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lunedì 14 ottobre 2013

Il santo che uccise un uomo, di Ciro Bianchi Ross, pubblicato su Juventud Rebelde del 13/10/13

Successe nei giorni della presa dell’Avana da parte degli inglesi (1762/63 n.d.t.), lo racconta Álvaro de la Iglesia in una delle sue Tradizioni cubane. La fanteria nemica sbarcò a Cojimar e ci mise poco a prendere il cammino per Guanabacoa i cui abitanti, vista la prossimità dell’invasore, se ne andarono dalla località in fretta e furia portandosi quanto consideravano di valore. Due ore dopo la fuga dei suoi abitanti, gli inglesi penetrarono a Guanabacoa. È da immaginarsi quello che vi successe. Quello che capita in una città presa dagli invasori; quello che l’invasore vuole o di cui ha bisogno, lo prende senza chiederlo e, se qualcuno reclama, lo si fucila o rinchiude.
Una volta nell’abitato, gli occupanti compresero immediatamente qual’era il posto migliore per il loro alloggio, l’edificazione più ampia, bella, igienica e ventilata era il convento di San Domenico. Vi si installarono i capi e gli ufficiali, nelle celle dei monaci, mentre la truppa, senza curarsi della santità del luogo trasformava il tempio in dormitorio e scuderia e gli altari in presepi senza che niente, nelle navate del convento, sfuggisse alla profanazione e volgarità della soldataglia.
La città era stata saccheggiata e non restava niente di valore nelle case deserte e silenziose. Gli invasori ricavarono un considerevole bottino in templi e monasteri. I guanabacoensi confidarono che il colonnello Caro, il capo locale, avrebbe resistito agli invasori, ma l’uomo si dimostrò altrettanto vile e inetto, come superbo e presuntuoso. D’altra parte era stato tutto molto rapido e la gente, fiduciosa nella difesa della città che Caro avrebbe fatto, poté appena salvare le cose di maggior valore delle loro proprietà, nel mentre i frati assicuravano i bicchieri sacri e le reliquie, ma non poterono fare lo stesso con l’oro e l’argento dei loro templi.
Quando, all’interno del convento, non c’era già più niente da rubare o rompere, un soldato che stava smaltendo una sbornia, steso sul pavimento, scorse un oggetto brillante che risaltava in una della dita della statua di San Francisco Javier, Apostolo delle Indie, collocata in una delle nicchie dell’altare maggiore. Quello che brillava era un anello di valore che il vescovo Laso de la Vega aveva donato al santo quando benedì il tempio nel 1748, al termine delle ristrutturazioni che si fecero in loco.
L’inglese volle impadronirsi dell’anello, ma ci voleva una scala per arrivare alla statua. Non c’era e la sbornia, che gli permetteva a malapena di star in piedi, impediva al soldato di scalare il tabernacolo.
Allora cercò di infilare la statua in una corda e tirarla per toglierla dalla sua sede. Fatica inutile. San Francisco Javier risaltava inamovibile nel suo trono, nonostante gli scherzi sacrileghi. Alla fine però l'immagine cedette. Volò dall’altezza in cui si trovava cadendo sopra il soldato.
Ripresisi dalla sorpresa per l’incidente che li lasciò ammutoliti e pallidi per qualche istante, gli inglesi cercarono di rianimare il loro compagno. Ma non ci sarebbe stato Dio che rianimasse un morto. Quando si resero conto dell’inutilità dei loro sforzi lasciarono il cadavere e, con assoluta flemma britannica, si misero a cercare l’anello che li ingolosiva. Sforzo inutile. Il gioiello era sfuggito dal dito di San Franceso Javier e non si poté ritrovare, per molto che tante paia di occhi aperti dall’avidità, si impegnassero a cercarlo.
Dopo l’uscita degli inglesi dall’Avana, il santo che uccise un uomo tornò nella sua formella, poi si ripararono le ammaccature e avarie causate dagli invasori sul suo corpo, ostinati a credere che San Francisco Javier era un prete, cattivo, che nascondeva l’anello per colpirli sulla testa.
Passarono 50 anni. In pochi, ormai, nella città di Pepe Antonio ricordavano l’occupazione inglese fino a che un giorno, mentre si puliva e decorava l’altare maggiore per preparare la celebrazione della Settimana Santa, il pittore don Gil Castañeda, senza sapere di cosa si trattasse e non conoscendo i particolari dell’incidente, spostò una cornice e trovò un anello. Gil Castañeda si premurò di consegnarlo al priore di Santo Domingo, il Reverendo Padre Maestro Frate Antonio Prudencio Pérez che, per la sua anzianità e piena conoscenza della storia del convento, seppe all’istante che quello era l’anello che provocò tante profanazioni.
Non sappiamo se questo storico anello si conserva, ma sì che il santo che uccise l’invasore si trova ancora li, nel suo altare, sfidando il tempo e il nemico.

L'apoplessia del governatore

Alcuni governatori erano sopportati dalla “gente bene” creola, altri invece no. Fra quelli non sopportati c'era Juan Francisco Güemes de Horcasitas, primo Conte di Revillagigedo. Guardate da dove viene il nome della calle avanera.
L'aristocrazia dell'Avana lo chiamava il tiranno e fin da quando Güemes assunse il Governo nel 1734, fece quanto era in suo potere perché la Corona lo defenestrasse. Era avaro e rapace come nessuno dei suoi predecessori lo fu e più ladro di tutti loro messi insieme, ma oltre a queste caratteristiche ne aveva un'altra: non lasciava che gli altri rubassero. Questo sì, inviava al Re quello che era del Re e i redditi che da qua arrivavano in Spagna non avevano mai raggiunto livelli superiori. Ciò, e la difesa sicura che aveva l'Isola, faceva si che cadessero nel vuoto tutte le lamentele elevate a Madrid, contro di lui, dal patriziato creolo che per disfarsene non intravvedeva altra soluzione che lo colpisse un fulmine. E fu quasi così, un bel giorno il governatore cadde fulminato da un attacco apoplettico che lo portò alla soglia della morte. Gli aristocratici e i borghesi cantarono vittoria. Ma l'uomo, invitato dal Conte di Casa Bayona, si recò a Santa Maria del Rosario, godette dei benefici delle sue acque medicinali e, 30 giorni dopo, tornò all'Avana come nuovo, grasso e colorito come non mai, disposto a continuare nel fare dispetto a coloro che chiedevano la sua sostituzione, fino al 1745 quando lasciò l'Isola per assumere l'incarico di Vicerè del Messico.

Una storia Galante

La calle Refugio nasce nell'Avenida de las Misiones, nell'Avana Vecchia, prosegue per il municipio di Centro Avana e muore nella calle Crespo. Durante la colonia fu conosciuta anche col nome de la Merced e nel 1922 il municipio avanero dette a questa calle il nome ufficiale di Generale Emilio Nuñez, a ricordo della figura di questo valoroso mambí, deceduto in quell'anno e che aveva occupato la vice presidenza della Repubblica.
Però come succede regolarmente quando un nome si radica nell'immaginario collettivo, né il nome de la Merced né quello del glorioso generale cubano proliferarono e tutti, senza eccezione, continuarono a chiamare quella calle Refugio. Fu così che nel 1936, nella giunta della città, si decise di restituirglielo e trasferire il nome del generale Emilio Nuñez alla calle che, parallela alla Calzada di Ayestarán, corre fra Aranguren o Zaldo e Pedro Pérez, nel Cerro.
Refugio è la calle che passa di fronte alla facciata nord dell'antico Palazzo Presidenziale, oggi Museo della Rivoluzione. Questa edificazione occupa precisamente il numero 1 della via.
Ma da dove viene il nome Refugio? Cosa successe li perché se lo meritasse? Chi vi trovò protezione e riparo? È una storia antica e galante che è stata raccontata da diversi autori e ognuno di loro, nel raccontarla, ha posto il suo pizzico di sale. Oggi approfittiamo della versione che offre Álvaro de la Iglesia nelle sue Tradizioni cubane.
Nel 1832 arrivò a Cuba il tenente generale Mariano Ricafort per farsi carico del Governo dell'Isola. Arrivava stanco dalla sua lunga traiettoria militare; prima nella guerra con i francesi per l'indipendenza spagnola e poi nel Perú, contro gli indipendentisti sudamericani. Così Ricafort dedicava il maggior tempo al riposo che ai compiti di Governo. Un esempio di ciò è che venne da lui inaugurata la famosa Junta de Fomento, messa in gestazione dal suo predecessore Vives delegando il suo comando, una volta costituita, nel creolo Claudio Martínez de Pinillos, conte di Villanueva e al tempo stesso sovrintendente generale dell'Industria.
Godeva molto, il Governatore Ricafort, di lunghe passeggiate a cavallo nei dintorni della città circondata, allora, dalle mura. Alcune volte con l'aiutante, altre, seguito a distanza da due lanceri.
Uno dei luoghi più frequentati dalle sue cavalcate era la zona delle cave di San Lazzaro o la Casa Cuna ubicata vicino ad esse, visitandola e facendole giungere le sue generose donazioni, come parve, l'aragonese non era “tirato” in questo senso.
È bene ricordare che in questa data, fuori dalle mura e in questa parte della città c'erano aziende, laboratori, orti e casupole di legno e frasche che si raggruppavano dentro la folta vegetazione tropicale.
Uno di questi pomeriggi, Ricafort uscì per la sua passeggiata quotidiana quando, già allontanatosi dalla porta di Monserrate, verso la cosiddetta Collina dell'Inglese che cominciava all'altezza dell'attuale calle Blanco (bersaglio n.d.t.), così chiamata perché in questo luogo ci fu il bersaglio per le esercitazioni della scuola di artiglieria, lo sorprese una delle improvvise tormente tropicali durante le quali, in brevi istanti, sembra scatenarsi tutta la furia dei cieli.
Fra lampi e tuoni, vento e acqua, riuscì a intravvedere una casa seminascosta dalla barriera e spronando si mise al riparo sotto il portico di quella abitazione campestre, la migliore di tutte quelle dei dintorni.
Quando meno se lo aspettava, si aprì la porta della casa e apparse sulla soglia un'amabile e distinta signora, ancora di bell'aspetto, che gli offrì la sua casa con la più squisita attenzione.
Il Governatore accettò l'invito, compiaciuto, aveva già pensato a un attacco di reumatismi o un bel raffreddore. Ancor maggiore fu la sua sorpresa davanti agli ossequi estremi della dama. Non si rese conto del passare del tempo, incantato dalle canzoni che riempirono la casetta al suono della chitarra.
La ossequiosa signora, che – dicono alcuni autori – era la vedova di un tal Méndez o secondo altri, la sua figlia maggiore, strinse amicizia col Generale che si convertì in visitatore assiduo della casa. Per dare pubblico apprezzamento alla vedova o figlia di Méndez, ordinò che al viottolo che conduceva a quella casa si desse il nome Del Refugio. Questi rimase quando il viottolo si convertì in calle e Ricafort se ne era già andato da un'altra parte con la stanchezza della sua traiettoria militare.
Questa, fra tutte le versioni che si raccontano sul fatto, è quella che ci è sembrata più plausibile. Anche la più delicata e romantica.

El santo que mató a un hombre

Ciro Bianchi Ross • digital@juventudrebelde.cu
12 de Octubre del 2013 21:26:12 CDT

Ocurrió en los días de la toma de La Habana por los ingleses, y lo
cuenta Álvaro de la Iglesia en una de sus Tradiciones cubanas.
Desembarcó por Cojímar la infantería enemiga y no demoró en tomar el
camino de Guanabacoa, cuyo vecindario, ante la proximidad del invasor,
salió de la localidad a uña de caballo llevándose cuanto consideraba
de valor. Dos horas después de la fuga de sus habitantes, penetraron
los ingleses en Guanabacoa. Es de suponer lo que allí sucedió. Lo que
hay en una ciudad tomada es del invasor; lo que el invasor quiere o
necesita, lo toma sin pedirlo, y si alguien reclama, se le fusila o se
le encierra.
Ya en la villa, los ocupantes comprendieron de golpe que el mejor
lugar para su alojamiento, la edificación más amplia, hermosa,
higiénica y ventilada era el convento de Santo Domingo. Se instalaron
los jefes y oficiales en las celdas de los monjes, mientras que la
tropa, sin importarle la santidad del lugar, convertía el templo en
dormitorio y caballeriza y los altares en pesebres, sin que nada en
las naves del convento escapara a la profanación y chacota de la
soldadesca.
La villa había sido saqueada ya y no quedaba nada de valor en las
solitarias y calladas casas de la localidad. En templos y monasterios
cobraron los invasores un botín cuantioso. Los guanabacoenses habían
confiado en que el coronel Caro, el jefe local, resistiría al invasor,
pero el hombre se mostró tan cobarde e inepto como soberbio y
presuntuoso. Por otra parte, todo había sido muy rápido y la gente,
confiada en la defensa que Caro haría de la villa, apenas pudo poner a
salvo lo más valioso de sus pertenencias, mientras que los frailes
aseguraban los vasos sagrados y las reliquias, pero no podían hacer lo
mismo con la plata y el oro de sus templos.
Cuando ya en el interior del convento no quedaba nada por robar o
romper, un soldado que acostado sobre el piso reposaba su borrachera
reparó en un objeto brillante que lucía en uno de sus dedos la imagen
de bulto de San Francisco Javier, Apóstol de las Indias, colocada en
una de las hornacinas del altar mayor. Lo que brillaba era un valioso
anillo que el obispo Laso de la Vega regaló al santo cuando bendijo el
templo en 1748, al concluir las reformas que se operaron en el lugar.
Quiso el inglés apoderarse del anillo, pero se necesitaba de una
escalera para llegar hasta la imagen. No la había y la borrachera, que
apenas le permitía mantenerse en pie, impedía que el soldado escalara
el tabernáculo.
Intentó entonces ensartar la imagen con una cuerda y tirar de ella
para separarla de su peana. Esfuerzo inútil. San Francisco Javier
lucía inconmovible en su trono, pese a las burlas sacrílegas. Terminó
la imagen cediendo sin embargo. Se estremeció en su altura y al venir
abajo cayó sobre el soldado.
Repuestos de la sorpresa del accidente, que los dejó mudos y sin color
por un instante, intentaron los ingleses reanimar a su compañero. Pero
no había Dios que reanimara a un muerto. Cuando se percataron de la
inutilidad de su esfuerzo dejaron al occiso y, con flema
verdaderamente británica, se dedicaron a buscar el anillo codiciado.
Esfuerzo inútil. La prenda había escapado del dedo de San Francisco
Javier y no pudo ser hallada por más que muchos pares de ojos,
abiertos por la codicia, se empeñaban en buscarla.
Tras la salida de los ingleses de La Habana, el santo que mató a un
hombre volvió a su hornacina, luego de que se le repararan las
magulladuras y averías que causaron en su cuerpo los invasores,
empeñados en creer que San Francisco Javier era un mal cura que
escondía el anillo para darles en la cabeza.
Pasaron 50 años. Pocos ya en la villa de Pepe Antonio recordaban la
ocupación inglesa hasta que un día, mientras se limpiaba y decoraba el
altar mayor para el monumento de la Semana Santa, el pintor don Gil
Castañeda, sin saber de qué se trataba y desconociendo los pormenores
del incidente, corrió una cornisa y encontró un anillo. Se apresuró
Gil Castañeda a entregarlo al prelado de Santo Domingo, Reverendo
Padre Maestro Fray Antonio Prudencio Pérez que, por su ancianidad y
pleno dominio de la historia del convento, supo al instante que aquel
era el anillo que provocara tantas profanaciones.
No sabemos si ese histórico anillo se conserva, pero sí que el santo
que mató al invasor inglés se halla aún en su altar y desafía al
tiempo y al enemigo.

La apoplejía del gobernador

Con algunos gobernadores españoles podían las «clases vivas» criollas
y con otros, no. Y con los que no pudieron estuvo Juan Francisco
Güemes de Horcasitas, primer Conde de Revillagigedo. Vean de dónde
viene el nombre de esa calle habanera.
La aristocracia habanera lo llamaba el tirano y desde que Güemes
asumió el Gobierno en 1734 hizo cuanto estuvo a su alcance para que la
Corona lo defenestrase. Era avaro y rapaz como ninguno de sus
antecesores y más ladrón que todos ellos, pero a esas características
unía otra peor: no dejaba robar a los demás. Eso sí, enviaba al Rey lo
que era del Rey y las rentas que desde aquí remitía a España no habían
alcanzado antes auge mayor. Eso, y la segura defensa que garantizaba
de la Isla, hacían que cayeran en el vacío todas las quejas que en su
contra elevaba a Madrid el patriciado criollo, que para salir del
intruso no vislumbraba ya otra solución que un rayo lo partiera.
Y casi fue así, pues un buen día el gobernador cayó fulminado por un
ataque de apoplejía que lo puso a las puertas de la muerte. Cantaron
victoria aristócratas y burgueses. Pero el hombre, invitado por el
Conde de Casa Bayona, se fue a Santa María del Rosario, disfrutó de
los beneficios de sus aguas medicinales, y 30 días después volvió a La
Habana como nuevo, gordo y colorado como nunca antes, y dispuesto a
seguir haciendo rabiar a los que pedían su relevo, hasta 1745 cuando
cesó en la Isla para asumir como virrey de México.

Una historia galante

La calle Refugio nace en la Avenida de las Misiones, en La Habana
Vieja, prosigue por el municipio de Centro Habana y muere en la calle
Crespo. Durante la colonia fue conocida también con el nombre De la
Merced y en 1922 el Ayuntamiento habanero dio a esta calle el nombre
oficial de General Emilio Núñez, en recuerdo de la figura de ese
valeroso mambí, fallecido en ese año y que había ocupado la
Vicepresidencia de la República.
Pero como ocurre regularmente en casos en que un nombre se arraiga en
el imaginario colectivo, ni el nombre De la Merced ni el del glorioso
general cubano fructificaron y todos, sin excepción, siguieron
llamándole Refugio a aquella calle. Fue así que en 1936 el consistorio
de la ciudad decidió devolvérselo y trasladar el nombre del general
Emilio Núñez a la calle que, paralela a la Calzada de Ayestarán, corre
entre Aranguren o Zaldo y Pedro Pérez, en el Cerro.
Refugio es la calle que pasa frente a la fachada norte del antiguo
Palacio Presidencial, hoy Museo de la Revolución. Ocupa esa
edificación precisamente el número 1 de la vía. Por eso, antes de
1959, la prensa cubana en ocasiones, para referirse con eufemismo al
gobernante de turno, aludía al inquilino de Refugio número 1.
¿De dónde le vino el nombre de Refugio? ¿Qué hecho sucedió allí para
que lo mereciera? ¿Quién encontró en esa protección, abrigo o amparo?
Es una historia antigua y galante que ha sido contada por diversos
autores y cada uno de ellos le puso, al contarla, salsa de su propia
cosecha. Hoy aprovechamos la versión que ofrece Álvaro de la Iglesia
en sus Tradiciones cubanas.
En 1832 llegó a Cuba el teniente general Mariano Ricafort a fin de
hacerse cargo del Gobierno de la Isla. Venía cansado de su duro bregar
militar; primero, en la guerra contra los franceses por la
independencia española y después, en el Perú contra los
independentistas sudamericanos. De manera que Ricafort dedicaba más
tiempo a su descanso y recuperación que a las tareas del Gobierno.
Muestra de ello es que inaugurada por él la famosa Junta de Fomento,
gestada por su antecesor Vives, delegó su jefatura, una vez
constituida, en el criollo Claudio Martínez de Pinillos, Conde de
Villanueva, a la sazón superintendente general de Hacienda.
Gustaba sobremanera el gobernador Ricafort de largos paseos a caballo
por los alrededores de la ciudad, cercada entonces por las murallas.
Unas veces con un ayudante, otras seguido, a distancia, por un par de
lanceros.
Uno de los sitios más frecuentados en sus cabalgatas era la zona de
las canteras de San Lázaro o la Casa Cuna situada cerca de estas,
visitando la misma y haciéndole llegar sus generosas donaciones, pues
al parecer, el aragonés no era «corto» en este sentido.
Es bueno recordar que, por esa fecha, fuera de las murallas, en esa
parte de la ciudad había estancias, sitios de labor, huertas y
caseríos de guano que se agrupaban dentro de la manigua y el bosque
tropical.
Una de esas tardes salió Ricafort a su diario paseo, cuando ya alejado
de la puerta de Monserrate, hacia la llamada Loma del Inglés, que
comenzaba a nivel de la actual calle Blanco (llamada así porque estuvo
en ese lugar el «blanco» para la práctica de la escuela de
artillería), le sorprendió una de esas repentinas tormentas tropicales
en que en un breve momento parece desencadenarse toda la furia de los
cielos.
Entre rayos y truenos, el viento y el agua, logró divisar una casa
medio escondida en la espesura y picando espuelas se halló a salvo
bajo el portal de aquella residencia campesina, mucho mejor que todas
las de las inmediaciones.
Cuando menos lo esperaba, se abrió la puerta de la casa y apareció en
el umbral una amable y noble señora, aún de muy buen ver, la que le
ofreció su morada con la más exquisita atención.
El Gobernador aceptó la invitación, complacido, pues ya pensaba en un
posible ataque reumático o un buen catarrón. Mayor fue su sorpresa
ante los extremosos obsequios de la dama. No sintió deslizarse las
horas embelesado con la conversación de ella, confortado con su buen
café y encantado con las canciones que al son de la guitarra llenaron
la casita.
La obsequiosa señora, quien —dicen algunos autores— era la viuda de un
tal Méndez y otros, su hija mayor, estrechó su amistad con el General,
que se convirtió en visitante asiduo de la casa. Y para darle una
muestra pública de su aprecio a la viuda o a la hija de Méndez, ordenó
que a la vereda que conducía a esa casa se le denominase Del Refugio.
Y así quedó cuando después la vereda fue convertida en calle y ya
Ricafort se había ido con el cansancio de su duro bregar a otra parte.
Esta, de todas las versiones que se cuentan sobre el asunto, es la que
nos ha parecido más plausible. Y la más delicada y romántica también.

Ciro Bianchi Ross
ciro@jrebelde.cip.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/


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