Pubblicato su juventud Rebelde del 28/12/14
Durante il XIX secolo la tavola delle famiglie nobili cubane e delle persone potenti dell’epoca, era sempre imbandita per gli amici ed allora era sempre comune che apparisse una visita inattesa e che senza invito, decidesse di fermarsi a mangiare. Tanto nelle cene informali come quelle di gala dopo aver mangiato un piatto di carne, tutti i commensali si ritiravano dalla tavola e andavano nel giardino della residenza o in un salone attiguo alla sala da pranzo al fine che la servitù ritirasse i piatti usati e collocasse quelli per il dolce. Avvisati che il dolce era servito, tutti i commensali tornavano in sala da pranzo rioccupando il proprio posto a tavola.
Durante il XIX secolo la tavola delle famiglie nobili cubane e delle persone potenti dell’epoca, era sempre imbandita per gli amici ed allora era sempre comune che apparisse una visita inattesa e che senza invito, decidesse di fermarsi a mangiare. Tanto nelle cene informali come quelle di gala dopo aver mangiato un piatto di carne, tutti i commensali si ritiravano dalla tavola e andavano nel giardino della residenza o in un salone attiguo alla sala da pranzo al fine che la servitù ritirasse i piatti usati e collocasse quelli per il dolce. Avvisati che il dolce era servito, tutti i commensali tornavano in sala da pranzo rioccupando il proprio posto a tavola.
Nelle sue memorie scritte nel 1843, la contessa Calderón de la Barca, moglie di un ambasciatore spagnolo in Messico, riferisce al suo passaggio dall’Avana, le attenzioni di cui fu oggetto e riferisce della cena in suo onore che offrirono i conti di Fernandina nella loro residenza della calle Mercaderes, 24. Dice: “Ero seduta tra il Conte di Fernandina e il Conte di Santovenia, la cena fu servita in vasellame di porcellana francese di color bianco e adornata in oro, particolarmente bella. Dopo la cena, secondo l’abitudine cubana, noi commensali ci alzammo tutti e ci recammo in una sala vicina a quella da pranzo, mentre la servitù ordinava la tavola per servire i dolci che consistevano in bocconcini d’uovo, dolci di diverso tipo, gelati e frutta”.
Di spesa
Agli inizi del XIX secolo, le dame avanere, quando andavano per negozi, non abbandonavano il calesse perché a quei tempi era di cattivo gusto che le dame visitassero gli esercizi per fare le loro compere.
L’incaricato portava fino al loro veicolo le pezze di tela e gli altri oggetti, quindi loro sceglievano cosa comprare.
Era anche abitudine, allora, che le pelletterie inviassero a casa delle famiglie un dipendente con 12 o 14 scatole di scarpe perché le dame scegliessero il modello che gli piacesse. A volte, il poveretto, si vedeva obbligato a trasportare le scatole più volte, con viaggi di andata e ritorno, fino a che loro trovassero una scarpa che le piacesse e che fosse della misura del loro piede.
Zanzare, granchi e castighi
Nel XVII secolo, solo in alcune strade – Oficios, Mercaderes, Real o Muralla, Teniente Rey o el Basurero...- le case obbedivano a un’allineamento e un’equidistanza. Nel resto della città si costruiva a casaccio, vale a dire, ciscuno costruiva la sua casa dove e come lo credesse conveniente. Gli edifici erano, generalmente di legno e per la protezione erano circondate da palizzate aguzze.
Le zanzare erano insopportabili e i granchi che uscivano di notte dai loro nascondigli per cercare cibo fra i detriti e l’immondizia domestica, facevano un tal rumore che li si prendeva per gli invasori inglesi.
La città si riforniva delle acque del río Casiguagua (Chorrera) che grazie al Fossato Reale arrivava fino al Callejón del Chorro, vicino a quella che sarà la Plaza de la Catedral che allora si chiamava Plaza de la Ciénaga, un terreno affondato e pantanoso. Anteriormante, gli avaneri bevevano l’acqua piovana che si raccoglieva in un grande invaso costruito in Plaza de Armas o da quella che si trasportava, cattiva e sporca, dal río Luyanó.
El negro, era per un gruppo, un semplice strumento di arricchimento materiale,e conseguenza di ció fu il sistema barbaro che si generalizzó in applicare crudeli punizioni. A quello che fuggiva per la prima volta lo si frustava ferocemente. Se reincideva gli si tagliava un’orecchia e se tornava a scappare, l’altra.
Il Municipio condannava con dure pene corporali gli infrattori delle ordinanze, quando erano negri.
Fabbriche di sigarette dell’Avana
Nell’anno 1859, esistevano all’Avana circa 38 fabbriche di sigarette nelle quali si guadagnavano la giornata circa 2300 operai. Secondo statistiche dell’epoca questi lavoratori fecero, in quell’anno, circa 97 milioni di pacchetti di sigarette da 32 pezzi ciascuna, per un valore di mezzo milione di pesos.
Fra queste tabaccherie, venne ad avere grand rilevanza quella fondata nell’anno 1853 dal signor Luis Susini, col nome di La Honradez. Questo industriale fu il primo ad applicare il vapore come forza motrice all’industria del tabacco, arrivando a produrre oltre due milioni e mezzo di sigarette al giorno.
I pacchetti di questa fabbrica riproducevano eccellenti litografie con immagini dell’Avana e anche fotografie di personaggi celebri di allora. Si vedevano belle dame vestite elegantemente con abiti dell’epoca o altre vedute di interesse storico o artistico cosí come elementi di strada di ogni tipo.
I leoni di fernandina
Manuel González y Carvajal, proprietario della marca di sigari Cabañas y Carbajal era un uomo ricchbissimo. Ma l’aristocrazia avanera lo chiama con disprezzo “il Tabaccaio”. Il Nostro si reca in Spagna e colà rende numerosi servigi alla Corona spagnola e come pagamento dei suoi servizi riceve il titolo di Marchese di Pínar del Río. Tornó a Cuba col suo titolo, ma l’aristocrazia avanera continuó a chiamarlo con disprezzo “il Tabaccaio”.
Nella calzada del Cerro abitavano, di fronte, il marchese di Pínar del Río e il Conte di Fernandina, grande di Spagna. Questo aveva come tutti i grandi dell’aristocrazia, all’ingresso della sua residenza, i due leoni che accreditavano la sua condizione. Il marchese si innamoró di essi e volendoli avere uguali, incaricò uno scultore di riprodurli. Auando furono pronti li fece collocare all’entrata principale di casa sua, nell’identica posa del suo vicino. Si dice che il conte di Fernandina, uscendo di casa una mattina e notando l’esistenza di due leoni uguali ai suoi, nella porta del marchese di Pínar del Río. Provò tale contrarietà che dette ordine a un marmista di togliere i suoi daal luogo dove si trovavano e li mettesse dentro al giardino della sua residenza di modo che non soffrissero l’umiliazione dei leoni impuri del marchese.
I Fernandina, nel 1894, persero il loro palazzo del Cerro, la casa di Parigi, lo zuccherificio e tutte le loro proprietà, compresa la preziosa collezione di opere d’arte. Tutto quello che possedevano passò nelle mani del loro rappresentante. La rovina fu conseguenza di affari sfortunati, della crisi dell’industria zuccheriera e degli sprechi di lusso che fecero i Conti a Parigi, dove alternarono e frequentavano la più evidente e benestante nobiltà della corte di Napoleone III. Molti ricchi di allora avevano l’abitudine di lasciare i loro beni a Cuba, in mano di rappresentanti ai quali chiedevano frequentemente di inviare denaro in Europa. Risultò che più di una famiglia, al ritorno sull’Isola, trovava l’amministratore dei propri beni godendo della loro fortuna nelo stesso palazzo.
Allora i Fernandina andarono a vivere nella casa dove oggisi trova l’ospedale pediatrico del Cerro e prima la clinica dell’Associazione delle Cattoliche Cubane, nella Calzada del Cerro e Santa Teresa che presero in affitto. Lì, con i centesimi che riuscirono a salvare dal disastro offrirono, nel 1894, alla infanta Eulalia sorella di Alfonso XII Re di Spagna, una delle feste più lussuose dell’Avana coloniale comparabile solo, afferma la cronaca avanera, al ballo in maschera che il Capitano Generale Duque de la Torre e sua moglie, la cubana Conchita Borrel offrirono, nel 1863 nel Palazzo del Governo e al ballo con cui si festeggió, al suo passaggio da Cuba, il principe Alessio, figlio dello zar di tutte le Russie.
La casa di Fernandina fu, nel XX secolo, sede della clinica Associazione Cubana di Beneficenza e oggi è in rovina. La casa del marchese di Pínar del Río, nella Calzada del Cerro, angolo Carvajal, sfida ancora il tempo e conserva i suoi leoni di marmo.
Principe della galanteria
Se il conte di Fernandina e il marchese di Pínar del Río, come quasi tutta la nobiltà cubana, avevano leoni di pietra o di marmo che custodivano l’entrata principale delle loro residenze, il conte di Lombillo esibiva, nella porta principale della sua nella Calzada de Infanta, quasi angolo con Estevez, due dragoni di grande misura di ferro fuso.
In quella residenza – i Lombillo avevano un altro palazzo nella Plaza de la Catedral – si offrivano grandi eventi, feste che risultavano molto animate per la qualità e quantità degli invitati.
In un’epoca in cui non esisteva ancora all’Avana, l’illuminazione pubblica col gas, Lombillo faceva illuminare con torce la parte esterna dell’edificio e i giardini.
Una sra di ricevimenti nella residenza, un gruppo di giovani apparentemente ubriachi, si dette da fare per incendiare la casa servendosi delle torce che illuminavano l’area esterna. La rapida e decisa risposta di diversi invitati frustrò il tentativo che si ridusse a due o tre tendaggi bruciacchiati con il conseguente spavento.
Il conte di Lombillo fu un principe della galanteria. Dopo aver passato moilti anni in Europa, dove fu protagonista di roventi amori con dame altolocate e attrici famose, tornò a Cuba per amministrare i beni paterni.
Fu un fantino entusiasta e nei suoi dintorni ci furono sempre eccellenti esemplari da tiro e da monta. I suoi cavalli avevano fama di essere i migliori di Cuba.
Gli anelli della marchesa
La marchesa di Pínar del Río aveva gran predilezione per gli anelli, all’estremo che accudiva con frequenza alle aste che si celebravano nelle case di pegno e comprava anelli che le piacevano a prezzi molto favorevoli. Ma, come successe in più di un’ occasione si innamorava di una di queste gioie e non le preoccupava alzare la sua offerta a un valore che eccedeva quello reale, pur di poterla acquisire.
Si racconta che alla sua morte, gli eredi trovarono nella cassetta di sicurezza che aveva nei caveaux di una nota istituzione bancaria, oltre 200 anelli di diverse forme, alcune di grande valore, per la misura e qualità delle loro pietre.
Fonti: Testi di luis Bay, Emilio Roig e Ramón A. Catalá.
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
27 de Diciembre del 2014 18:49:51 CDT
Durante el siglo XIX la mesa de las familias nobles cubanas y de la
gente pudiente de la época estaba puesta siempre para los amigos, y
era corriente entonces que una visita que aparecía de manera
inesperada y, por tanto, sin invitación, decidiera quedarse a comer. Y
tanto en las comidas informales, como en las de gran cumplido, al
comer el plato de carne todos los comensales se retiraban de la mesa y
aguardaban en el jardín de la residencia o en un salón contiguo al
comedor a fin de que la servidumbre retirara los platos usados y
colocara los del postre. Avisados de que el postre estaba servido,
todos los comensales regresaban al comedor y ocupaban sus puestos en
la mesa.
En sus Memorias, escritas en 1843, la condesa de Calderón de la Barca,
esposa de un embajador español en México, alude a su tránsito por La
Habana y a las atenciones de que fue objeto, y refiere la comida que
en su honor ofrecieron los condes de Fernandina en su residencia de la
calle Mercaderes 24. Dice: “Estuve sentada entre el Conde de
Fernandina y el Conde de Santovenia, siendo servida la comida en una
vajilla de porcelana francesa de color blanco y adornada en oro,
particularmente bella. Después de la comida, según la costumbre
cubana, nos levantamos los comensales y fuimos a una habitación
cercana al comedor, mientras la servidumbre arreglaba la mesa para
servir los postres, que consistían en bocaditos de huevo, dulces de
distintas clases, helados y frutas”.
De compras
En los comienzos del siglo XIX las damas habaneras cuando iban de
tiendas no abandonaban el quitrín, porque en aquella época era del mal
gusto que las damas visitaran los establecimientos para hacer sus
compras.
El dependiente traía hasta su vehículo las piezas de tela y demás
objetos y entonces ellas elegían lo que deseaban comprar.
Era costumbre entonces también que las peleterías enviasen a las casas
de familias a un empleado con 12 o 14 cajas de zapatos para que las
damas eligieran el modelo que les agradara. En ocasiones el infeliz
dependiente se veía obligado a cargar las cajas varias veces, en
viajes de ida y vuelta, hasta que ellas encontraran un zapato que les
gustara y que estuviera a la medida de su pie.
Mosquitos, cangrejos y castigos
En el siglo XVII, solo en algunas calles --Oficios, Mercaderes, Real o
Muralla, Teniente Rey o el Basurero...-- las casas obedecían a una
alineación y equidistancia. En el resto de la ciudad se construía a la
diabla, es decir, cada quien construía su casa donde y como lo creía
conveniente. Las edificaciones eran por lo general de madera y para su
protección se rodeaban de tunas bravas.
Los mosquitos se hacían insoportables y los cangrejos que por las
noches salían de sus escondites en busca de los desperdicios de las
basuras domésticas, metían tal ruido que no era raro que se les tomara
por invasores ingleses.
La ciudad se surtía de las aguas del río Casiguagua (Chorrera), que
gracias a la Zanja Real llegaba hasta el Callejón del Chorro, próximo
a lo que sería la Plaza de la Catedral y que se llamaba entonces Plaza
de la Ciénaga, un terreno anegado y cenagoso. Con anterioridad los
habaneros bebían del agua de lluvia que se recogía en un gran aljibe
que se construyó en la Plaza de Armas, o de la que se traía, mala y
sucia, del río Luyanó.
El negro era para un grupo un mero instrumento de enriquecimiento
material, y consecuencia de ello fue el bárbaro sistema que se
generalizó de aplicarle crueles castigos. Al que huía por primera vez
se le azotaba ferozmente. Si reincidía se le cortaba una oreja y la
otra si volvía a escaparse. El Cabildo condenaba con duras penas
corporales a los infractores de las ordenanzas municipales, cuando
eran negros.
Cigarrerías de La Habana
En el año 1859 existían en La Habana unas 38 cigarrerías en las que
ganaban su jornal unos 2 300 obreros. Según estadísticas de la época,
esos trabajadores hicieron en dicho año unos 97 millones de cajetillas
de 32 cigarros cada una, con un valor de medio millón de pesos.
Entre esas cigarrerías llegó a tener gran preponderancia la fundada en
el año 1853 por el señor Luis Susini, con el nombre de La Honradez.
Este industrial fue el primero que aplicó el vapor como fuerza motriz
a la industria del cigarro, llegando a producir más de dos millones y
medio de cigarrillos al día.
Las cajetillas de esta fábrica reproducían excelentes litografías con
vistas de La Habana y también fotografías de personajes célebres de
entonces. También se veían bellas damas ricamente ataviadas con trajes
de la época y otras vistas de interés histórico o artístico, así como
tipos callejeros de todas clases.
Los leones de Fernandina
Manuel González y Carvajal, propietario de las marcas de puros Cabañas
y Carvajal, era un hombre riquísimo. Pero la aristocracia habanera le
llamaba con desprecio “el Tabaquero”. Viaja el sujeto a España y allá
hace cuantiosos favores a la Corona española y, en pago a sus
servicios, recibe en Madrid el título de marqués de Pinar del Río.
Volvió a Cuba con su título, pero la aristocracia habanera siguió
llamándole con desprecio “el Tabaquero”.
En la Calzada del Cerro vivían frente a frente el marqués de Pinar del
Río y el conde de Fernandina, grande de España. Tenía este emplazado a
la entrada de su residencia, como todo miembro de la aristocracia, los
dos leones que acreditaban su condición. Se enamoró el marqués de
ellos y queriéndolos tener iguales encargó a un escultor que los
reprodujera. Cuando estuvieron listos mandó a colocarlos en la entrada
principal de su casa, en idéntica situación que los de su vecino.
Se cuenta que el conde de Fernandina, al salir una mañana de su casa y
advertir la existencia de los dos leones iguales a los suyos en la
puerta principal de la casa de su vecino el marqués de Pinar del Río,
experimentó tal contrariedad que dio orden a un marmolista para que
procediera a retirar los suyos del sitio en que estaban y los situara
dentro del jardín de su residencia a fin de que no sufrieran la
humillación de los leones espurios del marqués.
Los Fernandina, en 1894, perdieron su palacio del Cerro y la casa de
París, el ingenio azucarero y todas sus propiedades, incluida su
valiosa colección de arte. Todo lo que poseían pasó a manos de su
apoderado. La ruina fue consecuencia de negocios desafortunados, de la
crisis de la industria azucarera y del derroche de lujo que hicieron
los condes en París, donde alternaron y emularon con la más rancia y
acaudalada nobleza de la corte de Napoleón III. Muchos ricos de
entonces tenían la costumbre de dejar sus bienes en Cuba en manos de
apoderados a quienes con frecuencia pedían que les remitieran dinero a
Europa. Resultaba que más de una familia, al regresar a la Isla,
encontraba al administrador de sus bienes disfrutando de su fortuna en
su propio palacio.
Fueron a vivir entonces los Fernandina a la casa donde está instalado
hoy el hospital pediátrico del Cerro, y antes la clínica de la
Asociación de Católicas Cubanas, en la Calzada del Cerro y Santa
Teresa, que tomaron en alquiler. Allí, con los quilitos que lograron
salvar del desastre, ofrecieron en 1894, a la infanta Eulalia, hermana
de Alfonso XII, rey de España, una de las fiestas más sonadas de La
Habana colonial, comparable solo, afirma la crónica habanera, al baile
de disfraces que el Capitán General Duque de la Torre y su esposa, la
cubana Conchita Borrell, ofrecieron en 1863, en el Palacio de
Gobierno, y al baile con que se agasajó, a su paso por Cuba, al
príncipe Alejo, hijo del zar de todas las Rusias.
La casa de Fernandina fue, en el siglo XX, sede de la clínica
Asociación Cubana de Beneficencia y hoy es una ruina. La casa del
marqués de Pinar del Río, en la Calzada del Cerro esquina a Carvajal,
aún desafía al tiempo y conserva sus leones de mármol.
Príncipe de la galantería
Si el conde de Fernandina y el marqués de Pinar del Río, al igual que
casi toda la nobleza cubana, tenían leones de piedra o de mármol que
guardaban las entradas principales de sus residencias, el conde de
Lombillo exhibía en la puerta principal de la suya, en la Calzada de
Infanta, casi esquina a Estévez, dos dragones de gran tamaño fundidos
en hierro.
En aquella residencia --tenían los Lombillo otro palacio en la Plaza de
la Catedral-- se ofrecían grandes saraos, fiestas que resultaban muy
animadas por la calidad y cantidad de sus invitados.
En una época en la que aún no existía en La Habana alumbrado público
de gas, Lombillo hacía iluminar con antorchas la parte exterior del
edificio y los jardines.
Una noche de recibo en la residencia, un grupo de jóvenes, embriagados
al parecer, se empeñó en prenderle fuego a la casa valiéndose de las
antorchas que iluminaban el área exterior. La rápida y decidida
intervención de varios invitados frustró el incendio, que se redujo a
dos o tres cortinas chamuscadas y el susto consiguiente.
El conde de Lombillo fue un príncipe de la galantería. Después de
pasar muchos años en Europa, donde protagonizó sonados amores con
damas de abolengo y actrices famosas, regresó a Cuba para administrar
los bienes paternos.
Fue un jinete entusiasta y en sus cuadras hubo siempre excelentes
ejemplares de tiro y monta. Sus caballos tenían fama de ser los
mejores de Cuba.
Las sortijas de la marquesa
La marquesa de Pinar del Río tenía gran predilección por las sortijas,
a extremo tal que concurría con frecuencia a los remates que
celebraban las casas de préstamos y adquiría sortijas que eran de su
agrado a precios muy favorables. Pero, como ocurrió más de una vez, si
se enamoraba de una de esas prendas no le preocupaba elevar su oferta
a una cantidad que excedía en ocasiones su valor real, con tal de
poderla adquirir.
Se cuenta que al ocurrir su fallecimiento, los herederos encontraron
en la caja de seguridad que mantenía en la bóveda de una conocida
institución bancaria, más de 200 sortijas de distintas formas, algunas
de gran valor, por el tamaño y calidad de sus piedras.
Fuentes: Textos de Luis Bay, Emilio Roig y Ramón A. Catalá.
Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
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