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sabato 18 giugno 2016
venerdì 17 giugno 2016
giovedì 16 giugno 2016
mercoledì 15 giugno 2016
lunedì 13 giugno 2016
Lettere con andata e ritorno, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 12/6/16
Lo
scriba vuole dedicare la pagina di oggi a dare risposta, fino dov’è possibile,
a parte dell’abbondante corrispondenza ricevuta.
Un
lettore che si firma solo col nome – Emiliano – nel suo messaggio si lamenta
dello stato deplorevole in cui si trova la fortezza matanzera El Morrillo, dove
cadde in combattimento Antonio Guiteras, mentre Arlan Sánchez inquisisce sul
numero di presidenti in carica che hanno visitato Cuba, prima della vittoria
della Rivoluzione. José Horacio Rodríguez formula una strana domanda sulle
scarpe a due toni, sulle quali non ho niente da dire. Guillermo Ramírez di
Holguin, mi chiede che scriva sul giornalista Mario Kuchilán. Lo compiacerò
prossimamente.
María
Elena Menéndez a nome, dice, di un gruppo di persone, esprime il suo disaccordo
con la possibile vendita della tomba in cui riposano i resti di Alberto Yarini
che secondo lei, ha nei piani la vedova di un discendente del famoso prosseneta
Yarini “appartenente al nostro patrimonio di cubanìa e identità”, dice María
Elena e aggiunge che la tomba è curata da devoti “che la abbelliscono e
adornano ebbene, Yarini, come Amelia (Goyri), concede miracoli”.
Altri
tre lettori sembrano essersi messi d’accordo con le loro richieste. Queste
ruotano attorno a edifici coloniali. Yamilé Cándales vorrebbe dettagli sul
Palazzo de Balboa mentre sul Palazzo de Pedroso, sede del Palazzo
dell’Artigianato, si interessa il suo amministratore, José Enrique Hernández,
mentre Gustavo Rodríguez chiede i precedenti dell’edificio che ospita la
Società Rosalía de Castro, sito in Egido e Monte all’Avana. Dice: “ Conversando
con un amico che fa parte del personale di sicurezza dell’immobile, mi
raccontava le curiose e assurde storie che lì raccontano agli stranieri che lo
visitano, le guide turistiche che lavorano in proprio”.
Visita al Morrillo
Il
lettore Emiliano racconta che in compagnia di suo figlio di dieci anni, ha
visitato El Morrillo. Aveva questo debito con se stesso. È situato allo sbocco
del río Canímar e prossimo all’autostrada Matanzas-Varadero. Fu una batteria di
cannoni che l’ingegner Francisco Baldenoche eresse nel 1807, nello stesso luogo
dove c'era una torre dal XVIII secolo. L’installazione acquisì significato
storico per essere stata scenario storico della morte di Guiteras e del suo
compagno, il venezuelano Carlos Aponte.
Lì
riposano i resti dei due combattenti. Emiliano si sentì emozionato e volle
trasmettere il sentimento a suo figlio, a cui spiegò chi era Guiteras e il suo
significato rivoluzionario. Però la delusione non tardò a colpirlo. Non poteva
spiegarsi l’abbandono che avvertì nel luogo che gli dissero, è in restauro da
due anni e non si sa quando si finisce. I custodi sono ansiosi che termini il
restauro del museo, “se così si può chiamare un posto dove c’è solo una foto di
Guiteras e un’altra di Aponte”.
Emiliano
termina il suo messaggio: “Per mantenera la memoria storica della nostra
Patria, dobbiamo influire, in un modo o nell’altro perché si concludano le
opere di restauro a El Morrillo. Non importa quali siano le difficoltà o carenze.
Fra l’altro, è inglobato in un bel posto, un posto che perciò può risultare
attraente anche per il turismo”.
Presidenti a Cuba
In
questi giorni, in occasione del Vertice del Caribe, si è rivelato che solo nel
trascorso dell’anno passato sono venuti a Cuba oltre 30 capi di Stato. Non so
cosa rispondere al lettore Anlan Sánchez. Prima della vittoria della
Rivoluzione furono molto pochi i presidenti in carica che sono venuti. Lo
scriba si spreme la memoria e ne ricorda solo due: Calvin Coolidge, degli Stati
Uniti e Romulo Gallegos del Venezuela che i militari abbatterono ed espulsero
dal Paese, ma non poterono obbligarlo a dimettersi. Da lì che arrivasse a Cuba
come presidente del grande Paese sudamericano. Di sovrani detronizzati ne
vennero vari e si ospitarono tutti all’Hotel Nacional. Venne anche il principe
Baldovino che giunse ad essere re del Belgio e don Juan de Borbón di Spagna, un
re che non fu mai.
Nemmeno
i presidenti cubani viaggiavano tanto mentre restavano al potere. Gerardo
Machado visitò gli Stati Uniti come presidente eletto e vi tornò essendo già in
carica, anche Ramón Grau fu a washington come presidente eletto e come tale
carlos Prío andò in Messico. Già nell’esercizio della sua carica Prío ando in
Guatemala di nascosto, senza l’autorizzazione del Congresso, al fine di dare il
suo appoggio al Governo guatemalteco minacciato dall’aggressione nordamericana
istigata dalla United Fruit. Fulgencio Batista fu presente al Vertice
Panamericano di Panama, nel 1956 e almeno una volta, essendo presidente, si
recò a Daytona Beach in Florida, dove aveva una casa, per celebrare il
cosiddetto “Giorno di Batista”.
Per
certo, sulla visita di Prío in Messico c’è un aneddoto delizioso. Già in
esilio, Max Lesnick, direttore dil pi Radio Miami e delegato dell’Alleanza
Martiana – ex presidente della Gioventù Ortodossa – una volta chiese a Prío,
suo vecchio nemico, quale fu il momento più imbarazzante della sua vita e Prío
gli rispose che fu in Messico in occasione della sua visita come presidente
eletto.
Il
politico cubano visitò Il Presidente del Messico nella sua residenza ufficiale
e questi, alla fine lo invitò a un giro per la capitale messicana. A quei tempi
il protocollo non era tanto stretto come quello di oggi e ai presidenti aztechi
piacevano quelli che il giornalista Luis Suárez chiamava “bagni di popolo”.
Uscirono dal Palazzo in un auto decapottabile: Prío e sua moglie, Mary Tarrero
e il presidente Manuel Ávila Camacho con la sua. L’auto si fermò a un semaforo
e un messicano qualunque si rivolse al presidente del suo Paese: -Senta don
Manuel, lasci quella vechia e si cerchi una donna carina come doña Mary che è
molto bella.
Mary
Tarrero era di certo molto bella e lo fu fino alla fine quando, già con la
mente ferita, manteneva intatta la sua bellezza. Ma in quel momento, così
confessò a Max Lesnik, Carlos Prío non seppe dove nascondere la faccia.
In
quanto alla vendita della tomba di Yarini, lo scriba pensa che non ci sia
niente da fare se la presunta discendente ne ha titolo di proprietà. Però
varrebbe la pena di dare battaglia.
La reliquia più bella
Lo
storico Emilio Roig considera come una delle reliquie più belle
dell’architettura coloniale, il Palazzo de Pedroso nella calle Cuba tra
Cuarteles e Peña Pobre. Fu costruito nel 1780 da don Mateo Pedroso, reggente e
sindaco ordinario dell’Avana. Consta di quattro piani compreso l’interrato e
sulla sua facciata monumentale e sobria allo stesso tempo, mostra un balcone
lungo, di legno, di tipo moresco. Nel 1840 la magione fu affittata a don Juan
Montalvo y O’ Farril, zio della famosa Contessa di Merlin che visse in questa
casa durante il suo soggiorno all’Avana, nel 1844. Dieci anni dopo, fu sede
della Pretura, sloggiata dal Palazzo dei Capitani Generali e che poi passerà al
carcere di Tacón, alla fine del Paseo del Prado. Nel 1898, lì si installò il
comando di Polizia della città e torno nelle mani di un discendente della
famiglia dei proprietari d’origine negli anni ’30 dello scorso secolo. Fu
allora che Joaquín Weiss vi fece un ammirevole lavoro di restauro.
Il
Palazzo de Balboa, del quale si interessa Yamilé Cándales, fu costruito dai
marchesi con questo nome e si trova nell’isolato compreso tra le clles Egido,
Zulueta, Gloria e Apdaca. Il già citato Emilio Roig gli celebra, innanzitutto,
il suo stile architettonico. Edificato nel 1871, vale a dire nel pieno
splendore dello stile neoclassico, si separa quasi completamente dalle line di
questa tendenza. Pedro Tomé Verecruisse, l’architetto che lo progettò sembra
che si sia ispirato, nell’erigerlo, nelle belle palazzine d’influenza francese
che erano di oda allora nel Paseo de la Castellana di Madrid, alcune delle
quali forse, furono proprio opera dello stesso Tomé Verecruisse.
Si
distingue anche per essere il primo edificio, di carattere privato che si
progettò dentro alla città per occupare un intero isolato, tutto circondato da
giardini e con facciate ai quattro lati, seppure nessuna col portico.
Lì
visse e da lì uscì per sposarsi Amelia Goyri. Era nipote della Marchesa e passò
alla posterità come La Milagrosa. Si tratta di una santa e per questo la sua
tomba, nel cimitero di Colón è piena di offerte e messsaggi di gratitudine di
coloro che in un momento di sconforto implorarono il suo aiuto e lei concesse
ciò che le chiedevano, quasi sempre il ritrovamento della persona amata e il
ristabilimento della relazione amorosa. Il suo è il sepolcro più visitato della
necropoli di Colón.
L’attuale
Museo della Rivoluzione si cominciò a costruire come sede del Governo
Provinciale dell’Avana. Mariana seba, figlia del maggior generale Mario García
Menocal, presidente della Repubblica, si innamorò dell’edificio e riuscì a far
si che suo marito lo confiscasse e pagasse al governo Avanero. Fu allora che
l’edificio al numero uno della calle Refugio divenne il Palazzo Presidenziale,
studio e residenza ufficiale dei presidenti cubani e il Governo Provinciale si
installò nel Palazzo de Balboa. All’inizio della decade del 1960, questa forma
di governo e l’immobile accoglie la Giunta di Coordinamento, Esecuzione e
Ispezione della provincia, fino a che da ingresso al Comitato Statale della
Scienza, Tecnica e Medio Ambiente. Successivamente accoglie la direzione di
un’impresa commerciale.
Per finire parleremo del palazzo dei conti di Casa Moré,
poi chiamato palazzo dei marchesi di Villalba. Sito di fronte alla piazzetta
delle Orsoline che occupa un’area di 2.000 metri quadrati. Fu costruito nel
1872 ed è opera dell’ingegner Eugenio Rayneri. In questo edificio ebbe sede il
Senato del Governo Autonomo. Successivamente lì ci fu la sede dell’impresa
inglese dell’Unione Ferroviaria e oggi ospita la Società Culturale Spagnola.
Cartas de ida y vuelta
·
·
Ciro Bianchi Ross •
11 de Junio del 2016 19:53:45 CDT
11 de Junio del 2016 19:53:45 CDT
Quiere el escribidor dedicar la página
de hoy a dar respuesta, hasta donde es posible, a parte de la abundante
correspondencia recibida.
Un lector que firma solo con su nombre
de pila —Emiliano— se queja en su mensaje electrónico del lamentable estado en
que se encuentra la fortaleza matancera de El Morrillo, donde cayó en combate
Antonio Guiteras, mientras que Anlan Sánchez inquiere sobre el número de
mandatarios en ejercicio que visitaron Cuba antes del triunfo de la Revolución.
Y José Horacio Rodríguez formula una extraña pregunta sobre los zapatos de dos
tonos, de los que no tengo nada que decir. Guillermo Ramírez, de Holguín, me
pide que escriba sobre el periodista Mario Kuchilán. Lo complaceré
próximamente.
María Elena Menéndez, a nombre, dice, de
un grupo de personas, expresa su inconformidad con la probable venta de la
tumba donde reposan los restos de Alberto Yarini que, según ella, tiene en
planes la viuda de un descendiente del famoso proxeneta. Yarini «pertenece a
nuestro patrimonio por su cubanía e identidad», dice María Elena y añade que su
tumba es atendida por devotos «que la embellecen y adornan, pues Yarini al
igual que Amelia (Goyri) concede milagros».
Otros tres lectores parecen haberse
puesto de acuerdo en sus peticiones. Estas giran en torno a edificios
coloniales. Yamilé Cándales precisa detalles sobre el Palacio de Balboa; y
sobre el Palacio de Pedroso, sede del Palacio de la Artesanía, se interesa el administrador
de este, José Enrique Hernández, en tanto que Gustavo Rodríguez requiere los
antecedentes del edificio que alberga a la sociedad Rosalía de Castro, sita en
Egido y Monte, en La Habana. Dice: «Conversando con un amigo que forma parte
del cuerpo de seguridad del inmueble, me contaba las curiosas y absurdas
historias que allí cuentan a los extranjeros que lo visitan los guías
turísticos por cuenta propia».
Visita al morrillo
Relata el lector Emiliano que en
compañía de su hijo de diez años visitó El Morrillo. Tenía esa deuda consigo
mismo. Está situado a la entrada del río Canímar y próximo a la Autopista
Matanzas-Varadero. Fue una batería de cañones que el ingeniero Francisco
Baldenoche erigió en 1807 en el mismo lugar donde hubo un torreón desde el
siglo XVIII.
La instalación adquirió significación
histórica por haber sino escenario de la muerte de Guiteras y de su compañero,
el venezolano Carlos Aponte.
Reposan allí los restos de los dos
combatientes. Emiliano se sintió emocionado y quiso transmitir el sentimiento a
su hijo, a quien explicó quién era Guiteras y su significación revolucionaria.
La decepción empero no tardó en embargarlo. No podía explicarse el abandono que
advirtió en el lugar que, le dijeron, lleva dos años en una restauración que no
tiene para cuándo acabar. Las veladoras están ansiosas porque concluya la
restauración del museo, «si así se puede llamar a un lugar donde solo hay una
foto de Guiteras y otra de Aponte».
Finaliza Emiliano su mensaje: «Para
mantener la memoria histórica de nuestra patria, debemos influir de una forma u
otra para que se concluyan las obras de restauración en El Morrillo. No importa
cuáles sean las dificultades y carencias. Está enclavado, por otra parte, en un
bello paraje; un sitio que por eso puede también resultar atractivo para el
turismo».
Presidentes en Cuba
En estos días, en ocasión de la Cumbre
del Caribe, se reveló que solo en el transcurso del último año vinieron a Cuba
más de 30 jefes de Estado. No sé qué responder al lector Anlan Sánchez. Antes
del triunfo de la Revolución fueron muy pocos los mandatarios en ejercicio que
vinieron. El escribidor se estruja la memoria y solo recuerda a dos: Calvin
Coolidge, de EE.UU., y Rómulo Gallegos, de Venezuela, a quien los militares
derrocaron y sacaron del país, pero no pudieron obligar a renunciar. De ahí que
llegara a Cuba como Presidente del gran país sudamericano. Monarcas destronados
vinieron varios, y se alojaron todos en el Hotel Nacional. Vino también el
príncipe Balduino, que llegaría a ser rey de Bélgica, y don Juan de Borbón, de
España, un rey que nunca llegó a serlo.
Tampoco los presidentes cubanos viajaban
mucho mientras permanecían en el poder. Gerardo Machado visitó EE. UU. como
presidente electo y volvió otra vez, siéndolo ya en ejercicio. Ramón Grau
también viajó a Washington como presidente electo, y como tal fue Carlos Prío a
México. Ya en el ejercicio de su cargo, Prío viajó a Guatemala, oculto y sin
autorización del Congreso, a fin de dar su apoyo al Gobierno guatemalteco
amenazado por la agresión militar norteamericana instigada por la United Fruit.
Fulgencio Batista estuvo presente en la Cumbre Panamericana de Panamá, en 1956,
y por lo menos una vez, siendo presidente, viajó a Daytona Beach, en Florida,
donde tenía una casa, a celebrar el llamado «Día de Batista».
Por cierto, de la visita de Prío a
México en 1948 hay una anécdota deliciosa. Ya en el exilio, Max Lesnik,
director de Radio Miami y delegado de la Alianza Martiana —expresidente de la
Juventud Ortodoxa— preguntó una vez a Prío, su antiguo enemigo, cuál era el
momento más embarazoso de su vida, y Prío le respondió que en México, en
ocasión de su visita como presidente electo.
Visitó el político cubano en su residencia
oficial al Presidente de México y este al final lo invitó a un paseo por la
capital mexicana. Cuando aquello el protocolo no era tan estricto como el de
hoy, y los mandatarios aztecas gustaban de lo que el periodista Luis Suárez
llamaba «esos baños de pueblo». En un auto descapotable salieron de Palacio
Prío y su esposa, Mary Tarrero, y el presidente Manuel Ávila Camacho con la
suya. Se detuvo el convertible ante un semáforo, y un mexicano de a pie espetó
al mandatario de su país:
—Oiga, don Manuel, deje a esa vieja y
búsquese a una mujer tan bonita como doña Mary, que esa sí que es linda.
Era ciertamente muy linda Mary Tarrero y
lo siguió siendo hasta el final cuando, ya con la mente herida, mantenía
intacta su belleza. Pero en aquel momento, y así se lo confesó a Max Lesnik,
Carlos Prío no supo dónde meter la cara.
En cuanto a la venta de la tumba de
Alberto Yarini, piensa el escribidor que no hay nada que hacer si la presunta
descendiente tiene el título de propiedad. Pero bien valdría la pena dar la pelea.
La más bella reliquia
El historiador Emilio Roig considera
como una de las más bellas reliquias de la arquitectura colonial el Palacio de
Pedroso, en la calle Cuba entre Cuarteles y Peña Pobre. Fue construido en 1780
por don Mateo Pedroso, regidor y alcalde ordinario de La Habana. Consta de
cuatro pisos, incluyendo el entresuelo, y su fachada, monumental y sobria a la
vez, luce un balcón corrido, de madera, de tipo morisco. En 1840 la mansión fue
alquilada a don Juan Montalvo y O’Farrill, tío de la famosa Condesa de Merlin,
que vivió en esa casa durante su viaje a La Habana, en 1844. Diez años más
tarde fue sede de la Audiencia Pretorial, desalojada del Palacio de los
Capitanes Generales y que pasaría luego a la Cárcel de Tacón, al final de Paseo
del Prado. En 1898 se instaló allí la jefatura de Policía de la ciudad, y
volvió a manos de un descendiente de la familia de los propietarios originales
en los años 30 del siglo pasado. Fue por entonces que Joaquín Weiss hizo allí
un admirable trabajo de restauración.
El Palacio de Balboa, por el que se
interesa Yamilé Cándales, fue construido por los marqueses de ese nombre y se
ubica en la manzana enmarcada por las calles Egido, Zulueta, Gloria y Apodaca.
El ya citado Emilio Roig le celebra, en primer término, su estilo
arquitectónico. Edificado en 1871, es decir en pleno esplendor del estilo
neoclásico, se aparta casi totalmente de las líneas de esa tendencia. Pedro
Tomé Verecruisse, el arquitecto que lo proyectó, se inspiró al parecer para
erigirlo en los bellos palacetes con marcada influencia francesa que entonces
estaban de moda en el Paseo de la Castellana, de Madrid, algunos de los cuales
quizá fueran obra del propio Tomé Verecruisse.
Se distingue asimismo por ser el primer
edificio de carácter particular que, dentro de la ciudad, se proyectó para que
ocupara por entero una manzana, todo rodeado de jardines y con fachadas por los
cuatro costados, aunque sin portal en ninguna.
Allí vivió y de allí salió para casarse
Amelia Goyri. Era sobrina de la Marquesa y pasó a la posteridad como La
Milagrosa. Se trata casi de una santa y por eso su tumba, en el cementerio de
Colón, está llena de ofrendas y mensajes de agradecimiento de aquellos que en
un momento de angustia imploraron su ayuda y ella les concedió lo que le
pidieron, casi siempre el rencuentro con la persona amada y el restablecimiento
de la relación amorosa. Es el suyo el panteón más visitado de la necrópolis de
Colón.
El actual Museo de la Revolución empezó
a construirse como sede del Gobierno Provincial de La Habana. Mariana Seba,
esposa del mayor general Mario García Menocal, presidente de la República, se
enamoró del edificio y logró que su esposo lo confiscara y pagara al Gobierno
habanero. Fue entonces que el edificio de la calle Refugio número 1 pasó a ser
Palacio Presidencial, despacho y residencia oficial de los mandatarios cubanos,
y el Gobierno Provincial se instaló en el Palacio de Balboa. A comienzos de la
década de 1960 se extingue esa forma de gobierno y el inmueble acoge a la Junta
de Coordinación, Ejecución e Inspección de la provincia, hasta que da cabida al
Comité Estatal de Ciencia, Técnica y Medio Ambiente. Acoge después a la
dirección de una empresa comercial.
Hablaremos por último del palacio de los
condes de Casa Moré, luego llamado palacio de los marqueses de Villalba.
Situado frente a la plazuela de las Ursulinas, ocupa un área de 2 000 metros
cuadrados. Fue construido en 1872 y es obra del ingeniero Eugenio Rayneri.
Funcionó en este edificio el Senado del Gobierno Autonómico. Luego estuvo allí
la empresa inglesa de los Ferrocarriles Unidos y hoy da albergue a la Sociedad
Cultural Española.
domenica 12 giugno 2016
giovedì 9 giugno 2016
martedì 7 giugno 2016
L'Avana, da oggi, ufficialmente fra le 7 città "Meraviglia del Mondo
Oggi
l’Avana ha ricevuto ufficialmente l’insegna di una delle 7 Città Meraviglia del
Mondo dall’associazione svizzera che ha patrocinato il referendum su scala
mondiale attraverso sondaggi. Feste e serate di gala proseguono fino al giorno
11. Qua resta sempre il mistero sulle altre sei...
lunedì 6 giugno 2016
Arechabala, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juventud Rebelde del 5/6/16
Gli
specialisti assicurano che Cuba fu il primo Paese a dare al rum la categoria di
classico.
Curiosamente
Cuba entrò tardi nel panorama della fabbricazione internazionale del rum. Ma si
dispose in fretta ad accorciare la strada. Se nel 1778 l’Isola esportò circa
230.000 litri di aguardiente, già all’inizio del XIX secolo, solo 20 o 25 anni
dopo,si producevano oltre 4,5 milioni di litri. Nel 1861 esistevano 125
distillerie, nel maggiore dei casi erano parte di zuccherifici e in generale
per operazioni individuali. Era l’epoca in cui Cuba cominciava a produrre un
terzo dello zucchero mondiale.
Il rum
cubano segna un’epoca nuova, un stile nuovo nella fabbricazione dei rum. Nella
decade del 1860, si poteva bere una gamma completa di rum “britannici”, prodotti
in Guyana, Giamaica e Barbados, a partire dalla melassa e in alambicchi a
spirale. Fu allora che Cuba importò una nuova tecnologia, il cosiddetto
alambicco continuo o di colonna che permise ai distillatori cubani creare un
nuovo stile di rum, più leggero e dolce.
Il
primo fu Facundo Bacardí a Santiago de Cuba. Con la sua innovazione, Cuba,
cominciò a distinguersi dal resto dei Caraibi e anche se gli alambicchi a
colonna apparvero molto presto nel resto delle Antille, il rum leggero cubano
aveva già vinto la battaglia della concorrenza.
Nel
1878 entrò nel gioco il giovane basco José Arechabala Aldama che comprò a rate
dagli eredi di Joauquín de Zulueta un alambicco posto nella città matanzera di
Cárdenas. Distillava il miele di sette o otto zuccherifici della zona, riceveva
la materia prima dalla zona di Sagua la Grande e Yaguajay e febbraio ed era
valutato in 33.000 pesos in oro e 167.000 pesos in biglietti. Il 1° febbraio
del 1880, il nuovo proprietario lo inscriveva nel Registro Mercantile col nome
di La Vizcaya. A partire dal 18 gennaio del 1821 opererà con la ragione sociale
di J. Arechabala S.A. Il fondatore
dell’azienda presiedeva la Compagnia e come azionisti erano presenti i suoi
figli: Juana, Carmela, Mercedes, José Antonio e José Nicolás. Giungerà ad
ammassare un capitale enorme nel campo della distillazione di alcol e la
raffinazione di zuccheri, creerà il famoso rum Havana Club.
Nel
1958, questo complesso industriale occupava un’area di 600.000 metri quadrati e
lo conformavano impianti di confetture, lievito, sciroppi e altre produzioni
derivate dallo zucchero. Contava di una fabbrica di liquori, magazzini per lo
zucchero, terminal marittima, acquedotto proprio, servizio di cabotaggio e
cantiere navale. Nelle sue cantine si mantenevano, in modo permanente, due
milioni di litri invecchiando in barili di rovere.
Produceva
anice, grappa, creme, cognac e gin con la marca Arecehebala, i cognac marca
Relícario e Tres Arbolitos, il rum invecchiato Arechabala 75 e altri tipi di
rum, oltre al già citato Havana Club.
D’altra
parte, rappresentava il whisky Chivas Regal e altre bevande d’importazione.
Della
Compagnia, facevano parte le centrali
zuccheriere Por Fuerza e Progreso, entrambe nella provincia di Matanzas.
Il giovane basco e il basco
José
Arechabala Aldama nacque a Gordejuela, Biscaglia, il 9 novembre del 1847. Le
fonti consultate non parlano della sua infanzia né della sua adolescenza, ma di
sicuro non erano certo splendide, ebbene, con solo 15 anni cercò nuovi orizzonti
a Cuba. Giunse sull’Isola il 21 settembre 1863 e prima lavorò col suo parente
Antonio Galíndez Aldama, residente a Matanzas, poi nell’azienda Bea, dedicata
alla rifinitura d’imbarcazioni, ferramenta e come banca, qualcosa di frequente,
allora, quando le aziende assumevano le parti delle banche.
Julian
de Zulueta era già, a quei tempi, un importante uomo d’affari e una figura
politica di prim’ordine. Marchese di Alava. Visconte di Casa Blanca. Colonnello
delle Milizie. Colonnello dei Volontari, Console del Tribunale Reale per il
Commercio. Consigliere d’Amministrazione d’Industria. Consigliere e sindaco
dell’Avana in diverse occasioni. Deputato alle Cortes. Senatore Vitalizio del
Regno. Governatore Politico interinale dell’Isola di Cuba.
Era
proprietario di diversi zuccherifici. Azionista della ditta costruttrice della
ferrovia di Marianao e iniziatore. Contrattista per l’abbattimento delle mura
del’’Avana ed iniziatore della costruzione dell’edificio che sarà conosciuto
come La Manzana de Gómez, dove si installerà – fu idea sua – un gran centro
commerciale simile agli attuali, dove avrebbero coinciso diversi esercizi.
Costruttore con la sua propria pecunia della ferrovia Zaza-Caibarién.
Arricchito con la tratta degli schiavi e dei cinesi, fece parte del gruppo dei
possidenti e prestatori di soldi di origine spagnola che assunse il controllo
del Diario de la Marina e lo convertì in portavoce dei loro interessi. Una
città della regione centrale e una strada avanera portano il nome di chi fu
nemico recalcitrante dell’indipendenza di Cuba e uno dei grandi promotori del
capitalismo nell’Isola. Non si può scrivere la storia cubana del XIX secolo
senza menzionarlo.
Come
intrecciarono la loro relazione Zulueta e Arechabala?
L’importanza
economica e commerciale che acquisì il porto di Cárdenas da dove Zulueta
spediva le produzioni delle sue centrali, gli fece pensare non solo nella
costruzione di magazzini, ma di sviluppare una distilleria che aprofittassero
delle melasse che si depositavano considerevolmente per il ritardo di essere imbarcate.
Zulueta
conobbe la laboriosità del giovane basco, la sua dedicazione al lavoro,
intelligenza e brillantezza e nel 1873 lo nominò suo delegato a Cárdenas.
Arechabala allora aveva 26 anni.
Durante
una visita alla città matanzera di Colón dove aveva anche, grandi interessi,
Julián de Zulueta cadde da cavallo e rimase con la testa infilata in un
tombino. Si fece tempo a trasportarlo all’Avana dove morì il 4 maggio del 1878.
José
Arechabala gli sopravvisse per lunghi anni, morì il 15 marzo 1923. Giunse ad
essere proprietario della fabbrica di gas che alimentava l’illuminazione
pubblica di Cárdenas e dotò la cittá di un teatro che portò il suo nome. I suoi
atti sono il riflesso della sua devozione alla cultura e al buon gusto. La
stessa industria era circondata da un vasto complesso di giardini e vialetti
dove si univano l’utile e il bello, senza contare che fu una gran fonte di
impiego. Cárdenas lo dichiarò suo Figlio Adottivo.
Nasce Havana Club
Il 19
marzo del 1934 si inaugurò la fabbrica di liquori e cominciò la produzione del
rum Havana Club. Più tardi si aggiunse l’Alcol Etilico – alcol puro molto
richiesto per fini sanitari -, anche i cordial e i cognac. Il 29 maggio 1925
aprirono il Bar Privado e gli uffici dell’azienda nel palazzo del Conte di Casa
Bayona, nella Piazza della Cattedrale dell’Avana. Il 18 luglio del 1836 misero
in marcia la produzione di confetture. Per elaborarle si adottò la tecnica più
avanzata, utilizzando materie prime scelte per dotarle di un sapore squisito e
esibirle con una presentazione attraente che le fece molto richieste dentro e
fuori da Cuba.
Nel
marzo 1934, la Compagnia cominciò a produrre il carburante conosciuto come
mofuco. Per cui lo si considera il primo carburante nazionale che utilizzava
l’alcol come base. Quando, nel 1943, la guerra mondiale impose rigidi controlli
sulla benzina, il Governo cubano richiese il concorso dell’azienda affinché il
trasporto terrestre non si paralizzasse, arrivando, Arechabala a sopportare
fino al 63 per cento del consumo nazionale.
J. Arechabala
S.A. ebbe un’attiva partecipazione nel riuscire a far ammettere lo zucchero
cubano, raffinato, negli U.S.A. Fu una lotta furibonda quella che tra il 1928 e
il 1933 scatenò, assieme ad altre
aziende, contro le autorità nordamericane per fissare e stabilire il diritto di
Cuba a esportare questo prodotto negli U.S.A. e così evitare la chiusura delle
raffinerie cubane.
I suoi
prodotti superavano quelli della concorrenza. Nel 1956, La Vizcaya, produsse
circa sei milioni di litri di grappe e alcol di 95 gradi, alle quali si
sommavano i quasi 800.000 litri ottenutinelle centrali Por Fuerza e Progreso.
La seguivano, in ordine di produzione, la distilleria Infierno – oltre sei
milioni di litri – e La Licorera de Cuba con cinque milioni, con le marche di rum
e creme Aldabó, cognac Peralta e Anís del Diablo. La Compañia Cubana de Alcohol
appare dopo con oltre tre milioni di litri dalle dominazioni Santa Cruz e
Legendario, mentre Bacardí, in fondo alla fila, appare cono solo 3.118.000
litri.
Certo
che ci furono contrarietà e scontri. Il fondatore dell’azienda perse e rifece
la sua fortuna varie volte. Per la produttrice di rum risultò disastroso
l’uragano del 1888 che spazzò la costa nord dell’Isola nella zona di Cárdenas e
occasionò ingenti perdite. Lo stesso con la mareggiata del 1933, causa di danni
ai magazzini e moli, alambicchi, bidoni e barili, eifici e imbarcazioni, così
come la perdita di materie prime per 258.000 pesos. Pregiudiziali furono anche
le due guerre miondiali, la cadta del prezzo dello zucchero e le crisi
economiche. I pesi morali che scossero questa strana famiglia, nella quale i
nomi si ripetono e i suoi membri finiscono sposandosi fra di loro, sdella quale
fece parte nientemeno che Carmelina Arechabala, colei che dette vita a una
frase che sopravvive nell’immaginario cubano, quella di “vive come carmelina”,
per sottolineare chi vive una vita agiat, libera da carenze e preoccupazioni.
Qualcosa
non del tutto chiaro per lo scriba succede alla fine degli anni ’50, quando,
José Fermín Iturrioz esce o lo fanno uscire dall’azienda che dirigeva dal 1926
e presiedeva dal 1953, quando gli toccò sostituire Carmelina Arechabala – non
la citata Carmelina – figlia di José Arechabala Aldama, il fondatore e vedova
di José Arechabala Saíz, nipote di suo padre. Per non cambiare, Iturrioz che
era il proprietario del Retiro Josone a Varadero, è sostituito da José
Arechabala Arechabala.
La sua
uscita implicò per l’azienda la perdita della centrale Por Fuerza che rimase in
mano di Iturrioz. Aveva una capacità di macinazione di 250.000 “arrobas” al
giorno, 2.650 lavoratori e 768 cavallerie di terre proprie.
Dopo...
Dopo il
1959, la fabbrica ricevette il nome di José Antonio Hecheverría e nel 1993,
quando si fondò la corporazione Cuba Ron, una parte della sua infrastruttura si
destinò alla creazione della Ronera Cárdenas. La lista di produzione di questa
famosa bottega contempla i formati caneca (tascabile, n.d.t.) delle marche
Havana Club, rum Cubay e la grappa Sao Can. Produce anche i rum Refino e Perla
del Norte, questi nelle loro versioni di bianco, dorato e invecchiato che
raccoglie il buono e genuino saper fare di questa fabbrica di rum.
Arechabala
Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
5 de Junio del 2016 0:30:21 CDT
Aseguran especialistas que Cuba fue el
primer país que dio al ron la categoría de clásico.
Curiosamente Cuba entró tarde en el
panorama de la fabricación internacional del ron. Pero se dispuso pronto a
acortar el camino. Si en 1778 la Isla exportó alrededor de 230 000 litros de
aguardiente, ya a comienzos del siglo XIX, apenas 20 o 25 años después, se
producían aquí más de 4,5 millones de litros. En 1861 existían 125 destilerías,
en la mayoría de los casos parte de fábricas de azúcar y resultado por lo
general de operaciones individuales. Es la época en que Cuba empieza a producir
un tercio del azúcar mundial.
El ron cubano marca una nueva época, un
nuevo estilo en la fabricación de rones. En la década de 1860 se podía beber
toda una gama de rones «británicos» producidos en Jamaica, Guyana y Barbados, a
partir de la melaza y en alambiques de retorta. Fue entonces que Cuba importó
una nueva tecnología, el llamado alambique continuo o de columna, que permitió
a los destiladores cubanos crear un estilo de ron nuevo, más ligero y dulce.
El primero fue Facundo Bacardí en
Santiago de Cuba. Con su innovación, Cuba empezó a distinguirse del resto del
Caribe, y aunque los alambiques de columna aparecieron muy pronto en el resto
de las Antillas, ya el ron ligero cubano le había ganado la batalla a la
competencia.
En 1878 entró en el juego el vizcaíno
José Arechabala Aldama, quien compró a plazos a los herederos de Joaquín de
Zulueta un alambique establecido en la ciudad matancera de Cárdenas. Destilaba
las mieles de siete u ocho ingenios azucareros de la zona y recibía por mar
materia prima de Sagua la Grande y Yaguajay, y estaba valorado en unos 33 000
pesos oro y 167 000 pesos en billetes. El 1ro. de febrero de 1880, el nuevo
propietario lo inscribía en el Registro Mercantil con el nombre de La Vizcaya.
A partir del 18 de enero de 1821 operaría bajo la razón social de J. Arechabala
S. A. Presidía la compañía el fundador de la firma y obraban como accionistas
sus hijos Juana, Carmela, Mercedes, José Antonio y José Nicolás. Llegaría a
amasar un capital enorme en el campo de la destilación de alcoholes y la
refinación de azúcares y crearía el famoso ron Havana Club.
En 1958 este complejo fabril ocupaba un
área de 600 000 metros cuadrados y lo conformaban plantas de confituras,
levadura, sirope y otras producciones derivadas del azúcar. Contaba con una
fábrica de licores, almacenes de azúcar, terminal marítima, acueducto propio,
servicio de cabotaje y astillero. En sus soleras se mantenían de manera
permanente dos millones de litros añejándose en toneles de robles.
Producía anís, aguardiente, cremas,
coñac y ginebra con la marca Arechabala, los coñacs marcas Relicario y Tres
Arbolitos, el ron añejo Arechabala 75 y otros tipos de rones, además del ya
mencionado Havana Club.
Representaba, por otra parte, el whisky
Chivas Regal y otras bebidas de importación. Formaban parte de la compañía los
centrales azucareros Por Fuerza y Progreso, ambos en la provincia de Matanzas.
El vizcaíno y el vasco
José Arechabala Aldama nació en
Gordejuela, Vizcaya, el 9 de noviembre de 1847. Las fuentes consultadas no
aluden a su niñez ni a su adolescencia, pero lo seguro es que no fuesen nada
boyantes, pues con solo 15 años buscó en Cuba mejores horizontes. Llegó a la
Isla el 21 de septiembre de 1863 y trabajó primero con su pariente Antonio
Galíndez Aldama, radicado en Matanzas, y luego en la casa Bea, dedicada a la
consignación de buques, la ferretería y la banca, algo frecuente entonces
cuando las empresas asumían el papel de los bancos.
Julián de Zulueta era ya para entonces
un importante hombre de negocios y una figura política de primer orden. Marqués
de Álava. Vizconde de Casa Blanca. Coronel de Milicias. Coronel de Voluntarios.
Cónsul del Real Tribunal del Comercio. Consejero de Administración de Hacienda.
Concejal y alcalde de La Habana en varias ocasiones. Diputado a Cortes. Senador
Vitalicio del Reino. Gobernador Político interino de la Isla de Cuba.
Era propietario de varios ingenios
azucareros. Accionista de la firma constructora del ferrocarril de Marianao.
Contratista del derribo de las murallas de La Habana e iniciador de la
construcción del edificio que sería conocido como la Manzana de Gómez, donde se
emplazaría —fue su idea— un gran centro comercial, similar a los actuales,
donde coincidirían varios establecimientos. Constructor con su propio peculio
del ferrocarril Zaza-Caibarién. Enriquecido con la trata de esclavos y de
chinos, formó parte del grupo de hacendados y prestamistas de origen español
que asumió el control del Diario de la Marina y lo convirtió en vocero de sus
intereses. Una ciudad de la región central y una calle habanera llevan el
nombre de quien fue un enemigo recalcitrante de la independencia de Cuba y uno
de los grandes promotores del capitalismo en la Isla. No se puede escribir la
historia de la economía cubana del siglo XIX sin mencionarlo.
¿Cómo trabaron relaciones Zulueta y
Arechabala?
La importancia económico-comercial que
adquiría el puerto de Cárdenas, por donde Zulueta sacaba las producciones de
sus centrales, lo hizo pensar no solo en el establecimiento de almacenes, sino
en fomentar una destilería que aprovechara las mieles, que mermaban
considerablemente por la demora en ser embarcadas.
Conoció Zulueta de la laboriosidad del
joven vizcaíno, de su dedicación al trabajo, inteligencia y chispa, y en 1873
lo nombró su apoderado en Cárdenas. Arechabala tenía 26 años entonces.
Durante una visita a la ciudad matancera
de Colón, donde tenía también grandes intereses, Julián de Zulueta cayó del
caballo y quedó con la cabeza enterrada en una alcantarilla. Hubo tiempo para
trasladarlo a La Habana, donde murió, el 4 de mayo de 1878.
José Arechabala lo sobrevivió durante
largos años; falleció el 15 de marzo de 1923. Llegó a ser propietario de la
fábrica de gas que alimentaba el alumbrado público de Cárdenas y dotó a la
ciudad de un teatro que llevó su nombre. Sus actos son reflejo de su devoción
por la cultura y el buen gusto. La propia industria estaba enmarcada en un
vasto conjunto de jardines y paseos, donde se daban la mano lo útil y lo bello,
sin contar que fue una gran fuente de empleo. Cárdenas lo declaró su Hijo
Adoptivo.
Surge Havana Club
El 19 de marzo de 1934 se inauguró la
fábrica de licores y comenzó la producción de ron Havana Club. Más tarde se
añadió el Alco-Elite —alcohol puro, muy demandado con fines sanitarios—.
También los cordiales y el coñac. El 29 de mayo de 1935 abrieron el Bar Privado
y las oficinas de la empresa en el palacio del Conde de Casa Bayona, en la
Plaza de la Catedral de La Habana. El 18 de julio de 1936 pusieron en marcha la
producción de confituras. Para elaborarlas se adoptó la técnica más avanzada,
utilizándose materias primas selectas para dotarlas de un sabor exquisito y
expenderlas con una presentación atractiva, lo que las hizo muy demandadas
dentro y fuera de Cuba.
En marzo de 1934, la compañía comenzó a
producir el carburante conocido como mofuco. Por lo que se le considera pionera
del carburante nacional, utilizando el alcohol como base. Cuando en 1943, la
guerra mundial impuso rígidos controles sobre la gasolina, el Gobierno cubano
reclamó el concurso de la empresa para que el transporte terrestre no se
paralizara, llegando Arechabala a soportar hasta el 63 por ciento del consumo
nacional.
Tuvo J. Arechabala S. A. una activa
participación en lograr que EE. UU. admitiera el azúcar refinado cubano. Fue
una lucha denodada que entre 1928 y 1933 libró, junto con otras firmas, contra
las autoridades norteamericanas, para afincar y esclarecer el derecho de Cuba a
exportar ese producto a EE. UU. y evitar así el cierre de las refinerías
cubanas.
Sus producciones superaban las de sus
competidores. En 1956 La Vizcaya produjo alrededor de seis millones de litros
de aguardientes y alcohol de 95 grados, a lo que se sumaban los casi 800 000
litros obtenidos en los centrales Por Fuerza y Progreso. Le seguían en orden de
producción la destilería Infierno —más de seis millones de litros— y la
Licorera de Cuba, con cinco millones en las marcas de ron y cremas Aldabó,
coñac Peralta y Anís del Diablo. La Compañía Cubana de Alcohol aparece con algo
más de tres millones de litros, de las denominaciones Santa Cruz y Legendario,
en tanto que Bacardí en el último de la fila, aparece solo con 3 118
000 litros.
Claro que hubo contrariedades y
quebrantos. El fundador de la empresa perdió y rehízo su fortuna varias veces.
Resultó desastroso para la ronera el huracán de 1888, que arrasó la costa norte
de la Isla por la zona de Cárdenas y ocasionó pérdidas cuantiosas. Igual
ocurrió con el ras de mar de 1933, causante de daños en almacenes y muelles,
alambiques, tanques y toneles, edificios y embarcaciones, así como pérdida de
materias primas por 258 000 pesos. Perjudiciales fueron también las dos guerras
mundiales, la caída de los precios del azúcar y las crisis económicas. Y las
pesadumbres morales que sacudieron a esta curiosa familia, en la que los
nombres se repiten y sus miembros terminan casándose entre sí, y de la que
formó parte nada más y nada menos que Carmelina Arechabala, la que dio pie a
una frase que sobrevive en el imaginario del cubano, esa de «vive como
Carmelina», para identificar a quien lleva una vida regalada, libre de
carencias y preocupaciones.
Algo no claro del todo para el
escribidor sucede a finales de los años 50, cuando José Fermín Iturrioz sale o
lo hacen salir de la firma que dirigía desde 1926 y presidía desde 1953, cuando
le tocó sustituir a Carmen Arechabala —no es la Carmelina aludida—, hija de
José Arechabala Aldama, el fundador, y viuda de José Arechabala Saiz, sobrino
de su padre. Para no variar, Iturrioz, que era el propietario del Retiro
Josone, en Varadero, es sustituido por José Arechabala Arechabala.
Su salida implicó para la firma la
pérdida del central Por Fuerza, que permaneció en manos de Iturrioz. Tenía una
capacidad de molida de 250 000 arrobas diarias, 2 650 trabajadores y 768
caballerías de tierras propias.
Después…
Después de 1959 la fábrica recibió el
nombre de José Antonio Echeverría, y en 1993, cuando se fundó la corporación
Cuba Ron, una parte de su infraestructura se destinó a la creación de la Ronera
Cárdenas. La cartera de producción de esta afamada bodega contempla los
formatos caneca de las marcas Havana Club, ron Cubay y el aguardiente Sao Can.
Produce asimismo los rones Refino y Perla del Norte; este en sus versiones de
blanco, dorado y añejo, que recoge el buen y genuino saber hacer de esta
ronera.
domenica 5 giugno 2016
mercoledì 1 giugno 2016
Di ritorno alla strada, di Ciro Bianchi Ross
Pubblicato su Juvantud Rebelde del 29/5/16
Lo sapevate che l’aristocratica anche se decaduta,
calle O’ Reilly fu un tempo la calle Honda o del Sumidero, del Basurero y de la
Aduana? Cha una cale tale rango come Tniente Rey, prima fu la
calle di Santa Teresa y de San Salvador de la Horta e che mai lì ci fu nessun
tenente reale se non un vivace tenente del governatore che viveva all’angolo
con la calle Habana, di cognome Rey che finì per dare il nome alla via? Che
Bernaza è Bernaza per un tale José Bernaza che vi ebbe una panetteria? Che San
Ignacio prima fu la calle de la Cienaga per la palude che esistevatra la
caserma di San Telmo e la Cattedrale? Che le decine di artigiani che
risiedettero in Oficios tra la Plaza de San Francisco e quella de Armas
terminarono per dar nome a questra strada? Che Muralla fu la calle Real e che
uno dei sui tratti si battezzò come De la Cuna?
Quando
la scriba cominciò i suoi studi alla scuola media inferiore – da allora
piovvero diverse decadi – il professore della materia che allora chiamavano di
Scienze Sociali cominciava sempre il suo discorso, il primo anno, con la proposta di un lavoro
d’investigazione. Noi studenti dovevavmo informarci sul nome della strada dove
abitavamo e mettere per iscritto il frutto della nostra ricerca. Siccome io
abitavo nella calle Diez, nel reparto Lawton, mi passai per furbo nella
risposta e scrissi, come una revolverata: che la mia strada si chiamava così
per la numerazione. Chiaro che era per questo, ma il professore che di cognome
era Borroto –non mi ricordo il suo nome proprio che era composto- mi disse che
dovevo acer lavorato un po’ di più e verificare approssimativamente in che data
si dettero i numeri alle strade del reparto e perché le strade col numero si
alternavano con quelle che furono battezzate con nomi diversi e a volte
arbitrari come San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros...che non
sempre rispondevano a una realtà concreta, un fatto o al nome di un abitante
residente nella zona.
Apartire
da questo momento cominciò a interessarmi il tema delle strade, il lettore,
negli anni più recenti, è stato testimone di questo interesse per le volte che
ho affrontato, in questa pagina, alludendo a strade particolari – Aguiar,
Amargura, Prado, Infanta, 23, Línea e molte altre – o riferendomi congintamente
a strade avanere.
Quartieri della città
Nel
1763, sotto il Governo del Conte de Ricla, la città, si divise per la prima
volta in quartieri, si numerarono le case e si dettero nomi alle strade. Il
fatto dei nomi prevalse per quello delle persone notabili, specialmente quelle
che si distinsero nella difesa della piazza, quando l’aggressione inglese. Il
medesimo bando di Polizia che contemplava queste misure, proibiva la
costruzione di case con tetto di frasche e si raccomandava la costruzione di
case “di certa altezza”. Nel 1808 si collocarono le targhette con i numeri
nella case di muratura, costando 14 reales ciascuna. Siccome si ebbero
variazioni, rispetto alla numerazione anteriore, si stabilì un “ducumento” con
questa differenza, un
“documento” che si conservava nella segreteria del Municipio.
“documento” che si conservava nella segreteria del Municipio.
A parte
di occuparsi della pavimentazione delle strade principali col sistema del
“Macadam”, il governatore Miguel Tacón si occupò anche della catalogazione
delle strade avanere e anche della numerazione dei locali. Lo dice nel
documento che fece il riassunto del suo mandato: “Le strade erano carenti
dell’iscrizione dei loro nomi e molte case del numero. Feci porre agli angoli,
delle prime, le targhette di bronzo e numerare le seconde col semplice metodo
di mettere i numeri pari su un marciapiedi e i dspari nell’altro”. Questo
occorse tra il 1834 e il 1838. Non si tornò a catalogare né numerare l’Avana
fino a circa cent’anni dopo.
Prima,
verso il 1820, si era proibito nel modo più assoluto di costruire nuove case
dentro delle mura. La disposizione determinava che essendo l’Avana una
piazzaforte “non si possono costruire dentro le mura più casa di quelle che
esistono di già”, misura che portava come conseguenza, per la scarsità di
abitazioni che provocava, un alto costo degli affitti. Una famiglia agiata che
volesse installarsi nella città fra le mura doveva pagare un affitto che
oscillava tra gli 8.000 e i 14.000 pesos all’anno. Gli affitti non erano di
questi livelli negli immobili siti fuori dalle mura, ma in ogni modo si affittavano
per cifre elevate con la scusa che in quella zona si aveva il minor rischio di
contrarre la febbre gialla.
Arriva l’acqua!
Le
strade, strette e senza pavimentazione, appaiono piene d’immondizie. Nei solchi
lasciati dalle ruote dei carri e le zampe dei cavalli si deposita il contenuto
di bacinelle e vasi da notte che al grdo di “Arriva l’acqua!”, senza guardare
nessuno, gettavano gli abitanti da balconi e finestre. Nella stagone delle
piogge il transito si faceva difficile per i carri e i pedoni dovevano stare
all’erta al passaggio degli oggetti volanti che navigavano nel pantano in cui
si convertivano le strade. Circondata da mura da tute le parti, l’Avana durante
la pioggia era un’immensa pozzanghera che scaricava nella baia da una sola
parte: l’imbocco della pescheria, proprietà del nostro vecchio conoscente don
Pancho Marty y Torrens, di fronte alla calle Empedrado. La forza era di tali
proporzioni, dice l’erudito Juan Pérez de la Riva che tra il 1798 e 1844 il
fondo della biaia diminuisce non meno di sei piedi di fronte ai moli. Anche la
Plaza de Armas sembra, secondo l’epoca dell’anno, un tratto fangoso o un
pianoro polveroso. Siccome il transito dei carri diventava molto difficile,
durante le piogge in quelle strade strette e non pavimentate, si ideò di
interrarvi in esse, traverse di legno duro che rimanevano perpendicolari
all’asse della via. Il risultato di tale lavoro fu vano. Lungi dal risolvere la
situazione la peggiorò, senza contare che se gli acquazzoni erano continui e
intensi, i pollini sparivano inghiottiti dal suolo. Fu durante il Governo del
maggior generale José Miguel Gómez (1909 -1913) quando si realizzò il primo
tratto di strada con base in cemento e superficie di scorrimento in asfalto. Si
chiamò strada sperimentale Verso il 1850, l’avana tra le mura aveva 39.980
abitanti, cifra che con la popolazione fluttuante superava le 55.000 persone.
Allora si contabilizzavano 3.761 case. Di esse 1.282 erano accessorie e 56
“cittadelle”. Non esistevano ancora alberghi, ma si affittavano 1.157 “stanze
interne”.
C’erano
tra le mura 1.560 carozze e 352 calessi e fuori dalle mura 624 e 115,
rispettivamente, ciò che equivaleva a un veicolo per ogni 24 persone bianche.
Altri nomi
La
calle Cuba prima si chiamò calle de la Campana y de la fundición.
Lamparilla
deve il suo nome alla luce che un devoto dell Anime accendeva tutte le sere a
casa sua all’angolo della calle Habana.
L’angolo
di Lamparilla e Aguacate si chiamò del Campanario per uno dipinto di blu che vi
era e il tratto che da Lamparilla si estende tra Villegas e Bernaza si chiamò
de la Cañas Bravas per quelle seminate al lato della parrocchia del Cristo e
che si tagliarono nel 1808. Empedrado fu la prima strada acciottolata
all’Avana. Si fece con “chinas pelonas” (particolari pietre di fiume. N.d.t.),
dalla piazza della Cattedrale fino alla piazza San Juan de Dios e durarono fino
al 1838 quando si sostituirono con porfido. O’ Reilly si chiama così perché il
Conte di O’ Reilly, vice ispettore delle truppe alla restaurazione dell’Avana
nel 1763 fece il suo ingresso per questa
strada, mentre il Conte di Albemarle, capo dell’occupazione britannica,
usciva dalla calle Obispo.
Nel
1742 gli appezzamenti di questa strada si vendevano tra gli 8 e i 9 reales la
“vara” (meno di un metro, n.d.t.). Cent’anni dopo il prè ezzo era di oltre
un’oncia d’oro la “vara”.
L’avenida
23 nel Vedado si chiamò all’inizio, nel 1862, Paseo de Medina per questo
contrattista di opere del Governo coloniale che aveva la sua residenza di
fronte a dove si stabilirà il cine Riviera. Durante un breve periodo portò il
nome di General Machado.
Línea,
nel 1918, passò a chiamarsi Presidente Wilson e durante la dittatura batistiana
fu ribatezzata come General Batista, nome che come quello di Machado, il popolo
ripudiò. È sempre stata Línea, primo per i trenini che partivano vicino alla
Punta e poi per i tram elettrici. La calle Manuel Sanguilly – di fianco al
Palazzo del Secondo Capo – continua ad essere, purtroppo, conosciuta col suo
vecchio nome di Tacón.
Dalla UPEC mi hanno dato un messaggio
Il
compagno Antonio Moltó, presidente dell’Unione dei Giornalisti di Cuba (UPEC),
ha fatto giungere al giornale elementi sull’esposto dallo scriba nella pagina
corrispondente all’8 maggio passato (Quello che non ho detto della Cattedrale),
sulla domanda per il destino dei pezzi giacenti al fondo del museo della stampa
che esisteva nell’Associazione dei Reporters, della calle Zulueta.
Spiega
nella sua lettera che l’UPEC, “al crearsi nel 1963, non fu continuatrice né
dell’associazione dei Reporters dell’Avana, né del Collegio dei Giornalisti,
sito in calle Zulueta. Incluso, nell’edificio sito in 20 de Mayo quasi angolo
ad Ayestaran che si costruì per installarvi il Collegio dei Giornalisti, la
Stato dispose che passasse ad Istituto linguistico”.
Aggiunge:
“Ciro
Bianchi domanda nbel suo articoilo dove andarono a finire i pezzi che
conformavano il museo della stama che era nell’Associazione dei Reporters
dell’Avana. Non abbiamo risposta per questo. Quallo che sì, assicuriamo, è che
l’UPEC non fu erede dei pezzi di questo museo né tantomeno dei pantheon della
necropoli di Colón che per risoluzione del Governo Rivoluzionario passarono ad
altre istituzioni”.
In fine
il compagno Moltó segnala che il poco che si salvò della calle Zulueta furono
alcuni fascicoli e libri del Colegio Nacional che il giornalista Baldomero
Álvarez Ríos riscattò andando alla discarica. Questi documenti, dice Moltó,
oggi si conservano nella sede dll’UPEC.
Ben
venga il chiarimento del Presidente dell’UPEC. Lo sciba, da parte sua, desidera
chiarire con non incolpò nessuno emen che mmeno l’organizzazione che capeggia
Moltó, per la sparizione di questi materiali. Si interessava solo per il loro
destino.
De vuelta a la calle
Ciro Bianchi
Ross • digital@juventudrebelde.cu
28 de Mayo del 2016 22:13:13 CDT
¿Sabía usted que la aristocrática
aunque muy venida a menos calle O’Reilly fue en un tiempo la calle Honda o del
Sumidero, del Basurero y de la Aduana? ¿Qué una calle de tanto ringo rango como
Teniente Rey fue antes la calle de Santa Teresa y de San Salvador de la Horta y
que nunca hubo allí teniente real alguno sino un avispado teniente de
gobernador que vivía en la esquina con la calle Habana de apellido Rey que
terminó dando su nombre a la vía? ¿Qué Bernaza es Bernaza por un tal José
Bernaza que tuvo en ella una panadería? ¿Qué San Ignacio fue antes la calle de
la Ciénaga por la que existía entre el cuartel de San Telmo y la Catedral? ¿Qué
las decenas de artesanos que se radicaron en Oficios entre la Plaza de San
Francisco y la de Armas terminaron por dar nombre a esa calle? ¿Qué Muralla fue
la calle Real y que uno de sus tramos se bautizó como De la Cuna?
Cuando el escribidor comenzó sus
estudios de Secundaría Básica —llovieron desde entonces ya unos cuantas
décadas— el profesor de la asignatura que llamaron entonces de Ciencias
Sociales iniciaba siempre su curso en el primer año con la propuesta de un
trabajo investigativo. Debíamos los estudiantes inquirir sobre el nombre de la
calle en que habitábamos y poner por escrito el fruto de nuestra pesquisa. Como
yo entonces residía en la calle Diez, en el reparto Lawton, me pasé de listo en
la respuesta y escribí, como un
pistoletazo: que mi calle se llamaba
así por la numeración. Claro que era por eso, pero el profesor que era de
apellido Borroto —no recuerdo su nombre de pila, que era compuesto— me dijo que
debí haber trabajado un poco más y averiguar en qué fecha aproximada se
numeraron las calles del reparto y por qué las calles con números alternaban
con las que fueron bautizadas con los nombres más diversos y a veces
arbitrarios como San Francisco, Porvenir, Lagueruela, Tejar, Milagros,,, que no
siempre respondían a una realidad concreta, un suceso o al nombre de un vecino
asentado en la zona.
A partir de ese momento empezó a
interesarme el tema de las calles, y el lector, en los años más recientes, ha
sido testigo de ese interés por las veces que lo he abordado en esta página,
bien en alusión a una calle en particular —Aguiar, Amargura, Prado, Infanta,
23, Línea y muchas otras— o refiriéndome a
calles habaneras en conjunto.
Barrios de la ciudad
En 1763, bajo el gobierno del Conde
de Ricla, la ciudad, por primera vez, se dividió en barrios y se numeraron las
casas y se dieron nombres a las calles. En el asunto de los nombres prevaleció
el de las personas notables y en especial aquellas que se distinguieron en la
defensa de la plaza cuando la agresión inglesa. El mismo bando policial que
contemplaba esas medidas, prohibía la construcción de casas con techos de guano
y se recomendaba la edificación de casas «de alto». En 1808 se colocaron las
tarjetas con los números en las casas de intramuros, costando 14 reales cada
una. Como hubo variaciones respecto a la numeración anterior, se estableció un
padrón con esa diferencia, padrón que se conservaba en la secretaría del
Ayuntamiento.
Aparte de ocuparse de la
pavimentación de las calles principales con el sistema de Macadams, el
gobernador Miguel Tacón se ocupó asimismo de la rotulación de las calles
habaneras y también en la enumeración los locales. Lo dice en el documento en
que hizo el resumen de su :mandato: «Carecían las calles de la inscripción de
sus nombres y muchas casas de número. Hice poner en las esquinas de las
primeras tarjetas de bronce y numerar la segundas por el sencillo método de
poner los números pares en una acera y los impares en otra». Eso ocurrió en
1834 y 1838. No volvió a rotularse ni a enumerarse en La Habana hasta unos cien
años después.
Antes, hacia 1820 se había
prohibido de manera terminante construir
nuevas viviendas dentro de las murallas. La disposición estipulaba que por ser
La Habana una plaza fuerte «no se pueden construir dentro de sus murallas más
casas de las que ya existen», medida que traía como consecuencia, por la
escasez de viviendas que provocaba, el alto monto de los alquileres. Una
familia acomodada que quisiera asentarse en la ciudad intramural debía abonar
una renta que oscilaba entre los 8 000 y
los 14 000 pesos al año. Los alquileres no eran de esa magnitud en los
inmuebles ubicados fuera de las murallas, pero de todas formas se arrendaban
por sumas elevadas con la excusa de que en esas zonas se hacía menor el riesgo
de contraer la fiebre amarilla.
¡Agua va!
Las calles, estrechas y sin
pavimentar, aparecen llenas de inmundicias. En los surcos que dejan las ruedas
de los coches y las patas de los caballos se deposita el contenido de bacines y
tibores que, al grito de « ¡Agua va!» y sin miramiento alguno, arrojan los
vecinos desde balcones y ventanas. En época de lluvias el tránsito se hace
difícil para los carruajes y los peatones deben estar alertas al paso de las
volantas que navegan en el lodazal en que se convierten las calles. Rodeada de
muros por todas partes, La Habana es, durante las lluvias, una inmensa charca
que desagua en la bahía por un solo lugar: el boquete de la pescadería,
propiedad de nuestro viejo conocido don Pancho Marty y Torrens, frente a la
calle Empedrado. El arrastre es de tales proporciones, dice el erudito Juan
Pérez de la Riva, que entre 1798 y 1844 el fondo de la bahía disminuye en no
menos de seis pies, disminución que llega a los diez pies frente a los muelle. Incluso
la Plaza de Armas parece, según la época del año, un páramo fangoso o un paraje
polvoriento. Como el tránsito de carruajes llegaba a hacerse muy difícil durante las lluvias en
aquellas calles estrechas y sin pavimentar, se ideó enterrar en ellas traviesas de madera dura que quedaban
dispuestas de manera perpendicular al eje de la vía. Fue nulo el resultado de
tal empeño. Lejos de solucionar la situación, la empeoró, sin contar que si los
aguaceros eran seguidos e intensos, los polines desaparecían tragados por el
subsuelo. Fue durante el gobierno del mayor general José Miguel Gómez (1909-1913) cuando se
realizó el primer tramo de calle con base de hormigón y superficie de
rodamiento de asfalto. Se le llamó calle experimental Hacia 1850, La Habana
intramuros tiene 39 980 habitantes, cifra que, con la población flotante,
supera las 55 000 personas. Se contabilizan entonces 3 761 casas. De ella 1 282
son accesorias y 56 ciudadelas. No existen todavía hoteles, pero se alquilan 1
157 «cuartos interiores».
Hay en intramuros 1 560 volantas y
352 quitrines y en extramuros 624 y 115, respectivamente, lo que resultaba un
vehículo por cada 24 personas blancas.
Otros nombres
La calle Cuba se llamó antes calle
de la Campana y de la fundición.
Lamparilla debe su nombre a la luz
que un devoto de las Ánimas encendía todas las noches en su casa de la esquina
de la calle Habana.
La esquina de Lamparilla y Aguacate
se llamó del Campanario por uno pintado de azul que allí había y el tramo de
Lamparilla que se extiende entre Villegas y Bernaza se llamó de las Cañas
Bravas por las que había sembradas al costado de la parroquial del Cristo y que
se cortaron en 1808. Empedrado fue la primera calle empedrada en La Habana. Se
hizo con chinas pelonas desde la Plaza de la Catedral hasta la Plaza de San
Juan de Dios y duraron hasta 1838 cuando se sustituyeron por adoquines.
O’Reilly se llama así porque el Conde de O’Reilly, subinspector de las tropas
cuando la restauración de La Habana en 1763 hizo su entrada por esa calle,
mientras que el Conde de Albemarle, jefe de la ocupación británica, salía por
la calle Obispo.
En 1742 los solares de esta calle se
vendían entre 8 y 9 reales la vara. Cien años después el precio era de más de
una onza de oro la vara.
La avenida 23, en el Vedado, se
llamó en sus inicios en 1862 Paseo de
Medina, por ese contratista de obras del Gobierno colonial que tenía su
residencia frente a donde se emplazaría el cine Riviera. Durante un corto
periodo llevó el nombre de General Machado. Línea, en 1918, pasó a llamarse
Presidente Wilson, y durante la dictadura batistiana, fue rebautizada como
General Batista, nombre que, al igual que el de Machado, el pueblo repudió.
Siempre ha sido Línea, primero por los pequeños trenes que salían de cerca de
La Punta y luego por los tranvías eléctricos. La calle Manuel Sanguily —al
costado del palacio del Segundo Cabo— sigue siendo conocida, lamentablemente,
por su viejo nombre de Tacón.
De la Upec me han dado un recado
El compañero Antonio Moltó,
presidente de la Unión de Periodistas de Cuba (UPEC), hizo llegar al diario
elementos sobre lo expuesto por el escribidor en la página correspondiente al 8
de mayo pasado (Lo que no dije de la Catedral), en la que pregunta por el
destino de las piezas que obraban en los fondos del museo de la prensa que
existía en la Asociación Reporters, de la calle Zulueta.
Y explica en su misiva que la UPEC,
«al crearse en 1963, no fue continuadora ni de la Asociación de Reporters de La
Habana ni del Colegio Provincial de Periodistas de La Habana, y menos aún
heredera de los bienes inmuebles de esas instituciones periodísticas. A veces,
por desconocimiento, eso se cree (…) Desde mucho antes del nacimiento de la
UPEC, habían desaparecido la Asociación de Reporters y el Colegio de
Periodistas, ubicados en la calle Zulueta. Incluso, el edificio ubicado en 20
de Mayo casi esquina a Ayestarán, que se construyó para instalar allí el
Colegio de Periodistas, el Estado dispuso que pasara a un centro para estudio
de idiomas».
Añade:
«Ciro Bianchi pregunta en su
artículo sobre dónde fueron a parar las piezas que conformaron el museo de la
prensa que estaba en la Asociación de Reporters de La Habana. No tenemos una
respuesta para esto. Lo que sí aseguramos es que la UPEC no fue heredera de las
piezas de ese museo ni tampoco de los panteones en la Necrópolis de Colón que
por Resolución del Gobierno Revolucionario pasaron a otras instituciones».
Señala por último el compañero Moltó
que lo único que logró salvarse del local de la calle Zulueta fueron algunos
expedientes y libros del Colegio Nacional que el periodista Baldomero Álvarez
Ríos rescató en su camino al basurero. Esos documentos, dice Moltó, se
conservan hoy en la sede de la UPEC.
Valga la aclaración del Presidente
de la UPEC. El escribidor solo desea aclarar por su parte que no culpó a nadie,
y mucho menos a la organización que Moltó encabeza, de la desaparición de esos
materiales. Solo se interesaba por su destino.
Ciro Bianchi Ross
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