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lunedì 17 marzo 2014

L'albergo più antico, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 16/3/14

Al suo interno, attraggono l’attenzione le vistose piastrelle sivigliane, i mosaici valenziani e di Alicante, le mattonelle importate dall’Andalusia, le sculture dal marcato sapore ispanico mentre, sulla facciata, predominano gli elementi ornamentali creoli, propri dell’epoca come i balconi con le balaustre di ferro, “guardavecinos” (le separazioni tra i balconi, n.d.t.) e le vetrate variopinte. Lo scriba non ha potuto mai spiegarsi perché si chiama Inglaterra un hotel che denota, a detta degli specialisti, l’incantesimo della bella epoca spagnola, il meglio del neoclassico avanero e il cui snack bar porta il nome di La Sevillana.
Ad ogni modo, l’Inglaterra è l’esercizio alberghiero attivo più vecchio dell’Isola. Si inauguró il 23 di dicembre del 1875, in una zona avanera di prestigio sul mitico Paseo del Prado, di fronte al Parque Central. Joaquín Payret, costruttore del teatro che porterà il suo nome, vendette il famoso Café El Louvre, sito in Prado e San Rafael, all’architetto Juan de Villamil, tenente colonnello a riposo dell’esercito spagnolo che acquisì, inoltre, l’hotel Americana contiguo al Café e unì i due locali in un unico edificio a cui dette il nome di Inglaterra. Una foto del 1899, mostra un edificio di due piani che porta sopra la sua facciata il nome di Hotel e Ristorante de Inglaterra.
Poco dopo, a un costo di 300.000 pesos, il locale fu completamente riparato e ricostruito per aggiustarlo alle necessità della vita moderna e lussuosa, senza peraltro che diminuisse lo splendore di prima. Le cento camere di allora furono dotate di stanze da bagno, telefono e campanello di servizio e contava con installazioni che fornivano acqua gelata a tutto l’albergo. Un terminale del telegrafo lo allacciò con l’estero, la sua promozione insisteva sul dominio dell’inglese e francese che avevano i suoi dipendenti. Un comfort che rispettò i suoi valori artistici originali. Nel 1914 l’hotel fu sottoposto ad altre modifiche, quando si mise il tetto al suo portico e si dotò l’immobile di un quarto piano di camere. Nel 1989, l’edificio subì una riparazione radicale al fine di rispondere alle esigenze del turismo internazionale, mantenendo sempre lo stile e le caratteristiche che già da allora lo avevano convertito in Monumento Nazionale, dato i suoi alti valori artistici e storici.

Il giornalista delle cravatte

Alla fine del XIX e inzio del XX secolo, fu l’albergo preferito dai corrispondenti della stampa estera. Fu lì che Karl Decker reporter del New York Journal, una delle tante pubblicazioni del magnate nordamericano William Randolph Hearst, pianificò la riuscita fuga di Evangelina Cossío, internata allora nella Casa di Accoglienza dell’Avana, azione audace comunque la si guardi, sebbene non si potesse sganciare dall’implacabile campagna orchestrata da certa stampa nordamericana per provocare l’intervento degli Stati uniti nella guerra che Cuba combatteva contro la Spagna. Erano i tempi del sanguinario Valeriano Weyler e la ragazza, dalla bellezza straordinaria, si conobbe nel mondo come la Giovanna d’Arco d’America.
L’evasione di Evangelina successe il 7 ottobre del 1897 e pochi giorni dopo, vestita da uomo e con l’abbondante capigliatura nascosta da un cappello, usciva dal porto avanero verso New York, dove l’acclamarono migliaia di persone.
Quasi un anno prima, nel novembre del 1896, si alloggiò all’Hotel Inglaterra il celebre cronista spagnolo Luis Morote che veniva a “coprire” la guerra contro la Spagna per il giornale El Liberal, di Madrid. Precisamente fu nella prima delle sue Cartas desde Cuba (Lettere da Cuba, n.d.t.) che pubblicò nel citato quotidiano, in cui ci sono riferimenti all’hotel avanero.
Gli amici che al suo arrivo lo ricevettero al porto, chiesero al cocchiere che nonostante non fosse la via più breve per arrivare all’albergo, prendesse la calle Muralla e poi facesse il giro per il Parque Central. Vollero, in questo modo, che il giornalista appena arrivato non avesse solo un’impressione più ampia possibile della città, ma che vedesse “il più tipico, il più interessante, quello che riempì col suo ricordo una delle pagine uscite, famosa per la storia dell’Avana degli ultimi anni”.
Morote non tarderà, qua, a d essere conosciuto come “il giornalista delle cravatte” per quelle di raso, di seta e dai colori brillanti che comprava nei negozi della calle Obispo e delle quali faceva abuso. Un fatto realmente rilevante gli conferì notorietà. Morote apparve in modo inatteso nell’accampamento del maggior generale Máximo Gómez, al centro dell’Isola e il capo dell’Esercito di Liberazione, indignato per la sfacciataggine e coraggio del reporter e prendendolo per nemico – il suo giornale lo era certamente nella nostra guerra di liberazione -, credette che meritava la pena di morte mediante fucilazione. Indubbiamente “el Chino Viejo” (Vecchio Cinese, n.d.t.) non si lascia prendere dalla sua passione e sottopone il soggetto a un consiglio di guerra che determinerà la condotta da seguire. Il giornalista viene avallato da una lettera di Severo Pina, Ministro dell’Industria della Repubblica in Armi e viene assolto dal tribunale. “Sentenza che accetto e rispetto immediatamente”, scrive Máximo Gómez nel suo diario, non senza fare appunto al Ministro dell’Industria. E scrive: “Il corrispondente spagnolo, uno dei nostri peggiori nemici, è inviato con le migliori garanzie di sicurezza fino alla città di Sancti Spíritus”. Partirà, inoltre ben nutrito. Nell’interessante cronaca che scrisse sull’accaduto, Morote elogia l’appetitosa porchetta alla creola che gli servirono per cena e il magnifico caffè con cui lo ristorarono.
“Uscimmo dalla calle Muralla, dove i commercianti erano sulle porte dei negozi in maniche di camicia senza vendere, forse perché era domenica e ci incamminammo verso il Parque Central”, dice lo spagnolo nella prima delle sue cronache cubane, scritta alla vigiglia del suo viaggio per la linea difensiva tra Júcaro e Morón. Gli sembra molto bello il Parque Central. Il suo contorno è una meraviglia. Nei suoi dintorni ci sono i teatri Tacón, Albisu e Payret. C’è anche la Manzana (Isolato, n.d.t.) di Gómez e il Giornale della Marina – nell’edificio dell’hotel Plaza – e di fronte a questi, il lussuoso Unión Club.
L’hotel Inglaterra è un edificio montato con lusso, in modo moderno, scrive e precisa che si tratta di un esercizio con una storia. Dimostra di conoscerla bene. In questo senso ricorda fatti che vi si svolsero. Parla de la Acera (Marciapiede, n.d.t.) del Louvre e dei suoi ragazzi e menziona di passo, il soggiorno di Maceo nell’hotel, nel 1890.

L’uomo che acclama

Luis Morote, da buon giornalista, era ben informato. Il maggior generale Antonio Maceo, in effetti fu ospite dell;hotel Inglaterra in un soggiorno che si protrasse da febbraio a giugno del citato anno. La notizia della sua presenza in città provocò una grande emozione. Tutti volevano conoscerlo e salutarlo. I veterani e i giovani, gli intellettuali, i ricchi e i poveri. Anche i militari spagnoli che si mettevano sull’attenti nel vederlo e gli davano il trattamento da Generale. Con Varona, una delle maggiori intelligenze dell’epoca, si tratteneva in lunghe conversazioni. Correva il rumore che volessero fargli un attentato e i giovani de la Acera del Louvre, quella gioventù che molti etichettavano di frivola, si costituirono nella scorta di Maceo e nei suoi aiutanti; lo accompagnavano ovunque per proteggerlo. Conquistò tutti quelli che lo conobbero. Era l’eroe della guerra. E anche il cavaliere senza macchia; un conversatore attento e fine. Gli anni di lotta non gli fecero perdere la sua purezza e il suo modo di vestire innalzava la sua naturale eleganza, Si rifiniva con un cappello a bombetta e sfoggiava un soprabitino inglese che semiaperto, lasciava intravedere lo scudo della Repubblica che portava, in rilievo, sulla fibbia del cinturone. Il sarto Leonardo Valencienne apprezzava, da buon conoscitore, le misure statuarie del patriota. “Che figura! Così c’è gusto a tagliare un capo” esclamava orgoglioso di annoverarlo tra i suoi clienti. Aveva un corpo massiccio e muscoli d’acciaio. Era alto e largo di spalle. I capelli cominciavano a ingrigire, ma il viso si manteneva fresco e gli occhi gli scintillavano. La voce era calma e morbida, anche se l’accento era leggermente gutturale. Aveva uno sguardo profondo e scrutatore, ma dolce. Julián del Casal che gli dedicò il suo poema A un heroe, nel vederlo non poté trattenersi dall’esclamare: “È molto bello,
Uno spagnolo voleva pagargli un debito di gratitudine. Maceo non si ricordava e il suo interlocutore glie lo ricordò. Durante la guerra fu suo prigioniero e il cubano lo mise in libertà senza nessuna condizione. Venne a corrispondere. Anche se vestiva da civile era capitano e gli avevano dato la missione di spiarlo assieme ad altri due ufficiali e quattro sergenti, tutti ospitati nell’hotel in camere vicine a quella del patriota. Aveva ordine di seguirlo e arrestarlo, se lo riteneva opportuno.
Anche José Martí passò per l’Inglaterra, o meglio, nel piano superiore del café El Louvre. Doveva pronunciare, a nome di un gruppo di figure del riformismo, il discorso in omaggio al giornalista Adolfo Márquez Sterling. Il tono e l’intenzione di Martí sorpresero i signori della presidenza dell’atto di omaggio, gente cauta e sfuggente all’indipendenza. Martí esaltò la virilità pubblica dell’omaggiato e sentenziò: “L’uomo che acclama, vale di più di quello che supplica...i diritti si prendono, non si chiedono, si strappano, non si mendicano...” e fece si che i commensali rimanessero senza fiato quando disse che la politica liberale cubana doveva procurare la proposta e la soluzione radicale di tutti i problemi del Paese, “per superba, per degna, per energica, io brindo per la politica cubana”. Ma se non si giungesse a soluzioni immediate, definite e concrete, se più che voci della Patria dovessimo essere travestimenti di noi stessi...”allora, rompo la mia coppa, non brindo per la politica cubana!”.

Mazzantini, il torero

Ospiti dell’albergo furono anche il messicano Juventino Rosas, autore del valzer Sulle onde, nel 1894, e il tenore diventato poi sacerdote anch’egli messicano, José Mujica, nel 1931. Il grande Enrico Caruso si alloggiò all’hotel Sevilla, però sembra abbia cenato diverse volte al ristorante dell’Inglaterra durante le sue giornate cubane, Questo lo assicurava Félix B. Caignet, l’autore di Il diritto di nascere, che diceva di averlo accompagnato. Quattro campioni si fecero fotografare nei saloni dell’hotel e trasmisero le istantanee ai posteri. Sono il giocatore di baseball Armando Marsans, il giocatore di biliardo Alfredo de Oro, lo scacchista José Raúl Capablanca e l’astro della scherma Ramón Fonts. Altre due istantanee rendono conto della presenza di Rubén Darío. Il poeta di Azzurro fece scalo all’Avana, in transito per il Messico e i suoi amici gli offrirono, il 2 settembre del 1910, un banchetto all’Inglaterra.
La relazione, tra i molti, comprende i nomi dell’attrice francese Sarah Bernardt e il torero spagnolo Luis Mazzantini. Sarah, assicurava Alessandro Dumas, aveva la faccia da vergine e il corpo da scopa, oltre a una gamba di legno. Lui, lei lo avvertiva al di sopra degli indumenti, aveva tutti gli attributi per farle dimenticare le amarezze della vita e sopratutto il peso dell’età. Si è parlato molto del focoso romanzo che i due vissero all’Avana; gli anni trascorsi, indubbiamente, dispersero i dettagli. Si dice che lui fu a vederla recitare al teatro Tacón e che lei si presentò a sua volta ad una corrida. Si dice anche che lei lo vedeva fumare al ristorante dell’Inglaterra e che osò chiedergli di insegnarle a farlo, ma non in pubblico. Le lezioni, un giorno nella camera della francese e un’altro in quella dello spagnolo, durarono tutta una settimana.


El hotel más antiguo

Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
15 de Marzo del 2014 19:15:57 CDT

Llaman la atención, en su interior, los vistosos azulejos sevillanos,
los mosaicos valencianos y alicantinos, las losas importadas de
Andalucía, las esculturas de marcado sabor hispánico, mientras que en
la fachada predominan los elementos ornamentales criollos propios de
la época como son los balcones con barandas de hierro fundido,
guardavecinos y vitrales. Nunca ha podido explicarse el escribidor por
qué se llama Inglaterra un hotel que denota, al decir de los
especialistas, el encanto de la bella época española, lo mejor del
neoclásico habanero y cuyo snack bar lleva el nombre de La Sevillana.
De cualquier manera, el Inglaterra es el establecimiento hotelero en
activo más antiguo de la Isla. Se inauguró el 23 de diciembre de 1875,
en una zona habanera de privilegio, sobre el mítico Paseo del Prado,
frente al Parque Central. Joaquín Payret, constructor del teatro que
terminaría llevando su nombre, vendió el famoso café El Louvre, sito
en Prado y San Rafael, al arquitecto Juan de Villamil, teniente
coronel retirado del ejército español, que adquirió además el hotel
Americana, contiguo al café, y unificó ambos locales en un edificio al
que puso por nombre Inglaterra. Una foto de 1899 muestra un inmueble
de dos pisos que lleva en lo alto de su fachada el nombre de Hotel y
Restaurante de Inglaterra.
Poco después, a un costo de 300 000 pesos, el local fue totalmente
reconstruido y ajustado a las necesidades de la vida moderna y lujosa,
sin que por ello disminuyera su esplendor de antaño. Las cien
habitaciones de entonces fueron dotadas de cuarto de baño, teléfono y
timbre de servicio, y se contaba con instalaciones que dispensaban
agua helada a todo el hotel. Una estación de telégrafos lo enlazó con
el exterior y su promoción insistía en el dominio del inglés y el
francés que tenían sus empleados. Un confort que respetó sus valores
artísticos originales. A nuevas reformas se sometió el hotel en 1914,
cuando se techó su portal y se dotó al inmueble de una cuarta planta
para habitaciones. En 1989 sufre el edificio una reparación capital a
fin de que respondiera a las exigencias turísticas internacionales,
siempre manteniendo estilo y características que ya para entonces lo
habían convertido, debido a sus altos valores artísticos e históricos,
en Monumento Nacional.

El periodista de las corbatas

Fue, a fines del siglo XIX y comienzos del XX, el hotel preferido por
los corresponsales de prensa extranjeros. Allí Karl Decker, reportero
del New York Journal, una de las tantas publicaciones del magnate
norteamericano William Randolph Hearst, planificó la exitosa fuga de
Evangelina Cossío, internada entonces en la Casa de Recogidas de La
Habana, acción audaz, mírese como se mire, si bien no puede
deslindarse de la implacable campaña orquestada por cierta prensa
norteamericana para apurar la intervención militar de Estados Unidos
en la guerra que Cuba libraba contra España. Eran los tiempos del
sanguinario Valeriano Weyler, y la muchacha, de belleza
extraordinaria, fue conocida en el mundo como la Juana de Arco de
América.
La evasión de Evangelina ocurrió el 7 de octubre de 1897 y pocos días
después, vestida de hombre y con la abundante cabellera oculta en el
sombrero, salía por el puerto habanero rumbo a Nueva York, donde la
aclamaron miles de personas.
Casi un año antes, en noviembre de 1896, se alojaba en el hotel
Inglaterra el célebre cronista español Luis Morote, que para el
periódico El Liberal, de Madrid, llegaba a <> la guerra contra
España. Precisamente en la primera de sus Cartas desde Cuba, que
publicó en el mencionado diario, hay referencias al hotel habanero.
Los amigos que a su llegada lo buscan en el puerto, piden al cochero
que, aunque no sea el camino más directo para llegar al hotel, tome
por la calle Muralla y dé luego la vuelta al Parque Central. Quieren
de esa manera que el periodista recién llegado consiga, en su primer
día habanero, no solo una impresión lo más amplia posible de la
ciudad, sino que vea <>.
Morote no tardaría en ser conocido aquí como <> por aquellas de plastrón, de seda y brillantes colores, que
adquiría en las tiendas de la calle Obispo y de las que abusaba. Un
hecho verdaderamente relevante le conferiría notoriedad. Apareció
Morote de manera inesperada en el campamento del mayor general Máximo
Gómez, en el centro de la Isla, y el jefe del Ejército Libertador,
indignado por la osadía e intrepidez del reportero y tomándolo por un
enemigo --su periódico lo era ciertamente de nuestra guerra de
liberación--, creyó que bien merecía la pena de muerte por
fusilamiento. Sin embargo, no se deja llevar por sus pasiones el Chino
Viejo y somete al sujeto a un consejo de guerra que determinaría la
conducta que se debería seguir. Viene el periodista avalado por una
carta de Severo Pina, ministro de Hacienda del Gobierno de la
República en Armas, y es absuelto por el tribunal. <>, escribe Máximo Gómez en su diario, no sin marcarle
la tarjeta al titular de Hacienda. Y apunta: <>. Sale
además bien comido. En la interesante crónica que escribió sobre el
incidente, Morote elogia el apetitoso lechón tostado a la criolla que
le sirvieron en la comida y el magnífico café con que lo confortaron.
<>, dice el
español en la primera de sus crónicas cubanas, escrita en vísperas de
su viaje a la trocha de Júcaro a Morón. Le parece hermoso el Parque
Central. Su entorno es de maravilla. Coinciden en sus alrededores los
teatros Tacón, Albisu y Payret. También lo que sería la Manzana de
Gómez y el Diario de la Marina --en el edificio del hotel Plaza-- y
frente a este, el lujoso Unión Club.
El hotel Inglaterra es un edificio montado con lujo, a la moderna,
escribe y precisa que se trata de un establecimiento con historia.
Demuestra conocerla bien. Recuerda en ese sentido sucesos que tuvieron
lugar allí. Habla de la Acera del Louvre y sus muchachos, y menciona
de pasada la estancia de Maceo en el hotel, en 1890.

El hombre que clama

Luis Morote, como buen periodista, estaba bien informado. El mayor
general Antonio Maceo, en efecto, es huésped del hotel Inglaterra, una
estancia que se prolonga entre febrero y julio de ese año. La noticia
de su presencia corre por la ciudad y provoca una conmoción enorme.
Todos quieren conocerlo y saludarlo. Los veteranos y los jóvenes, los
intelectuales, los ricos y los pobres. También los militares
españoles, que se ponen en posición de firme al verlo y le dan trato
de General. Con Varona, una de las cumbres de la inteligencia en la
época, se explaya en largas pláticas. Corre el rumor de que quieren
hacerle un atentado y jóvenes de la Acera del Louvre, aquella juventud
que muchos tildaban de frívola, se constituyen en escolta de Maceo y
en su ayudantía; lo acompañarán a todas partes para protegerlo. Gana a
todos los que lo conocen. Es el héroe de la guerra. Y también el
caballero irreprochable; un conversador atento y fino. Los años de
lucha no le hicieron perder sus hábitos de pulcritud y su vestimenta
realza su elegancia natural. Se toca con un sombrero de copa y luce
una levita inglesa que, entreabierta, deja ver el escudo de la
República que lleva al relieve en la hebilla del cinturón. El sastre
Leonardo Valencienne aprecia, como buen conocedor, las medidas
estatuarias del patriota. <<¡Qué figura! Así da gusto cortar una prenda>>, exclama orgulloso de contarlo entre sus clientes. Tiene un
cuerpo macizo y músculos de acero. Es alto, ancho de espaldas. El
cabello empieza ya a encanecerle, pero el rostro se mantiene fresco y
los ojos le relampaguean. La voz es pausada y suave, aunque el acento
es ligeramente gutural. Tiene una mirada profunda y escrutadora, pero
dulce. Julián del Casal, que le dedicó su poema A un héroe, no pudo
evitar exclamar al verlo: <>.
Un español quiere pagarle una deuda de gratitud. Maceo no lo recuerda
y su interlocutor le hace memoria. En la guerra fue su prisionero y el
cubano lo puso en libertad sin condición alguna. Viene a corresponder.
Aunque viste de civil, es capitán y le han dado la misión de espiarlo
con dos oficiales y cuatro sargentos, hospedados todos en el hotel, en
habitaciones próximas a las del patriota. Tiene órdenes de seguirlo y
detenerlo si lo cree oportuno.
José Martí anduvo también por el Inglaterra o, mejor, en los altos del
café El Louvre. Debía pronunciar, en nombre de un grupo de figuras del
reformismo, el discurso de homenaje al periodista Adolfo Márquez
Sterling. El tono y la intención de Martí sorprenden a los señores de
la presidencia del homenaje, gente cauta y remisa a la independencia.
Martí exalta la hombría pública del agasajado y sentencia: <> y hace que los comensales queden
sin aliento cuando dice que si la política liberal cubana ha de
procurar el planteamiento y la solución radical de los problemas todos
del país, <>. Pero si no se llega a soluciones inmediatas,
definidas y concretas, si más que voces de la patria hemos de ser
disfraces de nosotros mismos... <>.

Mazzantini, el torero

Huéspedes del hotel fueron asimismo el mexicano Juventino Rosas, autor
del vals Sobre las olas, en 1894, y el tenor, y luego sacerdote José
Mujica, también mexicano, en 1931. El gran Enrico Caruso se alojó en
el hotel Sevilla, pero parece haber cenado varias veces en el
restaurante del Inglaterra durante sus jornadas cubanas. Eso aseguraba
Félix B. Caignet, el autor de El derecho de nacer, que decía haberlo
acompañado. Cuatro campeones se hicieron fotografiar en uno de los
salones de este hotel y legaron la instantánea a la posteridad. Son el
pelotero Armando Marsans, el billarista Alfredo de Oro, el ajedrecista
José Raúl Capablanca y el astro de la esgrima Ramón Fonts. Otras dos
instantáneas dan cuenta de la presencia de Rubén Darío. El poeta de
Azul hace escala en La Habana, en tránsito hacia México, y sus amigos
le ofrecen, el 2 de septiembre de 1910, un banquete en el Inglaterra.
La relación, entre otros muchos, incluye los nombres de la actriz
francesa Sarah Bernhardt y el torero español Luis Mazzantini. Sarah,
aseveraba Alejandro Dumas, tenía cara de virgen y cuerpo de escoba,
además de una pierna postiza. Él, ella lo advirtió por encima de la
ropa, tenía todos los atributos para hacerle olvidar las amarguras de
la vida y sobre todo el peso de la edad. Se ha hablado mucho acerca
del tórrido romance que ambos vivieron en La Habana; los años
transcurridos, sin embargo, difuminaron los detalles. Se dice que él
fue a verla actuar en el teatro Tacón y que ella se le presentó a su
vez en una corrida de toros. Se dice asimismo que ella lo veía fumar
en el restaurante del Inglaterra y que se atrevió a pedirle que la
enseñara a hacerlo, pero no en público. Las clases, un día en la
habitación de la francesa y otro en la del español, duraron toda una
semana.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


domenica 16 marzo 2014

Elefantessa

ELEFANTESSA: bambinaia gigantesca

sabato 15 marzo 2014

Egizio

EGIZIO: parente nordafricano

venerdì 14 marzo 2014

Effuso

EFFUSO: ha il cervello in disordine

Prosegue, a Miami, la politica dei "piccoli passi"

Fonte TTC:



Il 15 marzo, Cuba incontra Miami
Posted by: Jesús Rodríguez in Eventi 22 ore ago 0 22 Views

Cuba Educational Travel partecipa all’organizzazione di un’importante conferenza a favore delle relazioni culturali e istituzionali tra Cuba e USA.
Cuba Educational Travel (agenzia specializzata in viaggi, scambi culturali e convention a Cuba) ha partecipato all’organizzazione del convegno organizzato da Cuban Americans For Engagement (cubano-americani per il dialogo) e FORNORM (organizzazione che ha la finalità di “normalizzare” le relazioni tra Cuba e gli Usa), che si terrà il 15 marzo, a Miami.
Il titolo dell’evento è “Le relazioni Cuba-Stati Uniti nella seconda amministrazione Obama: la comunità cubano-americana e i cambiamenti a Cuba. Costruendo ponti per migliorare le relazioni”.
L’incontro è stato pensato per essere un’occasione ideale di dialogo, incontro e confronto tra le due nazioni, vicine geograficamente ma ideologicamente ancora distanti: i temi trattati si focalizzeranno sui cambiamenti avvenuti nell’isola caraibica negli ultimi anni, ma non solo: l’appuntamento tratterà infatti nello specifico anche argomenti legati alle tradizioni culturali e religiose dell’isola.
Il convegno, che avrà luogo nell’Hotel Sofitel di Miami, si propone di incentivare la partecipazione della comunità cubana nei nuovi scenari che potrebbero sviluppare rapporti positivi tra i due paesi. Elena Freyre, presidentessa della FORNORM, ha dichiarato recentemente che “i cubani che risiedono oggi negli Usa non sono fuggitivi ma sono emigranti che continueranno ad amare per sempre il loro Paese” aggiungendo che “questa conferenza doveva svolgersi a Miami perché è proprio a Miami che devono iniziare i cambiamenti positivi verso Cuba”.
Diretta da Collin Laverty, esperto di Cuba e delle relazioni Cuba-Stati Uniti, Cuba Educational Travel organizza programmi di scambio culturale e viaggi “people-to-people” per cittadini americani e residenti cubani verso Cuba.
Laverty ha dichiarato: “…c’è molto da imparare l’uno dall’altro. Per questo, sostenere il dialogo, soprattutto attraverso i viaggi e lo scambio culturale è un’esperienza che può rafforzare sensibilmente le comunità artistiche, ambientali sociali, scientifiche in entrambi i Paesi. Attraverso il viaggio e la conoscenza, il rapporto fra le persone può diventare un legame importante per il futuro”.

giovedì 13 marzo 2014

Curiosità (almeno per adesso)

Sono rimasto sorpreso nell'aver visto un bus da turismo, importato negli anni '80, con una targa "P", ovvero "particular", privato. Che ci fossero in circolazione camion (anche adibiti al trasporto di persone) con targhe private non è una novità, ci sono da tanti anni. Meno frequenti erano i piccoli "van" che oggi sono sempre più numerosi a sfoggiare questo tipo di immatricolazione. Chi sarà il proprietario del bus modello "Marco Polo" costruito dalla Volvo brasiliana? Che uso ne fa? Molto probabilmente potrebbe trattarsi di una delle nuove cooperative per il trasporto, credo sia la chiave di interpretazione più logica e semplice. Se avrò occasione cercherò di saperne di più.


Edotto

EDOTTO: è uno dei sette nani di Biancaneve

mercoledì 12 marzo 2014

Incontro di Garatti col pubblico

Come annunciato dal direttore del centro Culturale Wilfredo Lam, Jorge Fernández, ieri si è tenuto l'incontro fra l'architetto, il pubblico visitante la mostra e gli studenti di architettura. Il direttore Fernández, nel presentare l'incontro ha fatto un riassunto della carriera di Vittorio Garatti, sottolineando le sue doti di precursore nei moderni concetti di architettura e la visione proiettata nei grandi spazi. La maggior attenzione, anche del pubblico presente, è stata come si prevedeva, verso la Scuola Nazionale d'Arte di Cubanacan e nell'occasione ha preso la parola un architetto nordamericano che ha detto di essere alla sua seconda visita a Cuba proprio in funzione di accompagnare gruppi di colleghi interessati a conoscere il complesso. La struttura, che aveva subito anni di abbandono è stata in parte recuperata, ma necessita di fondi per il suo intero recupero e completamento. Vittorio, ha avuto conferma dall'Ambasciatore Carmine Robustelli che l'Italia è disposta a dare un finanziamento per l'opera, ma che questa è subordinata ad una formale richiesta del Governo cubano.
Nella speranza di poter vedere il complesso, finalmente terminato, il giovane quasi 87enne Vittorio, continua a creare progetti su grande scala. Attualmente sta lavorando in quello che ha chiamato "Anillo del Caribe" che prevede la inter connettività di tutti i porti dell'area.







Edilizia/o

EDILIZIA/O: parenti occupati nella costruzione

lunedì 10 marzo 2014

Sangue nella Costituente, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 9/3/14

Quel 1° di marzo avrebbe potuto essere come qualsiasi altro giorno nella vita di Orestes Ferrara y Marino. Quando scese dal letto, alla solita ora, non c’era niente che facesse prevedere il drammatico svolgersi della giornata. Dopo la prima colazione, l’ex cancelliere cubano – occupò il Segretariato di Stato nel gabinetto del dottor Gerardo Machado – fece e ricevette varie chiamate telefoniche e ricevette le persone che aveva citato nella sala delle armi del suo palazzetto di San Miguel e Ronda, vicino all’Università, che era tornato a occupare al suo ritorno dall’esilio. Poco prima dell’una del pomeriggio salì a cambiarsi. Avrebbe pranzato con un’importante figura della cosiddetta Scienza Cristiana, di passaggio dall’Avana che sua moglie aveva invitato e una volta concluso il pranzo, che sperava non si estendesse troppo, avrebbe partecipato come nei giorni precedenti, nella corrispondente sessione della Convenzione Costituente nella quale era stato eletto, nonostante il suo passato machadista, e che aveva sede nel Campidoglio. Ma Orestes Ferrara y Marino non sarebbe arrivato quel pomeriggio al Palazzo delle Leggi. L’auto a noleggio che lo trasportava fu crivellata da colpi d’arma da fuoco sparati da un altro veicolo in marcia e i proiettili che lo colpirono lo misero in punto di morte.
La sua vita pendeva certamente da un filo fin dal suo ritorno a Cuba. Era partito dall’Avana lo stesso giorno della caduta di Machado, il 12 agosto del 1933, per vivere alla grande tra New York e Parigi, un esilio ‘dorato’ grazie ai suoi legami – come avvocato e come azionista – con grandi capitali nordamericani fra i quali la International Telephone end Telegraph (ITT) che aveva contribuito a fondare. Il giornalista Ramón Vasconcelos, allora presidente del Partito Liberale, istigato dall’ambasciatore statunitense Jefferson Caffery, fece la gestione per il suo ritorno a Cuba, ma Ferrara si rifiutò di accettare quello che sarebbe stato un ritorno condizionato dal suo silenzio e l’obbligo di rimanere lontano dalla vita politica.
Era l’unico machadista che non tornò all’Isola fino a che non decise di farlo, succedesse quello che succedesse e procedette a modo suo, rifiutando le pressioni e ciò che era peggio i consigli. Rifiutò il suggerimento del presidente Federico Laredo Bru di domiciliarsi lontano dall’Università al fine di evitare incidenti con gli studenti, come quello successo in Infanta e San Lázaro, dove un alunno di medicina tentò di aggredirlo a pugni, davanti allo sguardo indifferente di un poliziotto. A Santiago de Cuba, Orlando León Lemus, un cavaliere dal grilletto facile che rese celebre lo pseudonimo di “Il Rosso” lo attese all’esterno del club San Carlos, dove Ferrara teneva una conferenza, con l’intenzione di farlo fuori, ma i dirigenti dell’istituzione lo fecero uscire da una porta posteriore. Lo “scherzo” circolava irrefrenabile sulla collina universitaria e nella strada imperava il fucile a canne mozze. Ramiro Valdés Daussá giustiziò, nella propria casa di Ferrara, uno dei suoi dipendenti che era nella polizia ai tempi di Machado ed era coinvolto nell’omicidio di suo fratello. Alcuni giorni dopo assassinarono un tizio che usciva dalla residenza e dopo l’autista. Erano avvertimenti. Non riuscirono, comunque, a chiudere la bocca di questo italiano, nato a Napoli nel 1876 che aveva raggiunto il grado di colonnello nell’Esercito di Liberazione. In un discorso a Camagüey attaccò il defenestrato presidente Miguel Mariano Gòmez e classificò l’attitudine dell’ex presidente Grau San Martin come quella di “un’elegante peripatetica dai facili costumi, che si pasce in un’atmosfera di profumi scadenti.” Criticò i partiti sorti dalla Rivoluzione del ’30 e in modo particolare l’Autentico.
La violenta diatriba fece si che il colonnello Batista dichiarasse alla stampa che l’attitudine di Ferrara rendeva molto difficile ai poteri pubblici di garantirgli l’incolumità. Molti anni dopo, l’astuto italiano scriverà: “Sapevo bene che i pubblici poteri non mi potevano difendere. Mi difendevo con la mia vita, senza necessità di polizia né soldati.” Le sue uscite civiche avevano poco valore in un Paese in cui si usavano impunemente le mitragliatrici. In cambio, la dichiarazione del Capo dell’Esercito era un invito all’omicidio. Ferrara lo sapeva.

Rimango. Non rimango

Al fine di sfuggire ad attentai piú o meno imminenti, Ferrara faceva brevi viaggi negli Stati Uniti. Andava e tornava, ma in questi spostamenti i suoi nemici avrebbero potuto dargli facilmente la caccia.
Correva l’anno 1939 e si convocò la convenzione che doveva elaborare la Costituzione del 1940. Il 15 novembre si celebrarono le elezioni per l’Assemblea Costituente. Vince l’opposizione. Di 76 nomine, 35 corrispondono al Governo: 41 a suoi avversari. Sono 73 uomini e 3 donne. Per gli autentici c'erano Grau San Martin, Eduardo Chibás, Alicia Hernández de la Barca, Emilio (Millo) Ochoa, Eusebio Mujal e Carlos Prío. I comunisti si fecero rappresentare da Juan Marinello, Blas Roca, Salvador García Agüero, Romárico Cordero, Esperanza Sánchez Mastrapa e César Vilar, due nomi questi ultimi, maledetti poi nel comunismo insulare. Jorge Mañach, Francisco Ichaso e Joaquín Martínez Sáenz figurano negli almanacchi. Ci sono democratici e repubblicani come: Miguel Mariano Gómez, Pelayo Cuervo, Carlos Márquez Sterling Santiago Rey...Per i liberali ci sono José Manuel Cortina, Rafael Guas Inclán, Alfredo Hornedo, Emilio Nuñez Portuondo, Orestes Ferrara...
I liberali di Las Villas insistettero perché si candidasse per questa provincia al centro dell’Isola. Ci fu giubilo per la sua elezione nelle file dell’organizzazione politica e Ferrara ricevette compiaciuto le congratulazioni di correligionari e amici, però aveva preso la determinazione di dimettersi, o meglio di non accettare la candidatura. Per questo il giorno della convocazione dell’assemblea, invece di presentare le sue credenziali, inviò le sue dimissioni. La lettera di denuncia fu letta nel plenario e si accordò di riprodurla sul Giornale delle Sedute.
Cosa stava succedendo? Una corrente gli soffiava contro. Un connotato machadista poteva figurare fra i redattori della nuova Legge dele Leggi? Paradossalmente, un uomo che combatté frontalmente Machado si alzò in sua difesa. Era Eduardo Chibás. Si mise il caso ai voti. Settantacinque convenuti votarono a suo favore. Ci fu un’astensione. Nessuno votò contro.

Sangue in San Rafael

Lo scriba ritorna adesso a quel 1° di marzo del 1940. Il pranzo con il rappresentante della Scienza Cristiana si prolungava troppo. L’inizio della sessione del giorno era previsto per le tre del pomeriggio e Ferrara, puntuale per abitudine, era restìo ad arrivare in ritardo. Fu allora che decise di accomiatarsi dal suo invitato invece di aspettare che l’invitato lo facesse. Nel lasciare la sala da pranzo, un cameriere lo informò che il dottor Cortina con preghiera che lo aspettasse per arrivare assieme al Campidoglio. Sapendo che non era mai puntuale, disse al cameriere che riferisse all’amico e collega, al suo arrivo, che non aveva potuto aspettarlo. Chiese la sua auto con urgenza, l’autista gli disse che la macchina non aveva benzina. Ferrara decise di non discutere, almeno in quel momento, la stranezza della situazione e ordinò che gli chiamassero un taxi. Nel montare sull’automobile disse al tassista che aveva fretta. Gli indicò che prendesse la Calzada di Infanta, svoltasse a sinistra in San Rafael e continuasse fino al Campidoglio. Il poliziotto che lo accompagnava dalla sua elezione, si sedette a fianco all’autista. Ferrara occupò il lato sinistro del sedile posteriore e il suo segretario si sedette a destra.
Ferrara ricorda nel suo libro Uno sguardo su tre secoli: “Dopo aver svoltato in San Rafael per pochi metri, ho sentito il rumore di un auto che frenava bruscamente facendo un giro inaspettato e quasi contemporaneamente delle ripetute scariche di mitragliatrice o di arma a canna lunga. Un’auto sfilava alla sinistra mietendo vittime coi suoi colpi. La prima cosa che vidi fu il cranio aperto del povero autista che sotto il sole mi fece l’effetto di un crogiolo in ebollizione. L’automobile assaltatrice fece le sue scariche da dietro e girò velocemente al nostro lato sinistro. Io mi inclinai da una parte ed estrassi il mio revolver, ma quando avrei potuto farne uso, gli assaltatori erano già molto lontani...”
L’auto, priva di ogni controllo, proseguì la marcia per San Rafael fino a che un giovane vigoroso che era presente alla scena, salì sul veicolo e lo frenò. Il poliziotto che da giorni aveva il compito di difendere il delegato alla Costituente si allontanò dal luogo dei fatti in cerca di aiuto. Ferrara credeva di essere uscito illeso; sentiva solo un “doloretto” nella parte superiore della schiena.
La polizia non appariva, però al suo posto il luogo si riempì di abitanti della zona. Alcuni automobilisti fermarono i loro veicoli. Qualcuno si offrì di condurre all’ospedale l’astuto politico. Ferrara rifiutò. Disse di non essere ferito, ma quelli che lo circondavano lo convinsero del contrario. In effetti cominciava a sentire la schiena bagnata. Aveve due proiettili inseriti sopra la terza costola, tre nella spalla sinistra, un’altra nella parte alta della colonna vertebrale e altre disseminate qua e la, in punti del corpo che sembravano pericolosi, ma la natura, benevola, li poté mantenere in posizione di attesa.
Lo fecero montare in un automobile e tre o quattro dei giovani che presenziarono al fatto si offrirono per accompagnarlo al Pronto Soccorso dell’ospedale, ma non entrarono nel nosocomio col ferito. Ferrara, che non aveva con sé moneta, dette un peso all’autista per la corsa, ma l’uomo lo rifiutò augurandogli buona fortuna.
La notizia corse come polvere da sparo. Maria Luisa, la moglie, lo seppe quando lo sapeva già la famiglia di Ferrara a Napoli. La sua cognata italiana aveva la radio accesa quando i programmi si interruppero per informare che il dottor Orestes Ferrara era morto in una strada dell’Avana.
Immediatamente l’ospedale si riempì di amici e correligionari. Arrivarono all’installazione sanitaria quasi tutti i delegati della Convenzione Costituente. Non tardò a fare atto di presenza il Presidente della Repubblica e il colonnello Batista inviò un caloroso messaggio. Lo operarono nell’Ospedale Militare di Marianao. La pallottola che entrò nel collo, l’avrebbero estratta anni dopo, in Spagna. Ferrara ci mise due mesi per tornare alla Costituente.

Chi fu?

Come quasi tutti gli attentati perpetrati a Cuba tra il 1933 e il 1944 e poi durante i mandati “autentici” dei presidenti Grau e Prío (1944-52) l’aggressione a Ferrara rimase misteriosa. Non si trovò il colpevole.
Molti anni dopo, a Miami, il generale Manuel Benítez, capo della Polizia nazionale cubana, disse a Max Lesnik, allora direttore della rivista Réplica – e così lo raccontò Lesnik allo scriba -, che l’autore dell’attacco fu Emilio Tro che col passare del tempo, dopo il suo ritorno dalla II Guerra Mondiale, dove combatté con l’esercito nordamericano, fonderà la Unione Insurrezionale Rivoluzionaria (UIR) e troverà la morte nei cosiddetti fatti di Orfilia, nel settembre 1947.
Benitez disse che il colonnello Batista seppe del ruolo di Tro nell’attentato a Ferrara e volle toglirselo di mezzo. Gli mandò a dire con Benitez, che non si nascondesse perché lo avrebbe comunque trovato e gli offrì un biglietto per gli Stati Uniti, la possibilità di avere il passaporto e dieci mila dollari per le spese. Precisava Benitez nella sua conversazione con Lesnik un fatto che parlava dell’onestà di Tro. Disse Benitez: “Devo dire, per onore alla verità, che Tro accettò il biglietto e i documenti per il passaporto, ma respinse i soldi...Dieci mila dollari che, guarda! Mi sono messo in tasca io”.

Sangre en la Constituyente

Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
8 de Marzo del 2014 21:57:59 CDT

Aquel 1ro. de marzo pudo haber sido como cualquier otro día en la vida
de Orestes Ferrara y Marino. Cuando salió de la cama a la hora de
costumbre nada hacía avizorar el dramático desenlace de la jornada.
Tras el desayuno, el ex canciller cubano --ocupó la Secretaría de
Estado en el gabinete del dictador Gerardo Machado-- hizo y atendió
varias llamadas telefónicas y recibió en la sala de armas de su
palacete de San Miguel y Ronda, aledaño a la Universidad, que había
vuelto a ocupar a su regreso del exilio, a las personas que tenía
citadas. Poco antes de la una de la tarde subió a cambiarse.
Almorzaría con una importante figura de la llamada Ciencia Cristiana,
de paso por La Habana, a la que su esposa había invitado, y una vez
concluida la comida, que esperaba no se extendiese demasiado,
participaría, al igual que en los días anteriores, en la sesión
correspondiente de la Convención Constituyente para la cual había sido
electo, pese a su pasado machadista, y que sesionaba en el Capitolio.
Pero Orestes Ferrara y Marino no llegaría esa tarde al Palacio de las
Leyes. El auto de alquiler que lo transportaba fue tiroteado desde
otro vehículo en marcha y los balazos que impactaron su cuerpo lo
pusieron al filo de la muerte.
Su vida ciertamente pendía de un hilo desde su regreso a Cuba. Había
salido de La Habana el mismo día de la caída de Machado, el 12 de
agosto de 1933, para vivir, a horcajadas entre Nueva York y París, un
exilio <> gracias a sus vínculos --como abogado y como
accionista-- con grandes capitales norteamericanos, entre estos la
International Telephone and Telegraph (ITT) que había contribuido a
fundar. El periodista Ramón Vasconcelos, presidente entonces del
Partido Liberal, instigado por el embajador estadounidense Jefferson
Caffery, gestionó su regreso a Cuba, pero Ferrara se negó a aceptar lo
que sería un retorno condicionado por su silencio y la obligación de
mantenerse alejado de la vida política.
Era el único machadista que no había vuelto a la Isla cuando decidió
hacerlo pasara lo que pasara, y ya aquí procedió a su forma, renuente
a las presiones y, lo que es peor, a los consejos. Rehuyó la
sugerencia del presidente Federico Laredo Bru de domiciliarse lejos de
la Universidad a fin de evitar incidentes con los estudiantes, como el
ocurrido en Infanta y San Lázaro, donde un alumno de Medicina intentó
agredirlo a golpes ante la mirada indiferente de un policía. En
Santiago de Cuba, Orlando León Lemus, un caballero del gatillo alegre
que hizo célebre el seudónimo de El Colora'o, lo esperó en las afueras
del club San Carlos, donde Ferrara pronunciaba una conferencia, con
intención de pasarle la cuenta, pero la directiva de la institución lo
hizo salir por una puerta trasera. El <> campeaba por sus
respetos en la colina universitaria e imperaba en la calle la escopeta
recortada. Ramiro Valdés Daussá, en la propia casa de Ferrara,
ajustició a uno de sus empleados, policía en tiempos de Machado
vinculado al asesinato de sus hermanos. Días más tarde asesinaban a un
sujeto que salía de la residencia y luego al chofer. Eran avisos. No
conseguían sin embargo cerrar la boca a este italiano nacido en
Nápoles en 1876 y que había ganado el grado de coronel en el Ejército
Libertador. En un discurso en Camagüey atacó al defenestrado
mandatario Miguel Mariano Gómez y calificó la actitud del ex
presidente Grau San Martín como <>.
Criticó a los partidos surgidos de la Revolución del 30 y en especial
al Auténtico.
La violenta diatriba motivó que el coronel Batista declarara a la
prensa que dada la actitud de Ferrara resultaría muy difícil al poder
público garantizarle la vida. Muchos años después escribía en sus
memorias el astuto italiano: <>. Sus alardes de civismo poco valían en un país en el que las
ametralladoras se usaban impunemente. En cambio, la declaración del
Jefe del Ejército era una invitación al asesinato. Ferrara lo sabía.
Me quedo. No me quedo
A fin de rehuir atentados más o menos inminentes, hacía Orestes
Ferrara viajes breves a Estados Unidos. Iba y volvía, pero en esos
trasiegos sus enemigos hubieran podido cazarlo con facilidad.
Corre el año de 1939 y se convoca a la convención que elaboraría la
Constitución de 1940. El 15 de noviembre se celebran las elecciones
para la Asamblea Constituyente. Triunfa la oposición. De 76 actas, 35
corresponden al Gobierno; 41 a sus contrarios. Hombres son 73 y tres
mujeres. Por los auténticos están Grau San Martín, Eduardo Chibás,
Alicia Hernández de la Barca, Emilio (Millo) Ochoa, Eusebio Mujal y
Carlos Prío. Los comunistas se hacen representar por Juan Marinello,
Blas Roca, Salvador García Agüero, Romárico Cordero, Esperanza Sánchez
Mastrapa y César Vilar, dos nombres, estos dos últimos, malditos
después en el comunismo insular. Jorge Mañach, Francisco Ichaso y
Joaquín Martínez Sáenz figuran entre los abecedarios. Hay demócratas y
republicanos, como Miguel Mariano Gómez, Pelayo Cuervo, Carlos Márquez
Sterling, Santiago Rey... Por los liberales están José Manuel Cortina,
Rafael Guas Inclán, Alfredo Hornedo, Emilio Núñez Portuondo, Orestes
Ferrara...
Los liberales de Las Villas insistieron en que aspirara por esa
provincia del centro de la Isla. Hubo júbilo por su elección en las
filas de esa organización política y Ferrara recibió complacido las
congratulaciones de correligionarios y amigos, pero había tomado la
determinación de renunciar o, más bien, de no aceptar la
representación. Por eso el día de la convocatoria de la asamblea, en
lugar de presentar sus credenciales, envió sus dimisiones. La carta de
renuncia fue leída en el plenario y se acordó reproducirla en el
Diario de Sesiones.
¿Qué pasaba? Una corriente le soplaba en contra. ¿Debía un machadista
connotado figurar entre los redactores de la nueva Ley de Leyes?
Paradójicamente, un hombre que combatió frontalmente a Machado se alzó
en su defensa. Fue Eduardo Chibás. Se puso a votación el caso. Setenta
y cinco convencionales votaron a su favor. Hubo una abstención. Nadie
votó en contra.
Sangre en San Rafael
Vuelve ahora el escribidor a aquel 1ro. de marzo de 1940. El almuerzo
con el representante de la Ciencia Cristiana se prolongaba demasiado.
El inicio de la sesión del día estaba marcado para las tres de la
tarde, y Ferrara, puntual por hábito, se resistía a llegar fuera de
hora. Fue entonces que decidió despedirse de su invitado en lugar de
esperar que su invitado se despidiera. Al abandonar el comedor, un
sirviente le comunicó que el doctor Cortina había telefoneado con el
ruego de que lo esperara para acudir juntos al Capitolio. Sabiéndolo
impuntual, pidió al sirviente que dijera al amigo y colega cuando
llegara que no había podido esperarlo. Pidió con urgencia su
automóvil, y el chofer le dijo que el vehículo no tenía gasolina.
Decidió Ferrara no discutir, al menos en ese momento, lo extraño de la
situación y ordenó que llamaran a un taxi. Al subir al automóvil dijo
al taxista que tenía prisa. Le indicó que ganara la calzada de
Infanta, doblara a la izquierda en San Rafael y avanzara hasta el
Capitolio. El policía que lo acompaña desde su elección se sentó al
lado del chofer. Ferrara ocupó el lado izquierdo del asiento trasero y
su secretario se sentó a la derecha.
Recuerda Ferrara en su libro Una mirada sobre tres siglos: <>.
El auto, libre de todo control, siguió su marcha San Rafael abajo
hasta que un joven vigoroso que presenciaba la escena subió al
vehículo y lo frenó. El policía que desde días antes tenía la
encomienda de defender al delegado a la Constituyente se alejó del
lugar del suceso en busca de ayuda. Ferrara creía haber salido ileso;
solo sentía un <> en la parte alta de la espalda.
No aparecía la policía, pero el lugar se fue llenando de vecinos.
Algunos automovilistas detuvieron sus vehículos. Alguien se ofreció
para conducir al hospital al astuto político. Ferrara se negó. Alegó
no estar herido, pero los que lo rodeaban lo convencieron de lo
contrario. Empezaba a sentir, en efecto, la espalda mojada. Tenía dos
balas alojadas sobre la tercera costilla, tres en el hombro izquierdo,
otra en la parte más alta de la espina dorsal y otras más diseminadas
aquí y allá, en lugares del cuerpo que parecían peligrosos, pero que
la naturaleza, benévola, pudo detener como en situación de espera.
Lo hicieron subir a un automóvil y tres o cuatro de los jóvenes que
presenciaron el hecho se prestaron a acompañarlo hasta el hospital de
Emergencias, pero no entraron con el herido a la casa de salud.
Ferrara, que no llevaba dinero suelto, dio un peso al chofer por la
carrera, pero el hombre se negó a aceptarlo y le deseó buena suerte.
La noticia corrió como la pólvora. María Luisa, la esposa, se enteró
cuando ya lo sabía la familia de Ferrara en Nápoles. Su cuñada
italiana tenía la radio abierta cuando la programación se interrumpió
para informar que el doctor Orestes Ferrara había muerto en una calle
de La Habana.
Pronto el hospital se colmó de amigos y correligionarios. Llegaron a
la instalación sanitaria casi todos los delegados de la Convención
Constituyente. No demoró en hacer acto de presencia el Presidente de
la República y el coronel Batista envió un caluroso mensaje. Lo
operarían en el Hospital Militar de Marianao. La bala que se le alojó
en el cuello se la sacarían, años después, en España. Ferrara
demoraría dos meses en volver a la Constituyente.
¿Quién fue?
Como casi todos los atentados perpetrados en Cuba entre 1933 y 1944, y
luego durante los mandatos auténticos de los presidentes Grau y Prío
(1944-52) la agresión a Ferrara quedó en el misterio. No se halló al
culpable.
Muchos años después, en Miami, el ex general Manuel Benítez, jefe de
la Policía Nacional cubana, dijo a Max Lesnik, director entonces de la
revista Réplica --y así lo contó Lesnik a este escribidor--, que el
autor del ataque fue Emilio Tro, que andando el tiempo, luego de su
regreso de la II Guerra Mundial, en la que combatió como parte del
ejército norteamericano, fundaría la Unión Insurreccional
Revolucionaria (UIR) y encontraría la muerte en los llamados sucesos
de Orfila, en septiembre de 1947.
Dijo Benítez que el coronel Batista supo del papel de Tro en el
atentado a Ferrara y quiso quitárselo del medio. Mandó a decirle con
Benítez, que no se le escondiera porque lo encontraría y le ofreció un
pasaje para Estados Unidos, la posibilidad de hacerse un pasaporte y
diez mil dólares para gastos. Precisaba Benítez en su conversación con
Lesnik un hecho que habla de la honestidad de Tro. Decía Benítez:
<>.

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