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giovedì 30 giugno 2016
I primi investimenti nordamericani dopo oltre un cinquantennio
Completamente
ristrutturato, è stato riaperto l’ex Hotel Quinta Avenida, dell’impresa cubana
Gaviota, con il nuovo nome di Four Points by Sheraton, è il primo caso di
investimento nordamericano a Cuba dopo il 1959. Evidentemente tra le pieghe dei
“decreti Obama”, una delle più grandi catene alberghiere del mondo, di
proprietà statunitense è riuscita a realizzare questo investimento in qualità
di gestore. Prossimo obbiettivo della Starwood Hotels and Resorts Worldwide è
il centralissimo Hotel Inglaterra che aprirà in agosto col nuovo nome di Luxury
Collection by Starwood.
mercoledì 29 giugno 2016
Ricordando Bud Spencer e la sua città preferita (dopo Napoli)
Mi è giunta la notizia della scomparsa di Bud
Spencer, al secolo Carlo Pedersoli da Napoli, ex campione e primatista italiano di nuoto
che fu componente della nostra squadra olimpica negli anni ’50 del secolo
scorso. Il “gigante buono” del cinema di cassetta, protagonista di improbabili
quanto divertenti, risse e scazzottate contro miriadi di “cattivi” condotte da
solo o spesso in compagnia di Terence Hill, al secolo Mario Girotti che hanno
fatto divertire giovani e meno giovani.
Carlo o
Bud, a seconda di come si preferisce ricordarlo, era un grande frequentatore
della Florida, in particolare di Miami, dove ha girato diversi film e serie
televisive rendendo ‘popolari’ diversi scorci di questa località. Ci mancherà,
come mancherà a Miami.
Pur
senza avere elementi culturali di spicco, Miami, è indubbiamente una città che
attira sempre più gli italiani. Particolarmente Miami Beach che è municipio
indipendente e non fa parte amministrativa di Miami City.
Nei
tempi che si stanno avvicinando potrebbe aumentare il suo traffico turistico
con la possibilità di trasferimenti da o per l’Avana in settembre, infatti,
dovrebbero iniziare i voli commerciali tra gli Stati Uniti e Cuba aperti a
chiunque. Per il momento i voli diretti sono solo per cittadini in possesso di
passaporto cubano o statunitensi autorizzati, compresi in dodici categorie
previste da un recente decreto del presidente Obama.
Oggi
per gli stranieri il viaggio non è dei più agevoli, ma non impossibile. Le due
località sono unite da voli (con scalo) da Copa Airlines (Panama), Interjet e
Cubana de Aviaciòn (Messico), Bahamas Air (Nassau) o Air Cayman. Per esperienza
personale quest’ultima è la combinazione migliore per qualità/prezzo. Purtroppo
il volo che se fosse diretto durerebbe circa 40 minuti diventa di 3 ore da
Miami all’Avana e di 4 in senso inverso, per via della sosta a Gran Cayman.
Se la
città in sé non offre molte attrattive se non il clima e la spiaggia, bisogna
ricordare che è la capitale delle crociere per i Caraibi a cui si è aggiunta
anche quella, quindicinale che tocca anche Cuba, dopo oltre 50 anni di divieto
imposto dalle autorità degli U.S.A. oltre a questa attrattiva si possono
raggiungere località suggestive come le Everglades, territori in gran parte
sede delle riserve “indiane” dei Mikkosukee e dei Seminole con la loro
incredibile ricchezza di fauna, oppure la caratteristica Key West, ultima delle isolette da cui parte la mitica U.S.1 che raggiunge il confine canadese, lungo la
costa est degli U.S.A e punto più
meridionale degli Stati Uniti continentali a solo 160 chilometri da Cuba e in
cui, fra le altre attrattive si trova una delle case caraibiche che furono di
proprietà dello scrittore Ernest Hemingway, molto simile, come caratteristiche,
a quella che ebbe all’Avana. Entrambe oggi musei riguardanti la vita e le opere
di Hemingway.
Per chi
volesse avere maggiori informazioni su Miami e le sue possibilità può trovarle
sul blog www.italianiamiami.it redatto in modo
scanzonato da due ragazze italiane che come Paolo Maldini e il compianto Bud,
fra gli altri, sono o furono amanti di questa località.
martedì 28 giugno 2016
Washington versus Madrid, pagine di guerra (II), di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 26/6/16
Fin da
prima di rompere le ostilità, Washington aveva ordinato il blocco navale
dell’Isola cosa che impediva alla Spagna, da una parte, di portare truppe
fresche, armamenti e munizioni e dall’altra, muovere risorse tra i diversi
porti del territorio. Navi da guerra statunitensi stazionate di fronte ai porti
di Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos e l’Avana erano visibili
dalla costa e impedivano l’entrata e l’uscita di imbarcazioni di qualunque
bandiera. Non meno di dieci mercantili spagnoli furono sequestrati e portati a
Key West. La misura aveva anche altri obbiettivi strategici: aspettare che le
truppe regolari nordamericane destinate a sbarcare completassero le loro
manovre durante l’estate, a New Orleans, Mobile e Tampa e lasciare che le forze
cubane continuassero a dissanguare gli spagnoli.
Fu così
che il capitano generale Ramón Blanco y Erenas, Marchese di Peña Plata,
sollecitò a Madrid l’invio della truppa spagnola dell’Atlantico che in quel
momento aspettava gli ordini di fronte alle isole di Cabo Verde, nell’Africa
Occidentale.
Questa
era comandata dall’ammiraglio Pascual Cervera, un marinaio di quasi 60 anni
d’età – nato a Jerez de la Frontera il 18 febbraio del 1839 – che dopo essere
uscito dalla scuola navale di San Fernando ascese grado a grado, grazie alla
sua partecipazione ai fatti più importanti della storia del suo Paese nella
seconda metà del XIX secolo, un’epoca il cui finale tragico sarebbe stato
simbolizzato con l’affondamento della squadra che gli toccò comandare.
Cervera
prese parte a, campagna del Marocco (1853), nella spedizione spagnola contro la
Cocincina (1862) e già come capitano di vascello assunse, nel 1866, il
pattugliamento delle coste del Perù. Durante la guerra dei dieci anni fu di
vigilanza alle coste cubane. Partecipò inoltre alla guerra carlista distinguendosi
nella difesa dell’arsenale de La Carraca. Nel 1891 presiedette la delegazione
del suo Paese alla Conferenza Navale di Londra e l’anno seguente lo nominarono
ministro della Marina nel Governo di
Madrid nel gabinetto del presidente Sagasta, incarico a cui rinunciò per
protesta per la scrsa dotazione economica destinata al suo ministero come se
prevedesse, come dicono gli storici, la tragedia che avrebbe sofferto la flotta
spagnola quando le sarebbe toccato afffrontare forze superiori, più moderne e
meglio equipaggiate.
Facevano
parte della flotta dell’Atlantico quattro incrociatori corazzati e tre
destroyer che stazzavano un complesso di 28.600 tonnellate e disponevano,
almeno in teoria, di 120 cannoni, otto mitragliatrici pesanti e 24 tubi lancia
siluri, installati nei piccoli destroyer.
Cervera
fece quanto alla sua portata al fine di convincere il ministro della Marina e
il Governo di Madrid che non mandassero la flotta a Cuba o a Portorico.
Suggeriva che facesse base alle Canarie per proteggere, da quella posizione, le
isole e il territorio della Penisola. Il fatto, secondo lui, era di evitare uno
scontro frontale con i nordamericani nei Caraibi.
“Vado al sacrificio”
La
flotta nordamericana dell’Atlantico, al comando dell’ammiraglio William T.
Sampson, era molto superiore alla spagnola. Disponeva di nove incrociatori
corazzati che stazzavano oltre 65.000 tonnellate e aveva installati quasi 300
cannoni, 22 mitragliatrici pesanti e 37 tubi lancia siluri. Non solo superava
la spagnole per numero di imbarcazioni, tonnellaggio e potenza di fuoco, le
navi erano più moderne, possedevano una blindatura più forte e la loro
abilitazione era più completa. Inoltre c’era la questione del combustibile.
L’armata statunitense poteva rifornirsi di tutto il carbone che ci fosse stato
nelle sue basi che si trovavano a poche ore di distanza mentre gli spagnoli,
con seri problemi in questo senso, avevano le loro basi di rifornimento a
migliaia di chilometri dai Caraibi.
L’ammiraglio
Cervera insistette invano. Conosceva la superiorità del suo nemico. Per questo,
alla vigilia della sua partenza per Cuba, informò nuovamente il Ministro della
Marina circa le condizioni delle sue navi che lasciavano molto a desiderare. La
sua artiglieria era incompleta o difettosa, non contava con munizioni adeguate
né sufficienti e non disponeva nemmeno di quantità di carbone di qualità. Nel
suo rapporto, il marinaio diceva che la sua squadra si sarebbe messa in un
vicolo cieco. Una situazione dalla quale non poteva aspettarsi altro che la
distruzione delle sue navi o la demoralizzazione dei suoi uomini.
Alle
porte del terribile inverno del 1898, le alte sfere spagnole sembravano vivere,
senza dubbio, un’euforia trionfalista che raggiungeva anche la popolazione.
Molti avaneri comuni non restavano indietro, nei caffè evocavano le battaglie
di Lepanto o del Callao e incensavano fino allo sfinimento la superiorità
dell’armata spagnola, mentre nel vestibolo del teatro Albisu, l’illustre
comandante della marina spagnola don Pedro Peral, fratello di Isaac,
l’inventore del sommergibile, si impegnava a dimostrare giustamente il
contrario.
In una
pagina deliziosa delle sue Viejas
postales descoloridas, l’osservatore dei costumi Federico Villoch dice che a
Cuba, in quel momento, si parlò di Cabo Verde come mai prima né dopo e che
c’era chi osservava le mappe per vaticinare da che parti le due squadre si
sarebbero distrutte a cannonate. “Gli yankee hanno paura del terribile
abbordaggio spagnolo”, dicevano alcuni. Le immaginazioni surriscaldate
tracciavano quadri raccapriccianti di pirateria, col sollevare le maniche dei
marinai armati di grandi e affilati coltelli, il sangue scorrendo a bordo.
Lo
stesso Ministro della Marina spagnolo, con la testa fra le nuvole, dava a
Cervera prima di partire verso i Caraibi, la seguente missione: Andare negli
Stati Uniti, difendere le isole di Cuba e Portorico, bloccare i porti americani
del Golfo del Messico, distruggere la base navale di Key West, sede della
flotta dell’Atlantico e se possibile bloccare porti nell’est...”
Alcuni
vaporetti riuscirono, dal porto avanero, burlare l’accerchiamento nordamericano
o, entravano e uscivano col permesso degli assedianti. Con autorizzazione lo
fece Lafayette, della Compagnia Transatlantica Francese, traboccante di
passeggeri che abbandonavano la città per paura delle future contingenze, gli
seguì il brigantino messicano Arturo, carico di fuggitivi. Gli speculatori di
sempre fecero i soldi con l’affare improvvisato di convertire golette
scalcagnate in navi per passeggeri che per 50 o 100 pesos a biglietto,
trasportavano dall’Avana a Vera Cruz.
Ma le
corazzate Brooklyn, Texas, Iowa, Luisiana..., dice Villoch, continuavano
imperturbabili all’orizzonte, fermi come se avessero messo le radici nelle
rocce del fondo, forando le notti coi loro potenti fari elettrici. Questa
vigilanza non fu sufficiente perché il vapore spagnolo Monserrat, con tutte le
luci spente burlasse il blocco, arrivando due giorni dopo, a un vicino porto
del Messico per poter, a sua volta, rifornire di viveri l’Avana. Una nave da
guerra spagnbole chiamata Conde de Venadito, un pomeriggio si arrischiò a
uscire dal porto per provocare l’aggressione delle navi nordamericane e
obbligarle ad avvicinarsi alla costa perché fossero cannoneggiate dal Morro,
cosa che risultò vana in quanto quello che fecero gli yankee fu di scaricargli
poderose bordate e rimanere impavidi sulle lo ricevette gli ordini di ro linee. Fra le altre cose si verificò
l’ingresso spettacolare della goletta Santiago che uscì una mattina a tutta
vela da Bahía Honda e penetrò salva nel
nostro porto, sotto le cannonate che si incrociavano tra una delle corazzate
americane e la batteria di Santa Clara, piazzata dove si costruì l’Hotel
Nacional de Cuba.
Il 24
di aprile, Cervera ricevette l’ordine di muoversi verso i Caraibi e si dispose
a compierli non senza avvertire i suoi superiori che andava al sacrificio con
la coscienza tranquilla. Il giorno seguente, gli Stati Uniti dichiararono
formalmente la guerra alla Spagna. Una settimana più tardi, nella baia di
Cavite, Filippine, la flotta nordamericana del Pacifico distruggeva, in poche
ore, la squadra spagnola lì concentrata. La notizia provocò la commozione che
c’era da aspettarsi in Spagna. Il 12 maggio, il Ministro della Marina inviò un
telegramma a Fort de France, in Martinica, autorizzando Cervera a tornare in
Spagna. Ma Cervera non vide mai questo messaggio. Il giorno prima, lasciava
indietro Fort de France dirigendo la prora verso Cuba.
Il tragico eroe
Il 14 maggio,
navi nordamericane bombardarono, con totale impunità, San Juan di Portorico.
Cinque giorni dopo, il 19, la flotta di Cervera entrava nella baia di Santiago
de Cuba. All’inizio di giugno, la squadra dell’ammiraglio Sampson bombardava
questa città. Con oggetto di imbottigliare Cervera, i suoi avversari
affondarono il pontone Merrimac nella bocca santiaghera. A partire da lì se le
navi spagnole volevano uscire, dovevano farlo una alla volta, trasformate in
una sorta di tiro al bersaglio per i nordamericani.
Si
intervistarono col maggior generale Calixto García, luogotenente generale dell’
Esercito di Liberazione, l’ammiraglio Sampson, capo della flotta, il generale
Shafter, capo dell’ Esrcito di terra. Le truppe nordamericanesbarcarono
avanzando verso Santiago. Il generale Linares, capo di quella piazza militare,
non si fece illusioni sulla vittoria spagnola e sapeva che la sconfitta avrebbe
messo in grave rischio la flotta ancorata nella baia. Il capitano generale
Ramón Blanco che ricevette da madrid la potestà di decidere su tutte le forze
militari staccate sull’Isola, inclusa la squadra e che sapeva come pensava
Cervera, telegrafò all’ammiraglio: “Lei dice che la caduta di Santiago è certa,
in quel caso lei dovrà distruggere le sue navi e questa è una ragione di più
per tentare una sortita, già che è preferibile, per l’onore delle armi,
soccombere combattendo...”. Allora Cervera scrisse a Linares: “...affermo con
la magior enfasi che non sarò mai chi decida l’orribile e inutile
ecatombe...Compete a Blanco decidere se devo andare al suicidio trascinando con
me questi 2.000 spagnoli”.
Prima
dell’attacco imminente, i marinai di Cervera si aggiunsero alla difesa
terrestre di Santiago. Il 1° di luglio occorsero le battaglie di El Caney e di
San Juan dove, in un tentativo disperato di recuperare le posizioni, il
generale Linares risultò gravemente ferito. Il giorno 2, dall’Avana, il
Capitano Generale ordinò a Cervera di uscire dalla baia santiaghera con le sue
navi. Il giorno dopo, alle 9.45 del mattino, sparando all’impazzata da entrambi
i lati, la squadra spagnola cominciò a uscire in direzione est. Un’ora più
tardi, la flotta dell’Atlantico soccombeva davanti alla potenza nordamericana e
lo stesso ammiraglio Pascual Cervera, il tragico eroe, raggiungeva a nuoto la
costa dove venne fatto prigioniero. In Spagna dovette affrontare un consiglio
di guerra accusato per la perdita della squadra. Fu assolto e rimase in
servizio attivo ancora diversi anni. Morì il 3 aprile del1909.
La
battaglia navale di Santiago ebbe, per la Spagna, il saldo di 326 morti, 215
feriti e 1.720 prigionieri. I nordamericani ebbero un morto e un ferito. “Non
sempre al valore si accompagna la fortuna” diceva il Capitano Generale nel suo
messaggio agli abitanti dell’Isola e “fermi e risoluti davanti al pericolo” li
chiamava a confidare in Dio “e nel nostro diritto a lasciare incolumi l’onore e
l’integrità della patria”. Il generale Shafter, da parte sua, presentava un
ultimatum: Se Santiago de Cuba non si fosse arresa, sarebbe stata bombardata. Ma
questo lo vedremo domenica prossima.
Washington vs. Madrid: páginas de la guerra (II) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
25 de Junio del 2016 19:51:56 CDT
Desde antes de romperse las
hostilidades, Washington había ordenado el bloqueo naval de la Isla, lo que
impedía a España, por una parte, traer tropas frescas, pertrechos y municiones,
y por otra, mover recursos entre diferentes puertos del territorio. Barcos de
guerra estadounidenses surtos frente a los puertos de Mariel, Cabañas,
Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos y La Habana se hacían visibles desde la costa e
impedían la entrada y la salida de embarcaciones de cualquier bandera. No menos
de diez mercantes españoles fueron apresados y conducidos a Cayo Hueso. La
medida tenía otros objetivos estratégicos:
esperar a que las tropas regulares
norteamericanas destinadas a desembarcar completaran durante el verano su
entrenamiento en Nueva Orleans, Mobile y Tampa, y dejar que las fuerzas cubanas
continuaran desangrado a las españolas.
Fue así que el capitán general Ramón
Blanco y Erenas, Marqués de Peña Plata, solicitó a Madrid el envío a Cuba de la
flota española del Atlántico, que en esos momentos esperaba órdenes frente a
las islas de Cabo Verde, en África occidental.
Esta era mandada por el almirante
Pascual Cervera, un marino de casi
60 años de edad —nacido en Jerez de
la Frontera, el 18 de febrero de 1839— y que luego de egresar de la escuela
naval de San Fernando ascendió grado a grado, gracias a su participación en los
más importantes sucesos de la historia de su país durante la segunda mitad del
siglo XIX, una época cuyo trágico final sería simbolizado justamente con el
hundimiento de la escuadra que le tocó comandar.
Tomó parte Cervera en la campaña de
Marruecos (1853), en la expedición española contra la Conchinchina (1862) y ya
como capitán de navío asumió en 1866 el patrullaje de las costas de Perú.
Durante la Guerra de los Diez Años estuvo en la vigilancia de las costas
cubanas.
Participó además en la guerra
carlista, distinguiéndose en la defensa del arsenal de La Carraca. Presidió en
1891 la delegación de su país a la Conferencia Naval de Londres y, al año
siguiente, lo nombraron ministro de Marina en el gabinete del presidente
Sagasta, cargo al que renunció en protesta por la escasa dotación económica
destinada a su ministerio, como si previera desde entonces, dicen
historiadores, la tragedia que sufriría la flota española cuando le tocara
enfrentarse a fuerzas superiores, más modernas y mejor dotadas.
Conformaban la flota del Atlántico
cuatro cruceros acorazados y tres destructores, que desplazaban en conjunto 28
600 toneladas, y disponían, en teoría al menos, de 120 cañones, ocho
ametralladoras pesadas y 24 tubos lanzatorpedos, además de unos pocos cañones
de tiro rápido y algunos tubos lanzatorpedos instalados en los pequeños
destructores.
Hizo Cervera cuanto estuvo a su
alcance a fin de convencer al Ministro de Marina y al Gobierno de Madrid de que
no mandaran la flota a Cuba o a Puerto Rico. Sugería que la basaran en Canarias,
para proteger desde esa posición las islas y el territorio de la Península. El
asunto, a su juicio, era evitar un encuentro frontal con los norteamericanos en
el Caribe.
«Voy al sacrificio»
La flota norteamericana del
Atlántico, al mando del almirante William T. Sampson, era muy superior a la
española. Disponía de nueve cruceros acorazados, que desplazaban más de 65 000
toneladas y tenía instalados casi 300 cañones, 22 ametralladoras pesadas y 37
tubos lanzatorpedos.
No solo superaba a la española en
número de embarcaciones, tonelaje y potencia de fuego, sino que los buques eran
más modernos, poseían un blindaje más fuerte y su habilitación era más
completa. Estaba además la cuestión del combustible. La armada estadounidense
podía contar con cuanto carbón quisiera estando sus bases como estaban a pocas
horas de distancia, mientras que los españoles, con serios problemas en este
campo, tenían sus fuentes de abasto a miles de kilómetros del Caribe.
En vano insistió el almirante
Pascual Cervera. Conocía la superioridad de su enemigo. Por eso, en la víspera
de su partida hacia Cuba, informó nuevamente al Ministro de Marina acerca de
las condiciones de sus barcos, que dejaban mucho que desear. Su artillería
estaba incompleta o defectuosa, no contaba con municiones adecuadas ni
suficientes y tampoco disponía de carbón de calidad. En su informe, el marino
decía que su escuadra se colocaría en un callejón sin salida; una situación de
la que no podía esperarse más que la destrucción de sus barcos o la desmoralización
de sus hombres.
A las puertas del terrible verano de
1898, las altas autoridades españolas parecían vivir, sin embargo, en una
borrachera triunfalista que alcanzaba también a la población. No se quedaban
atrás muchos habaneros de a pie que en los cafés evocaban las batallas de
Lepanto y El Callao y pregonaban hasta el cansancio la superioridad de la
armada española, mientras que en el vestíbulo del teatro Albisu, el ilustrado
comandante de la marina española don Pedro Peral, hermano de Isaac, el inventor
del submarino, se empeñaba en demostrar justamente lo contrario.
En una página deliciosa de sus Viejas postales descoloridas, el
costumbrista Federico Villoch dice que en Cuba por aquel entonces se habló de
Cabo Verde como nunca antes ni después y que había quien escrutaba los mapas
para vaticinar en qué paraje ambas escuadras se desbaratarían a cañonazos. «Los
yanquis le tienen un miedo terrible al abordaje español», decían algunos. Y las
imaginaciones calenturientas trazaban cuadros espeluznantes de piratería,
remangados los puños de los marineros armados de grandes y afilados cuchillos,
y la sangre corriendo a bordo.
El propio Ministro de Marina
español, con la cabeza en las nubes, daba a Cervera, antes de su partida hacia
el Caribe, la misión siguiente:
«Ir a EE. UU., defender las islas de
Cuba y Puerto Rico, bloquear los puertos norteamericanos del golfo de México,
destruir la base naval de Cayo Hueso, sede de la flota del Atlántico, y de ser
posible bloquear puertos del este…».
Algunos vapores lograron burlar,
desde el puerto habanero, el cerco norteamericano, o salían y entraban con
permiso de los sitiadores. Con autorización lo hizo el Lafayette, de la
Compañía Trasatlántica Francesa, atestado de viajeros que abandonaban la ciudad
por miedo a las futuras contingencias, y le siguió el bergantín mexicano
Arturo, cargado de fugitivos. Los especuladores de siempre hicieron dinero con
el improvisado negocio de convertir goletas desvencijadas en barcos de
pasajeros que, por 50 o 100 pesos el boleto, transportaban pasaje desde La
Habana a Veracruz.
Pero los acorazados Brooklyn, Texas,
Iowa, Louisana…, dice Villoch, continuaban imperturbables en el horizonte,
firmes como si hubiesen echado raíces en las rocas del fondo, bañando las
noches con sus potentes focos eléctricos. Esa vigilancia no fue obstáculo para
que el vapor español Monserrat, con todas sus luces apagadas, burlase una noche
el bloqueo y arribase sin novedad, dos días después, a un cercano puerto de
México para, a su vuelta, abastecer de víveres a La Habana. Un barco de guerra
español llamado Conde de Venadito se arriesgó una tarde a salir del puerto para
provocar la agresión de los acorazados americanos y obligarlos a acercarse a la
costa para que fueran cañoneados desde el Morro, lo que resultó en vano, pues
el yanqui lo que hizo fue largarle una andanada de tiros y permanecer impávido
en su línea. Se dio también, entre otros casos, la entrada espectacular de la
goleta Santiago, que a todo trapo salió una mañana de buen viento de Bahía
Honda y penetró sana y salva en nuestro puerto, bajo los cañonazos que se
cruzaban uno de los acorazados norteamericanos y la batería de Santa Clara,
emplazada donde se edificó el Hotel Nacional de Cuba.
El 24 de abril recibía Cervera la
orden de moverse hacia el Caribe y se dispuso a cumplirla no sin antes advertir
a sus superiores que iba al sacrificio con la conciencia tranquila. Al día
siguiente, Estados Unidos declaró formalmente la guerra a España. Una semana
más tarde, en la bahía de Cavite, Filipinas, la flota norteamericana del
Pacífico destruía, en cuestión de horas, la escuadra española concentrada allí.
La noticia provocó en España la
conmoción que era de esperar. El 12 de mayo, el Ministro de Marina dirigió un
telegrama a Fort de France, en Martinica, autorizando a Cervera a regresar a
España. Pero Cervera jamás vio ese mensaje. El día anterior dejaba atrás Fort
de France y ponía proa a Cuba.
El héroe trágico
El 14 de mayo barcos norteamericanos
bombardearon con total impunidad San Juan de Puerto Rico. Cinco días después,
el 19, la flota de Cervera entraba en la bahía de Santiago de Cuba. A comienzos
de junio la escuadra del almirante Sampson bombardeaba esa ciudad. Con objeto
de embotellar a Cervera, sus adversarios hundieron el pontón Merrimac en la
boca de la rada santiaguera. A partir de ahí, si los barcos españoles querían
salir, debían hacerlo de uno en uno, convertidos en una suerte de tiro al
blanco para los norteamericanos.
Se entrevistan con el mayor general
Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, el almirante
Sampson, jefe de la flota, y el general Shafter, jefe del Ejército de tierra.
Desembarcan las tropas norteamericanas y avanzan hacia Santiago. El general
Linares, jefe de esa plaza militar, no se hace ilusiones respecto a la victoria
española y sabe que la derrota pondría en grave riesgo a la flota anclada en la
bahía. El capitán general Ramón Blanco, que recibió de Madrid la potestad de
decidir sobre todas las fuerzas militares destacadas en la Isla, incluso la
escuadra, y que sabe cómo piensa Cervera, telegrafía al Almirante: «Dice usted
que la caída de Santiago es segura, en cuyo caso tendrá usted que destruir sus
barcos, y esta es una razón más para intentar una salida, ya que es preferible
para el honor de las armas sucumbir combatiendo…».
Cervera escribe entonces a Linares:
«… afirmo con el mayor énfasis que nunca seré quien decida la horrible e inútil
hecatombe… A Blanco incumbe decidir si debo ir al suicidio, arrastrando conmigo
a estos 2
000 españoles».
Ante el ataque inminente, los
marinos de Cervera se suman a la defensa terrestre de Santiago. Ocurren el 1ro.
de julio de 1898 las batallas de El Caney y de San Juan, donde, en un intento
desesperado por recuperar la posición, resulta gravemente herido el general
Linares.
El día 2, desde La Habana, el
Capitán General ordena a Cervera que salga con sus barcos de la bahía
santiaguera. Al día siguiente, a las
9:45 de la mañana, disparando sin
cesar por ambas bandas, empezó a salir, con rumbo este, la escuadra española.
Una hora más tarde la flota del Atlántico sucumbía ante el poderío
norteamericano, y el propio almirante Pascual Cervera, el héroe trágico,
alcanzaba la costa a nado y era hecho prisionero. Debió enfrentar en España un
consejo de guerra acusado de la pérdida de la escuadra. Fue absuelto y
permaneció durante unos cuantos años más en servicio activo. Murió el 3 de
abril de 1909.
La batalla naval de Santiago tuvo para
España el saldo de 326 muertos,
215 heridos y 1 720 prisioneros. Los
norteamericanos tuvieron un muerto y un herido. «No siempre al valor acompaña
la fortuna», decía el Capitán General en su mensaje a los habitantes de la
Isla, y «firmes y resueltos ante el peligro», los llamaba a confiar en Dios «y
en nuestro derecho a dejar incólumes el honor y la integridad de la patria». El
general Shafter, por su parte, presentaba un ultimátum:
Si Santiago de Cuba no se rendía,
sería bombardeada. Pero eso lo veremos el próximo domingo.
Ciro Bianchi
Ross
lunedì 20 giugno 2016
Ciao Fossili, di Luca Lombroso
Dai primi di luglio in libreria il mio nuovo libro, qui le anticipazioni
della scheda dell’Editore:
CIAO
FOSSILI - Cambiamenti Climatici, Resilienza e Futuro Post Carbon
Il 2015 è stato un anno di svolta per i cambiamenti climatici. Da un lato le concentrazioni di CO2 in atmosfera hanno per la prima volta nella storia dell’evoluzione umana superato le 400 ppm. Siamo entrati, letteralmente, in un territorio nuovo, sconosciuto, mai vissuto dall’homo sapiens.
Ondate di caldo, siccità, alluvioni, nubifragi, tornado, uragani sono ormai
in una fase di “nuova normalità” con cui volenti o nolenti dobbiamo adattarci e
convivere con resilienza.
Dall’altro, sappiamo che oltre una certa soglia non potremmo convivere.
Qual è questa soglia e quale strada tracciare dunque per “salvare il mondo”?
Siamo ancora in tempo?
Ormai non ci sono più dubbi: per evitare cambiamenti climatici inauditi
dobbiamo limitare il riscaldamento planetario ben al di sotto di 2°C, meglio
ancora di 1.5°C, rispetto all’era preindustriale. È giunto il momento di
avviarci alla definitiva decarbonizzazione della nostra società nel corso di
questo stesso secolo.
In questo ultimo libro, Luca Lombroso traccia nuovi scenari possibili di un
futuro post carbon. A ispirare il suo percorso, due documenti di straordinario
valore: l’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco sulla cura della Casa Comune
e l’Accordo di Parigi approvato alla storica conferenza sul clima COP 21
tenutasi nella capitale francese a dicembre 2015.
“La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma ci è
stata data in prestito dai nostri figli”
Proverbio indiano
“Noi siamo la prima generazione a subire l’impatto del cambiamento
climatico e l’ultima a poter fare qualcosa”
Barack Obama,
COP 21, Parigi 2015
COP 21, Parigi 2015
“Non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni.
Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi.
Siamo noi
i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile
per l’umanità che verrà dopo di noi”
i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile
per l’umanità che verrà dopo di noi”
Papa Francesco,
Enciclica Laudato si’, 2015
Enciclica Laudato si’, 2015
“Le generazioni future e le altre specie, che condividono la biosfera
con noi, non hanno voce per chiederci compassione, saggezza e autorità.
Dobbiamo ascoltare il loro silenzio, dobbiamo essere la loro voce e agire per
loro”
Dichiarazione Buddhista
sui cambiamenti climatici, 2009
sui cambiamenti climatici, 2009
“Cosa diranno le future generazioni di noi, che lasciamo loro in eredità
un pianeta degradato?
Come ci presenteremo al nostro Signore e Creatore?”
Come ci presenteremo al nostro Signore e Creatore?”
Dichiarazione islamica
sul cambiamento climatico globale, 2015
sul cambiamento climatico globale, 2015
“L'uomo, danneggiando l'ambiente, si comporta proprio come le cellule cancerogene quando si espandono danneggiando l'organismo stesso dove vivono, ma quando l'organismo muore, muoiono anche loro” Cosa c’è oggi di più odiato delle cellule cancerogene che tutti direttamente o indirettamente abbiamo avuto modo di conoscere? Possiamo accettare di essere paragonate a loro? Certamente no. Allora non perdiamo tempo e corriamo ai ripari. Questo libro ci può certamente aiutare. Ci apre la mente, ci aggiorna sulla situazione attuale della nostra “casa comune” ma si offre a noi anche come una sorta di “istruzione per l’uso” utile a non distruggere noi stessi e i nostri figli.
(Dalla prefazione di Licia Colò)
Della stessa serie:
luca lombroso
La risposta alle mail potrebbe non essere immediata,
la reperibilità telefonica potrebbe non essere continua. Questo per ottimizzare
i tempi di vita e lavoro, perché non vengano sacrificati all'invasività delle
comunicazioni.
Ma anche perchè i sistemi tecnologi sono poco
affidabili: email importanti possono, indipendentemente dalla nostra volontà,
essere marcate come indesiderata dai software automatici, ai cellulari può
mancare campo o scaricarsi la batteria... e anch'essi risentiranno,
inevitabilmente, dell'impatto dei cambiamenti climatici e delle conseguenze del
peak oil
Washington versus Madrid: pagine della guerra (I), di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 19/6/16
Il
combattimento cominciò alle sei di mattina del 1° luglio del 1898, quando
l’artiglieria aprì il fuoco su El Caney e nell’opinione del comando
nordamericano, doveva finire alle otto. Era completamente inconcepibile che 520
soldati spagnoli, resistessero per un tempo maggiore all’urto di 5.400
effettivi provenienti dagli Stati Uniti. Gli statunitensi attaccarono con
valore e sprezzo per le loro vite, ma la difesa spagnola non era meno eroica e
il fuoco di artiglieria degli attaccanti non risultò completamente efficace.
Alle 11 della mattina, la fortezza era ancora in potere dei suoi difensori.
Il
generale Lawton, capo nordamericano che comandava quell’operaione,decise allora
di aggiungere al combattimento la truppa che teneva di riserva e sollecitò al
maggior generale Calixto García, Luogotenente Generale dell’Esercito di
Liberazione, l’incorporazione di soldati cubani. Al tempo stesso, accettava i
consigli del capo mambí per una miglior conduzione dell’attaccco e ad
ognuno dei battaglioni di due delle brigate d’attacco si aggiungeva una
compagnia del Reggimento Baconao.
All’una
del pomeriggio si riannodò il combattimento su tutto il fronte. Quattro ore più
tardi, il generale Shafter, massimo capo delle truppe nordamericane a Cuba,
vedendo l’energica resistenza dei difensori, ordinò a Lawton che desistesse dal
suo proposito. In realtà appropriarsi di quel paesetto, situato a sei
chilometri da Santiago de Cuba era stata idea di Shafter, concepita come
operazione che comprendeva un attacco simultaneo alla fortezza situata sulla
Collina di San Juan, fatti che avrebbero preceduto la presa di Santiago.
Il suo
piano prevedeva che la divisione comandata dal generale Lawton attaccasse prima
El Caney e una volta compiuta la sua missione si incorporasse a quelle che avrebbero
attaccato San Juan. Ma questa azione si dovette iniziare senza le truppe di
Lawton, impantanate a El Caney.
La
difesa di questo paese comprendeva il forte El Viso, con quattro fortini di
legno connessi fra di loro con trincee protette da filo spinato, così come le
case di mattoni del paese e la chiesa, preparate come opere difensive.
Specialisti militari questionavano la necessità di attaccarlo, la sua
ubicazione geografica e le forze di cui contava non erano considerate
significative nei piani statunitensi di impadronirsi di Santiago de Cuba.
Bastava, assicurano gli esperti, averlo aggirato.
Lawton
non accettò l’ordine di ritirata di Shafter. Erano già passate le cinque del
pomeriggio quando si riprese l’attacco. L’artiglieria degli assaltanti aumentò
l’efficacia. El Viso cominciava a sentire gli effetti di spari centrati che
ammorbidì la resistenza e il capo della piazza, generale Joaquín Vara del Rey,
non ebbe alternativa che ordinare ai suoi uomini di uscire dal forte e cercare
riparo in paese.
Mentre
lo facevano, il generale fu ferito alle gambe e quando l’azione di ritirata si
convertì in una fuga disordinata, gli uomini che lo portavano in barella lo
abbandonarono alla sua sorte a metà strada. Solo pochi ufficiali rimasero al
suo fianco. Alla fine morirà in un’imboscata della cavelleria cubana.
Sopravviverà solamente un capo spagnolo, un tenente colonnello che riuscì a
raggiungere Santiago al fronte di 60 subordinati.
Alle
sei del pomeriggio El Caney cadde in potere degli assaltanti, dopo una carica
finale alla quale parteciparono anche le truppe mambise del colonnello
Carlos González Clavell che si erano distinte in modo straordinario, quello
stesso giorno, nel combattimento di San Juan. Al cessare questa azione, alle
tre del pomeriggio, González Clavel e i suoi uomini si trasferirono a El Caney
per rinforzare le truppe del generale Lawton e furono i primi a entrare nel
paese. L’azione lasciò un saldo di 480 perdite per gli spagnoli, 420 per i
nordamericani e un centinaio per i cubani.
Una cronologia
Si sono
compiuti in questi giorni -10 giugno 1898 – 118 anni dalla sbarco nelle
vicinanze di Guantánamo, del primo gruppo di fanti della marina che prenderà
parte alla guerra contro la Spagna. Il grosso della truppa – il quinto corpo
d’armata degli Stati Uniti – tarderà ancora una decina di giorni a sbarcare. Il
loro capo, il generale Shafter e l’ammiraglio Simpson, capo della flotta che la
trasportava, intercambiarono criteri con Calixto García. Sampson espresse che
l’obbiettivo iniziale doveva essere il santiaghero, per poi impadronirsi della
città.
Calixto
aveva un piano ben diverso: il quinto corpo sarebbe sbarcato in Daiquirí e
avrebbe attaccato Santiago dall’est, mentre i cubani lo avrebbero fatto
dall’ovest, per cui si sarebbe completato un accerchiamento che avrebbe
impedito l’entrata di rinforzi per le truppe spagnole.
Prevalse
il criterio di Calixto, accettato dai capi nordamericani.
Il 20
giugno, forze cubane al comando del generale Agustín Cebreco, occupano
posizioni all’ovest e nordovest di Santiago al fine di intercettare rinforzi e
iniziare un’operazione destinata a distrarre gli spagnoli. Il giorno seguente,
il generale Castillo Duany e il colonnello González Clavell iniziano
un’operazione di pulizia della costa che avrebbe facilitato lo sbarco.
Parallelamente,
un forte contingente cubano situato alla periferia di Guantánamo impedisce
l’uscita di rinforzi spagnoli da questa città e González Clavell, al comando di
circa 530 mambises prende il paesetto
di Daiquirí per assicurare lo sbarco dei 16.000 soldati statunitensi che
arriveranno il giorno seguente.
Tremila
soldati spagnoli che l’attacco di González Clavell obbligò a ritirarsi da
Daiquirí e Siboney si concentrano a Las Guasimas. Un generale nordamericano si
decide ad attaccarli e chiede il concorso del citato ufficiale cubano, ma
questi ha istruzioni di Calixto di ubbidire solo al generale Lawton e d’altra
parte c’è un ordine di Shafter che proibisce l’avanzata nordamericana mentre i
rifornimenti non sono assicurati. Ciò nonostante il generale attacca gli
spagnoli ed duramente castigato, tanto
che si vede obbligato a chiedere rinforzi al generale Lawton. In realtà non
sono necessari.
Inspiegabilmente
gli spagnoli si ritirano e Las Guasimas, Sevilla e redondo restano in mano ai
nordamericani.
Mentre
ciò succede, il maggior generale Calixto García arriva a Siboney e il generale
Jesús Rabí assume il comando delle truppe cubane. Tre giorni dopo, il generale
Shafter sbarca a Siboney. Nonostante l’incalzare costante dei mambises, il colonnello Federico
Escario, al fronte di una colonna di 3.700 uomini che era uscita da Manzanillo
il 27 di giugno, riesce a entrare a Santiago e rinforza la città assediata.
Prima,
il 1° luglio, ci furono le battaglie di El Caney e San Juan. Anche se le cifre
differiscono tra una fonte e l’altra, il Dizionario Enciclopedico di storia
militare de la FAR, assicura che in quest’ultima azione, tra morti e feriti,
gli spagnoli persero 400 uomini e i nordamericani 650, mentre le perdite cubane
si aggiravano sulle 50.
Erano
in origine, dice la stessa fonte, circa 450 effettivi spagnoli al comando del
colonnello Baquero, 6.000 nordamericani e circa 600 cubani comandati
dall’inevitabile González Clavell.
Gli
spagnoli risposero al fuoco di artiglieria nordamericano con un’artiglieria ben
camuffata che impiegava polvere senza fumo, cosa che rese difficile la sua
ubicazione. Seguì l’attacco di cavalleria che protetta dalla frondosa
boscaglia, riuscì a mettersi a tiro di fucile della fortezza senza essere
scoperta dai suoi difensori. Gli spagnoli rispondevano vigorosamente e le
perdite degli attaccanti cominciarono ad essere numerose, ma mantennero le loro
posizioni senza esitazioni. Tre alti ufficiali nordamericani che avanzavano al
comando delle loro rispettive brigate caddero in combattimento. Giunsero i
rinforzi inviati da Shafter e i mambises
che dal fianco opposto, guidavano ina truppa degli Stati Uniti, si
approssimarono all’obbiettivo sotto l’intenso fuoco nemico che difendeva San
Juan con fermezza e valore. Il 71° Reggimento di Volontari di New York si fermò
davanti alle scariche del nemico e cominciò a retrocedere. Il cubano González
Clavell allora fece avanzare i suoi uomini, ristabilì la linea di fuoco e
ottenne che gli effettivi del 71° Reggimento proseguissero la loro avanzata.
Questo valse al colonnello mambí una
felicitazxione del comando nordamericano in pieno campo di battaglia.
La
resistenza spagnola si indebolì e San Juan cadde in potere nordamericano e
cubano. La soret di Santiago de Cuba era ormai gettata.
Ultimi giorni
Allora
succede qualcosa di inspiegabile. Il generale Shafter, vapo dell’esercito
nordamericano di terra, si demoralizza nel contare il numero di perdite
sofferte dalle sue truppe a San Juan e El Caney. Il clima dell’Isola, d’altra
parte, gli provoca sofferenze inenarrabili.
Scrive
al generale Lawton, suo secondo: “La mia presente posizione mi è costata mille
uomini e non sono disposto a perderne ancora”. E con riferimento a Santiago,
dice al Segretario della Guerra del suo Paese: “Noi abbiamo accerchiato la
città dal nord e dall’est, am con una linea moilto debole. All’avvicinarci
abbiamo trovato che le difese sono di tal classe e forza che sarà impossibile
prenderle d’assalto con le forze che ho. Sto considerando seriamente di
ritirarmi cinque miglia dalla mia posizione attuale e prenderne una nuova tra
il fiume San Juan e Jardinero”.
In un
Consiglio di Guerra, Shafter espose la sua decisione di ritirarsi dalla lotta e
chiedere rinforzi a Washington. La sua ufficialità rigettò il proposito
“pericoloso all’estremo perché potrebbe aumentare il morale del nemico e
seminare sconcerto nel corpo di spedizione”.
Shafter
si vide obbligato a presentare le sue dimissioni e consegnare il comando a
Lawton. L’alto comando nordamericano si sentì allora tanto disorientato che
giunse a proporre al generale Calixto García che assumesse il comando delle
operazioni, cosa che il veterano mambí
non accettò perché se lo avesse fatto si sarebbe convertito in esecutore della
politica nordamericana a Cuba. Ebbene, prima con Shafter, insistette sui
vantaggi di non interrompere l’attacco, cosa che avrebbe dato agli spagnoli
l’opportunità di riorganizzarsi e inviare a Santiago rinforzi considerevoli.
Per
allora, l’Esercito di Liberazione aveva sferrato un’offensiva generale
all’ovest di Santiago con cui si completò l’accerchiamento. I mambises, successivamente, si
impadronirono di San Vicente, Dos Bocas, Boniato, Cuabitas e delle colline
strategiche de la Loma de Quintero, da dove si dominava interamente la città.
le guarnigioni spagnole accampate in quei punti, li abbandonarono
precipitosamente.
Questo
succedeva il 2 luglio. Il 3, l’ammiraglio Pascual Cervera riceva l’ordine di
rompere, con la sua squadra, l’assedio che la flotta dell’ammiraglio Sampson
aveva posto alla baia di Santiago, un fatto di enorme trascendenza militare che
precipitò la fine della contesa.
Così lo
vedremo la settimana prossima.
Washington vs. Madrid: páginas de la guerra (I) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
18 de Junio del 2016 23:34:49 CDT
El combate comenzó a las seis de la
mañana del 1ro. de julio de 1898, cuando la artillería abrió fuego sobre El
Caney y, en opinión del mando norteamericano, debía concluir a las ocho.
Resultaba totalmente inconcebible que 520 soldados españoles resistieran por
más tiempo el embate de 5 400 efectivos procedentes de Estados Unidos. Los
estadounidenses atacaron con valor y desprecio de sus vidas, pero la defensa
española no era menos heroica y el fuego artillero de los atacantes no resultó
totalmente eficaz. A las 11 de la mañana, la fortaleza continuaba en poder de
sus defensores.
El general Lawton, jefe
norteamericano que comandaba aquella operación, decidió entonces sumar al
combate a la tropa que se mantenía en reserva y solicitó al mayor general
Calixto García, Lugarteniente General del Ejército Libertador, la incorporación
de soldados cubanos. Al mismo tiempo, aceptaba los consejos del jefe mambí para
una mejor conducción del ataque, y a cada uno de los batallones de dos de las
brigadas en acción se adicionaba una compañía de infantería del Regimiento Baconao.
A la una de la tarde se reanudó el
combate en toda la línea. Cuatro horas más tarde, el general Shafter, jefe
máximo de las tropas norteamericanas en Cuba, viendo la enérgica resistencia de
los defensores, ordenó a Lawton que desistiera de su propósito. En realidad,
apoderarse de ese poblado, situado a seis kilómetros de la ciudad de Santiago
de Cuba, había sido idea de Shafter, concebida como una operación que incluía
el ataque simultáneo a la fortaleza situada en la Loma de San Juan, hechos que
antecederían a la toma de Santiago.
Su plan contemplaba que la división
que mandaba el general Lawton atacara primero a El Caney y, una vez cumplida su
misión, se incorporara a las que atacarían San Juan. Pero esta acción debió de
iniciarse sin las tropas de Lawton, atascadas en El Caney.
La defensa de ese poblado incluía el
fuerte El Viso, de cuatro fortines de madera conectados entre sí por trincheras
y alambradas, así como las casas de mampostería del pueblo y la iglesia,
preparadas como obras defensivas. Especialistas militares cuestionan la
necesidad de atacarlo, pues por su ubicación geográfica y las fuerzas conque
contaba, no era significativo en los planes estadounidenses de apoderarse de
Santiago de Cuba. Bastaba, aseguran los expertos, con haberlo flanqueado.
Lawton no acató la orden de retirada
de Shafter. Pasaban ya de las cinco de la tarde cuando se reanudó el ataque. La
artillería de los asaltantes aumentó en eficacia. El Viso comenzó a sentir los
efectos de un tiro certero que aflojó la resistencia, y el jefe de la plaza,
general Joaquín Vara del Rey, no tuvo más alternativa que ordenar a sus hombres
salir del fuerte y buscar refugio en el poblado.
Mientras lo hacían, el general fue
herido en las piernas, y cuando la acción de retirada se convirtió en una fuga
desordenada, los hombres que lo conducían en camilla lo abandonaron a su suerte
en medio del camino. Solo unos pocos oficiales quedaron a su lado. Moriría, en
definitiva, en una emboscada de la caballería cubana. Solo sobreviviría un jefe
español, un teniente coronel que logró llegar a Santiago al frente de unos 60
subordinados.
A las seis de la tarde cayó El Caney
en poder de los asaltantes, tras una carga final en la que participaron
asimismo las tropas mambisas del coronel Carlos González Clavell, que se habían
destacado de manera extraordinaria ese mismo día en el combate de San Juan. Al
cesar esa acción, a las tres de la tarde, González Clavel y sus hombres se
trasladaron a El Caney para reforzar las tropas del general Lawton y fueron los
primeros en entrar al poblado.
La acción arrojó un saldo de 480
bajas para los españoles, 420 para los norteños y unas cien para los cubanos.
Una cronología
Se cumplieron en estos días —10 de
junio de 1898— 118 años del desembarco en las cercanías de Guantánamo del
primer grupo de infantes de marina que tomaría parte en la guerra contra
España. El grueso de la tropa —el quinto cuerpo del ejército de EE. UU.—
demoraría aún unos diez días en desembarcar. Su jefe, el general Shafter, y el
almirante Sampson, jefe de la flota que la transportaba, intercambiaron
criterios con Calixto García. Sampson expresó que el objetivo inicial debía ser
el Morro santiaguero, para apoderarse después de la ciudad.
Calixto tenía un plan bien distinto:
el quinto cuerpo desembarcaría por Daiquirí y atacaría Santiago por el este,
mientras que los cubanos lo harían por el oeste, con lo que se completaría un
cerco que impediría la entrada de refuerzos para las tropas españolas.
Prevaleció el criterio de Calixto,
aceptado por los jefes norteamericanos.
El 20 de junio fuerzas cubanas al
mando del general Agustín Cebreco ocupan posiciones al oeste y al noroeste de
Santiago, a fin de interceptar refuerzos y acometer una operación destinada a
distraer a los españoles. Al día siguiente, el general Castillo Duany y el
coronel González Clavell inician una operación de limpieza de costa que
facilitaría el desembarco. Paralelamente, un fuerte contingente cubano situado
en las afueras de Guantánamo impide la salida de refuerzos españoles desde esa
ciudad, y González Clavell, al frente de unos 530 mambises toma el caserío de
Daiquirí, para asegurar el desembarco de los 16 000 soldados estadounidenses
que arribarían al día siguiente.
Tres mil soldados españoles que el
ataque de González Clavell obligó a retirarse de Daiquirí y Siboney, se
concentran en Las Guásimas. Un general norteamericano se decide a atacarlos y
pide el concurso del aludido oficial cubano. Pero este tiene instrucciones de
Calixto de obedecer solo al general Lawton y, por otra parte, hay una orden de
Shafter que prohíbe el avance norteamericano mientras los abastecimientos no
estén seguros. Aun así el general ataca a los españoles y es duramente
castigado, tanto que se ve obligado a pedir refuerzos al general Lawton. A la
postre no son necesarios.
Inexplicablemente los españoles se
retiran, y Las Guásimas, Sevilla y Redondo quedan en manos de los
norteamericanos.
Mientras eso sucede, el mayor
general Calixto García llega a Siboney y el general Jesús Rabí asume el mando
de las tropas cubanas. Tres días después, el general Shafter desembarca en
Siboney. Pese al hostigamiento constante de los mambises, el coronel Federico
Escario, al frente de una columna de 3 700 hombres que salió de Manzanillo el
27 de junio, logra entrar en
Santiago y refuerza la ciudad sitiada.
Antes, el 1ro. de julio, ocurrieron
las batallas de El Caney y San Juan. Aunque las cifras difieren entre unas
fuentes y otras, el Diccionario enciclopédico de historia militar, de las FAR,
asegura que en esa última acción, entre muertos y heridos, los españoles
perdieron
400 hombres y 650 los
norteamericanos, mientras que las bajas cubanas rondaron las 50. Eran
originalmente, dice la misma fuente, unos 450 efectivos españoles, al mando del
coronel Baquero, 6 000 norteamericanos y unos 600 cubanos mandados por el
inevitable González Clavell.
Los españoles respondieron al fuego
artillero norteamericano con una artillería bien disimulada que empleaba
pólvora sin humo, lo que hizo difícil su localización. Siguió el ataque de la
caballería que, protegida por la frondosa arboleda, logró ponerse a tiro de
fusil de la fortaleza sin ser advertida por sus defensores. Los españoles
respondían con denuedo y las bajas de los atacantes comenzaron a ser numerosas,
pero mantuvieron sus posiciones sin vacilación. Tres altos oficiales
norteamericanos que avanzaban al frente de sus respectivas brigadas cayeron en
combate. Llegaron refuerzos enviados por Shafter y los mambises que, por el
flanco opuesto, guiaban a una tropa de EE.UU., se aproximaron al objetivo bajo
el profuso fuego enemigo que defendía San Juan con firmeza y valor. El
Regimiento 71 de Voluntarios de Nueva York se detuvo ante las descargas del
enemigo y comenzó a retroceder. El cubano González Clavell hizo entonces
avanzar a sus hombres, restableció la línea de fuego y logró que los efectivos
del Regimiento 71 prosiguieran su avance. Eso valió al coronel mambí una
felicitación del mando norteamericano en pleno campo de batalla.
Aflojó la resistencia española y San
Juan cayó en poder de norteamericanos y cubanos. La suerte de Santiago de Cuba
estaba echada.
Últimos días
Ocurre entonces algo inexplicable.
El general Shafter, jefe del ejército norteamericano de tierra, se desmoraliza
al computar el número de bajas sufridas por sus tropas en San Juan y El Caney.
El clima de la Isla, por otra parte, le provoca sufrimientos sin cuento.
Escribe al general Lawton, su
segundo: «Mi presente posición me ha costado mil hombres y no estoy dispuesto a
perder más». Y, en alusión a Santiago, dice al Secretario de Guerra de su país:
«Nosotros tenemos cercada la población por el norte y por el este, pero con una
línea muy débil. Al acercarnos, nos hemos encontrado con que las defensas son
de tal clase y tal fuerza, que será imposible tomarlas por asalto con las
fuerzas que tengo. Estoy considerando seriamente retirarme cinco millas de mi
actual posición y tomar una nueva entre el río San Juan y Jardinero».
En un Consejo de Guerra expuso
Shafter su decisión de retirarse de la lucha y pedir refuerzos a Washington. Su
oficialidad rechazó el propósito «peligroso en extremo porque podría aumentar
la moral del enemigo y sembrar el desconcierto entre el cuerpo expedicionario».
Shafter se vio obligado a presentar
su renuncia y entregar la jefatura a Lawton. El alto mando norteamericano se
sintió entonces tan desorientado, que llegó a proponerle al mayor general
Calixto García que asumiera el mando de las operaciones, lo que el veterano
mambí no aceptó porque de hacerlo se hubiera convertido en el ejecutor de la
política norteamericana en Cuba. Antes bien, insistió con Shafter en las
ventajas de no interrumpir el ataque, lo que hubiera dado a los españoles la
oportunidad de reorganizarse y enviar a Santiago refuerzos considerables.
Ya para entonces el Ejército
Libertador había desatado una ofensiva general en el oeste de Santiago, con lo
que se completó el cerco. Los mambises se apoderaron sucesivamente de San
Vicente, Dos Bocas, Boniato y Cuabitas y de las estratégicas alturas de la Loma
de Quintero, desde las que se dominaba la ciudad por entero. Las guarniciones
españolas emplazadas en esos puntos, los abandonaban precipitadamente.
Eso ocurría el 2 de julio. El 3, el
almirante Pascual Cervera recibía la orden de romper, con su escuadra, el sitio
que a la bahía de Santiago había puesto la flota del almirante Sampson, un
hecho de enorme trascendencia militar que precipitó el fin de la contienda.
Así lo veremos la próxima semana.
Ciro Bianchi
Ross
domenica 19 giugno 2016
Ricevo da Luca Lombroso: Clima è allarme!
Una mia intervista
"leggera" con, in anteprima, il titolo del mio nuovo libro
Clima: è allarme!
(2016 Giugno 17) - E’ troppo presto per dire che tempo farà quest’estate ma a
preoccupare sono i cambiamenti climatici: “ci dobbiamo abituare a vivere in un
ambiente più estremo, e anche mediamente più caldo” sostiene Luca Lombroso dell’Osservatorio
Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia. In base alle sue
simulazioni, senza azioni virtuose di limitazione delle emissioni serra, il
riscaldamento aumenterebbe di quattro
gradi e in quel caso il mare potrebbe arrivare fino a Ravenna e Ferrara. Sarà
un’estate pazzerella? Altro ci deve preoccupare... E’ bastato un inizio di
giugno variabile per scatenare l’inevitabile ridda di previsioni catastrofiche
sull’estate alle porte. A riportare tutti all’ordine è Luca Lombroso: “è impossibile fare previsioni sul meteo dei
prossimi mesi” puntualizza sottolineando ancora una volta il vero grande
problema: l’emergenza ambientale. Lombroso ha partecipato a Parigi alla
Conferenza delle Parti (COP 21) delle Nazioni Unite per il Clima, l’evento dedicato
al clima e al riscaldamento globale ed è in uscita il suo ultimo libro
Ciao Fossili,
Cambiamenti climatici resilienza e futuro
nell’era post carbon Edizioni Artestampa
dedicato al tema
della transizione, appunto, al futuro post combustibili fossili alla luce di
due importanti novità, l’enciciclica Laudato Si di Papa Francesco e i risultati
di COP 21 di Parigi. Lombroso, la variabilità di questo inizio di giugno
potrebbe caratterizzare l’intera estate? “E’ troppo presto per dirlo. Le
previsioni si possono formulare fino a cinque/sette giorni, tendenze indicative
possono arrivare fino a otto/dieci giorni e quindi è impossibile fare una previsione precisa di
come sarà la restante parte dell’estate. Negli ultimi anni abbiamo assistito a
grandissimi estremi in un verso e nell’altro, con la prevalenza sempre del
caldo. Non mi stupirei però di questa situazione di variabilità: è capitato in
anni recenti che si siano verificate situazioni di caldo precoce ma il mese di
maggio appena trascorso non è stato così anomalo come sembra”. Ci dobbiamo
abituare a un clima generalmente più caldo? “Ci dobbiamo abituare a vivere in
un ambiente più estremo, e anche mediamente più caldo. Negli ultimi anni ci
siamo un po’ assuefatti al caldo e consideriamo normale che ci siano 27 gradi
già a maggio e a inizio giugno, che però non sono periodi caldi. L’estate
meteorologica, lo ricordiamo, inizia il 1° giugno, quella astronomica il 21. Il
mese di maggio con 30 gradi fino al 2000 era l’eccezione, non la norma come è
stato spesso invece dal 2001 in poi, con anni come il 2006 e il 2009 quando il caldo è stato esagerato e duraturo
come nel 2003. Negli ultimi anni, nel mese di maggio non ci sono state
particolari ondate di caldo precoce e basta andare solo a tre anni fa per trovare un mese di maggio più
fresco di quello appena trascorso. Certo se guardiamo l’andamento dall’inizio
del 2016, qui all’Osservatorio Geofisico del Dipartimento di Ingegneria
dell’Università, vediamo che ci sono stati molti momenti caldi, anche lunghi e precoci:
addirittura la giornata dell’11 gennaio è stata più calda di alcune di maggio.
Si tratta di sbalzi a cui la natura e il corpo umano non rispondono bene”. In
pochi anni ci sono stati cambiamenti climatici evidenti? “Siamo di fronte a un
problema planetario, lo dimostra la recente conferenza di Parigi a cui ho
partecipato, ma anche epocale perché è causato dall’uomo e perché il
cambiamento avviene in poco tempo. Dobbiamo immaginare che, in linea con i
cambiamenti che ci sono stati a livello globale, già dagli Anni Novanta nel nostro territorio è come se fosse
scattata una molla. Siamo entrati in una nuova normalità fatta di temperature
mediamente più alte e con un conseguente problema che ormai è vistoso e indiscutibile:
l’aumento di frequenza e intensità dell’ondata di caldo estivo e l’andamento
anomalo delle piogge per cui si
alternano precipitazioni anche intense a periodi in cui la pioggia manca
completamente. Basta andare allo scorso dicembre quando praticamente non è
piovuto e poi fra gennaio e febbraio è caduta tutta la pioggia mancata nei mesi
precedenti. Quest’estremizzazione (è già un dato di fatto) si ripercuote
naturalmente sull’uomo e sulle sue attività ma naturalmente anche sulla flora,
sulla fauna, sull’agricoltura e sull’economia perché il turismo vorrebbe
situazioni di meteo stabile. Già accetta difficilmente la normale variabilità
figuriamoci questi eccessi sempre più frequenti. E’ un po’ per questo che poi
si va a cercare come colpevole (che poi colpevole non è) il meteorologo e le previsioni
se mancano i turisti nei fine settimana sulle spiagge o sulle piste da sci
durante l’inverno. Non è il meteorologo il problema! E non dimentichiamoci che
con questi fenomeni estremi non si scherza: si rischia la vita. Lo dimostra ciò
che è successo recentemente a Chioggia Sottomarina con un tornado vero e
proprio che ha devastato le spiagge”. Rispetto ai cambiamenti climatici, quanto
dobbiamo essere preoccupati da uno a dieci? “Io direi dieci. E’ positiva la
decisione della Conferenza di Parigi ma ora si tratta di attuarla e non solo a
livello globale. COP 21 chiede un impegno agli Stati ma anche a livello
subnazionale, alle realtà e alle amministrazioni locali. Cito, tra gli esempi,
quello che stiamo facendo a Carpi e a Campogalliano come Movimento di Città di
Transizione (https://campogallianotransizione.wordpress.com - https://carpitransizione.wordpress.com), cioè come cittadini che stanno cercando di passare a
un’era post carbon, caratterizzata da comunità resilienti”. Che cosa significa?
“Le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera sono oltre 400 parti per
milione ed è un fatto nuovo nell’intera storia dell’evoluzione umana. Le
conseguenze non sono ben chiare e solitamente si pensa che sia qualcosa di
lontano da noi, un problema di orsi polari. Con il ritiro dei ghiacci del Polo
Nord (in queste settimane sono ai minimi storici e addirittura c’è il rischio
che questa sia la prima estate che vede il Polo Nord libero da ghiacci) oltre
ad aprirsi contenziosi internazionali, per esempio, sulle nuove rotte marine e
nelle esplorazioni petrolifere, si verifica un’alterazione della circolazione
generale dell’atmosfera. E’ possibile che, in conseguenza della mancanza di
ghiaccio al Polo Nord, ci ritroviamo con climi più estremi: inverni anche più
brutali e gran caldo improvviso. Tutto ciò perché la mancanza di ghiaccio
sostanzialmente va a cambiare la circolazione generale dell’atmosfera. Di
fronte a questi rischi, ci sono gruppi di cittadini che dal basso hanno pensato
di agire perché i grandi potenti arrivano tardi
e l’azione dei singoli è troppo limitata: nel mezzo ci sono le comunità che possono affrontare questi problemi di
resilienza, cioè la capacità di convivere con un clima più brutale, e sanno
come comportarsi quando c’è un’alluvione, un’allerta meteo o un temporale
forte. Allo stesso tempo avviano piani di decrescita energetica e di
conversione a fonti rinnovabili”. Questo presuppone però una grande
consapevolezza del problema… “E’ ovvio la consapevolezza è il primo dei
problemi e il tempo stringe. C’è da lavorare molto nelle scuole per le giovani
generazioni perché sono quelle che vengono coinvolte dalla Conferenza di Parigi:
se tali decisioni saranno attuate, traghetteranno la società a qualcosa di
diverso e, credo, migliore. Ma allo stesso tempo non dobbiamo illuderci che
basti agire nelle scuole perché l’educazione ambientale deve coinvolgere i
consigli regionali, comunali, il parlamento e anche i consiglieri
d’amministrazione delle aziende”. E se non faremo nulla a cosa andremo
incontro? “Se nel corso di questo secolo (quindi è una cosa che riguarda i
nostri bambini), non si fa niente si va
verso un riscaldamento del pianeta oltre i 4/5 gradi e la Banca Mondiale
ritiene questo scenario incompatibile con la civiltà globale interconnessa. Di
fatto vaste zone andrebbero incontro al collasso e, come sono crollati l’Impero
romano e quello dei maya nell’America centrale, a causa anche di cambiamenti
ambientali, così potrebbe capitare anche a noi. Città come New York, Londra e
non solo le coste del Bangladesh o piccole isole come le Maldive sarebbero
sommerse dall’acqua scatenando ondate migratorie. Sul nostro territorio avevo provato
a fare alcune simulazioni: se conteniamo il riscaldamento entro i due gradi di
temperatura (meglio ancora 1,5) diciamo che avrebbero dei grossi problemi
Venezia (che è quasi condannata) ma anche le zone costiere della riviera, però
i danni sarebbero di entità tutto sommato accettabile e potremmo conviverci con
resilienza. Se il riscaldamento arrivasse a quattro gradi il mare potrebbe
arrivare fino a Ravenna e Ferrara”. Sara Gelli
Luca LOMBROSO
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