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lunedì 7 ottobre 2013

Così cessò il dominio spagnolo, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 6/10/13

Truppe nordamericane penetrarono presto nella città e si accantonarono nei parchi Centrale e Isabel la Católica (dove successivamente si eresse il Capitolio). Si appostarono anche nella calle Monserrate e nell’Alameda de Paula. Alle dieci di mattina, centinaia di soldati del Settimo Corpo d’Armata dell’esercito statunitense si dispiegarono lungo la calzada di San Lazaro e vari plotoni presero posizione nella Plaza de Armas chiudendo il passo a chi volesse accedere alla medesima da Obispo o O’ Reilly e altre strade adiacenti. Mentre soldati e ufficiali del battaglione di fanteria di León, dell’esercito spagnolo, montavano in patetico silenzio l’ultima guardia a quella che di li a poco avrebbe cessato di essere la residenza dei Capitani Generali a Cuba.
Era il 1° gennaio 1899; una mattina di domenica chiara e luminosa. Alle 12 del mezzogiorno cessava il dominio spagnolo a Cuba e gli Stati Uniti assumevano il controllo dell’Isola. Al rombo dei cannoni protocollari di rigore, si ammainò la bandiera spagnola e la bandiera delle stelle e strisce si issò al suo posto. Il generale Alfonso Jiménez Castellanos, il grande sconfitto, di fronte a Máximo Gómez, delle battaglie di Saratoga (9-11 giugno del 18969 e Lugones (4 novembre del medesimo anno) i nome di Alfonso XIII, il re bambino e di Maria Cristina, la regina reggente, consegnava il comando al maggior generale John R. Brooke, che lo riceveva in rappresentanza del presidente nordamericano. Cambio di bandiere e di figure che non significava indipendenza.
Per questo, il 29 di dicembre, nel quartier generale dell’Esercito di Liberazione, installato al central Narcisa di Yaguajay, nel centro dell’Isola, il maggior generale Máximo Gómez avvertiva con un proclama: “Il periodo di transizione terminerà. L’esercito nemico abbandona il Paese ed entrerà ad esercitare la sovranità completa dell’Isola, non ancora libera né indipendente, il Governo della grande nazione in virtù di quanto stipulato nel protocollo della Pace”.
Aggiungeva di seguito Gómez. “Il termine del potere straniero nell’Isola, lo sgombero militare non può avvenire mentre non si costituisca un proprio Governo, ed è necessario che ci dedichiamo immediatamente a questo lavoro per dare compimento alle cause dell’intervento e porvi termine nel più breve lasso di tempo possibile”.
La nuova situazione provocava sentimenti contrastanti nel semplice cubano. Alcuni piangevano. Altri, ridevano dice nella sua cronaca il giornalista e scrittore cubano Federico Villoch. Era una commozione nervosa difficile da trattenere. Annota Villoch che chi non visse quei momenti non sa cosa sono le forti emozioni. Non si era lottato per tanti anni perché alla fine fosse la bandiera nordamericana quella che sventolasse sulla casa del Governo, nella Plaza de Armas e sul castello del Morro. Comunque l’uscita della Spagna, dopo quasi 400 anni di dominio, causava sollievo e contentezza.

Una nazione desolata

Il Trattato di Parigi che sottoscrissero il 10 dicembre del 1898 Spagna e Stati Uniti, gettò le basi per il passaggio dei poteri e l’uscita delle truppe spagnole dall’Isola. Il primo articolo del documento definisce che la Spagna rinuncia alla sovranità e proprietà su Cuba e che mentre duri l’occupazione nordamericana, Washington assumerà gli obblighi conseguenti.
Più avanti. L’articolo 16, riferisce che terminando l’occupazione, si consiglierà il Governo che si stabilisca a Cuba che accetti gli stessi obblighi. Nel trattato non c’è nessuna allusione circa il futuro del Paese e il termine “indipendenza” non si lascia nemmeno intravvedere fra le sue righe.
Cuba non ebbe nessuna rappresentanza che dettero luogo al Trattato di Parigi. Nessun cubano vi potè partecipare. La Commissione per l’Evacuazione, che ebbe sede nell’Avanero palazzo di Villalba, nella calle Egido, di fronte alla piazza delle Orsoline, venne composta da tre alti ufficiali spagnoli e uno stesso numero di militari nordamericani, anch’essi di alto rango, oltre all’auditore (controllore dell’economia, n.d.t.) dell’esercito statunitense che si disimpegnò come segretario. A differenza di quello che successe nella capitale francese, questa volta ci fu un cubano nel conclave. Non si pensi che fu un ufficiale, per modesto che fosse, dell’Esercito di Liberazione, né di un soggetto che simpatizzasse con l’indipendenza. Tutto il contrario. Fu l’autonomista Rafael Montoro, senza dubbio un uomo brillante, che fu presente a quelle riunioni a nome di un effimero e irreale Governo cubano che per colmo aveva cessato le sue funzioni, se per caso ne avesse avute in qualche momento.
Filò liscia quella Commissione, ciò nonostante non si poterono evitare incidenti sgradevoli, anche cruenti, come lo scontro fra simpatizzanti dell’indipendenza e incondizionali della Spagna che ebbe origine nel café El Guanche, in Nettuno e Belascoaín che ridusse in cenere il locale. Un’altro di questi fatti del quale già alluse questo scriba (Notizie di una calle, 22 gennaio 2012) ebbe luogo al café El Louvre, in Prado e San Rafael e il narratore, giornalista e attore Gustavo Robreño lo classificò come l’ultimo combattimento fra cubani e spagnoli. L’11 dicembre, qualche giorno prima del cambio dei poteri, in questo caffé si affrontarono con armi da fuoco mambises e militari coloniali. Lo scontro lasciò due morti, Jesús Sotolongo Lunch “l’ultimo ragazzo del marciapiedi del Louvre - diceva Robreño -, che dette la sua vita per la santa causa dell’indipendenza”, e uno sfortunato passante, morto a colpi di calcio di fucile, perché, sordo com’era, non aveva ubbidito alle grida di “Alt!” che gli stavano dando le autorità.
Comunque, in senso generale, primeggiò la calma man mano che i nordamericani occupavano, lentamente, gli spazi lasciati dagli spagnoli. Usciva la Spagna da Cuba lasciando un “regaluccio” dei volontari e i gruppi paramilitari, i cosiddetti “partigiani” che assecondarono l’esercito coloniale nelle sue azioni. Erano circa 40.000 che rimasero negli stessi luoghi dove combatterono con ardore contro l’indipendenza del loro Paese. Al rispetto Horacio Ferrer scrive nel suo libro Col fucile in spalla: “Non avevano diritto a godere di questa indipendenza che odiarono e combatterono con astio. Al più presto si mischierebbero alla politica e li si vedrebbe occupare importanti incarichi nella Repubblica per sporcarla e corromperla. Il perdono assoluto che fu loro concesso è servito per coprire tutte le malefatte e tutte le azioni abominevoli commesse poi da governanti impudici e dai loro servi, rifacendosi sempre all’espressione che se perdonammo i “partigiani”, non si dovrebbe essere più esigenti con altri delinquenti”.
La guarre lasciava un Paese in rovina. La produzione di zucchero e tabacco calarono durante la contesa bellica, il commercio si indebolì per la mancanza di attività economiche produttive e i capi di bestiame equino e bovino calò considerevolmente. Una nazione desolata, per dirlo con una sola parola, dove la guerra, la fame, le malattie e la politica di riconcentramento ordinata da Weyler causarono centinia di migliai di vittime; circa 400.000, secondo la stima dell storico Fernando Portuondo, su una popolazione totale di due milioni di abitanti.

Viva Cuba Libre

Poco prima delle 12 del mezzogiorno giunse, vestito con l’uniforme di gala, il maggior generale Brooke, per assumere il controllo del Governo di occupazione. Lo accompagnavano i generali Lee, Ludlow,Davis e Chaffe, anche loro in alta uniforme con i loro aiutanti. Arrivarono anche alti ufficiali cubani: i maggior generali José Miguel GArrivarono anche alti ufficiali cubani: i maggior generali José Miguel Gómez, Mario García Menocal e José María (“Mayía”) Rodríguez. I generali di divisione José Lacret, Rafael de Cárdenas e Alberto Nodarse e i generali di brigata Eugenio Sánchez Agramonte, Francisco de Paula Valiente e Francisco Leyte Vidal, tutti invitati speciali di Brooke. Máximo Gómez non era presente. Si rifiutò di entrare all’Avana cone le truppe statunitensi, come pretendevano a Washington e nonostante gli sforzi di Estrada Palma, dice l’accademica Uva de Aragón, “di far capire ai nordamericani, quanto ferisse i creoli tale proposta”. Il Gdeneralissimo arrivò il 24 febbraio. In questo giorno, ricorda Horacio Ferrér “in mezzo a un entusiasmo indescrivibile, con una splendida apoteosi, attraversò la città fino alla sede del Municipio su un vivace puledro, col cappello nella mano destra, sorridendo alla folla che lo acclamava delirante, gli sembrava un sogno vedere così vicino il vincitore di cento combattimenti, forgiatore della patria libera”.
Componenti la Commissione e invitati si riunirono nel Salone del Trono del Palazzo, dove poco prima con compunti baciamano e brillanti complimenti, il capitano generale riceveva gli omaggi dei sudditi del monarca di Spagna.Alle 12 in punto, al suono del primo colpo di cannone delle armi spagnole in saluto alla loro bandiera che si ammainava, il generale Jiménez Castellanos salutò militarmente i suoi rivali, e con gli occhi inumiditi dalle lacrime e la voce rotta dall’emozione disse, dirigendosi a Brooke:
“Signore, a compimento di quanto stipulato nel Trattato di Pace, di quanto convenuto tra le commissioni militari di evacuazione e degli ordini del mio Re, cesse di esistere, da questo momento...la sovranità della Spagna sull’Isola di Cuba e comincia quella degli Stati Uniti. Dichiaro pertanto Lei, al comando dell’Isola, con la perfetta libertà di esercitarlo, aggiungendo che sarò io il primo a rispettare ciò che lei determinerà. È ristabilita così la pace fra i nostri rispettivi Governi, Le prometto che osserverò a quello degli Stati Uniti con tutto il rispetto dovuto e spero che le buone relazioni esistenti tra i nostri eserciti continuino nella stessa maniera fino a che abbia termine, definitivamente, l’evaquazione di questo territorio da parte di coloro che sono ai miei ordini”.
Brooke rispose: “Signore, a nome del Governo e del presidente degli Stati Uniti, accetto questo oneroso incarico, e auguro a Lei e ai valorosi che l’accompagnano che tornino felicemente ai patrii focolari. Volesse il cielo che la prosperità vi accompagni ovunque!”.
Concluse le parole di Brooke, il generale Jiménez Castellanos, si accomiatò dai presenti. Mentre scendeva le scale si sentivano i colpi di cannone con cui le truppe americane, eccitate, salutavano l’alza bandiera sul Morro. A la Cabaña, la bandiera del loro Paese venne issata dai giovani Lee e Harrison, il primo figlio del famoso generale e l’altro figlio di un ex presidente degli Stati Uniti. La corda con cui si ammainò la bandiera spagnola la tenne Harrison come ricordo. L’operazione si ripeté sul tetto del Palazzo dei Capitani Generali. A quell’ora si allontanavano dalle coste cubane le navi da guerra Rápido, Patriota, Marqués de la Ensenada, Galicia e Pinzón con truppe spagnole a bordo. Una buona parte di esse era già partita col vapore Buenos Aires. Il 12 dicembre, a bordo dell’incrociatore Conde de venadito, erano trasportai in Spagna i presunti resti di Cristoforo Colombo, depositati nella Cattedrale dell’Avana. Con una cerimonia modestissima furono trasportati al porto nel carro n° 22 della Sanità Militare, bardato e tirato da 4 coppie di muli.
Nella Plaza de Armas si trovavano due bande musicali. Una interpretò la Marcia Reale spagnola, l’altra l’inno nordamericano. Il popolo trattenuto all’imbocco delle strade adiacenti, udendoli gridò. “Viva Cuba libre!”. Intanto, sostenuta da due palloni, una bandiera cubana sventolava nel cielo a grande altezza.




Así cesó la soberanía española

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
5 de Octubre del 2013 22:03:48 CDT

Tropas norteamericanas penetraron temprano en la ciudad y se
acantonaron en los parques Central y de Isabel la Católica (donde
después se emplazó el Capitolio). Se apostaron asimismo en la calle
Monserrate y en la Alameda de Paula. A las diez de la mañana, cientos
de soldados del Séptimo Cuerpo del ejército estadounidense se
desplegaron a lo largo de la Calzada de San Lázaro, y varios pelotones
tomaron posición en la Plaza de Armas y cerraron el paso a los que
querían acceder a esta desde Obispo, O’Reilly y otras calles aledañas.
Mientras, soldados y oficiales del batallón de infantería de León, del
ejército español, montaban, en patético silencio, la última guardia en
lo que pronto dejaría de ser la mansión oficial de los Capitanes
Generales en Cuba.
Era el 1ro. de enero de 1899; una mañana de domingo clara y luminosa.
A las 12 meridiano cesaba la soberanía de España en Cuba, y Estados
Unidos asumía el control de la Isla. Al compás de los cañonazos
protocolares de rigor se arriaría el pabellón español, y la bandera de
las barras y las estrellas se izaría en su lugar. El general Adolfo
Jiménez Castellanos, el gran perdedor, frente a Máximo Gómez, de las
batallas de Saratoga (9-11 de junio de 1896) y Lugones (4 de noviembre
del mismo año) en nombre de Alfonso XIII, el rey niño, y de María
Cristina, la reina regente, entregaba el mando al mayor general John
R. Brooke, que lo recibía en representación del Presidente
norteamericano. Cambio de banderas y de figuras que no significaba la
independencia.
Por eso el 29 de diciembre, en el cuartel general del Ejército
Libertador, instalado en el central Narcisa, de Yaguajay, en el centro
de la Isla, el mayor general Máximo Gómez advertía en una proclama:
«El período de transición va a terminar. El ejército enemigo abandona
el país y entrará a ejercer la soberanía entera de la Isla, ni libre
ni independiente todavía, el Gobierno de la gran nación en virtud de
lo estipulado en el Protocolo de la Paz».
Añadía Gómez a renglón seguido: «La cesación en la Isla del poder
extranjero, la desocupación militar no puede suceder entre tanto no se
constituya el Gobierno propio, y a esa labor es necesario que nos
dediquemos inmediatamente para dar cumplimiento a las causas
determinantes de la intervención y poner término a esta en el más
breve plazo posible».
La nueva situación provocaba sentimientos encontrados en el cubano de
a pie. Unos lloraban. Otros, reían, dice en su crónica el periodista y
escritor cubano Federico Villoch. Era una conmoción nerviosa difícil
de contener. Apunta Villoch que quien no vivió aquellos momentos
desconoce lo que son emociones fuertes. No se había luchado durante
tantos años para que al final fuera la bandera norteamericana la que
tremolara en la casa de Gobierno, en la Plaza de Armas, y en el
castillo del Morro. Pero la salida de España, luego de 400 años de
dominio, ocasionaba alivio y alegría.

Una nación desolada

El Tratado de París que España y Estados Unidos suscribieron el 10 de
diciembre de 1898 sentó las bases para la transmisión de poderes y la
salida de las tropas españolas de la Isla. El primer artículo del
documento consigna que España renuncia a la soberanía y propiedad
sobre Cuba y que mientras dure la ocupación norteamericana, Washington
asumirá las obligaciones consiguientes. Más adelante, el artículo 16
refiere que al terminar la ocupación, se aconsejaría al Gobierno que
se establezca en Cuba que acepte las mismas obligaciones. No hay en el
tratado alusión alguna al futuro del país, y el término independencia
no se deja entrever siquiera entre sus renglones.
Cuba no tuvo representación alguna en las conversaciones que dieron
lugar al Tratado de París. Ningún cubano pudo participar. La Comisión
de Evacuación, que sesionó en el habanero palacio de Villalba, en la
calle Egido, frente a la Plaza de las Ursulinas, la conformaron tres
altos oficiales españoles e igual número de militares norteamericanos,
también de alta graduación, más el auditor del ejército estadounidense
que se desempeñó como secretario. A diferencia de lo que ocurrió en la
capital francesa, esta vez hubo un cubano en el cónclave. No se
piense, sin embargo, que se trató de un oficial, por modesto que
fuera, del Ejército Libertador ni de un sujeto que simpatizara con la
independencia. Todo lo contrario. Fue el autonomista Rafael Montoro,
hombre brillante, sin duda alguna, que estuvo presente en aquellas
reuniones en nombre de un efímero e irreal Gobierno cubano que para
colmo ya había cesado en sus funciones si es que alguna vez funcionó
del todo.
Hiló fino aquella Comisión. Pese a eso no pudo evitar incidentes
desagradables, cruentos incluso, como el choque entre simpatizantes de
la independencia e incondicionales de España que se originó en el café
El Guanche, en Neptuno y Belascoaín, y que redujo a polvo dicho
establecimiento. Otro de esos sucesos, al que ya aludió este
escribidor (Noticias de una calle, 22 de enero, 2012) se escenificó en
el café El Louvre, en Prado y San Rafael, y el narrador, periodista y
actor Gustavo Robreño lo calificó como el último combate entre cubanos
y españoles. El 11 de diciembre, días antes del cambio de poderes, en
ese café se enfrentaron a tiros mambises y militares coloniales. La
refriega dejó dos muertos, Jesús Sotolongo Lunch, «el último muchacho
de la Acera del Louvre —decía Robreño—, que dio su vida por la santa
causa de la independencia», y un infeliz transeúnte muerto a culatazos
porque, sordo como era, no respondió a las voces de «¡Alto!» que le
daba la autoridad.
Con todo, en sentido general primó la calma a medida que los
norteamericanos ocupaban los espacios que, con lentitud, dejaban los
españoles. Salía España de Cuba y dejaba el «regalito» de los
voluntarios y los grupos paramilitares, los llamados «guerrilleros»
que secundaron al ejército colonial en sus acciones. Eran unos 40 000,
que permanecieron en los mismos lugares donde pelearon con ardor
contra la independencia de su país. Escribe al respecto Horacio Ferrer
en su libro Con el rifle al hombro: «No tenían derecho a gozar de esa
independencia que odiaban y combatieron con saña. Pronto iban a
mezclarse en la política y se les vería ocupar cargos importantes en
la República para mancillarla y corromperla. El perdón absoluto que se
les concedió ha servido para cubrir todas las lacras y todas las
acciones vituperables cometidas después por gobernantes impúdicos y
sus servidores, acudiéndose siempre a la expresión de que si
perdonamos a los “guerrilleros”, no se debía ser exigentes con otros
delincuentes».
La guerra dejaba un país en ruinas. Las producciones de azúcar y
tabaco decrecieron durante la contienda bélica, languideció el
comercio por falta de actividad económica productiva y el número de
cabezas de ganado caballar y vacuno mermó sensiblemente. Una nación
desolada, para decirlo en una sola palabra y donde la guerra, el
hambre, las enfermedades y la política de reconcentración ordenada por
Weyler cobraron cientos de miles de víctimas; unas 400 000 según
estimados del historiador Fernando Portuondo, en una población total
de dos millones de habitantes.




Poco antes de las 12 meridiano, llegó, vestido de gran uniforme, el
mayor general Brooke, que asumiría la jefatura del Gobierno de
ocupación. Lo acompañaban los generales Lee, Ludlow, Davis y Chaffe,
vestidos igualmente con uniforme de gala, y toda la ayudantía.
Llegaron también altos oficiales cubanos: los mayores generales José
Miguel Gómez, Mario García Menocal y José María («Mayía») Rodríguez.
Los generales de división José Lacret, Rafael de Cárdenas y Alberto
Nodarse, y los generales de brigada Eugenio Sánchez Agramonte,
Francisco de Paula Valiente y Francisco Leyte Vidal, todos invitados
especialmente por Brooke. Máximo Gómez no estuvo presente. Se negó a
entrar en La Habana con las tropas estadounidenses, como pretendían en
Washington, y pese a los esfuerzos de Estrada Palma, dice la académica
Uva de Aragón, «de hacerles entender a los norteamericanos lo hiriente
que resultaba para los criollos tal propuesta». El Generalísimo
arribaría al fin el 24 de febrero. Ese día, recuerda Horacio Ferrer,
«en medio de indescriptible entusiasmo, en apoteosis magnífica,
atravesó la ciudad hasta el Ayuntamiento sobre brioso corcel, con el
sombrero en la diestra, sonriendo a la multitud que le aclamaba
delirante, pareciéndole un sueño ver tan de cerca al vencedor de cien
combates, forjador de la patria libre».
Comisionados e invitados fueron congregándose en el Salón del Trono
del Palacio, donde hasta poco antes, en graves besamanos y brillantes
saraos, recibía el capitán general el homenaje de los súbditos del
monarca español. A las 12 en punto, al sonar el primer cañonazo de las
armas españolas en saludo a su bandera, que se arriaba, el general
Jiménez Castellanos saludó militarmente a sus contrarios, y con los
ojos arrasados en lágrimas y la voz ahogada por la emoción, expresó
dirigiéndose a Brooke:
«Señor: En cumplimiento de lo estipulado en el Tratado de Paz, de lo
convenido por las comisiones militares de evacuación, y de las órdenes
de mi Rey, cesa de existir en este momento… la soberanía de España en
la Isla de Cuba, y empieza la de los Estados Unidos. Declaro a Ud.,
por lo tanto, en el mando de la Isla y en perfecta libertad de
ejercerlo, agregando que seré yo el primero en respetar lo que Ud.
determine. Restablecida como está la paz entre nuestros respectivos
gobiernos, prometo a Ud. que guardaré al de los Estados Unidos todo el
respeto debido, y espero que las buenas relaciones ya existentes entre
nuestros ejércitos continuarán en el mismo pie hasta que termine
definitivamente la evacuación de este territorio por los que estén
bajo mis órdenes».
Repuso Brooke: «Señor: En nombre del Gobierno y del Presidente de los
Estados Unidos acepto este grande encargo, y deseo a Ud. y a los
valientes que lo acompañan que regresen felizmente a los hogares
patrios. ¡Quiera el cielo que la prosperidad los acompañe a ustedes
por todas partes!».
Concluidas las palabras de Brooke, el general Jiménez Castellanos se
despidió de los presentes. Mientras descendía las escaleras se
escuchaban los cañonazos con que las tropas norteamericanas,
alborozadas, saludaban el ascenso de su bandera en el Morro. En la
Cabaña izaron la bandera de su país los jóvenes Lee y Harrison, hijo
el primero del general del mismo apellido, y el otro, de un ex
presidente de EE.UU. La cuerda con la que se arrió la enseña española,
la guardó Harrison como recuerdo. La operación se repitió en la azotea
del Palacio de los Capitanes Generales. A esa hora se alejaban de las
costas cubanas los buques de guerra Rápido, Patriota, Marqués de la
Ensenada, Galicia y Pinzón con tropas españolas a bordo. Una buena
parte de estas había partido ya en el vapor Buenos Aires. El 12 de
diciembre, a bordo del crucero Conde de Venadito, eran llevados a
España los supuestos restos de Cristóbal Colón depositados en la
Catedral de La Habana. En una ceremonia modestísima fueron trasladados
al puerto en el carro número 22 de la Sanidad Militar, engalanado y
tirado por cuatro parejas de mulos.
En la Plaza de Armas se hallaban dos bandas de música. Una interpretó
la Marcha Real española; la otra, el himno norteamericano. El pueblo,
contenido en las bocacalles inmediatas, gritó al oírlos: «¡Viva Cuba
Libre!». Sostenida por medio de dos heliógrafos, una bandera cubana
flotaba en el espacio a una altura inmensa.


Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
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