sus potentes focos eléctricos. Esa vigilancia no fue obstáculo para
que el vapor español Monserrat, con todas sus luces apagadas, burlase una noche
el bloqueo y arribase sin novedad, dos días después, a un cercano puerto de
México para, a su vuelta, abastecer de víveres a La Habana. Un barco de guerra
español llamado Conde de Venadito se arriesgó una tarde a salir del puerto para
provocar la agresión de los acorazados americanos y obligarlos a acercarse a la
costa para que fueran cañoneados desde el Morro, lo que resultó en vano, pues
el yanqui lo que hizo fue largarle una andanada de tiros y permanecer impávido
en su línea. Se dio también, entre otros casos, la entrada espectacular de la
goleta Santiago, que a todo trapo salió una mañana de buen viento de Bahía
Honda y penetró sana y salva en nuestro puerto, bajo los cañonazos que se
cruzaban uno de los acorazados norteamericanos y la batería de Santa Clara,
emplazada donde se edificó el Hotel Nacional de Cuba.
El 24 de abril recibía Cervera la
orden de moverse hacia el Caribe y se dispuso a cumplirla no sin antes advertir
a sus superiores que iba al sacrificio con la conciencia tranquila. Al día
siguiente, Estados Unidos declaró formalmente la guerra a España. Una semana
más tarde, en la bahía de Cavite, Filipinas, la flota norteamericana del
Pacífico destruía, en cuestión de horas, la escuadra española concentrada allí.
La noticia provocó en España la
conmoción que era de esperar. El 12 de mayo, el Ministro de Marina dirigió un
telegrama a Fort de France, en Martinica, autorizando a Cervera a regresar a
España. Pero Cervera jamás vio ese mensaje. El día anterior dejaba atrás Fort
de France y ponía proa a Cuba.
El héroe trágico
El 14 de mayo barcos norteamericanos
bombardearon con total impunidad San Juan de Puerto Rico. Cinco días después,
el 19, la flota de Cervera entraba en la bahía de Santiago de Cuba. A comienzos
de junio la escuadra del almirante Sampson bombardeaba esa ciudad. Con objeto
de embotellar a Cervera, sus adversarios hundieron el pontón Merrimac en la
boca de la rada santiaguera. A partir de ahí, si los barcos españoles querían
salir, debían hacerlo de uno en uno, convertidos en una suerte de tiro al
blanco para los norteamericanos.
Se entrevistan con el mayor general
Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, el almirante
Sampson, jefe de la flota, y el general Shafter, jefe del Ejército de tierra.
Desembarcan las tropas norteamericanas y avanzan hacia Santiago. El general
Linares, jefe de esa plaza militar, no se hace ilusiones respecto a la victoria
española y sabe que la derrota pondría en grave riesgo a la flota anclada en la
bahía. El capitán general Ramón Blanco, que recibió de Madrid la potestad de
decidir sobre todas las fuerzas militares destacadas en la Isla, incluso la
escuadra, y que sabe cómo piensa Cervera, telegrafía al Almirante: «Dice usted
que la caída de Santiago es segura, en cuyo caso tendrá usted que destruir sus
barcos, y esta es una razón más para intentar una salida, ya que es preferible
para el honor de las armas sucumbir combatiendo…».
Cervera escribe entonces a Linares:
«… afirmo con el mayor énfasis que nunca seré quien decida la horrible e inútil
hecatombe… A Blanco incumbe decidir si debo ir al suicidio, arrastrando conmigo
a estos 2
000 españoles».
Ante el ataque inminente, los
marinos de Cervera se suman a la defensa terrestre de Santiago. Ocurren el 1ro.
de julio de 1898 las batallas de El Caney y de San Juan, donde, en un intento
desesperado por recuperar la posición, resulta gravemente herido el general
Linares.
El día 2, desde La Habana, el
Capitán General ordena a Cervera que salga con sus barcos de la bahía
santiaguera. Al día siguiente, a las
9:45 de la mañana, disparando sin
cesar por ambas bandas, empezó a salir, con rumbo este, la escuadra española.
Una hora más tarde la flota del Atlántico sucumbía ante el poderío
norteamericano, y el propio almirante Pascual Cervera, el héroe trágico,
alcanzaba la costa a nado y era hecho prisionero. Debió enfrentar en España un
consejo de guerra acusado de la pérdida de la escuadra. Fue absuelto y
permaneció durante unos cuantos años más en servicio activo. Murió el 3 de
abril de 1909.
La batalla naval de Santiago tuvo para
España el saldo de 326 muertos,
215 heridos y 1 720 prisioneros. Los
norteamericanos tuvieron un muerto y un herido. «No siempre al valor acompaña
la fortuna», decía el Capitán General en su mensaje a los habitantes de la
Isla, y «firmes y resueltos ante el peligro», los llamaba a confiar en Dios «y
en nuestro derecho a dejar incólumes el honor y la integridad de la patria». El
general Shafter, por su parte, presentaba un ultimátum:
Si Santiago de Cuba no se rendía,
sería bombardeada. Pero eso lo veremos el próximo domingo.
Ciro Bianchi
Ross