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martedì 28 giugno 2016

Washington versus Madrid, pagine di guerra (II), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 26/6/16

Fin da prima di rompere le ostilità, Washington aveva ordinato il blocco navale dell’Isola cosa che impediva alla Spagna, da una parte, di portare truppe fresche, armamenti e munizioni e dall’altra, muovere risorse tra i diversi porti del territorio. Navi da guerra statunitensi stazionate di fronte ai porti di Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos e l’Avana erano visibili dalla costa e impedivano l’entrata e l’uscita di imbarcazioni di qualunque bandiera. Non meno di dieci mercantili spagnoli furono sequestrati e portati a Key West. La misura aveva anche altri obbiettivi strategici: aspettare che le truppe regolari nordamericane destinate a sbarcare completassero le loro manovre durante l’estate, a New Orleans, Mobile e Tampa e lasciare che le forze cubane continuassero a dissanguare gli spagnoli.
Fu così che il capitano generale Ramón Blanco y Erenas, Marchese di Peña Plata, sollecitò a Madrid l’invio della truppa spagnola dell’Atlantico che in quel momento aspettava gli ordini di fronte alle isole di Cabo Verde, nell’Africa Occidentale.
Questa era comandata dall’ammiraglio Pascual Cervera, un marinaio di quasi 60 anni d’età – nato a Jerez de la Frontera il 18 febbraio del 1839 – che dopo essere uscito dalla scuola navale di San Fernando ascese grado a grado, grazie alla sua partecipazione ai fatti più importanti della storia del suo Paese nella seconda metà del XIX secolo, un’epoca il cui finale tragico sarebbe stato simbolizzato con l’affondamento della squadra che gli toccò comandare.
Cervera prese parte a, campagna del Marocco (1853), nella spedizione spagnola contro la Cocincina (1862) e già come capitano di vascello assunse, nel 1866, il pattugliamento delle coste del Perù. Durante la guerra dei dieci anni fu di vigilanza alle coste cubane. Partecipò inoltre alla guerra carlista distinguendosi nella difesa dell’arsenale de La Carraca. Nel 1891 presiedette la delegazione del suo Paese alla Conferenza Navale di Londra e l’anno seguente lo nominarono ministro della Marina nel  Governo di Madrid nel gabinetto del presidente Sagasta, incarico a cui rinunciò per protesta per la scrsa dotazione economica destinata al suo ministero come se prevedesse, come dicono gli storici, la tragedia che avrebbe sofferto la flotta spagnola quando le sarebbe toccato afffrontare forze superiori, più moderne e meglio equipaggiate.
Facevano parte della flotta dell’Atlantico quattro incrociatori corazzati e tre destroyer che stazzavano un complesso di 28.600 tonnellate e disponevano, almeno in teoria, di 120 cannoni, otto mitragliatrici pesanti e 24 tubi lancia siluri, installati nei piccoli destroyer.
Cervera fece quanto alla sua portata al fine di convincere il ministro della Marina e il Governo di Madrid che non mandassero la flotta a Cuba o a Portorico. Suggeriva che facesse base alle Canarie per proteggere, da quella posizione, le isole e il territorio della Penisola. Il fatto, secondo lui, era di evitare uno scontro frontale con i nordamericani nei Caraibi.

“Vado al sacrificio”

La flotta nordamericana dell’Atlantico, al comando dell’ammiraglio William T. Sampson, era molto superiore alla spagnola. Disponeva di nove incrociatori corazzati che stazzavano oltre 65.000 tonnellate e aveva installati quasi 300 cannoni, 22 mitragliatrici pesanti e 37 tubi lancia siluri. Non solo superava la spagnole per numero di imbarcazioni, tonnellaggio e potenza di fuoco, le navi erano più moderne, possedevano una blindatura più forte e la loro abilitazione era più completa. Inoltre c’era la questione del combustibile. L’armata statunitense poteva rifornirsi di tutto il carbone che ci fosse stato nelle sue basi che si trovavano a poche ore di distanza mentre gli spagnoli, con seri problemi in questo senso, avevano le loro basi di rifornimento a migliaia di chilometri dai Caraibi.
L’ammiraglio Cervera insistette invano. Conosceva la superiorità del suo nemico. Per questo, alla vigilia della sua partenza per Cuba, informò nuovamente il Ministro della Marina circa le condizioni delle sue navi che lasciavano molto a desiderare. La sua artiglieria era incompleta o difettosa, non contava con munizioni adeguate né sufficienti e non disponeva nemmeno di quantità di carbone di qualità. Nel suo rapporto, il marinaio diceva che la sua squadra si sarebbe messa in un vicolo cieco. Una situazione dalla quale non poteva aspettarsi altro che la distruzione delle sue navi o la demoralizzazione dei suoi uomini.
Alle porte del terribile inverno del 1898, le alte sfere spagnole sembravano vivere, senza dubbio, un’euforia trionfalista che raggiungeva anche la popolazione. Molti avaneri comuni non restavano indietro, nei caffè evocavano le battaglie di Lepanto o del Callao e incensavano fino allo sfinimento la superiorità dell’armata spagnola, mentre nel vestibolo del teatro Albisu, l’illustre comandante della marina spagnola don Pedro Peral, fratello di Isaac, l’inventore del sommergibile, si impegnava a dimostrare giustamente il contrario.
In una pagina deliziosa delle sue Viejas postales descoloridas, l’osservatore dei costumi Federico Villoch dice che a Cuba, in quel momento, si parlò di Cabo Verde come mai prima né dopo e che c’era chi osservava le mappe per vaticinare da che parti le due squadre si sarebbero distrutte a cannonate. “Gli yankee hanno paura del terribile abbordaggio spagnolo”, dicevano alcuni. Le immaginazioni surriscaldate tracciavano quadri raccapriccianti di pirateria, col sollevare le maniche dei marinai armati di grandi e affilati coltelli, il sangue scorrendo a bordo.
Lo stesso Ministro della Marina spagnolo, con la testa fra le nuvole, dava a Cervera prima di partire verso i Caraibi, la seguente missione: Andare negli Stati Uniti, difendere le isole di Cuba e Portorico, bloccare i porti americani del Golfo del Messico, distruggere la base navale di Key West, sede della flotta dell’Atlantico e se possibile bloccare porti nell’est...”
Alcuni vaporetti riuscirono, dal porto avanero, burlare l’accerchiamento nordamericano o, entravano e uscivano col permesso degli assedianti. Con autorizzazione lo fece Lafayette, della Compagnia Transatlantica Francese, traboccante di passeggeri che abbandonavano la città per paura delle future contingenze, gli seguì il brigantino messicano Arturo, carico di fuggitivi. Gli speculatori di sempre fecero i soldi con l’affare improvvisato di convertire golette scalcagnate in navi per passeggeri che per 50 o 100 pesos a biglietto, trasportavano dall’Avana a Vera Cruz.
Ma le corazzate Brooklyn, Texas, Iowa, Luisiana..., dice Villoch, continuavano imperturbabili all’orizzonte, fermi come se avessero messo le radici nelle rocce del fondo, forando le notti coi loro potenti fari elettrici. Questa vigilanza non fu sufficiente perché il vapore spagnolo Monserrat, con tutte le luci spente burlasse il blocco, arrivando due giorni dopo, a un vicino porto del Messico per poter, a sua volta, rifornire di viveri l’Avana. Una nave da guerra spagnbole chiamata Conde de Venadito, un pomeriggio si arrischiò a uscire dal porto per provocare l’aggressione delle navi nordamericane e obbligarle ad avvicinarsi alla costa perché fossero cannoneggiate dal Morro, cosa che risultò vana in quanto quello che fecero gli yankee fu di scaricargli poderose bordate e rimanere impavidi sulle lo ricevette gli ordini di  ro linee. Fra le altre cose si verificò l’ingresso spettacolare della goletta Santiago che uscì una mattina a tutta vela da Bahía Honda e penetrò  salva nel nostro porto, sotto le cannonate che si incrociavano tra una delle corazzate americane e la batteria di Santa Clara, piazzata dove si costruì l’Hotel Nacional de Cuba.
Il 24 di aprile, Cervera ricevette l’ordine di muoversi verso i Caraibi e si dispose a compierli non senza avvertire i suoi superiori che andava al sacrificio con la coscienza tranquilla. Il giorno seguente, gli Stati Uniti dichiararono formalmente la guerra alla Spagna. Una settimana più tardi, nella baia di Cavite, Filippine, la flotta nordamericana del Pacifico distruggeva, in poche ore, la squadra spagnola lì concentrata. La notizia provocò la commozione che c’era da aspettarsi in Spagna. Il 12 maggio, il Ministro della Marina inviò un telegramma a Fort de France, in Martinica, autorizzando Cervera a tornare in Spagna. Ma Cervera non vide mai questo messaggio. Il giorno prima, lasciava indietro Fort de France dirigendo la prora verso Cuba.

Il tragico eroe

Il 14 maggio, navi nordamericane bombardarono, con totale impunità, San Juan di Portorico. Cinque giorni dopo, il 19, la flotta di Cervera entrava nella baia di Santiago de Cuba. All’inizio di giugno, la squadra dell’ammiraglio Sampson bombardava questa città. Con oggetto di imbottigliare Cervera, i suoi avversari affondarono il pontone Merrimac nella bocca santiaghera. A partire da lì se le navi spagnole volevano uscire, dovevano farlo una alla volta, trasformate in una sorta di tiro al bersaglio per i nordamericani.
Si intervistarono col maggior generale Calixto García, luogotenente generale dell’ Esercito di Liberazione, l’ammiraglio Sampson, capo della flotta, il generale Shafter, capo dell’ Esrcito di terra. Le truppe nordamericanesbarcarono avanzando verso Santiago. Il generale Linares, capo di quella piazza militare, non si fece illusioni sulla vittoria spagnola e sapeva che la sconfitta avrebbe messo in grave rischio la flotta ancorata nella baia. Il capitano generale Ramón Blanco che ricevette da madrid la potestà di decidere su tutte le forze militari staccate sull’Isola, inclusa la squadra e che sapeva come pensava Cervera, telegrafò all’ammiraglio: “Lei dice che la caduta di Santiago è certa, in quel caso lei dovrà distruggere le sue navi e questa è una ragione di più per tentare una sortita, già che è preferibile, per l’onore delle armi, soccombere combattendo...”. Allora Cervera scrisse a Linares: “...affermo con la magior enfasi che non sarò mai chi decida l’orribile e inutile ecatombe...Compete a Blanco decidere se devo andare al suicidio trascinando con me questi 2.000 spagnoli”.
Prima dell’attacco imminente, i marinai di Cervera si aggiunsero alla difesa terrestre di Santiago. Il 1° di luglio occorsero le battaglie di El Caney e di San Juan dove, in un tentativo disperato di recuperare le posizioni, il generale Linares risultò gravemente ferito. Il giorno 2, dall’Avana, il Capitano Generale ordinò a Cervera di uscire dalla baia santiaghera con le sue navi. Il giorno dopo, alle 9.45 del mattino, sparando all’impazzata da entrambi i lati, la squadra spagnola cominciò a uscire in direzione est. Un’ora più tardi, la flotta dell’Atlantico soccombeva davanti alla potenza nordamericana e lo stesso ammiraglio Pascual Cervera, il tragico eroe, raggiungeva a nuoto la costa dove venne fatto prigioniero. In Spagna dovette affrontare un consiglio di guerra accusato per la perdita della squadra. Fu assolto e rimase in servizio attivo ancora diversi anni. Morì il 3 aprile del1909.
La battaglia navale di Santiago ebbe, per la Spagna, il saldo di 326 morti, 215 feriti e 1.720 prigionieri. I nordamericani ebbero un morto e un ferito. “Non sempre al valore si accompagna la fortuna” diceva il Capitano Generale nel suo messaggio agli abitanti dell’Isola e “fermi e risoluti davanti al pericolo” li chiamava a confidare in Dio “e nel nostro diritto a lasciare incolumi l’onore e l’integrità della patria”. Il generale Shafter, da parte sua, presentava un ultimatum: Se Santiago de Cuba non si fosse arresa, sarebbe stata bombardata. Ma questo lo vedremo domenica prossima.


Washington vs. Madrid: páginas de la guerra (II) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
25 de Junio del 2016 19:51:56 CDT

Desde antes de romperse las hostilidades, Washington había ordenado el bloqueo naval de la Isla, lo que impedía a España, por una parte, traer tropas frescas, pertrechos y municiones, y por otra, mover recursos entre diferentes puertos del territorio. Barcos de guerra estadounidenses surtos frente a los puertos de Mariel, Cabañas, Matanzas, Cárdenas, Cienfuegos y La Habana se hacían visibles desde la costa e impedían la entrada y la salida de embarcaciones de cualquier bandera. No menos de diez mercantes españoles fueron apresados y conducidos a Cayo Hueso. La medida tenía otros objetivos estratégicos:
esperar a que las tropas regulares norteamericanas destinadas a desembarcar completaran durante el verano su entrenamiento en Nueva Orleans, Mobile y Tampa, y dejar que las fuerzas cubanas continuaran desangrado a las españolas.
Fue así que el capitán general Ramón Blanco y Erenas, Marqués de Peña Plata, solicitó a Madrid el envío a Cuba de la flota española del Atlántico, que en esos momentos esperaba órdenes frente a las islas de Cabo Verde, en África occidental.
Esta era mandada por el almirante Pascual Cervera, un marino de casi
60 años de edad —nacido en Jerez de la Frontera, el 18 de febrero de 1839— y que luego de egresar de la escuela naval de San Fernando ascendió grado a grado, gracias a su participación en los más importantes sucesos de la historia de su país durante la segunda mitad del siglo XIX, una época cuyo trágico final sería simbolizado justamente con el hundimiento de la escuadra que le tocó comandar.
Tomó parte Cervera en la campaña de Marruecos (1853), en la expedición española contra la Conchinchina (1862) y ya como capitán de navío asumió en 1866 el patrullaje de las costas de Perú. Durante la Guerra de los Diez Años estuvo en la vigilancia de las costas cubanas.
Participó además en la guerra carlista, distinguiéndose en la defensa del arsenal de La Carraca. Presidió en 1891 la delegación de su país a la Conferencia Naval de Londres y, al año siguiente, lo nombraron ministro de Marina en el gabinete del presidente Sagasta, cargo al que renunció en protesta por la escasa dotación económica destinada a su ministerio, como si previera desde entonces, dicen historiadores, la tragedia que sufriría la flota española cuando le tocara enfrentarse a fuerzas superiores, más modernas y mejor dotadas.
Conformaban la flota del Atlántico cuatro cruceros acorazados y tres destructores, que desplazaban en conjunto 28 600 toneladas, y disponían, en teoría al menos, de 120 cañones, ocho ametralladoras pesadas y 24 tubos lanzatorpedos, además de unos pocos cañones de tiro rápido y algunos tubos lanzatorpedos instalados en los pequeños destructores.
Hizo Cervera cuanto estuvo a su alcance a fin de convencer al Ministro de Marina y al Gobierno de Madrid de que no mandaran la flota a Cuba o a Puerto Rico. Sugería que la basaran en Canarias, para proteger desde esa posición las islas y el territorio de la Península. El asunto, a su juicio, era evitar un encuentro frontal con los norteamericanos en el Caribe.

«Voy al sacrificio»

La flota norteamericana del Atlántico, al mando del almirante William T. Sampson, era muy superior a la española. Disponía de nueve cruceros acorazados, que desplazaban más de 65 000 toneladas y tenía instalados casi 300 cañones, 22 ametralladoras pesadas y 37 tubos lanzatorpedos.
No solo superaba a la española en número de embarcaciones, tonelaje y potencia de fuego, sino que los buques eran más modernos, poseían un blindaje más fuerte y su habilitación era más completa. Estaba además la cuestión del combustible. La armada estadounidense podía contar con cuanto carbón quisiera estando sus bases como estaban a pocas horas de distancia, mientras que los españoles, con serios problemas en este campo, tenían sus fuentes de abasto a miles de kilómetros del Caribe.
En vano insistió el almirante Pascual Cervera. Conocía la superioridad de su enemigo. Por eso, en la víspera de su partida hacia Cuba, informó nuevamente al Ministro de Marina acerca de las condiciones de sus barcos, que dejaban mucho que desear. Su artillería estaba incompleta o defectuosa, no contaba con municiones adecuadas ni suficientes y tampoco disponía de carbón de calidad. En su informe, el marino decía que su escuadra se colocaría en un callejón sin salida; una situación de la que no podía esperarse más que la destrucción de sus barcos o la desmoralización de sus hombres.
A las puertas del terrible verano de 1898, las altas autoridades españolas parecían vivir, sin embargo, en una borrachera triunfalista que alcanzaba también a la población. No se quedaban atrás muchos habaneros de a pie que en los cafés evocaban las batallas de Lepanto y El Callao y pregonaban hasta el cansancio la superioridad de la armada española, mientras que en el vestíbulo del teatro Albisu, el ilustrado comandante de la marina española don Pedro Peral, hermano de Isaac, el inventor del submarino, se empeñaba en demostrar justamente lo contrario.
En una página deliciosa de sus Viejas postales descoloridas, el costumbrista Federico Villoch dice que en Cuba por aquel entonces se habló de Cabo Verde como nunca antes ni después y que había quien escrutaba los mapas para vaticinar en qué paraje ambas escuadras se desbaratarían a cañonazos. «Los yanquis le tienen un miedo terrible al abordaje español», decían algunos. Y las imaginaciones calenturientas trazaban cuadros espeluznantes de piratería, remangados los puños de los marineros armados de grandes y afilados cuchillos, y la sangre corriendo a bordo.
El propio Ministro de Marina español, con la cabeza en las nubes, daba a Cervera, antes de su partida hacia el Caribe, la misión siguiente:
«Ir a EE. UU., defender las islas de Cuba y Puerto Rico, bloquear los puertos norteamericanos del golfo de México, destruir la base naval de Cayo Hueso, sede de la flota del Atlántico, y de ser posible bloquear puertos del este…».
Algunos vapores lograron burlar, desde el puerto habanero, el cerco norteamericano, o salían y entraban con permiso de los sitiadores. Con autorización lo hizo el Lafayette, de la Compañía Trasatlántica Francesa, atestado de viajeros que abandonaban la ciudad por miedo a las futuras contingencias, y le siguió el bergantín mexicano Arturo, cargado de fugitivos. Los especuladores de siempre hicieron dinero con el improvisado negocio de convertir goletas desvencijadas en barcos de pasajeros que, por 50 o 100 pesos el boleto, transportaban pasaje desde La Habana a Veracruz.
Pero los acorazados Brooklyn, Texas, Iowa, Louisana…, dice Villoch, continuaban imperturbables en el horizonte, firmes como si hubiesen echado raíces en las rocas del fondo, bañando las noches con sus potentes focos eléctricos. Esa vigilancia no fue obstáculo para que el vapor español Monserrat, con todas sus luces apagadas, burlase una noche el bloqueo y arribase sin novedad, dos días después, a un cercano puerto de México para, a su vuelta, abastecer de víveres a La Habana. Un barco de guerra español llamado Conde de Venadito se arriesgó una tarde a salir del puerto para provocar la agresión de los acorazados americanos y obligarlos a acercarse a la costa para que fueran cañoneados desde el Morro, lo que resultó en vano, pues el yanqui lo que hizo fue largarle una andanada de tiros y permanecer impávido en su línea. Se dio también, entre otros casos, la entrada espectacular de la goleta Santiago, que a todo trapo salió una mañana de buen viento de Bahía Honda y penetró sana y salva en nuestro puerto, bajo los cañonazos que se cruzaban uno de los acorazados norteamericanos y la batería de Santa Clara, emplazada donde se edificó el Hotel Nacional de Cuba.
El 24 de abril recibía Cervera la orden de moverse hacia el Caribe y se dispuso a cumplirla no sin antes advertir a sus superiores que iba al sacrificio con la conciencia tranquila. Al día siguiente, Estados Unidos declaró formalmente la guerra a España. Una semana más tarde, en la bahía de Cavite, Filipinas, la flota norteamericana del Pacífico destruía, en cuestión de horas, la escuadra española concentrada allí.
La noticia provocó en España la conmoción que era de esperar. El 12 de mayo, el Ministro de Marina dirigió un telegrama a Fort de France, en Martinica, autorizando a Cervera a regresar a España. Pero Cervera jamás vio ese mensaje. El día anterior dejaba atrás Fort de France y ponía proa a Cuba.

El héroe trágico

El 14 de mayo barcos norteamericanos bombardearon con total impunidad San Juan de Puerto Rico. Cinco días después, el 19, la flota de Cervera entraba en la bahía de Santiago de Cuba. A comienzos de junio la escuadra del almirante Sampson bombardeaba esa ciudad. Con objeto de embotellar a Cervera, sus adversarios hundieron el pontón Merrimac en la boca de la rada santiaguera. A partir de ahí, si los barcos españoles querían salir, debían hacerlo de uno en uno, convertidos en una suerte de tiro al blanco para los norteamericanos.
Se entrevistan con el mayor general Calixto García, lugarteniente general del Ejército Libertador, el almirante Sampson, jefe de la flota, y el general Shafter, jefe del Ejército de tierra. Desembarcan las tropas norteamericanas y avanzan hacia Santiago. El general Linares, jefe de esa plaza militar, no se hace ilusiones respecto a la victoria española y sabe que la derrota pondría en grave riesgo a la flota anclada en la bahía. El capitán general Ramón Blanco, que recibió de Madrid la potestad de decidir sobre todas las fuerzas militares destacadas en la Isla, incluso la escuadra, y que sabe cómo piensa Cervera, telegrafía al Almirante: «Dice usted que la caída de Santiago es segura, en cuyo caso tendrá usted que destruir sus barcos, y esta es una razón más para intentar una salida, ya que es preferible para el honor de las armas sucumbir combatiendo…».
Cervera escribe entonces a Linares: «… afirmo con el mayor énfasis que nunca seré quien decida la horrible e inútil hecatombe… A Blanco incumbe decidir si debo ir al suicidio, arrastrando conmigo a estos 2
000 españoles».
Ante el ataque inminente, los marinos de Cervera se suman a la defensa terrestre de Santiago. Ocurren el 1ro. de julio de 1898 las batallas de El Caney y de San Juan, donde, en un intento desesperado por recuperar la posición, resulta gravemente herido el general Linares.
El día 2, desde La Habana, el Capitán General ordena a Cervera que salga con sus barcos de la bahía santiaguera. Al día siguiente, a las
9:45 de la mañana, disparando sin cesar por ambas bandas, empezó a salir, con rumbo este, la escuadra española. Una hora más tarde la flota del Atlántico sucumbía ante el poderío norteamericano, y el propio almirante Pascual Cervera, el héroe trágico, alcanzaba la costa a nado y era hecho prisionero. Debió enfrentar en España un consejo de guerra acusado de la pérdida de la escuadra. Fue absuelto y permaneció durante unos cuantos años más en servicio activo. Murió el 3 de abril de 1909.
La batalla naval de Santiago tuvo para España el saldo de 326 muertos,
215 heridos y 1 720 prisioneros. Los norteamericanos tuvieron un muerto y un herido. «No siempre al valor acompaña la fortuna», decía el Capitán General en su mensaje a los habitantes de la Isla, y «firmes y resueltos ante el peligro», los llamaba a confiar en Dios «y en nuestro derecho a dejar incólumes el honor y la integridad de la patria». El general Shafter, por su parte, presentaba un ultimátum:
Si Santiago de Cuba no se rendía, sería bombardeada. Pero eso lo veremos el próximo domingo.

Ciro Bianchi Ross




lunedì 20 giugno 2016

Ciao Fossili, di Luca Lombroso

Dai primi di luglio in libreria il mio nuovo libro, qui le anticipazioni della scheda dell’Editore:


CIAO FOSSILI - Cambiamenti Climatici, Resilienza e Futuro Post Carbon

Il 2015 è stato un anno di svolta per i cambiamenti climatici. Da un lato le concentrazioni di CO2 in atmosfera hanno per la prima volta nella storia dell’evoluzione umana superato le 400 ppm. Siamo entrati, letteralmente, in un territorio nuovo, sconosciuto, mai vissuto dall’homo sapiens. 
Ondate di caldo, siccità, alluvioni, nubifragi, tornado, uragani sono ormai in una fase di “nuova normalità” con cui volenti o nolenti dobbiamo adattarci e convivere con resilienza.
Dall’altro, sappiamo che oltre una certa soglia non potremmo convivere. Qual è questa soglia e quale strada tracciare dunque per “salvare il mondo”? Siamo ancora in tempo? 
Ormai non ci sono più dubbi: per evitare cambiamenti climatici inauditi dobbiamo limitare il riscaldamento planetario ben al di sotto di 2°C, meglio ancora di 1.5°C, rispetto all’era preindustriale. È giunto il momento di avviarci alla definitiva decarbonizzazione della nostra società nel corso di questo stesso secolo. 
In questo ultimo libro, Luca Lombroso traccia nuovi scenari possibili di un futuro post carbon. A ispirare il suo percorso, due documenti di straordinario valore: l’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco sulla cura della Casa Comune e l’Accordo di Parigi approvato alla storica conferenza sul clima COP 21 tenutasi nella capitale francese a dicembre 2015.


La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma ci è stata data in prestito dai nostri figli
Proverbio  indiano
Noi siamo la prima generazione a subire l’impatto del cambiamento climatico e l’ultima a poter fare qualcosa” 
Barack Obama,
COP 21, Parigi 2015
Non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi
i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile
per l’umanità che verrà dopo di noi” 
Papa Francesco,
Enciclica Laudato si’, 2015
Le generazioni future e le altre specie, che condividono la biosfera con noi, non hanno voce per chiederci compassione, saggezza e autorità. Dobbiamo ascoltare il loro silenzio, dobbiamo essere la loro voce e agire per loro” 
Dichiarazione Buddhista
sui cambiamenti climatici, 2009
Cosa diranno le future generazioni di noi, che lasciamo loro in eredità un pianeta degradato?
Come ci presenteremo al nostro Signore e Creatore?” 
Dichiarazione islamica
sul cambiamento climatico globale, 2015







“L'uomo, danneggiando l'ambiente, si comporta proprio come le cellule cancerogene quando si espandono danneggiando l'organismo stesso dove vivono, ma quando l'organismo muore, muoiono anche loro” Cosa c’è oggi di più odiato delle cellule cancerogene che tutti direttamente o indirettamente abbiamo avuto modo di conoscere? Possiamo accettare di essere paragonate a loro? Certamente no. Allora non perdiamo tempo e corriamo ai ripari. Questo libro ci può certamente aiutare. Ci apre la mente, ci aggiorna sulla situazione attuale della nostra “casa comune” ma si offre a noi anche come una sorta di “istruzione per l’uso” utile a non distruggere noi stessi e i nostri figli.
(Dalla prefazione di Licia Colò)


Della stessa serie:




luca lombroso

La risposta alle mail potrebbe non essere immediata, la reperibilità telefonica potrebbe non essere continua. Questo per ottimizzare i tempi di vita e lavoro, perché non vengano sacrificati all'invasività delle comunicazioni.   
Ma anche perchè i sistemi tecnologi sono poco affidabili: email importanti possono, indipendentemente dalla nostra volontà, essere marcate come indesiderata dai software automatici, ai cellulari può mancare campo o scaricarsi la batteria... e anch'essi risentiranno, inevitabilmente, dell'impatto dei cambiamenti climatici e delle conseguenze del peak oil






Washington versus Madrid: pagine della guerra (I), di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 19/6/16

Il combattimento cominciò alle sei di mattina del 1° luglio del 1898, quando l’artiglieria aprì il fuoco su El Caney e nell’opinione del comando nordamericano, doveva finire alle otto. Era completamente inconcepibile che 520 soldati spagnoli, resistessero per un tempo maggiore all’urto di 5.400 effettivi provenienti dagli Stati Uniti. Gli statunitensi attaccarono con valore e sprezzo per le loro vite, ma la difesa spagnola non era meno eroica e il fuoco di artiglieria degli attaccanti non risultò completamente efficace. Alle 11 della mattina, la fortezza era ancora in potere dei suoi difensori.
Il generale Lawton, capo nordamericano che comandava quell’operaione,decise allora di aggiungere al combattimento la truppa che teneva di riserva e sollecitò al maggior generale Calixto García, Luogotenente Generale dell’Esercito di Liberazione, l’incorporazione di soldati cubani. Al tempo stesso, accettava i consigli del capo mambí  per una miglior conduzione dell’attaccco e ad ognuno dei battaglioni di due delle brigate d’attacco si aggiungeva una compagnia del Reggimento Baconao.
All’una del pomeriggio si riannodò il combattimento su tutto il fronte. Quattro ore più tardi, il generale Shafter, massimo capo delle truppe nordamericane a Cuba, vedendo l’energica resistenza dei difensori, ordinò a Lawton che desistesse dal suo proposito. In realtà appropriarsi di quel paesetto, situato a sei chilometri da Santiago de Cuba era stata idea di Shafter, concepita come operazione che comprendeva un attacco simultaneo alla fortezza situata sulla Collina di San Juan, fatti che avrebbero preceduto la presa di Santiago.
Il suo piano prevedeva che la divisione comandata dal generale Lawton attaccasse prima El Caney e una volta compiuta la sua missione si incorporasse a quelle che avrebbero attaccato San Juan. Ma questa azione si dovette iniziare senza le truppe di Lawton, impantanate a El Caney.
La difesa di questo paese comprendeva il forte El Viso, con quattro fortini di legno connessi fra di loro con trincee protette da filo spinato, così come le case di mattoni del paese e la chiesa, preparate come opere difensive. Specialisti militari questionavano la necessità di attaccarlo, la sua ubicazione geografica e le forze di cui contava non erano considerate significative nei piani statunitensi di impadronirsi di Santiago de Cuba. Bastava, assicurano gli esperti, averlo aggirato.
Lawton non accettò l’ordine di ritirata di Shafter. Erano già passate le cinque del pomeriggio quando si riprese l’attacco. L’artiglieria degli assaltanti aumentò l’efficacia. El Viso cominciava a sentire gli effetti di spari centrati che ammorbidì la resistenza e il capo della piazza, generale Joaquín Vara del Rey, non ebbe alternativa che ordinare ai suoi uomini di uscire dal forte e cercare riparo in paese.
Mentre lo facevano, il generale fu ferito alle gambe e quando l’azione di ritirata si convertì in una fuga disordinata, gli uomini che lo portavano in barella lo abbandonarono alla sua sorte a metà strada. Solo pochi ufficiali rimasero al suo fianco. Alla fine morirà in un’imboscata della cavelleria cubana. Sopravviverà solamente un capo spagnolo, un tenente colonnello che riuscì a raggiungere Santiago al fronte di 60 subordinati.
Alle sei del pomeriggio El Caney cadde in potere degli assaltanti, dopo una carica finale alla quale parteciparono anche le truppe  mambise del colonnello Carlos González Clavell che si erano distinte in modo straordinario, quello stesso giorno, nel combattimento di San Juan. Al cessare questa azione, alle tre del pomeriggio, González Clavel e i suoi uomini si trasferirono a El Caney per rinforzare le truppe del generale Lawton e furono i primi a entrare nel paese. L’azione lasciò un saldo di 480 perdite per gli spagnoli, 420 per i nordamericani e un centinaio per i cubani.

Una cronologia

Si sono compiuti in questi giorni -10 giugno 1898 – 118 anni dalla sbarco nelle vicinanze di Guantánamo, del primo gruppo di fanti della marina che prenderà parte alla guerra contro la Spagna. Il grosso della truppa – il quinto corpo d’armata degli Stati Uniti – tarderà ancora una decina di giorni a sbarcare. Il loro capo, il generale Shafter e l’ammiraglio Simpson, capo della flotta che la trasportava, intercambiarono criteri con Calixto García. Sampson espresse che l’obbiettivo iniziale doveva essere il santiaghero, per poi impadronirsi della città.
Calixto aveva un piano ben diverso: il quinto corpo sarebbe sbarcato in Daiquirí e avrebbe attaccato Santiago dall’est, mentre i cubani lo avrebbero fatto dall’ovest, per cui si sarebbe completato un accerchiamento che avrebbe impedito l’entrata di rinforzi per le truppe spagnole.
Prevalse il criterio di Calixto, accettato dai capi nordamericani.
Il 20 giugno, forze cubane al comando del generale Agustín Cebreco, occupano posizioni all’ovest e nordovest di Santiago al fine di intercettare rinforzi e iniziare un’operazione destinata a distrarre gli spagnoli. Il giorno seguente, il generale Castillo Duany e il colonnello González Clavell iniziano un’operazione di pulizia della costa che avrebbe facilitato lo sbarco.
Parallelamente, un forte contingente cubano situato alla periferia di Guantánamo impedisce l’uscita di rinforzi spagnoli da questa città e González Clavell, al comando di circa 530 mambises prende il paesetto di Daiquirí per assicurare lo sbarco dei 16.000 soldati statunitensi che arriveranno il giorno seguente.
Tremila soldati spagnoli che l’attacco di González Clavell obbligò a ritirarsi da Daiquirí e Siboney si concentrano a Las Guasimas. Un generale nordamericano si decide ad attaccarli e chiede il concorso del citato ufficiale cubano, ma questi ha istruzioni di Calixto di ubbidire solo al generale Lawton e d’altra parte c’è un ordine di Shafter che proibisce l’avanzata nordamericana mentre i rifornimenti non sono assicurati. Ciò nonostante il generale attacca gli spagnoli ed   duramente castigato, tanto che si vede obbligato a chiedere rinforzi al generale Lawton. In realtà non sono necessari.
Inspiegabilmente gli spagnoli si ritirano e Las Guasimas, Sevilla e redondo restano in mano ai nordamericani.
Mentre ciò succede, il maggior generale Calixto García arriva a Siboney e il generale Jesús Rabí assume il comando delle truppe cubane. Tre giorni dopo, il generale Shafter sbarca a Siboney. Nonostante l’incalzare costante dei mambises, il colonnello Federico Escario, al fronte di una colonna di 3.700 uomini che era uscita da Manzanillo il 27 di giugno, riesce a entrare a Santiago e rinforza la città assediata.
Prima, il 1° luglio, ci furono le battaglie di El Caney e San Juan. Anche se le cifre differiscono tra una fonte e l’altra, il Dizionario Enciclopedico di storia militare de la FAR, assicura che in quest’ultima azione, tra morti e feriti, gli spagnoli persero 400 uomini e i nordamericani 650, mentre le perdite cubane si aggiravano sulle 50.
Erano in origine, dice la stessa fonte, circa 450 effettivi spagnoli al comando del colonnello Baquero, 6.000 nordamericani e circa 600 cubani comandati dall’inevitabile González Clavell.
Gli spagnoli risposero al fuoco di artiglieria nordamericano con un’artiglieria ben camuffata che impiegava polvere senza fumo, cosa che rese difficile la sua ubicazione. Seguì l’attacco di cavalleria che protetta dalla frondosa boscaglia, riuscì a mettersi a tiro di fucile della fortezza senza essere scoperta dai suoi difensori. Gli spagnoli rispondevano vigorosamente e le perdite degli attaccanti cominciarono ad essere numerose, ma mantennero le loro posizioni senza esitazioni. Tre alti ufficiali nordamericani che avanzavano al comando delle loro rispettive brigate caddero in combattimento. Giunsero i rinforzi inviati da Shafter e i mambises che dal fianco opposto, guidavano ina truppa degli Stati Uniti, si approssimarono all’obbiettivo sotto l’intenso fuoco nemico che difendeva San Juan con fermezza e valore. Il 71° Reggimento di Volontari di New York si fermò davanti alle scariche del nemico e cominciò a retrocedere. Il cubano González Clavell allora fece avanzare i suoi uomini, ristabilì la linea di fuoco e ottenne che gli effettivi del 71° Reggimento proseguissero la loro avanzata. Questo valse al colonnello mambí una felicitazxione del comando nordamericano in pieno campo di battaglia.
La resistenza spagnola si indebolì e San Juan cadde in potere nordamericano e cubano. La soret di Santiago de Cuba era ormai gettata.

Ultimi giorni

Allora succede qualcosa di inspiegabile. Il generale Shafter, vapo dell’esercito nordamericano di terra, si demoralizza nel contare il numero di perdite sofferte dalle sue truppe a San Juan e El Caney. Il clima dell’Isola, d’altra parte, gli provoca sofferenze inenarrabili.
Scrive al generale Lawton, suo secondo: “La mia presente posizione mi è costata mille uomini e non sono disposto a perderne ancora”. E con riferimento a Santiago, dice al Segretario della Guerra del suo Paese: “Noi abbiamo accerchiato la città dal nord e dall’est, am con una linea moilto debole. All’avvicinarci abbiamo trovato che le difese sono di tal classe e forza che sarà impossibile prenderle d’assalto con le forze che ho. Sto considerando seriamente di ritirarmi cinque miglia dalla mia posizione attuale e prenderne una nuova tra il fiume San Juan e Jardinero”.
In un Consiglio di Guerra, Shafter espose la sua decisione di ritirarsi dalla lotta e chiedere rinforzi a Washington. La sua ufficialità rigettò il proposito “pericoloso all’estremo perché potrebbe aumentare il morale del nemico e seminare sconcerto nel corpo di spedizione”.
Shafter si vide obbligato a presentare le sue dimissioni e consegnare il comando a Lawton. L’alto comando nordamericano si sentì allora tanto disorientato che giunse a proporre al generale Calixto García che assumesse il comando delle operazioni, cosa che il veterano mambí non accettò perché se lo avesse fatto si sarebbe convertito in esecutore della politica nordamericana a Cuba. Ebbene, prima con Shafter, insistette sui vantaggi di non interrompere l’attacco, cosa che avrebbe dato agli spagnoli l’opportunità di riorganizzarsi e inviare a Santiago rinforzi considerevoli.
Per allora, l’Esercito di Liberazione aveva sferrato un’offensiva generale all’ovest di Santiago con cui si completò l’accerchiamento. I mambises, successivamente, si impadronirono di San Vicente, Dos Bocas, Boniato, Cuabitas e delle colline strategiche de la Loma de Quintero, da dove si dominava interamente la città. le guarnigioni spagnole accampate in quei punti, li abbandonarono precipitosamente.
Questo succedeva il 2 luglio. Il 3, l’ammiraglio Pascual Cervera riceva l’ordine di rompere, con la sua squadra, l’assedio che la flotta dell’ammiraglio Sampson aveva posto alla baia di Santiago, un fatto di enorme trascendenza militare che precipitò la fine della contesa.
Così lo vedremo la settimana prossima.


Washington vs. Madrid: páginas de la guerra (I) Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
18 de Junio del 2016 23:34:49 CDT

El combate comenzó a las seis de la mañana del 1ro. de julio de 1898, cuando la artillería abrió fuego sobre El Caney y, en opinión del mando norteamericano, debía concluir a las ocho. Resultaba totalmente inconcebible que 520 soldados españoles resistieran por más tiempo el embate de 5 400 efectivos procedentes de Estados Unidos. Los estadounidenses atacaron con valor y desprecio de sus vidas, pero la defensa española no era menos heroica y el fuego artillero de los atacantes no resultó totalmente eficaz. A las 11 de la mañana, la fortaleza continuaba en poder de sus defensores.
El general Lawton, jefe norteamericano que comandaba aquella operación, decidió entonces sumar al combate a la tropa que se mantenía en reserva y solicitó al mayor general Calixto García, Lugarteniente General del Ejército Libertador, la incorporación de soldados cubanos. Al mismo tiempo, aceptaba los consejos del jefe mambí para una mejor conducción del ataque, y a cada uno de los batallones de dos de las brigadas en acción se adicionaba una compañía de infantería del Regimiento Baconao.
A la una de la tarde se reanudó el combate en toda la línea. Cuatro horas más tarde, el general Shafter, jefe máximo de las tropas norteamericanas en Cuba, viendo la enérgica resistencia de los defensores, ordenó a Lawton que desistiera de su propósito. En realidad, apoderarse de ese poblado, situado a seis kilómetros de la ciudad de Santiago de Cuba, había sido idea de Shafter, concebida como una operación que incluía el ataque simultáneo a la fortaleza situada en la Loma de San Juan, hechos que antecederían a la toma de Santiago.
Su plan contemplaba que la división que mandaba el general Lawton atacara primero a El Caney y, una vez cumplida su misión, se incorporara a las que atacarían San Juan. Pero esta acción debió de iniciarse sin las tropas de Lawton, atascadas en El Caney.
La defensa de ese poblado incluía el fuerte El Viso, de cuatro fortines de madera conectados entre sí por trincheras y alambradas, así como las casas de mampostería del pueblo y la iglesia, preparadas como obras defensivas. Especialistas militares cuestionan la necesidad de atacarlo, pues por su ubicación geográfica y las fuerzas conque contaba, no era significativo en los planes estadounidenses de apoderarse de Santiago de Cuba. Bastaba, aseguran los expertos, con haberlo flanqueado.
Lawton no acató la orden de retirada de Shafter. Pasaban ya de las cinco de la tarde cuando se reanudó el ataque. La artillería de los asaltantes aumentó en eficacia. El Viso comenzó a sentir los efectos de un tiro certero que aflojó la resistencia, y el jefe de la plaza, general Joaquín Vara del Rey, no tuvo más alternativa que ordenar a sus hombres salir del fuerte y buscar refugio en el poblado.
Mientras lo hacían, el general fue herido en las piernas, y cuando la acción de retirada se convirtió en una fuga desordenada, los hombres que lo conducían en camilla lo abandonaron a su suerte en medio del camino. Solo unos pocos oficiales quedaron a su lado. Moriría, en definitiva, en una emboscada de la caballería cubana. Solo sobreviviría un jefe español, un teniente coronel que logró llegar a Santiago al frente de unos 60 subordinados.
A las seis de la tarde cayó El Caney en poder de los asaltantes, tras una carga final en la que participaron asimismo las tropas mambisas del coronel Carlos González Clavell, que se habían destacado de manera extraordinaria ese mismo día en el combate de San Juan. Al cesar esa acción, a las tres de la tarde, González Clavel y sus hombres se trasladaron a El Caney para reforzar las tropas del general Lawton y fueron los primeros en entrar al poblado.
La acción arrojó un saldo de 480 bajas para los españoles, 420 para los norteños y unas cien para los cubanos.

Una cronología

Se cumplieron en estos días —10 de junio de 1898— 118 años del desembarco en las cercanías de Guantánamo del primer grupo de infantes de marina que tomaría parte en la guerra contra España. El grueso de la tropa —el quinto cuerpo del ejército de EE. UU.— demoraría aún unos diez días en desembarcar. Su jefe, el general Shafter, y el almirante Sampson, jefe de la flota que la transportaba, intercambiaron criterios con Calixto García. Sampson expresó que el objetivo inicial debía ser el Morro santiaguero, para apoderarse después de la ciudad.
Calixto tenía un plan bien distinto: el quinto cuerpo desembarcaría por Daiquirí y atacaría Santiago por el este, mientras que los cubanos lo harían por el oeste, con lo que se completaría un cerco que impediría la entrada de refuerzos para las tropas españolas.
Prevaleció el criterio de Calixto, aceptado por los jefes norteamericanos.
El 20 de junio fuerzas cubanas al mando del general Agustín Cebreco ocupan posiciones al oeste y al noroeste de Santiago, a fin de interceptar refuerzos y acometer una operación destinada a distraer a los españoles. Al día siguiente, el general Castillo Duany y el coronel González Clavell inician una operación de limpieza de costa que facilitaría el desembarco. Paralelamente, un fuerte contingente cubano situado en las afueras de Guantánamo impide la salida de refuerzos españoles desde esa ciudad, y González Clavell, al frente de unos 530 mambises toma el caserío de Daiquirí, para asegurar el desembarco de los 16 000 soldados estadounidenses que arribarían al día siguiente.
Tres mil soldados españoles que el ataque de González Clavell obligó a retirarse de Daiquirí y Siboney, se concentran en Las Guásimas. Un general norteamericano se decide a atacarlos y pide el concurso del aludido oficial cubano. Pero este tiene instrucciones de Calixto de obedecer solo al general Lawton y, por otra parte, hay una orden de Shafter que prohíbe el avance norteamericano mientras los abastecimientos no estén seguros. Aun así el general ataca a los españoles y es duramente castigado, tanto que se ve obligado a pedir refuerzos al general Lawton. A la postre no son necesarios.
Inexplicablemente los españoles se retiran, y Las Guásimas, Sevilla y Redondo quedan en manos de los norteamericanos.
Mientras eso sucede, el mayor general Calixto García llega a Siboney y el general Jesús Rabí asume el mando de las tropas cubanas. Tres días después, el general Shafter desembarca en Siboney. Pese al hostigamiento constante de los mambises, el coronel Federico Escario, al frente de una columna de 3 700 hombres que salió de Manzanillo el
27 de junio, logra entrar en Santiago y refuerza la ciudad sitiada.
Antes, el 1ro. de julio, ocurrieron las batallas de El Caney y San Juan. Aunque las cifras difieren entre unas fuentes y otras, el Diccionario enciclopédico de historia militar, de las FAR, asegura que en esa última acción, entre muertos y heridos, los españoles perdieron
400 hombres y 650 los norteamericanos, mientras que las bajas cubanas rondaron las 50. Eran originalmente, dice la misma fuente, unos 450 efectivos españoles, al mando del coronel Baquero, 6 000 norteamericanos y unos 600 cubanos mandados por el inevitable González Clavell.
Los españoles respondieron al fuego artillero norteamericano con una artillería bien disimulada que empleaba pólvora sin humo, lo que hizo difícil su localización. Siguió el ataque de la caballería que, protegida por la frondosa arboleda, logró ponerse a tiro de fusil de la fortaleza sin ser advertida por sus defensores. Los españoles respondían con denuedo y las bajas de los atacantes comenzaron a ser numerosas, pero mantuvieron sus posiciones sin vacilación. Tres altos oficiales norteamericanos que avanzaban al frente de sus respectivas brigadas cayeron en combate. Llegaron refuerzos enviados por Shafter y los mambises que, por el flanco opuesto, guiaban a una tropa de EE.UU., se aproximaron al objetivo bajo el profuso fuego enemigo que defendía San Juan con firmeza y valor. El Regimiento 71 de Voluntarios de Nueva York se detuvo ante las descargas del enemigo y comenzó a retroceder. El cubano González Clavell hizo entonces avanzar a sus hombres, restableció la línea de fuego y logró que los efectivos del Regimiento 71 prosiguieran su avance. Eso valió al coronel mambí una felicitación del mando norteamericano en pleno campo de batalla.
Aflojó la resistencia española y San Juan cayó en poder de norteamericanos y cubanos. La suerte de Santiago de Cuba estaba echada.

Últimos días

Ocurre entonces algo inexplicable. El general Shafter, jefe del ejército norteamericano de tierra, se desmoraliza al computar el número de bajas sufridas por sus tropas en San Juan y El Caney. El clima de la Isla, por otra parte, le provoca sufrimientos sin cuento.
Escribe al general Lawton, su segundo: «Mi presente posición me ha costado mil hombres y no estoy dispuesto a perder más». Y, en alusión a Santiago, dice al Secretario de Guerra de su país: «Nosotros tenemos cercada la población por el norte y por el este, pero con una línea muy débil. Al acercarnos, nos hemos encontrado con que las defensas son de tal clase y tal fuerza, que será imposible tomarlas por asalto con las fuerzas que tengo. Estoy considerando seriamente retirarme cinco millas de mi actual posición y tomar una nueva entre el río San Juan y Jardinero».
En un Consejo de Guerra expuso Shafter su decisión de retirarse de la lucha y pedir refuerzos a Washington. Su oficialidad rechazó el propósito «peligroso en extremo porque podría aumentar la moral del enemigo y sembrar el desconcierto entre el cuerpo expedicionario».
Shafter se vio obligado a presentar su renuncia y entregar la jefatura a Lawton. El alto mando norteamericano se sintió entonces tan desorientado, que llegó a proponerle al mayor general Calixto García que asumiera el mando de las operaciones, lo que el veterano mambí no aceptó porque de hacerlo se hubiera convertido en el ejecutor de la política norteamericana en Cuba. Antes bien, insistió con Shafter en las ventajas de no interrumpir el ataque, lo que hubiera dado a los españoles la oportunidad de reorganizarse y enviar a Santiago refuerzos considerables.
Ya para entonces el Ejército Libertador había desatado una ofensiva general en el oeste de Santiago, con lo que se completó el cerco. Los mambises se apoderaron sucesivamente de San Vicente, Dos Bocas, Boniato y Cuabitas y de las estratégicas alturas de la Loma de Quintero, desde las que se dominaba la ciudad por entero. Las guarniciones españolas emplazadas en esos puntos, los abandonaban precipitadamente.
Eso ocurría el 2 de julio. El 3, el almirante Pascual Cervera recibía la orden de romper, con su escuadra, el sitio que a la bahía de Santiago había puesto la flota del almirante Sampson, un hecho de enorme trascendencia militar que precipitó el fin de la contienda.
Así lo veremos la próxima semana.

Ciro Bianchi Ross




domenica 19 giugno 2016

Ricevo da Luca Lombroso: Clima è allarme!

Una mia intervista "leggera" con, in anteprima, il titolo del mio nuovo libro


Clima: è allarme! (2016 Giugno 17) - E’ troppo presto per dire che tempo farà quest’estate ma a preoccupare sono i cambiamenti climatici: “ci dobbiamo abituare a vivere in un ambiente più estremo, e anche mediamente più caldo” sostiene Luca Lombroso dell’Osservatorio Geofisico dell’Università di Modena e Reggio Emilia. In base alle sue simulazioni, senza azioni virtuose di limitazione delle emissioni serra, il riscaldamento aumenterebbe  di quattro gradi e in quel caso il mare potrebbe arrivare fino a Ravenna e Ferrara. Sarà un’estate pazzerella? Altro ci deve preoccupare... E’ bastato un inizio di giugno variabile per scatenare l’inevitabile ridda di previsioni catastrofiche sull’estate alle porte. A riportare tutti all’ordine è Luca Lombroso: “è  impossibile fare previsioni sul meteo dei prossimi mesi” puntualizza sottolineando ancora una volta il vero grande problema: l’emergenza ambientale. Lombroso ha partecipato a Parigi alla Conferenza delle Parti (COP 21) delle Nazioni Unite per il Clima, l’evento dedicato al clima e al riscaldamento globale ed è in uscita il suo ultimo libro

Ciao Fossili,
 Cambiamenti climatici resilienza e futuro nell’era post carbon Edizioni Artestampa

dedicato al tema della transizione, appunto, al futuro post combustibili fossili alla luce di due importanti novità, l’enciciclica Laudato Si di Papa Francesco e i risultati di COP 21 di Parigi. Lombroso, la variabilità di questo inizio di giugno potrebbe caratterizzare l’intera estate? “E’ troppo presto per dirlo. Le previsioni si possono formulare fino a cinque/sette giorni, tendenze indicative possono arrivare fino a otto/dieci giorni e quindi  è impossibile fare una previsione precisa di come sarà la restante parte dell’estate. Negli ultimi anni abbiamo assistito a grandissimi estremi in un verso e nell’altro, con la prevalenza sempre del caldo. Non mi stupirei però di questa situazione di variabilità: è capitato in anni recenti che si siano verificate situazioni di caldo precoce ma il mese di maggio appena trascorso non è stato così anomalo come sembra”. Ci dobbiamo abituare a un clima generalmente più caldo? “Ci dobbiamo abituare a vivere in un ambiente più estremo, e anche mediamente più caldo. Negli ultimi anni ci siamo un po’ assuefatti al caldo e consideriamo normale che ci siano 27 gradi già a maggio e a inizio giugno, che però non sono periodi caldi. L’estate meteorologica, lo ricordiamo, inizia il 1° giugno, quella astronomica il 21. Il mese di maggio con 30 gradi fino al 2000 era l’eccezione, non la norma come è stato spesso invece dal 2001 in poi, con anni come il 2006 e il 2009  quando il caldo è stato esagerato e duraturo come nel 2003. Negli ultimi anni, nel mese di maggio non ci sono state particolari ondate di caldo precoce e basta andare solo a  tre anni fa per trovare un mese di maggio più fresco di quello appena trascorso. Certo se guardiamo l’andamento dall’inizio del 2016, qui all’Osservatorio Geofisico del Dipartimento di Ingegneria dell’Università, vediamo che ci sono stati molti momenti caldi, anche lunghi e precoci: addirittura la giornata dell’11 gennaio è stata più calda di alcune di maggio. Si tratta di sbalzi a cui la natura e il corpo umano non rispondono bene”. In pochi anni ci sono stati cambiamenti climatici evidenti? “Siamo di fronte a un problema planetario, lo dimostra la recente conferenza di Parigi a cui ho partecipato, ma anche epocale perché è causato dall’uomo e perché il cambiamento avviene in poco tempo. Dobbiamo immaginare che, in linea con i cambiamenti che ci sono stati a livello globale, già dagli Anni Novanta  nel nostro territorio è come se fosse scattata una molla. Siamo entrati in una nuova normalità fatta di temperature mediamente più alte e con un conseguente problema che ormai è vistoso e indiscutibile: l’aumento di frequenza e intensità dell’ondata di caldo estivo e l’andamento anomalo delle piogge per cui  si alternano precipitazioni anche intense a periodi in cui la pioggia manca completamente. Basta andare allo scorso dicembre quando praticamente non è piovuto e poi fra gennaio e febbraio è caduta tutta la pioggia mancata nei mesi precedenti. Quest’estremizzazione (è già un dato di fatto) si ripercuote naturalmente sull’uomo e sulle sue attività ma naturalmente anche sulla flora, sulla fauna, sull’agricoltura e sull’economia perché il turismo vorrebbe situazioni di meteo stabile. Già accetta difficilmente la normale variabilità figuriamoci questi eccessi sempre più frequenti. E’ un po’ per questo che poi si va a cercare come colpevole (che poi colpevole non è) il meteorologo e le previsioni se mancano i turisti nei fine settimana sulle spiagge o sulle piste da sci durante l’inverno. Non è il meteorologo il problema! E non dimentichiamoci che con questi fenomeni estremi non si scherza: si rischia la vita. Lo dimostra ciò che è successo recentemente a Chioggia Sottomarina con un tornado vero e proprio che ha devastato le spiagge”. Rispetto ai cambiamenti climatici, quanto dobbiamo essere preoccupati da uno a dieci? “Io direi dieci. E’ positiva la decisione della Conferenza di Parigi ma ora si tratta di attuarla e non solo a livello globale. COP 21 chiede un impegno agli Stati ma anche a livello subnazionale, alle realtà e alle amministrazioni locali. Cito, tra gli esempi, quello che stiamo facendo a Carpi e a Campogalliano come Movimento di Città di Transizione (https://campogallianotransizione.wordpress.comhttps://carpitransizione.wordpress.com), cioè come cittadini che stanno cercando di passare a un’era post carbon, caratterizzata da comunità resilienti”. Che cosa significa? “Le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera sono oltre 400 parti per milione ed è un fatto nuovo nell’intera storia dell’evoluzione umana. Le conseguenze non sono ben chiare e solitamente si pensa che sia qualcosa di lontano da noi, un problema di orsi polari. Con il ritiro dei ghiacci del Polo Nord (in queste settimane sono ai minimi storici e addirittura c’è il rischio che questa sia la prima estate che vede il Polo Nord libero da ghiacci) oltre ad aprirsi contenziosi internazionali, per esempio, sulle nuove rotte marine e nelle esplorazioni petrolifere, si verifica un’alterazione della circolazione generale dell’atmosfera. E’ possibile che, in conseguenza della mancanza di ghiaccio al Polo Nord, ci ritroviamo con climi più estremi: inverni anche più brutali e gran caldo improvviso. Tutto ciò perché la mancanza di ghiaccio sostanzialmente va a cambiare la circolazione generale dell’atmosfera. Di fronte a questi rischi, ci sono gruppi di cittadini che dal basso hanno pensato di agire perché i grandi potenti arrivano tardi  e l’azione dei singoli è troppo limitata: nel mezzo ci sono le comunità  che possono affrontare questi problemi di resilienza, cioè la capacità di convivere con un clima più brutale, e sanno come comportarsi quando c’è un’alluvione, un’allerta meteo o un temporale forte. Allo stesso tempo avviano piani di decrescita energetica e di conversione a fonti rinnovabili”. Questo presuppone però una grande consapevolezza del problema… “E’ ovvio la consapevolezza è il primo dei problemi e il tempo stringe. C’è da lavorare molto nelle scuole per le giovani generazioni perché sono quelle che vengono coinvolte dalla Conferenza di Parigi: se tali decisioni saranno attuate, traghetteranno la società a qualcosa di diverso e, credo, migliore. Ma allo stesso tempo non dobbiamo illuderci che basti agire nelle scuole perché l’educazione ambientale deve coinvolgere i consigli regionali, comunali, il parlamento e anche i consiglieri d’amministrazione delle aziende”. E se non faremo nulla a cosa andremo incontro? “Se nel corso di questo secolo (quindi è una cosa che riguarda i nostri bambini),  non si fa niente si va verso un riscaldamento del pianeta oltre i 4/5 gradi e la Banca Mondiale ritiene questo scenario incompatibile con la civiltà globale interconnessa. Di fatto vaste zone andrebbero incontro al collasso e, come sono crollati l’Impero romano e quello dei maya nell’America centrale, a causa anche di cambiamenti ambientali, così potrebbe capitare anche a noi. Città come New York, Londra e non solo le coste del Bangladesh o piccole isole come le Maldive sarebbero sommerse dall’acqua scatenando ondate migratorie. Sul nostro territorio avevo provato a fare alcune simulazioni: se conteniamo il riscaldamento entro i due gradi di temperatura (meglio ancora 1,5) diciamo che avrebbero dei grossi problemi Venezia (che è quasi condannata) ma anche le zone costiere della riviera, però i danni sarebbero di entità tutto sommato accettabile e potremmo conviverci con resilienza. Se il riscaldamento arrivasse a quattro gradi il mare potrebbe arrivare fino a Ravenna e Ferrara”. Sara Gelli

Luca LOMBROSO


sabato 18 giugno 2016

Dizionario del mare per lupi di terra

BITTONE: zerpende dalla belle preggiata