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giovedì 31 ottobre 2013

Cartoline dall'Avana

per chi non la conosce, chi l'ha conosciuta diversa, chi la vuole rivivere

Hotel Santa Isabel, già Mesón de la Flota

Ingresso al Castillo de la Real Fuerza

El Templete, in Plaza de Armas

Il molo di Casablanca, a sinistra il Cristo dell'Avana, a destra l'Osservatorio Metereologico

Il Castillo de la real Fuerza dal Malecón (lungomare)

Il canale d'ingresso al porto con San Carlos de la Cabaña a destra e il Morro, col faro, sullo sfondo

Capofitto

CAPOFITTO: testa dal pelo folto

mercoledì 30 ottobre 2013

Conto alla rovescia per il Mariel

Manacano ormai solo poche ore all'apertura ufficiale della cosiddetta "zona franca" del Mariel. Sento dire che alcuni "cubanologi" del web sognano già un aggiramento dell'embargo nordamericano per questa via, ma questa zona che è meglio definire "speciale" e non "franca", di franco ha solo molte agevolazioni fiscali, burocratiche e doganali per gli imprenditori che impegnino capitali in essa impiantando fabbriche e mezzi di produzione. NON è una zona di libero commercio come si intende la zona del canale a Panama o la nostra "casereccia" Livigno, per esempio. L'aggiramento dell'embargo, ratificato nell'ultima assemblea delle Nazioni Unite con una votazione di 188 voti a favore di Cuba contro 2 (USA e Israele) e 3 astensioni: Palau, Marshall e Micronesia, consiste solamente in questo: agevolare gli investimenti stranieri a Cuba. Con queste intenzioni non sarà certo la Zona Speciale del Mariel a consentire un ammorbidimento delle leggi Torricelli ed Helms-Burton. Agli Stati Uniti non interessa minimamente, dal punto di vista politico, l'attuazione di questo particolare territorio diretto a tutti gli altri Paesi del Mondo che possano essere interessati come lo sono, Brasile in testa, quelli sudamericani, ma non solo. Quindi chi sogna di comprare televisori ed elettrodomestici come al "free shop" si sbaglia, non è questo lo scopo. Pertanto anche le navi che attraccheranno al Mariel, saranno soggette alle misure che prevedono la proibizione di toccare porti statunitensi per sei mesi. E l'embargo continua, con le sue crepe e l'ostinazione assurda di punire un popolo e non i suoi dirigenti, per oltre 50 anni. Fino a quando, signor Premio Nobel per la Pace, 2 Paesi si permetteranno di snobbare l'intero pianeta?

Cartoline dall'Avana

Per chi non la conosce, chi la conosceva diversa o chi la vuole rivivere




Tre vedute della plaza Vieja dove si stava montando il palco per uno spettacolo (gratuito) di Jazz




Il Museo del cioccolato, nella calle Oficios dove ironicamente fa angolo con Amargura (amarezza)

Capitalista

CAPITALISTA: abitante della città sede del Governo

martedì 29 ottobre 2013

Cartoline dall'Avana

Per chi non la conosce, per chi la conosceva diversa, per chi la vuole rivivere

Plaza de San Francisco

La Dogana del porto

Antica Camera dei deputati

Chiesa di S. Francisco de Paula

Plaza Vieja

Canzone

CANZONE: spazi riservati agli amici dell'uomo

lunedì 28 ottobre 2013

Oltre un migliaio di sfollati per le piogge in provincia Las Villas

Nonostante la stagione ciclonica e delle piogge stia per terminare sono ancora copiose, in alcuni casi le precipitazioni, in questi giorni particolarmente nel centro del Paese dove si sono dovuti prendere provvedimenti per togliere dal pericolo di inondazioni quasi 1500 persone. D'altra parte le piogge estive sono necessarie per rimpinguare le riserve d'acqua dei bacini e della falda.


Fonte "Granma"
Más de mil personas protegidas en Villa Clara a causa de las intensas lluvias
FREDDY PÉREZ CABRERA
SANTA CLARA.— Un total de 1 433 personas se mantenían protegidas en la provincia, producto de las fuertes lluvias que caen de manera insistente en este territorio desde el pasado viernes, la mayoría de las cuales residen en las zonas de El Santo, en Encrucijada; Sagua la Chica, en Camajuaní, y en el poblado de Dolores, perteneciente a Caibarién.
De acuerdo a las precisiones del mayor Isidro Sánchez Alfonso, jefe de la Sección de la Defensa Civil en la Región Militar de Villa Clara, del total de evacuados, 1 354 estaban alojados en casas de familia o de vecinos, mientras el resto era atendido en los centros acondicionados para ese fin.
Conforme a reportes de la Empresa de Aprovechamiento Hidráulico del territorio, en las últimas 72 horas habían caído lluvias significativas en General Carrillo, con un acumulado de 327,9 milímetros; Reme-dios, 247,8; Camajuaní, 142,7; Caibarién, 138,9 y Santa Clara, que registraba 125,4, aunque en general ha llovido en casi toda la geografía villaclareña.
En total, la provincia acopia un promedio de 85,2 milímetros en estos tres días, según expresó Diego Emilio Abréu Franco, especialista de la referida empresa, lo cual ha beneficiado a las presas, que están al 83,7 % de su capacidad de llenado.
La evaluación de las autoridades de la Defensa Civil, es que las precipitaciones han sido beneficiosas, en lo fundamental para los embalses, que han llegado este domingo a los 847 millones de metros cúbicos de agua, algo muy favorable para la agricultura, la población y otros sectores.
Al cierre de esta información, eran cinco las presas que estaban vertiendo: Ala-cranes, la mayor de Villa Clara; Palmarito, Arroyo Grande II, La Quinta y Minerva.

L'evacuazione, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 27/10/13

L'evacuazione

Il governo spagnolo non poté garantire un ritorno degno ai suoi soldati nella penisola. Le peripezie sofferte dalle truppe furono veramente dantesche quando, dall'agosto del 1998 al febbraio del 1899, si videro obbligate a quel viaggio di ritorno.
Le cronache parlano di condizioni igieniche e di ammassamenti raccapriccianti per le salmerie partite da Cuba e Portorico. Un numero altissimo di quegli uomini soffriva gravi malattie come la malaria, la dissenteria e la tubercolosi; la rogna era molto diffusa fra loro. Le navi utilizzate per il rimpatrio erano carenti di servizi ospedalieri, non contavano nemmeno con un numero sufficiente di personale medico e sulle coperte e stive si ammucchiavano sani e malati in numero molto superiore a quelli previsti dalle capacità delle imbarcazioni dove era uso, per quelli che erano in grado di muoversi, di portare l'acqua con la bocca a chi non era in grado di camminare. Furono traversate penose per tutti coloro che le fecero e l'ultimo viaggio per una parte di loro, 4.000 di quegli uomini, morì e i loro corpi furono gettati a mare senza troppi complimenti.
Erano soldati doppiamente sconfitti. Le autorità della penisola fecero il possibile perché il loro ritorno avvenisse con la maggior discrezione e si maneggiasse con cautela il trasporto degli uomini verso le loro regioni di residenza. Fecero di più: cercarono di evitare, e lo conseguirono in buona misura, i ricevimenti in massa. Non si organizzarono manifestazioni pubbliche per riconoscere i sacrifici e perché no, l’eroismo di qull’esercito coloniale. Con tutto ciò il Governo spagnolo non riuscì a nascondere la situazione tragica dei rimpatriati e mentre la stampa la diffondeva attraverso le cronache, fotografie e disegni, la gente interpretava il silenzio governativo come un affronto incosciente.
Da li avvenne che si susseguissero manifestazioni, e incluso raduni, all’arrivo delle navi o al passaggio dei treni e si moltiplicassero le lamentele per l’ingratitudine delle delle autorità verso coloro che a suo tempo non disponevano di 6.000 reales che gli avrebbero permesso di sfuggire al servizio militare e andarono a difendere i territori coloniali.
Al rispetto scrive Juan Pan-Montoyo, professore titolare di Storia Contemporanea dell’Università Autonoma di Madrid: “La scarsità di paga che ricevettero i soldati al congedarsi - 20 pesetas - e la pensione mensile che gli fu assegnata - 7,50 pesetas - quando la paga media giornaliera era attorno alle 2,50, i ritardi con cui l’una e l’altra vennero pagate, rafforzarono l’impressione che non si volesse saperne più niente dei, fino ad allora, gloriosi difensori della patria. (...) Nelle cronache che si succedettero tra il 1898 e 1899, la figura del soldato malato e abbandonato alla sua sorte sarebbe stata ricordata più volte”.

Protocollo di pace

La firma del protocollo di pace sottoscritto a Washington fra gli Stati Uniti e la Spagna, il 13 agosto del 1898, conteneva l’impegno degli sconfitti di evacuare immediatamente le truppe che fino ad allora si mantenevano nelle terre cubane e portoricane.
In realtà, l’evacuazione era iniziata l’8 dello stesso mese, quando il vapore Alicante salpò da Cuba con destinazione La Coruña, dove giunse il giorno 23. Ciò nonostante, Washington aveva fretta di prendere possesso dei nuovi territori, e nella premura fissò il limite per il rimpatrio per il 1° dicembre del 1898. Ci furono ritardi e il limite fu accordato per il 1° gennaio dell’anno successivo, esattamente il giorno in cui la Spagna avrebbe consegnato agli Stati Uniti la sovranità sull’Isola (vedi Juventud Rebelde del 6/10/13).
In quella mattina chiara e luminosa della domenica 1° di gennaio, uscivano dai porti cubani le navi da guerra Rápido, Patriota, Marqués de la Ensenada, Galícia e Pinzón con truppe spagnole a bordo.
Non tutti coloro che dovevao essere evacuati se ne andarono, allora. Il tenente generale Adolfo Jiménez Castellanos, ultimo governatore spagnolo dell’Isola di Cuba - aveva assunto l’incarico con carattere interinale il 26 di novembre in sostituzione di ramon Blanco y Erénas, marchese di Peña Plata - dopo aver passato il comando al generale John R. Brooke, interventore militare nordamericano, abbordò nel porto avanero il vapore Rabat con destinazione Matanzas, dove rimase fino al 12 gennaio, quando andò a Cienfuegos. Uscì da Cuba con il vapore Cataluña il 6 febbraio. Fu l’ultimo generale spagnolo che abbandonò l’Isola portando con sé quello che rimaneva del suo esercito.
Il rimpatrio dimostrò di essere un’operazione molto complicata, come racconta lo storico Pan-Montojo. Da principio si dovevano evacuare i 200.000 uomini di stanza a Cuba, più i 5.500 che conformavano la guarnigione di Portorico. Si supponeva che un numero indeterminato di civili - spagnoli, ma anche creoli che occupavano incarichi nell’amministrazione coloniale o formavano parte di corpi paramilitari - abbandonassero detti territori e tornassero in Spagna per timore di rappresaglie dei liberatori.
Non ci fu, però, una partenza in massa di civili; solo casi individuali. I nordamericani presero rapidamente il controllo militare dei nuovi territori, questa era una garanzia per chi si era distinto per le sue simpatie o per l’appoggio alla Spagna. D’altra parte, i documenti su cui si basava la lotta per l’indipendenza di Cuba, facevano rilievo sul fatto che la guerra non era fra i popoli, ma un conflitto fra la nazione cubana e il Governo di Madrid. “La guerra non è contro lo spagnolo che con la sicurezza per i figli e l’accettazione della patria che voglia, potrà godere rispettato e anche amato della libertà che travolgerà solo quelli che escano, improvvidi, dalla giusta via”, aveva scritto José Martí nel Manifiesto de Montecrísti.
Per un motivo o per l’altro, la maggioranza degli spagnoli che abitavano a Cuba o Portorico decisero di fermarsi. Anche un elevato numero di ufficiali e soldati lo fecero.
La compagnia transatlantica spagnola mobilitò 51 navi -23 di queste straniere -, per rimpatriare l’esercito coloniale. Nonostante questo non poté coprire la totalità della domanda e dovette ricorrere ad armatori di altre nazionalità perché partecipassero per conto proprio o per incarico pubblico, nel trasporto delle truppe.

Rientro di capitali

Se l’evacuazione di Cuba e Portorico fu difficile, ancora peggio fu quella delle Filippine. La cifra di civili e militari spagnoli era molto inferiore in queste isole del Pacifico, ma - dicono gli storici - “la bassa quantità veniva compensata dall’intensità dei problemi connessi”. In primo luogo, la Spagna volle conservare questo arcipelago fino all’ultimo momento, perciò non ci fu un’evacuazione sistematica fino alla firma del Trattato di Parigi, nel dicembre 1898. I ribelli tagalos non furono disarmati dall’occupante statunitense e la guerra ispano-nordamericana si prolungò in una tenzone di filippini contro statunitensi. Questo fece che gli spagnoli in mano ai tagalos fossero liberati solo dopo oltre un anno per essere restituiti alla loro patria. A differenza di quello che successe a Cuba, nelle Filippine ci fu un esodo generalizzato di civili ciò nonostante, una minoranza europea molto ricca e influente rimase a Manila, protetta dall’amministrazione coloniale nordamericana.
A Cuba, sì, con la fine della sovranità spagnola ci fu una fuga di capitali, o meglio, un suo ritorno in Spagna.
L’esodo, in realtà, cominciò molto prima dell’intervento nordamericano nel conflitto cubano. Dice, il già citato storico Pan-Montojo, che la paura della guerra e i suoi possibili effetti sull’economia incoraggiò la partenza di commercianti e industriali stabiliti nelle colonie. Coloro che furono nella condizione di farlo, liquidarono totalmente o in parte i loro affari e tornarono nella penisola.
Afferma il distinto professore che le statistiche non precisano la quantità di denaro che giunse in Spagna allora. Però ci sono altri indicatori che permettono di supporre la grandezza dell’evento. Nel 1898 ci fu un aumento dei conti correnti nel Banco de España che all’epoca agiva come banca commerciale e aveva un peso enorme fra le istituzioni bancarie, fino a raggiungere una cifra che sarebbe stata superata nel 1917.
Risulta ancora più notevole l’informazione sul capitale sociale delle aziende commerciali che in pesetas sonanti raggiunse una somma che non sarebbe tornata ad essere raggiunta fino al 1965. Conclude Pan-Montojo: “La pace portava con se una congiuntura di autentica euforia investitrice che tutti gli analisti coincisero nell’attribuire al rientro dei capitali e con essi, il ritorno di imprenditori di lunga esperienza nei difficili mercati d’oltremare”.

Monumento a Madrid

In una guida turistica di Madrid si consiglia che uno dei percorsi, cominci dalla Piazza del Cascorro, passi per quella dei Lavapié e si concluda al Chiosco de los Embajadores, dove si trovano le sbarre perimetrali del Casinò della Reína, regalo del municipio della capitale spagnola a Isabella, la seconda moglie di Fernando VII, il re fellone.
La piazza ha lo stesso nome di una località della provincia cubana di Camagüey, una zona dove - riferisce nel 2° tomo del Dizionario enciclopedico di storia militare di Cuba - si svolsero sei combattimenti più o meno importanti durante le guerre per l’indipendenza. Rende omaggio alla battaglia di Cascorro (1896) e vi è una statua che onora la memoria do Eloy Gonzalo, un abitante di Lavapiés che in Spagna si considera come eroe di detto combattimento. La statua, realizzata nel 1901, raffigura un uomo in piedi, con stivali e pantaloni che poco assomigliano a quelli usati dagli spagnoli nelle guerre di Cuba. Porta un fucile in spalla, una torcia nella mano destra e, nella sinistra, un grosso bidone di petrolio. L’immagine lo raffigura nel momento in cui il soldato si dispone ad incendiare il fortino dove - si dice - si incontrava un gruppo di mambises (patrioti cubani n.d.t.), la corda che porta legata alla cintola era perché i suoi compagni lo potessero recuperare se fosse risultato morto o ferito.
Fra il 21 settembre e il 3 ottobre del 1896, il maggior generale Máximo Gómez pose d’assedio Cascorro senza poterlo occupare o che la sua guarnigione si arrendesse, resistendo coraggiosamente all’assedio. Il giorno 4 una colonna di 3.000 effettivi, mandati dal generale Jiménez Castellanos, uscì dal paesino di Minas per aiutare gli assediati. Gómez volle paralizzare, o almeno rallentare, l’avanzata di queste truppe, ma non poté impedire che entrassero a Cascorro. Il rinforzo si mantenne nel paese dal 4 al 7 di ottobre quando, Jiménez Castellanos, uscì diretto a Nuevitas, dopo aver rinforzato le difese degli assediati. Gómez allora si lanciò all’inseguimento del generale spagnolo col quale, l’8, combatté ne El Desmayo.
Nel diario di Máximo Gómez si raccoglie uno stretto riassunto della battaglia. Nente, dice il Generalissimo, circa l’incendio del fortino effettuato da Eloy Gonzalo. Forse la sua impresa fu vera. In ogni modo, il soldato Eloy Gonzalo deve aver fatto mostra di un comportamento esemplare che bene giustifica il suo ricordo nela piazza madrilena del Cascorro.

La evacuación

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
26 de Octubre del 2013 19:14:31 CDT

No pudo garantizar el Gobierno español un regreso digno de sus
soldados a la península. Fueron verdaderamente dantescas las
peripecias sufridas por la tropa que, entre agosto de 1898 y febrero
de 1899, se vio obligada a aquel viaje de retorno.
Las crónicas hablan de las espeluznantes condiciones higiénicas y de
hacinamiento que sufrieron las huestes salidas de Cuba y Puerto Rico.
Un número altísimo de aquellos hombres padecía de enfermedades como el
paludismo, la disentería y la tuberculosis, y la sarna se hallaba muy
extendida entre ellos. Carecían en general los barcos que se
utilizaron en la repatriación de servicios hospitalarios; tampoco
contaban con personal médico suficiente y en sus cubiertas y bodegas
se apiñaban sanos y enfermos en cifras muy superiores a las que
marcaban la capacidad de aquellas embarcaciones, donde se impuso
muchas veces que los que podían valerse por sí mismos llevasen en la
boca el agua a los incapacitados de moverse. Fue una travesía penosa
para todos los que la hicieron y el último viaje para una parte de
ellos, pues 4 000 de aquellos hombres murieron y sus cuerpos fueron
arrojados al agua sin mucho miramiento.
Eran soldados doblemente derrotados. Las autoridades de la Península
hicieron lo posible para que su retorno transcurriera en silencio y
lejos de la mirada de los habitantes de los puertos de destino. De ahí
la insistencia en que las cuarentenas a las que debía someterse la
tropa transcurrieran con la mayor discreción y se manejase con cautela
el traslado de los hombres hacia sus regiones de residencia. Algo más
importante: trataron de evitar, y lo consiguieron en buena medida, las
recepciones masivas. No se organizaron actos públicos para reconocer
los sacrificios y, por qué no, el heroísmo de aquel ejército colonial.
Con todo, no consiguió el Gobierno español ocultar la situación
calamitosa de los repatriados y mientras la prensa la difundía
mediante crónicas, fotografías y dibujos, la gente interpretaba el
silencio gubernamental como una afrenta consciente.
De ahí que se sucedieran las manifestaciones e incluso los mítines a
la arribada de los buques o al paso de los trenes y se multiplicaran
las quejas por la ingratitud de las autoridades hacia los que no
dispusieron en su momento de los 6 000 reales que les hubieran
permitido escapar del servicio militar y fueron a defender los
territorios coloniales.
Escribe al respecto Juan Pan-Montojo, profesor titular de Historia
Contemporánea de la Universidad Autónoma de Madrid:
«La escasez de la paga que recibieron los soldados al licenciarse —20
pesetas— y de la pensión mensual que les fue asignada —7,50 pesetas—
cuando el jornal medio rondada las 2,50, y los retrasos con que una y
otra fueron abonadas, fortalecieron la impresión de que nada se quería
saber de los hasta entonces glorificados defensores de la patria. (…)
En las algaradas que se sucedieron entre 1898 y 1899 la figura del
soldado enfermo y abandonado a su suerte sería reiteradamente
recordada».

Protocolo de paz

La firma del protocolo de paz suscrito en Washington entre Estados
Unidos y España, el 13 de agosto de 1898, consignaba el compromiso de
los vencidos de evacuar de inmediato las tropas que hasta el momento
mantenían en tierras cubanas y puertorriqueñas.
En realidad, la repatriación se había iniciado el 8 del mismo mes,
cuando el vapor Alicante zarpó de Cuba con destino a La Coruña, adonde
llegó el día 23. Con todo, Washington tenía prisa por tomar posesión
de los nuevos territorios y, en su premura, fijó el límite de la
evacuación para el 1ro. de diciembre de 1898. Hubo retrasos y un nuevo
plazo quedó acordado para el 1ro. de enero del año siguiente,
precisamente el día en que España resignaría ante Estados Unidos su
soberanía sobre la Isla (Ver Juventud Rebelde, 6 de octubre de 2013).
En aquella mañana clara y luminosa del domingo 1ro. salían de puertos
cubanos los buques de guerra Rápido, Patriota, Marqués de la Ensenada,
Galicia y Pinzón con tropas españolas a bordo.
No todos los que debían ser evacuados se fueron entonces. El teniente
general Adolfo Jiménez Castellanos, último gobernador español de la
Isla de Cuba —había asumido el cargo con carácter interino el 26 de
noviembre, en sustitución de Ramón Blanco y Erenas, marqués de Peña
Plata— luego de traspasar el mando al general John R. Brooke,
interventor militar norteamericano, abordó en el puerto habanero el
vapor Rabat con destino a Matanzas, donde permaneció hasta el día 12
de enero, cuando se fue a Cienfuegos. Saldría de Cuba en el vapor
Cataluña el 6 de febrero. Fue el último general español que abandonó
la Isla y llevaba con él lo que quedaba de su ejército.
La repatriación demostró ser una operación muy complicada, expresa el
historiador Pan-Montojo. En principio se imponía evacuar los 200 000
hombres desplegados en Cuba, más los 5 500 que conformaban la
guarnición de Puerto Rico. Se suponía que un número indeterminado de
civiles —españoles, pero también criollos que ocuparon cargos en la
administración colonial o formaron parte de cuerpos paramilitares—
abandonarían dichos territorios y regresarían a España por temor a la
represalia de los libertadores.
No hubo, sin embargo, salidas masivas de civiles; solo casos
individuales. Los norteamericanos se hacían rápidamente del control
militar de los nuevos territorios, lo que era una garantía para los
que se habían destacado por sus simpatías y apoyo a España. Por otra
parte, los documentos en los que se fundamentaba la lucha por la
independencia de Cuba ponían en alto que la guerra no era entre
pueblos, sino un conflicto entre la nación cubana y el Gobierno de
Madrid. «La guerra no es contra el español, que, en el seguro de sus
hijos y en el acatamiento a la patria que se gane, podrá gozar
respetado, y aún amado, de la libertad que solo arrollará a los que le
salgan, imprevisores, al camino», había escrito José Martí en el
Manifiesto de Montecristi.
Por una razón u otra, la mayoría de los españoles que residían en Cuba
y Puerto Rico decidieron quedarse. Y un número elevado de soldados y
oficiales hicieron lo mismo.
La Compañía Trasatlántica Española movilizó 51 buques —de estos 23
extranjeros—, para repatriar a España al ejército colonial. Aun así no
pudo cubrir la totalidad de la demanda, y se impuso que navieras de
otras nacionalidades participaran por su cuenta o por encargo público
en el traslado de las tropas.

Retorno de capitales

Si difícil resultó la evacuación en Cuba y Puerto Rico, peor fue en
Filipinas. La cifra de civiles y militares españoles era muy inferior
en esas islas del Pacífico, pero —dicen los historiadores— «la baja
cantidad se vio compensada por la intensidad de sus problemas». En
primer término, España quiso hasta el último momento conservar ese
archipiélago, por lo que no hubo allí evacuación sistemática hasta la
firma del Tratado de París, en diciembre de 1898. Los rebeldes tagalos
no fueron desarmados por el ocupante estadounidense, y la guerra
hispano-norteamericana se prolongó en una contienda de filipinos
contra estadounidenses. Eso hizo que los españoles en manos de los
tagalos tardaran más de un año en ser liberados y devueltos a su
patria. A diferencia de lo que ocurrió en Cuba, hubo en Filipinas un
éxodo generalizado de civiles, si bien una minoría europea muy rica e
influyente permaneció en Manila, arropada por la administración
colonial norteamericana.
Sí hubo en Cuba, con el fin de la soberanía española, una fuga de
capitales o, mejor, su retorno a España.
El éxodo comenzó en verdad mucho antes de la intervención
norteamericana en el conflicto cubano. Dice el ya aludido historiador
Juan Pan-Montojo que el temor a la guerra y a sus posibles efectos
económicos alentó la salida de comerciantes e industriales radicados
en las colonias. Los que estuvieron en condiciones de hacerlo
liquidaron total o parcialmente sus negocios y regresaron a la
Península.
Advierte el distinguido profesor que las estadísticas no precisan la
cantidad de dinero que llegó a España entonces. Pero otros indicadores
permiten suponer la magnitud del fenómeno. En 1898 aumentaron los
fondos en cuentas corrientes en el Banco de España, que por entonces
actuaba como banco comercial y tenía un peso enorme entre las
instituciones bancarias, hasta alcanzar una cifra que solo sería
superada en 1917.
Resulta todavía más notable la información sobre el capital
fundacional en las sociedades mercantiles, que en pesetas constantes y
sonantes asciende a una suma que no volvería a alcanzarse hasta 1965.
Concluye Pan-Montojo: «La paz traía consigo una coyuntura de auténtica
euforia inversora, que todos los analistas coincidieron en atribuir al
regreso de capitales y con ellos de empresarios de larga experiencia
en los difíciles mercados ultramarinos».

Monumento en Madrid

En una guía turística de Madrid se sugiere que uno de los recorridos
empiece en la Plaza de Cascorro, pase por la de Lavapiés y termine en
la Glorieta de los Embajadores, donde se encuentra la verja perimetral
del Casino de la Reina, regalo del Ayuntamiento de la capital española
a Isabel, la segunda esposa de Fernado VII, el rey felón.
La plaza se llama igual que una localidad de la provincia cubana de
Camagüey, una zona donde —refiere el tomo 2 del Diccionario
enciclopédico de historia militar de Cuba— se libraron seis combates
más o menos importantes durante las guerras por la independencia.
Rinde homenaje a la batalla de Cascorro (1896) y hay allí una estatua
que honra la memoria de Eloy Gonzalo, un vecino de Lavapiés que en
España se tiene como el héroe de dicho combate. La estatua, realizada
en 1901, muestra a un hombre de pie, con botas y pantalones que poco
se parecen a los que usaron los españoles en las guerras de Cuba.
Lleva un rifle al hombro, una antorcha en la mano derecha y, en la
izquierda, un gran depósito de petróleo. La imagen lo capta en el
momento en que el soldado se dispone a incendiar el fortín donde —se
dice— se encontraba un grupo de mambises. La cuerda que lleva atada a
la cintura era para que sus compañeros pudieran tirar de él si
resultaba herido o muerto.
Entre el 21 de septiembre y el 3 de octubre de 1896, el mayor general
Máximo Gómez puso sitio a Cascorro sin que pudiera ocuparlo ni rendir
a su guarnición, que resistió con valentía el asedio. El día 4, una
columna de 3 000 efectivos mandados por el general Jiménez Castellanos
salió del poblado de Minas para ayudar a los sitiados. Gómez quiso
paralizar o al menos retardar el avance de esas tropas, pero no pudo
impedir que entraran en Cascorro. El refuerzo se mantuvo en el pueblo
entre el 4 y el 7 de octubre, cuando Jiménez Castellanos salió con
destino a Nuevitas, luego de fortalecer las defensas de los sitiados.
Gómez entonces se lanzó en la persecución del general español con
quien, el 8, combatió en El Desmayo.
En el diario de Máximo Gómez se recoge un resumen apretado de esa
batalla. Nada dice el Generalísimo acerca del incendio del fortín
llevado a cabo por Eloy Gonzalo. Quizá su hazaña fuera cierta. De
cualquier manera el soldado Eloy Gonzalo debe haber hecho gala de un
comportamiento destacado que bien justifica su recuerdo en la plaza
madrileña de Cascorro.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


L'incontro di due Mondi

Il 28 ottobre 1492, Cristoforo Colombo mise piede sull'Isola di Cuba, pensando di essere giunto a Cipango (Giappone), poi credette invece di essere giunto sulla terraferma del continente asiatico, nominando gli abitanti del luogo "indiani". Da quel giorno di 521 anni fa iniziò l'epoca delle colonie, molto probabilmente proprio "a causa" sua, infatti il suo nome nome in spagnolo, è Cristobal Colón e giunse in queste terre proprio al servizio della potenza iberica.

Cantina

CANTINA: il miglior amico di Tina

domenica 27 ottobre 2013

Avanzata ricerca medica contro il colera

Fonte El Nuevo Herald - Agenzia EFE

Cuba trabaja en dos vacunas contra el cólera, una en fase de ensayos clínicos

La Habana- -- Investigadores cubanos trabajan en el desarrollo de dos candidatos de vacuna contra el cólera, uno de ellos en fase de ensayos clínicos “avanzados” con evaluaciones en Mozambique y en la isla caribeña, informó hoy el diario oficial Juventud Rebelde.
Ambos proyectos consisten en vacunas orales y son trabajados por el Instituto Finlay de Cuba, donde la enfermedad reapareció en 2012 después de cinco décadas sin casos y tras haberse reportado la última epidemia en 1882.
El primer candidato se desarrolla desde hace una década y consiste en una variante “atenuada” que utiliza la bacteria viva del cólera en una cepa no virulenta, según indicó al diario el subdirector de Investigaciones Aplicadas del Instituto Finlay, Reinaldo Acevedo.
El experto afirmó que esa vacuna se encuentra en fase de ensayos clínicos avanzados y en comparación con otras que se desarrollan en el mundo tiene la ventaja de que se administra en una sola dosis y elimina el virus en menos de 72 horas.
“La vacuna del cólera atenuada, aún en fase de desarrollo, se ha evaluado en Cuba y Mozambique, con muy buenos registros de seguridad e inmunogenicidad. Se prevé hacer un nuevo ensayo clínico en niños, posiblemente para finales de este año”, explicó Acevedo.
El segundo proyecto consiste en una vacuna “inactivada”, compuesta por microorganismos muertos y de administración oral en dos dosis.
“Existe el temor de que las vacunas atenuadas puedan afectar a pacientes inmunocomprometidos, como los que padecen sida. Muchos creen que administrarles un principio activo vivo puede provocarles algún tipo de problema y con la vacuna inactivada tendrían una alternativa”, indicó la subdirectora de Desarrollo Productivo del Instituto, Sonsire Fernández.
La especialista resaltó que se trata de una vacuna más sencilla y barata desde el punto de vista productivo, pero a diferencia del otro candidato “sí precisa de más tiempo de investigación antes de convertirse en una realidad para los pacientes”.

Canotto

CANOTTO: muta di 8 cani

sabato 26 ottobre 2013

Matrimoni italocubani

Spesso e volentieri i matrimoni "misti" finiscono, metaforicamente, così:


Nel caso di Franco e May invece penso proprio che vivranno a lungo felici e contenti...anche in un "calabozo" (segreta).

venerdì 25 ottobre 2013

Cannibale

CANNIBALE: abitazione di Annibale

giovedì 24 ottobre 2013

Il debutto, all'Avana, di "Ana en el Trópico"

Molto positivo il debutto al teatro Trianón della calle Linea della pièce Ana en el trópico. Spettacolo gradito da pubblico e critica che ha riempito la sala nelle due sere pre Festival, dopo la prima per soli inviti. Oggi si inaugura ufficialmente il festival del Teatro dell'Avana e l'opera verrà ripetuta nei giorni 28, 29 e 30 sempre al Trianón, prima di essere portata a Miami Beach dallo stesso gruppo misto di attori.







Cannella

CANNELLA: residenza di Nella

mercoledì 23 ottobre 2013

Cartoline dall'Avana

Per chi non la conosce, per chi la conosceva diversa, per chi la vuole rivivere

La Bahía di Carena, ovvero il porto dell'Avana, è da tempo soggetto a lavori di risanamento e ristrutturazione per trasformarsi in zona prettamente turistica ed accogliere in un futuro, che si spera non lontano, le navi da crociera. La prima installazione, a cui se ne stanno aggiungendo altre, è già attiva da qualche anno ed è la Feria de S. José, ovvero il mercato degli artigiani dell'Avana Vecchia che in precedenza era ospitato nella piazza della Cattedrale all'aria aperta e in modo disordinato oltre che con poco spazio a disposizione. La trasformazione è resa possibile anche per la costruzione del porto del Mariel che diventerà il porto commerciale e industriale dell'Avana dando più respiro alla città con locali di intrattenimento e ritrovo per i turisti, ma non solo.










Canna

CANNA: abitazione di Anna

martedì 22 ottobre 2013

Si avanza per l'unificazione della moneta...

È stato annunciato, come approvato nei "lineamientos" del VI° Congresso del PCC, l'avvio per l'iter di unificazione della moneta circolante a Cuba. L'annuncio peraltro non chiarisce, ancora, molti aspetti. Si inizierà a utilizzare la "moneta unica" partendo dalle imprese che contabilizzeranno entrate e uscite con una sola moneta e verranno abilitati alcuni esercizi (non si sa ancora quali) dove in una fase iniziale si potrà pagare con le due valute. Rimangono delle domande sul tappeto: fermo restando che il rapporto si manterrà invariato (25 a 1) quale sarà la moneta che rimarrà in vigore? Che pericoli ci saranno di inflazione dei prezzi? Quale sarà il potere di acquisto rispetto ai salari?

Canino

CANINO: dove abita Nino

lunedì 21 ottobre 2013

Altre leggende cubane, di Ciro bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 20/10/13

Se si tratta di pesce ripieno non c’è niente che superi, a Cuba, il pargo (pesce caratteristico dei mari tropicali n.d.t.) che don Francisco Marty Torrens ossequiò il 2 ottobre del 1840, a doña María del Rosario Fernández de Santillán, sivigliana, figlia dei marchesi di Motilla e sposa del Capitano Generale di Cuba, don Pedro Téllez Girón, principe di Anglona. L’aneddoto è raccontato dallo scrittore Álvaro de la Iglesia nelle sue “Tradizioni cubane”.
Chi erano questi personaggi? Don Pedro era il secondogenito del Duca di Osuna e come tale la legge della primogenitura - che riservava tutta la fortuna e la dignità al primo nato - lo condannava alla miseria, ma ebbe i favori di un Re che lo fece cadetto ai tre anni di età, capitano ai sette e tenente colonnello ai nove, e nella gioventù conquistò gloria e denaro. Governò l’Isola per 14 mesi.
Don Pancho Marty Torres giunse a Cuba, come molti spagnoli, in pantofole e con un enorme baule di illusioni che riuscì a materializzare, si convertì in uno degli uomini di maggiori ingressi e influenza dell sua epoca, con accesso libero e diretto alle persone vicine e agli stessi governatori generali. Questi cambiavano di tanto in tanto, ma la scalata di don Pancho non soffriva retrocessioni. Fu uno dei più grandi commercianti di schiavi e una concessione del Governo coloniale gli permetteva di sfruttare a suo favore il lavoro dei detenuti del carcere dell’Avana.
Col lavoro dei prigionieri, per l’appunto, edificò il Teatro Tacón, il più importante e frequentato della capitale, convertendosi nel suo impresario, cosa che gli permise di scremare gli autori che vedevano rappresentate le loro opere lì.
Possedeva altri beni, varie tenute agricole rustiche ed estese, proprietà immobiliari, così come due cantieri navali dove si riparavano i vascelli destinati alla tratta dei negri. Ma non finiva lì: don Pancho esercitava anche il monopolio del pesce all’Avana, privilegio a vita, nonostante le proteste del Municipio avanero.
Molti si sorprenderanno al sapere che la splendida Piazza della Cattedrale fu, per anni, una palude formata dalle acque che fuoruscivano dalla cosiddetta Fossa Reale, nel vicolo del Chorro (getto n.d.t.), il primo acquedotto della capitale. Era esattamente dietro alla Cattedrale dove c’era la sede principale degli affari di Pancho Marty col pesce, la cosiddetta pescheria El Boquete (il boccheggio n.d.t.), con ghiacciaia e locali per la vendita di ami ed esche dove, nonostante tutti i suoi soldi abitava, forse per il detto “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo” o, in questo caso, i pesci. El Boquete aprì le sue porte grazie al permesso del capitano generale Miguel Tacón e rimase fino al 1895.
La vigila del 2 di ottobre, giorno della festa della Vergine del Rosario, don Pancho domandò alla principessa di Anglona cosa volesse di regalo per il suo onomastico. La dama non seppe cosa rispondere, ma davanti all’insistenza del catalano si decise. - Ebbene, Marty, mandatemi un pargo per il pranzo - disse.
Don Pancho lo promise e il giorno successivo, la mattina presto, giunse al apalazzo dei Capitani Generali un negro della sua servitù portando, in un vassoio di argento massiccio e coperto con un tovagliolo finemente ricamato, un magnifico esemplare di pargo di San Rafael, come era conosciuto questo pesce.
Era accompagnato da questo messaggio: “Doña Rosario, che la passi felicemente. Apra la pancia del pargo”.
Il testo della nota provocò dapprima la risata dei principi di Anglona e poi la curiosità. Esaminarono il pargo da un estremità all’altra, lo soppesarono. C’era qualcosa di strano in quell’animale: pesava molto, sembrava di piombo.
“Questo pargo ha dentro qualcosa”, commentò fra i denti don Pedro e ordinò che lo aprissero.
Eccome se c’era qualcosa! Dal suo interno caddero sul vassoio non si sa quante once d’oro e parrucche naturali, che lasciarono a bocca aperta la coppia di alto lignaggio.

Il Cristo della grotta

Si chiamava don Pedro...Il suo cognome si è perso nel tempo, nelle nebbie della leggenda. Correva il primo terzo del XIX° secolo nella città di Matanzas dove, in una grande casa patrizia della calle del Río viveva don Pedro. Aveva 48 anni e molti schiavi al suo servizio, i suoi beni erano cospicui. Suo figlio di 17 anni, Fernando, studiava all’Avana.
Era un soggetto dei quali si dice: scorza dura e cuore d’oro. Retto, esecutore dei suoi doveri, benevolo, di mano aperta coi poveri, cristiano da messa quotidiana e comunione settimanale. In realtà c’erano due don Pedro: il buono e l’irascibile. Si dice che l’unica cosa che alterava la pace di quel palazzo fosse l’irascibilità del padrone, scrive Ámerico Alvarado Sicilia in una delle sue Leggende di Matanzas.
Goyo, uno degli schiavi della casa, era diventato il braccio destro di don Pedro. Era un negro sulla cinquantina, anch’egli vedovo e padre di una ragazza di 14 anni, Isabel; corpo scolpito di donna, faccia da bambina ribelle e occhi dove l’allegria posava quotidianamente la sua luce tintinnante. Don Pedro l’aveva vista crescere in casa sua e la privilegiava. Quando, il mattino entrava nella sua stanza per servirgli la colazione, don Pedro cercava sempre di trattenerla con qualunque scusa e conversava con lei in tono paterno.
Giunse l’estate e tornò il ragazzo Fernando per le vacanze, tornando ad essere per suo padre quello che era sempre stato: il centro della sua vita; la vita stessa. L’allegria di Isabel, la schiava viziata, si orientò verso il ragazzo Fernando. La colazione quotidiana a letto...La bellezza della ragazza...I 17 anni di lui e i 14 di lei...Le occasioni propizie...Tutto si trasformò in un labirinto d’amore e la schiava finì concedendosi fino all’impossibile. Un figlio di Fernando rimase nel ventre di Isabel al suo ritorno agli studi all’Avana.
A partire da quel momento, l’allegria di Isabel si convertì in un pianto nascosto. Nessuno sospettò della sua gravidanza. Confesso,di sentirsi malata, col ventre pieno d’acqua. Don Pedro volle far venire il medico, ma la ragazza trovò scuse per rimandare la visita. Quando venne il momento, fuggì da casa. Sapeva che nella grotta dell’Indio, nell’alveo del fiume Yumurí, avrebbe trovato rifugio.
Scendeva la sera. La grotta si riempiva di ombre, quando Isabel sentì i dolori del parto. Ebbe paura. In ginocchio, stretta ad una delle pareti della caverna, annientata dai dolori, chiese aiuto a Dio. E la richiesta fu ascoltata. Sopra la testa della ragazza apparve, incrostata nella roccia una croce nera e inchodato ad essa, un Cristo dalla bianchezza abbagliante. Il Cristo schiodò le sue mani e le protese sopra Isabel. Non aver paura, disse. Sono qui.
Intanto, nela casa di calle del Río don Pedro, infuriato, seppe che Isabel era nascosta nella grotta. Lui stesso la andò a cercare per darle quello che si meritava. Con la frusta in mano, entrò nella caverna accecato dall’ira avanzando verso la ragazza che implorava il perdono con voce rotta dal pianto. Improvvisamente don Pedro vide la croce nera incrostata nella pietra e, inchiodato ad essa, il Cristo bianchissimo. La frusta cadde al suolo e don Pedro inginocchiato, sentì speranza paura e amore nel suo cuore. Questa donna ti ha dato un nipote, disse Cristo. Sei obbligato a vigilare su di lei e sul bambino.

Il gabbiano di San Giovanni

Questa è una storia d’amore e di odio. Di ambizione e di egoismo. Si svolge a Matanzas e, come ogni buona storia, comincia d’inverno. Nel già lontano inverno del 1795, quando la città yumurina contava appena 6000 abitanti all’incirca. A quel tempo, in una casupola di tavole e guano che si trovava sulla sponda del río San Juan, viveva una vecchia schiava che tutti conoscevano come Ma Teresa. Con lei c’era sua nipote. Si chiamava Julia Rosa, aveva una pelle di seta e un viso che faceva piacere vedere per la sua bellezza. Un viso sottolineato dalla perfezione di due occhi verdi che gettavano al mondo l’allegria dei suoi 17 anni d’età. Ma Teresa non era una schiava qualunque. Viveva come una negra libera, fuori dalla casa famigliare, senz’altro obbligo che quello di crescere Julia Rosa e grazie al vitalizio che gli faceva arrivare senza mai mancare, don Sebastian, opulento abitante della città, con residenza in una splendida casa della Calle del Medio. Don Sebastian aveva gli occhi verdi e, dicevano le malelingue, che Julia Rosa, la nipote di Ma Teresa fosse sua figlia.
Le interiorità del fatto erano ben conosciute da doña Rosario, la sorella di Sebastian. Non vedeva di buon occhio che Ma Teresa vivesse fuori della loro magione. La verità è che doña Rosario sapeva che le visite frequenti di suo fratello alla casetta del fiume San Juan con motivo di fare una visita alla “bambina” causavano che continuasse a permanere lo scandalo che scosse Matanzas quando don Sebastian pianse in pubblico Julia, morta dopo aver dato alla luce Julia Rosa, quella bambina dagli occhi verdi che poteva passare perfettamente per bianca. Fra l’altro a doña Rosario dava fastidio la ragazza. Suo figlio Felipe avrebbe ereditato dallo zio Sebastian, ma parte del capitale e delle proprietà potevano spettare a Julia Rosa. Bisognava pensare a queste cose, Felipe aveva già 25 anni e il desiderio di doña Rosario era di vederlo sposato con Elvirita, la figlia di doña María Elvira.
Racconta il già citato Álvarado Sicilia in un’altra dele sue Leggende di Matanzas, che la notizia giunse alla famiglia per due strade. Doña Rosario lo seppe il mattino, all’uscita dalla messa, mentre don Sebastian lo seppe nel pomeriggio, mentre prendeva il fresco guardandosi in giro e facendosi vedere in piazza dela Vigía (sentinella n.d.t.). Una notizia sorprendente, sconcertante: il ragazzo Felipe faceva visite quotidiane a casa della schiava Ma Teresa attratto, com’era, da Julia Rosa, senza sapere che questa fosse sua cugina. Se la notizia sconfortò doña Rosario, più danni fece a doña María Elvira, la madre di Elvirita, la fidanzata di Felipe. Che fare? Maria Elvira pensò che Tata Mongo, lo schiavo più vecchio di casa sua potesse avere la soluzione. In effetti, Tata Mongo, assicurò che avrebbe risolto il problema del ragazzo Felipe. Lui aveva poteri segreti che gli conferì la sua tribù quando lo fecero capo degli stregoni e che gli permettevano di parlare con gli dei che continuavano ad ascoltare le sue richieste e invocazioni. Doña Rosario non ci pensò due volte e ordinò al vecchio Tata Mongo che si superasse nel suo lavoro.
Tata Mongo arrivò alla casetta del fiume San Juan quando era già l’ora del tramonto. Ma Teresa era uscita e Julia Rosa era sola. Le portava un dolce di cocco. Mentre la ragazza lo assaporava, Tata Mongo non cessava di parlare. Parlava di come in Africa gli stregoni convertivano le donne in uccelli. Anche lui poteva farlo. Se ti converto in uccello, disse, sarai immortale. Julia Rosa seguiva le sue parole tra l’interessata e l’inquieta... Rise molto, ma subito dopo ebbe paura.
Don Sebastian era come impazzito. Ma Teresa piangeva sempre. Felipe, disperato, non sapeva già dove cercare Julia Rosa. Doña Rosario cominciò a sentire l’angustia di un atroce rimorso. Julia Rosa era scomparsa...
Passò il tempo. Una sera Ma Teresa disse di sapere quello che era successo a sua nipote. Uno stregone l’aveva convertita in gabbiano. Nessuno la prese sul serio, ma alcuni giorni dopo Felipe vide un gabbiano che lo guardava in modo strano. Aveva gli occhi verdi. Alcuni mesi dopo Felipe morì, pazzo, innamorato di un gabbiano.
Il gabbiano dagli occhi verdi del fiume San Juan vola molte spesso, la sera, sulla città di Matanzas. Non è morto. Non può morire.


Otras leyendas cubanas

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
19 de Octubre del 2013 20:17:48 CDT

En lo que a pescado relleno se refiere, nada supera en Cuba al pargo
que don Francisco Marty Torrens obsequió, el 2 de octubre de 1840, a
doña María del Rosario Fernández de Santillán, sevillana, hija de los
marqueses de Motilla y esposa del Capitán General de Cuba, don Pedro
Téllez Girón, Príncipe de Anglona. La anécdota la cuenta el escritor
Álvaro de la Iglesia en sus Tradiciones cubanas.
¿Quiénes eran esos personajes? Don Pedro era hijo segundón del Duque
de Osuna, y, como tal, la ley de mayorazgo —que reservaba toda la
fortuna y la dignidad para los primogénitos— lo condenaba a la
miseria, pero tuvo el favor de un rey que lo hizo cadete a los tres
años de edad, capitán a los siete y teniente coronel a los nueve, y en
su juventud conquistó gloria y dinero. Gobernó la Isla durante 14
meses.
Don Pancho Marty Torrens llegó a Cuba, como muchos españoles, en
alpargatas y con un baúl enorme de ilusiones que logró materializar,
pues se convirtió en uno de los hombres de mayor caudal e influencia
de su tiempo, con acceso libre y directo al entorno íntimo de los
gobernadores generales. Estos cambiaban de cuando en cuando, pero la
ascendencia de don Pancho no sufría menoscabo. Y es que fue uno de los
más grandes comerciantes de esclavos y una concesión del Gobierno
colonial le permitía explotar en su provecho el trabajo de los
reclusos de la Cárcel de La Habana.
Con trabajo de presos, precisamente, edificó el Teatro Tacón, el más
importante y concurrido de la capital, y se convirtió en su
empresario, lo que le permitió esquilmar a los autores que allí veían
representadas sus obras.
Poseía, entre otros bienes, varias fincas rústicas y extensas,
propiedades inmuebles, así como dos astilleros, donde se reparaban
buques destinados a la trata negrera. Ahí no acababa la cosa: don
Pancho ejercía asimismo el monopolio del pescado en La Habana,
privilegio vitalicio, pese a las protestas del Ayuntamiento habanero.
Muchos se sorprenderán al saber que la hermosa Plaza de la Catedral
fue, años ha, una ciénaga formada por las aguas que se derramaban de
la llamada Zanja Real, en el Callejón del Chorro, el primer acueducto
de la capital. Era precisamente detrás de la Catedral donde Pancho
Marty tenía la sede principal de su negocio de pescado, la llamada
pescadería El Boquete, con nevería y locales para el expendio de
avíos, y donde, pese a todo su dinero, residía, tal vez por aquello de
que «el ojo del amo engorda el caballo» o, en este caso, los peces. El
Boquete abrió sus puertas por indicaciones del capitán general Miguel
Tacón en 1836 y allí estuvo hasta 1895.
La víspera del 2 de octubre, día de la fiesta de la Virgen del
Rosario, don Pancho preguntó a la Princesa de Anglona qué quería que
le regalase por su santo. La dama no supo qué contestar, pero ante la
insistencia del catalán, se decidió. —Pues bien, Marty, mándeme un
pargo para el almuerzo— dijo.
Se comprometió don Pancho y al día siguiente, temprano en la mañana,
llegó al palacio de los Capitanes Generales un negro de su dotación
que portaba, en una bandeja de plata maciza y cubierto por una
servilleta de fino encaje, un ejemplar magnífico de los llamados
pargos de San Rafael.
Lo acompañaba este mensaje: «Doña Rosario: Que los pase muy felices.
Ábrale la barriga al pargo».
El texto de la nota provocó primero la carcajada de los príncipes de
Anglona y luego la curiosidad. Examinaron el pargo de un extremo al
otro, lo sopesaron. Algo raro había en aquel animal: pesaba mucho,
parecía de plomo.
«Este pargo tiene algo dentro», comentó entre dientes don Pedro y
ordenó que lo abrieran.
¡Y vaya si lo tenía! De su interior cayeron en la bandeja no se sabe
ya cuántas onzas de oro, peluconas legítimas, que dejaron con la boca
abierta a la encumbrada pareja.

El Cristo de la cueva

Se llamaba don Pedro… Su apellido se perdió en el tiempo, en la bruma
de la leyenda. Corría el primer tercio del siglo XIX en la ciudad de
Matanzas, y en una casona palaciega de la calle Del Río vivía don
Pedro. Tenía 48 años de edad, lo servían muchos esclavos y eran
cuantiosos sus bienes. Su hijo de 17 años, Fernando, estudiaba en La
Habana.
Era el sujeto lo que se ha dado en llamar un hombre de cáscara amarga
y corazón de oro. Recto, cumplidor de sus deberes, bondadoso, de mano
abierta para el pobre y cristiano de misa diaria y comunión semanal.
En realidad, había dos don Pedro, el bueno y el irascible. Se dice que
lo único que alteraba la placidez de aquella casona era la
irascibilidad del amo, escribe Américo Alvarado Sicilia en una de sus
Leyendas matanceras.
Goyo, uno de los esclavos de la casa, se había convertido en la mano
derecha de don Pedro. Era un negro cincuentón, también viudo, y padre
de una muchacha de 14 años, Isabel; cuerpo de mujer escultural, cara
de niña traviesa y ojos donde la alegría ponía a diario su luz
cascabelera. Don Pedro la había visto crecer en su casa y la
favorecía. Cuando en las mañanas ella entraba a su cuarto para
servirle el desayuno, don Pedro trataba siempre de demorarla con
cualquier pretexto y conversaba con ella en tono paternal.
Llegó el verano y regresó el niño Fernando, de vacaciones, y volvió a
ser lo que había sido siempre para su padre: el centro de la vida; la
vida misma. Y la alegría de Isabel, la esclava mimada, apuntó hacia el
niño Fernando. El desayuno diario en la cama… La belleza de la
muchacha… Los 17 años de él, los 14 de ella… Las ocasiones propicias…
Todo se hizo laberinto de amor y la esclava terminó entregándose al
imposible. Un hijo de Fernando quedó en el vientre de Isabel cuando él
regresó a sus estudios en La Habana.
A partir de ahí la alegría de Isabel se convirtió en escondido llanto.
Nadie sospechó de su embarazo. Confesó, sí, sentirse enferma, con el
vientre lleno de agua. Quiso don Pedro traer al médico, pero la
muchacha se las arregló para aplazar la consulta. Cuando llegó la
hora, huyó de la casa. Sabía que en la cueva del Indio, en el abra del
río Yumurí, encontraría refugio.
Caía la tarde. La cueva se llenaba de sombras cuando Isabel sentía los
dolores de parto. Tuvo miedo. De rodillas, apretada contra una de las
paredes de la caverna, ovillada de dolor, pidió ayuda a Dios. Y el
pedido fue escuchado. Sobre la cabeza de la muchacha apareció,
incrustada en la roca, una cruz negra, y clavado en ella, un Cristo de
blancura deslumbrante. Desclavó Cristo sus manos y las extendió sobre
Isabel. No temas, dijo. Yo estoy aquí.
Mientras, en la casa de la calle Del Río, don Pedro, hecho una furia,
supo que Isabel se hallaba escondida en la cueva. Él mismo la buscaría
y le daría su merecido. Látigo en mano entró en la caverna y, cegado
por la ira, avanzó hacia la muchacha que imploraba perdón con voz
llorosa. De repente, don Pedro vio la cruz negra incrustada en la
piedra y, clavado en ella, el Cristo blanquísimo. El látigo cayó al
suelo y don Pedro, arrodillado, sintió esperanza, miedo y amor en su
corazón. Esta mujer te ha dado un nieto, dijo Cristo. Obligado quedas
a velar por ella y por el niño.

La gaviota de San Juan

Esta es una historia de amor y de odio. De ambición y egoísmo.
Transcurre en Matanzas y, como toda buena historia, comienza en
invierno. En el ya lejano invierno de 1795, cuando la ciudad yumurina
contaba apenas con unos 6 000 habitantes. En ese entonces, en una
casucha de tabla y guano que se alzaba a orillas del río San Juan,
vivía una vieja esclava a la que todos conocían por Ma Teresa. La
acompañaba su nieta. Se llamaba Julia Rosa y tenía una piel de seda y
un rostro que, de lindo, daba gusto vérselo. Un rostro subrayado por
la perfección de unos ojos verdes que echaban al mundo la alegría de
los 17 años de su edad. Ma Teresa no era una esclava cualquiera. Vivía
como una negra libre, fuera de la casa familiar, sin más obligación
que la de cuidar de Julia Rosa, y gracias a la pensión que, sin faltar
una sola vez, le hacía llegar don Sebastián, opulento vecino de la
villa, con residencia en una espléndida mansión de la Calle del Medio.
Don Sebastián también tenía los ojos verdes y decían las malas lenguas
que Julia Rosa, la nieta de Ma Teresa, era hija suya.
Las interioridades del asunto las conocía bien doña Rosario, la
hermana de Sebastián. No veía con buenos ojos que Ma Teresa viviera
fuera de la casona. La verdad del caso es que doña Rosario sabía muy
bien que las visitas frecuentes de su hermano a la casita del río San
Juan con la intención de darle vueltas a «la niña», eran la causa de
que siguiera vivo el escándalo que sacudió Matanzas cuando don
Sebastián lloró en público a Julia, muerta luego de haber dado a luz a
Julia Rosa, aquella niña de ojos verdes que bien pasaba por blanca. A
doña Rosario, por otra parte, le estorbaba la muchacha. Su hijo Felipe
heredaría al tío Sebastián, y parte del capital y las propiedades bien
podrían corresponder a Julia Rosa. Había que pensar en esas cosas,
pues Felipe tenía ya 25 años y era el deseo de doña Rosario verlo
casado con Elvirita, la hija de doña María Elvira.
Cuenta el ya aludido Alvarado Sicilia en otra de sus Leyendas
matanceras, que la noticia llegó a la familia por dos vías. La supo
doña Rosario en la mañana, al salir de la misa, y la supo don
Sebastián por la tarde, mientras tomaba el fresco y veía y se dejaba
ver en la plaza de La Vigía. Una noticia sorpresiva, desconcertante:
el niño Felipe era visita diaria en la casa de la esclava Ma Teresa
prendado, como estaba, de Julia Rosa, sin saber que era su prima. Si
la noticia angustió a doña Rosario, más estragos causó en doña María
Elvira, la madre de Elvirita, la novia de Felipe. ¿Qué hacer? María
Elvira pensó que Tata Mongo, el esclavo más viejo de su casa, podía
tener la solución. En efecto, Tata Mongo aseguró que resolvería el
asunto del niño Felipe. Él tenía poderes secretos que le confirieron
en su tribu cuando lo hicieron jefe de brujos, y que le permitían
hablar con los dioses que seguían oyendo sus pedidos e invocaciones.
Doña Rosario no lo pensó mucho y ordenó al viejo Tata Mongo que se
esmerara en su trabajo.
Tata Mongo llegó a la casita del río San Juan ya cuando anochecía. Ma
Teresa había salido y Julia Rosa estaba sola. Llevaba para ella un
dulce de coco. Mientras la muchacha lo degustaba, Tata Mongo no dejaba
de hablar. Hablaba sobre cómo en África los brujos convertían a las
mujeres en pájaros. Él también podía hacerlo. Si te convierto en
pájaro, dijo, no morirás jamás. Julia Rosa seguía sus palabras entre
interesada e inquieta. Rió mucho, pero enseguida sintió miedo.
Don Sebastián andaba como enloquecido. Ma Teresa lloraba a toda hora.
Felipe, desesperado, no sabía ya dónde buscar a Julia Rosa. Doña
Rosario comenzó a sentir la mordedura de un remordimiento atroz. Julia
Rosa había desaparecido…
Pasó el tiempo. Una noche Ma Teresa dijo saber lo que había pasado con
su nieta. Un hechicero la había convertido en gaviota. Nadie la tomó
en serio, pero días después, Felipe vio una gaviota que lo miró de un
modo raro. Tenía los ojos verdes. Meses después Felipe moría loco,
enamorado de una gaviota.
La gaviota de ojos verdes del río San Juan vuela muchas noches sobre
la ciudad de Matanzas. No ha muerto. No puede morir.


Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


Canicola

CANICOLA: abitazione di Nicola

domenica 20 ottobre 2013

Canfora

CANFORA: non sono ammessi cani (Veneto)

Conclusa la Settimana della Lingua Italiana



Con la visita degli studenti della nostra lingua presso l'Istituto Dante Alighieri, si è conclusa la settimana dedicata a questo idioma.

I ragazzi, assieme ad insegnanti e parenti, hanno avuto un accompagnatore di eccezione: l'Ambasciatore Carmine Robustelli che ha condiviso con loro l'interesse per le macchine e i disegni di Leonardo da Vinci donate, alla città dell'Avana, poco più di un anno fa dalla Fondazione Anthropos, nella persona del suo presidente: il principe Modesto Veccia. Il museo permanente è meta di visite da parte di scolaresche cubane, ma anche di cittadini avaneri e non, oltre che di turisti di diversi Paesi, informati dalla segnaletica presente in alcuni punti del centro storico.





sabato 19 ottobre 2013

Canestro

CANESTRO: agilità mentale e vena artistica del miglior amico dell'uomo

venerdì 18 ottobre 2013

Assente dalla finestra di chat

Non riesco ad accedere alla finestra di chat perché non posso aggiornare Java e Shockwave player che sono indispensabili per il funzionamento. Spero di poterlo fare al più presto. Chiedo scusa a chi mi avesse cercato per quella via.

Dizionario demenziale

CANDENTE: zanna, suolo roccioso in prossimità del mare

giovedì 17 ottobre 2013

Miracolo all'Avana, esordisce il Teatro "misto"

Il gruppo di teatro El Publico diretto da Carlos Díaz e di cui fa parte anche il Premio Nazionale per l’Umore Osvaldo Doimeadios, debutta il prossimo 21, con repliche il 22 e 23 sul palco del teatro Trianón con l’opera, inedita a Cuba, “Ana en el Trópico” dello scrittore cubanoamericano Nilo Cruz che ha ceduto i diritti per queste funzioni. La rappresentazione verrà poi ripresa il 28, 29 e 30 nell’ambito del Festival del Teatro dell’Avana.
Il testo, del 2003, ha fatto guadagnare al suo autore il Premio Pulitzer ed è già stato presentato in molti teatri degli Stati Uniti, narra la storia di un gruppo di lavoratori e del proprietario di una fabbrica di sigari in una cittadina nei dintorni di Tampa che, nel 1929, realizza un tipo di sigaro di grande qualità e intende metterlo sul mercato con la marca “Ana Karenina” grazie al testo della novella letta ai sigarai, come da tradizione e che li ha colpiti particolarmente.
Per l’occasione il gruppo viene integrato con la partecipazione di due attrici e un attore cubani e residenti a Miami. Un caso, per ora, senza precedenti. Lui è Carlos Caballero che è anche produttore di FUNDarte, una società senza fini di lucro che promuove l’arte latina negli U.S.A. e nel mondo. Fondatore e direttore esecutivo della fondazione è Ever Chávez che, in collaborazione con l’Università di Miami ha sottoposto il progetto al Ministero della Cultura cubano. Le due protagoniste principali sono attrici ben note e popolari per il pubblico cubano visto il loro lungo curriculum, avuto nell’Isola: Lily Rentería e Mabel Roch.
Nel prossimo novembre, il gruppo “misto” porterà l’opera in un teatro di Miami Beach.
Una prova indubbiamente attesa dagli appassionati dell’arte scenica e che segna l’inizio di una collaborazione, fino a poco fa, impensabile.










Visita del vice ministro Giro a Cuba

Fonte: El Nuevoherald/France Presse


Vicecanciller de Italia busca apoyo de Cuba

AGENCE FRANCE PRESSE
LA HABANA -- El viceministro italiano de Relaciones Exteriores, Mario Giro, habló este miércoles con funcionarios cubanos sobre cooperación e inversiones italianas en la isla, y les pidió apoyo para una cruzada mundial contra la pena de muerte.
Giro, quien cumple una visita de 48 horas a La Habana, dijo que Italia quiere ampliar las inversiones y la cooperación con Cuba, que han estado frenadas por la crisis económica en Europa, y que espera contar con el apoyo cubano en la Asamblea General de la ONU para una moratoria en la pena capital en el mundo.
“Italia es el país promotor de la campaña mundial para la moratoria (de la pena de muerte). En la última (votación en la ONU) Cuba se abstuvo. Hemos discutido acerca de las próximas etapas de la campaña”, dijo a la prensa Giro, quien ha conversado con su par cubano, Rogelio Sierra, y otros funcionarios.
La Asamblea General de la ONU ha aprobado anualmente desde 2007 una propuesta italiana para una moratoria de la pena de muerte en el mundo.
Desde el 2003 en Cuba hay una moratoria de hecho de la pena capital, pero en enero pasado el presidente Raúl Castro destacó que el mantenimiento de la pena de muerte ayuda a disuadir a los narcotraficantes.
Giro expresó también su confianza en que la Unión Europea (UE) profundizará la colaboración con Cuba, que estuvo suspendida durante cinco años (hasta 2008), y que actualmente está en proceso de revisión por parte del bloque.
“Estamos en un buen momento (para que la UE amplíe la cooperación con Cuba), sin ser superficialmente optimistas para que eso pueda realizarse, porque hay distintas sensibilidades en la Unión Europea” sobre la isla, dijo.
Los vínculos entre la UE y Cuba están limitados por la “Posición Común” sobre la isla que mantiene el bloque desde 1996, la cual limita la cooperación a reformas en temas de democracia y derechos humanos.
La Habana dice que la Posición Común es el principal escollo para un mayor acercamiento.
Giro señaló que también ha explorado con las autoridades cubanas “nuevas oportunidades de inversiones” italianas en la isla, en particular en la zona franca que funcionará en el nuevo megapuerto de Mariel, actualmente en construcción, 50 km al oeste de La Habana.
“Pensamos que la zona de Mariel es una gran oportunidad”, dijo Giro, agregando que Italia puede ayudar a Cuba en sus reformas económicas, aprovechando su gran experiencia en cooperativismo.
Giro, quien también se reunirá con el canciller cubano, Bruno Rodríguez, partirá este jueves a Panamá, donde su país asistirá como invitado a la Cumbre Iberoamericana, el viernes y sábado.

Dizionario demenziale

CAMPANELLA/O: Nella/o vive

mercoledì 16 ottobre 2013

Segnaletica e surrealismo

Questo è il cartello stradale indicante lo "stop" secondo il codice stradale in vigore a Cuba. Uguale a quello in uso in molti Paesi europei, con la differenza nella scritta "pare", spagnolo, invece di "stop" inglese e ormai internazionale.



Ecco invece due casi di "segnaletica fai da te" costruita, chissà da chi nel vicinato, per sostituire il cartello originale mancante.



Ora sorgono le domande: ma giuridicamente che valore hanno? Si può multare chi non lo osserva? In caso (malaugurato) di incidente chi ne risponderebbe e verrebbe considerato responsabile? Nel caso specifico di due "calles" del Cerro con le stesse caratteristiche per dimensioni e "volumi" di traffico (scarso e quasi inesistente), non sarebbe meglio lasciare il diritto di precedenza a destra con risparmio di materiali, fantasia ed eventuali responsabilità civili?