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lunedì 27 ottobre 2014

Da leone a scimmia, di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 26/10/14

Un lettore di Sancti Spiritus che firma il suo messaggio con il solo nome di battesimo – Miguel – e si dichiara lavoratore del Poder Popular in questa provincia, dice che ricorda di aver letto, crede in questo stesso giornale, la storia di un uomo che in un circo di Matanzas, affrontò una scimmia e che rimase tanto percosso nel combattimento che non giunse a incassare la ricompensa, alla fine. Riferisce che nei giorni scorsi, commentò questo fatto con sua moglie e che la signora non vuole crederci, pertanto chiede allo scriba che chiarisca il fatto.
Andiamo per parti. Ci fu davvero un incontro tra un pugile dei pesi medi, Evangelio Valente e un gorilla, ma non a Matanzas: all’Avana. Non successe nel tendone di un circo qualunque, ma nel famoso Ringling che faceva visite annuali a Cuba e si presentava al Palazzo dei Congressi e dello Sport, sito in Paseo e Mar, più o meno dove si trova la cosiddetta Fuente de la Juventud.
Il lettore ha ragione quando assicura di aver conosciuto questa storia grazie a Juventud Rebelde. La raccontò, in questo giornale, l’amico e collega Elio Menéndez, premio nazionale di Giornalismo che la raccolse nel suo libro Swuines a la nostalgia, pubblicato a Cienfuegos nell’anno 2005, dall’Editrice Mecenas; una coedizione con questo giornale.
La storia  così.
Come pugile professionista, Evangelio raggiunse più vittorie che sconfitte. Di 97 combattimenti effettuati ne vinse 65, di questi 52 per K.O. e fece 12 pareggi. Gareggiava nella categoria dei medi e la sua mano migliore era la destra con la quale, dicevano, picchiava come un mulo. Con questa mise fuori combattimento lo spagnolo Lorenzo Gómez Naya e anestetizzò il triplice campione nazionale Mario Raúl Ochoa, titolare del pesi medi, mediomassimi e massimi. Oltre a fratturare la mascella a due rivali.
Fra il 1935 e 1946, Evangelio si presentò in diverse piazze del Paese, alcune di prima categoria come l’Arena Cristal e il Palazzo dei Congressi e dello Sport. Ma non arrivò mai a raggiungere una borsa decorosa.
All’inizio del 1957, Valiente si era a ritirato da diversi anni e passava i 40. Si avvicinava il 6 gennaio e il suo cuore di padre si ruppe con le letterine con cui i suoi cinque figli chiedevano giocattoli ai Re Magi. (A Cuba è più tradizione che a Natale. N.d.T.). Questa volta i bambini sarebbero rimasti senza giocattoli, Valiente non aveva i soldi per comprarglieli.
Un amico che sapeva della disperazione di valiente per l’approssimarsi del Giorno dei Re, corse a dirgli che nel circo che si trovava in Paseo y Mar cercavano qualcuno che si mettesse in una gabbia con un gorilla al fine di dar vita a un incontro di boxe diverso e differente. Chi lo facesse riceverebbe cinque pesos per ogni minuto che passasse affrontando la belva. L’animale sarebbe salito sul ring con una museruola di ferro e due guanti enormi confezionati per quell’incontro.
Il Palazzo dei Congressi e lo Sport si era inaugurato il 1° ottobre del 1944 con un incontro pugilistico sensazionale. Fu demolito nella seconda metà degli anni ’50 con l’obbiettivo di ampliare il Malecón, che giunse quindi al suo limite sulle sponde del fiume Almendares. In quel Palazzo delle Convenzioni e dello Sport si installò una pista di ghiaccio per i pattinatorie fu, inoltre, la sede abituale del circo nordamericano Ringling che visitava l’Avana tutti gli anni in occasione delle festività natalizie.
Valiente ascoltò con attenzione quello che gli diceva il suo amico e non ci pensò due volte. Avrebbe affrontato il gorilla, se quello era l’unico modo di ottenere i soldi che gli occorrevano per i giocattoli dei suoi figli. Prima di mettersi nella gabbia pianificò la sua strategia. Si sarebbe mosso incessantemente attorno all’animale, avrebbe mandato a vuoto qualche “jab” per non farlo infuriare. E come faceva nei suoi incontri di 12 round si gestirebbe, senza sprecarle, le energie perché il combattimento durasse il più possibile. Più fosse durato, più avrebbe guadagnato l’ex campione.
L’amico da fuori della gabbia gli avrebbe contato i minuti e a misura che passassero Valiente avrebbe fatto i suoi conti: ho già il camioncino di pepe, la bambola di Lala: adesso vado per i pattini di Tomasito...Quando passarono cinque minuti , si sentì tentato di abbandonare il combattimento. Non aveva più l’agilità e la resistenza di una volta. Era stanco di tante e tante giravolte e in definitiva aveva risolto il problema dei giocattoli dei Magi per i bambini.
Anni dopo, raccontava lo stesso Evangelio Valiente al cronista Elio Menéndez “Al principio la gente mi gridava: - Evangelio, tu sei pazzo! Questo gorilla ti ammazzerà! –“ Ma col passare di minuti, vedendo che l’animale non riusciva a raggiungermi, gli spettatori andarono guadagnando fiducia ed entusiasti mi chiedevano che lo picchiassi. I più esaltati gridavano – Stendilo! Stendilo! Stendilo! – Diventai pazzo, è la verità, ma le grida di quella gente mi fecero impazzire” Ricorderà anni dopo Evangelio Valente.
Solo così osò fare quello che fece. Pensò che il Palazzo delle Convenzioni e lo Sport fosse lo scenario delle sue grandi vittorie, ricordò che il Palazzo delle Convenzioni e lo Sport fosse lo scenario delle sue grandi vittorie, ricordò tutti i rivali che aveva messo al tappeto e si disse: “ E se gli metto un dstro all’animale e lo stendo?” Si avvicinò all’animale, fece una finta e gli infilò il destro. La bestia sentì il diretto e non fece aspettare la sua risposta. Quell’animale lanciò fiamme dagli occhi, si percosse il petto come fanno le scimmie nei film di Tarzan e si lanciò sul pugile con grandi urla. Evangelio Valiente cercò di girarsi, ma poteva solo strisciare sulle gambe e vide arrivare il colpo che il gorilla gli dette, senza poterselo togliere di dosso. Lo fecero uscire con urgenza dalla gabbia e lo portarono all’infermeria. Gli dettero cinque punti alla testa.
Quando sua moglie lo vide arrivare a casa, bendato, gli chiese se lo aveva investito un autobus,
“Che autobus e autobus! – rispose Valiente – Mettiti su un vestitino, vecchia, che andiamo a comprare i giocattoli ai bambini”.
Un’altra volta Mojica
Cis ono due cose. O a José Mojica piaceva molto l’Avana o pone resistenza a lasciare questa pagina. Ho dedicato una cronaca che fece il soprannominato tenore dalla voce d’oro nel 1931 e due lettori, la disegnatrice Piedad Subiráts e il Dottor Diego Artíles, dell’Ospedale 10 de Octubre, sono venuti subito all’assalto per ricordare che tornò nel 1953 per una seconda visita. E già per allora aveva indossato gli abiti religiosi, anche se godesse di dipsensa religiosa per poter cantare e recitare.
Su Mojica adesso scrive lo storico Pedro Urbezo, autore del libro El teatro América y su entorno mágico, che opportunamente commentiamo qui. Dice Urbezo, nel suo messaggio elettronico, che la visita a cui alludono la eccellente disegnatrice eil dottor Artiles sarebbe, in ogni caso, la terza. Ebbene, garantisce Urbezo: “Si presentò sullo scenario del teatro América nella settimana dal 7 al 13 maggio del 1951”, in funzioni notturne da lunedì a venerdì e in doppia funzione i fine settimana di  odo che festeggiò la domenica 13 la Giornata della Madre. Tutte le rappresentazioni. Segnala Urbezo, furono a teatro esaurito e Mojica uscì sempre sulla scena con il suo abito monacale.
Di fretta
Mi recriminano da remedios, a Villa Clara, il perché nella pagina del 5 ottobre scorso, parlando del cubano che fu presidente del Governo spagnolo, omisi di menzionare la fonte da cui presi l’informazione. Il soggetto in questione è il generale Dámaso Berenguer, nato prcisamente a Remedios, al tempo in cui Cuba era ancora una colonia.
Per scrivere la mia nota mi sono basato sull’investigazione del diplomato Rafael Farto Muñiz, il deceduto storico di questa località villaclareña e autore del libro San Juan de los Remedios. Appunti sulla sua storia e alcuni  miti e leggende  frappresentativi della tradizione orale. Nonostante non ci sia giustificazione sull’omissione della fonte, devo chiarire che il mio documentarista mi ha passato i dati sul riferito generale, non segnalò la bibliografia utilizzata e io, semplicemente, me la sono sciroppata.
Risposta a Solange: nella decade del ’50 del secolo scorso, il turismo si concentrava all’Avana e in misura molto più piccola a Varadero e all’Isola dei pini. La capitale disponeva di oltre 50 alberghi – quattro di questi di lusso – con 4900 camere e 9800 posti letto. Nella Spiaggia Azzurra (Varadero, n.d.t.) non si superavano le 700 camere e l’Isola dei Pini poteva sistemare al massimo 200 visitatori. Circa 223.000 turisti hanno passato le loro vacanze a Cuba nel 1956. Altri 272.000 lo fecero nel ’57 e l’anno seguente la cifra discese a 212.000.
Pedro M. Calzada Ajete inquisisce su una canzone interpretata da Benny Moré e che si intitoloa, dice,  Rezo en la noche. Assicura che esordì nel 1957 e desidera sapere chi è il suo autore e che reazione provocò gfra le autorità della dittatura batistiana.
Dice: “ Oggi dedico il mio canto alle madri che soffrono l’assenza/ del figlio idolatrato, che mai più tornerà/ alla sposa che soffrenel silenzio il crudele abbandono/ e al bambino innocente che domanda: Dov’è il mio papà? Dov’è il mio papà?”
Lo scriba ricorda perfettamente il testo, però dubita che sia come dice il lettore, del 1957, se non dopo la vittoria della Rivoluzione. La censura batistiana non avrebbe permesso qualcosa di simile.
Osmany Santiago, parroco di Encrucijada, desidera informazione sulla Gran Duchessa di Lussemburgo che è cubana, avanera per la precisione e Pedro Víves Machado inquisisce sull’obelisco di 100 e 31, a Marianao.

A entrambi risponderò opportunamente.


De león a mono
Ciro Bianchi Ross * 
digital@juventudrebelde.cu
25 de Octubre del 2014 18:27:51 CDT

Un lector de Sancti Spíritus que firma su mensaje solo con su nombre
de pila --Miguel-- y dice ser trabajador del Poder Popular en esa
provincia, dice que recuerda haber leído, cree que en este mismo
diario, la historia de un hombre que, en un circo de Matanzas, se
enfrentó con un mono y que quedó tan mal parado en el combate que no
alcanzó a cobrar al final la recompensa. Refiere que días atrás
comentó este incidente con su esposa y que la señora se resiste a
creerlo, pide al escribidor que precise el asunto.
Vayamos por partes. Fue en verdad una pelea entre un ex boxeador de
los pesos medianos, Evangelio Valiente, y un gorila, y no en Matanzas,
sino en La Habana. No ocurrió el tope en un circo cualquiera, sino en
el famoso Ringling, que hacía visitas anuales a Cuba y se presentaba
siempre en el Palacio de Convenciones y Deportes, sito en Paseo y Mar,
más o menos donde se halla la llamada Fuente de la Juventud.
Razón tiene el lector cuando asegura que conoció esta historia gracias
a Juventud Rebelde. La contó en este diario el colega y amigo Elio
Menéndez, premio nacional de Periodismo, que la recogió luego en su
libro Swines a la nostalgia, publicado en Cienfuegos, en el año 2005,
por la editorial Mecenas; una coedición con este periódico.
La historia es así.
Como boxeador profesional, Evangelio Valiente alcanzó más triunfos que
derrotas. De 97 combates que efectuó, ganó 65, de estos 52 por nocaut,
e hizo 12 tablas. Peleaba en la división mediana y su mejor mano era
la derecha, con la que, decían los cronistas, pegaba como un mulo. Con
esa puso fuera de combate al español Lorenzo Gómez Naya y anestesió al
triple campeón nacional Mario Raúl Ochoa, titular mediano,
semicompleto y completo. Además de fracturarles el maxilar a dos
rivales.
Entre 1935 y 1946, Evangelio se presentó en diversas plazas del país,
algunas de primera, como la Arena Cristal y el Palacio de Convenciones
y Deportes. Pero jamás llegó a alcanzar una bolsa decorosa.
A comienzos de 1957, Valiente llevaba varios años en retiro y pasaba
de los 40. Se aproximaba el 6 de enero y su corazón de padre se laceró
con las carticas en las que sus cinco hijos pedían juguetes a los
Reyes Magos. Esta vez los niños quedarían sin juguetes, pues Valiente
no tenía dinero para comprárselos.
Un amigo que sabía de la desesperación de Valiente por la proximidad
del Día de Reyes, corrió a decirle que el circo establecido en Paseo y
Mar buscaba a alguien que se metiera en una jaula con un gorila a fin
de escenificar un combate de boxeo distinto y diferente. Quien lo
hiciera recibiría cinco pesos por cada minuto que pasara enfrentado a
la fiera. El animal saldría al ring con un bozal de hierro y dos
guantes enormes confeccionados en especial para aquella pelea.
El Palacio de Convenciones y Deportes se había inaugurado el 1ro. de
octubre de 1944 con un tope boxístico sensacional. Fue demolido en la
segunda mitad de los años 50 con el objetivo de ampliar el Malecón,
que llegó entonces a su límite en la orilla del río Almendares. En
aquel Palacio de Convenciones y Deportes se instaló una pista de hielo
para patinadores y fue además la sede habitual en Cuba del famoso
circo norteamericano Ringling, que visitaba La Habana todos los años,
en ocasión de las fiestas navideñas.
Valiente escuchó con atención lo que le decía su amigo y no lo pensó
dos veces. Se enfrentaría al gorila, si aquella era la única forma de
obtener el dinero que necesitaba para los juguetes de sus hijos.
Antes de meterse en la jaula planificó su estrategia. Se movería sin
cesar alrededor del animal, tiraría algún que otro jab al aire para no
enfurecerlo. Y como hacía en sus peleas a 12 rounds, se dosificaría,
no malgastaría energías para que el combate se alargara el mayor
tiempo posible. Mientras más durara, más ganaría el ex campeón.
El amigo, desde fuera de la jaula, iba contándole los minutos, y a
medida que pasaban, Valiente sacaba la cuenta: Ya tengo el camioncito
de Pepe y la muñeca de Lala; ahora voy por los patines de Tomasito...
Cuando pasaron cinco minutos, se sintió tentado de abandonar el
combate. Ya no tenía la agilidad de antaño ni la resistencia tampoco.
Estaba cansado de tantas y tantas vueltas y, en definitiva, tenía
resuelto ya el problema de los juguetes de Reyes de los niños.
Años después contaba el mismo Evangelio Valiente al cronista Elio
Menéndez: “Al comienzo, la gente me gritaba: -¡Evangelio, tú estás
loco! ¡Ese gorila te va a matar!- Pero al pasar los minutos y ver que
el animal no podía alcanzarme, los espectadores fueron ganando
confianza y, entusiasmados, me pedían que le pegara. Los más
enardecidos vociferaban -¡Tíralo!, ¡tíralo!, ¡tíralo! - “.
“Me volví loco; la verdad es que aquellos gritos me enloquecieron”,
recordaría años más tarde Evangelio Valiente.
Solo así se atrevió a hacer lo que hizo. Pensó que el Palacio de
Convenciones y Deportes era el escenario de sus grandes triunfos,
recordó a todos los rivales que allí había tirado a la lona y se dijo:
“¿Y si le meto un derechazo al bicho y lo tiro?” Se acercó al animal,
hizo una finta y le coló la derecha. El bicho se sintió el derechazo.
Y no demoró su respuesta. Aquel animal echó fuego por los ojos, se
golpeó el pecho, como lo hacen los monos en las películas de Tarzán, y
se abalanzó sobre el boxeador con grandes alaridos. Evangelio Valiente
trató de girar, pero apenas podía arrastrar las piernas y vio venir el
golpe que el orangután le lanzó sin poder quitárselo de encima. Lo
sacaron urgente de la jaula y lo llevaron a la enfermería. Le dieron
cinco puntos en la cabeza...
Cuando su mujer lo vio llegar a la casa, vendado, le preguntó si lo
había atropellado una guagua.
“¡Qué guagua ni qué guagua!--respondió Valiente--. Échate un vestidito
por encima, vieja, que vamos a comprarles los juguetes a los niños”.

Otra vez Mojica

Hay dos cosas. O a José Mojica le gustaba mucho La Habana o se resiste
a abandonar esta página. Dediqué una crónica a la visita que el
llamado tenor de la voz de oro nos hizo en 1931, y dos lectores, la
diseñadora Piedad Subiráts y el doctor Diego Artiles, del Hospital 10
de Octubre, salieron enseguida a la palestra para recordar que regresó
en 1953 para una segunda visita. Ya para entonces había tomado los
hábitos religiosos, aunque gozaba de licencia eclesiástica para actuar
y cantar.
Sobre Mojica escribe ahora el historiador Pedro Urbezo, autor del
libro El teatro América y su entorno mágico, que comentamos aquí
oportunamente. Dice Urbezo en su mensaje electrónico que la visita a
la que aluden la destacada diseñadora y el doctor Artiles sería, en
todo caso, la tercera, pues, asegura Urbezo, “se presentó en la escena
del América durante la semana del 7 al 13 de mayo de 1951”, en
funciones nocturnas de lunes a viernes y en doble función el fin de
semana, con lo que festejó el domingo 13 el Día de las Madres. Todas
las presentaciones, señala Urbezo, fueron a teatro lleno y Mojica
salió siempre a escena con su atuendo de fraile.

De vuelta y vuelta

Me recriminan desde Remedios, en Villa Clara, porque en la página del
5 de octubre pasado, al hablar sobre el cubano que fue presidente del
Gobierno español, omití mencionar la fuente de donde tomé la
información. El sujeto en cuestión es el general Dámaso Berenguer,
nacido precisamente en Remedios, en tiempos en que Cuba todavía era
colonia.
Para escribir mi nota me basé en la investigación del licenciado
Rafael Farto Muñiz, el fallecido historiador de esa localidad
villaclareña y autor del libro San Juan de los Remedios. Apuntes sobre
su historia y algunos mitos y leyendas representativos de la tradición
oral
. Aunque no hay justificación en la omisión de la fuente, debo
aclarar que mi documentalista me pasó los datos sobre el referido
general, no consignó la bibliografía utilizada, y yo, sencillamente,
me fui con la de trapo.
Respuesta a Solange: En la década de los 50 del siglo pasado, el
turismo se concentraba en La Habana y en muy menor medida en Varadero
e Isla de Pinos. La capital disponía de más de 50 hoteles --cuatro de
estos de lujo-- con 4 900 habitaciones y 9 800 capacidades. En la Playa
Azul no pasaban de 700 las habitaciones e Isla de Pinos podía acomodar
a lo sumo a unos 200 visitantes. Unos 223 000 turistas extranjeros
vacacionaron en Cuba en 1956. Otros 272 000 lo hicieron en el 57 y al
año siguiente la cifra descendió a 212 000.
Pedro M. Calzada Ajete inquiere sobre una canción que interpretaba
Benny Moré y que se titula, dice, Rezo en la noche. Asegura que se
estrenó en 1957 y desea saber quién es su autor y qué reacción provocó
en las autoridades de la dictadura batistiana.
Dice: “Hoy dedico mi canto a las madres que sufren la ausencia / del
hijo idolatrado que valientemente cayera / defendiendo el sagrado
derecho de la libertad / y a la patria, que solemnemente jurara
lealtad / hoy dedico mi canto a las madres que sufren la ausencia /
del hijo idolatrado, que nunca jamás volverá / a la esposa que sufre
en silencio el cruel abandono / y al nené que inocente pregunta:
¿Dónde está papá? ¿Dónde está mi papá?”.
El escribidor recuerda perfectamente la letra, pero duda que sea, como
dice el lector, de 1957, sino de después del triunfo de la Revolución.
La censura batistiana no hubiera permitido algo así.
Osmany Santiago, párroco de Encrucijada, desea información sobre la
Gran Duquesa de Luxemburgo, que es cubana, habanera por más señas, y
Pedro Vives Machado, inquiere sobre el obelisco de 100 y 31, en
Marianao.
A ambos responderé oportunamente.

Ciro Bianchi Ross
cbianchi@enet.cu
http://wwwcirobianchi.blogia.com/
http://cbianchiross.blogia.com/

domenica 26 ottobre 2014

Merletto

MERLETTO: piccolo uccello canterino

sabato 25 ottobre 2014

Quando il Milan era dei "Tulipani" e noi con qualche anno meno....

L'amico Gianni Potente già addetto alla sicurezza della nostra ambasciata a Cuba e che non sentivo da anni, mi ha inviato dalla natia Lecce una bella foto ricordo di altri tempi quando ci si riuniva per giocare a calcio anche con altri amici non presenti nella foto. All'epoca ricordo di aver calpestato tutti (credo) i terreni da calcio dell'Avana, dallo stadio principale Pedro Marrero all'Eduardo Saborít, la Polar, el Campo Armada, la Girardilla, la escuela de Quimica. Abbiamo fatto tante partite con squadre a volte miste con altri stranieri a volte di "Italia" contro il Resto del Mondo (cubani, cileni, boliviani, sovietici, bulgari. ecc.). Durante i giochi Panamericani del 1991, essendo accreditato come giornalista, invece ho disputato la partita tra inviati e corrispondenti (credo l'unico straniero con questa qualifica) del Resto del Mondo, contro l'agguerrita formazione degli inviati argentini che avevano portato uniformi e tutto ed erano abituati a giocare assieme. Li abbiamo battuti 4 a 3, con loro grande rabbia...
Nella foto da sinistra: Aldo "Pincél" (pennello) Abuaf, Mario Demaria, Mario Baldassarri, Luciano Campoli, Gianni Potente e sotto: Marco "Van Basten" Gorini e Aldo "el Leñador" (picchiatore) Peano.

Grazie Gianni mi hai fatto un bel regalo...nostalgia a parte.

Mercanzia

MERCANZIA: parente dedita al commercio

venerdì 24 ottobre 2014

Menomare

MENOMARE: non abusare di sole spiaggia e salsoiodico

giovedì 23 ottobre 2014

E questa Fiat 600?

Anche lei nel suo piccolo (motore), si difende...o no?



Memorialista

MEMORIALISTA: elenco imparato verbalmente

mercoledì 22 ottobre 2014

Il fascino della Mini

Anche questa Mini Morris si difende bene, nonostante non abbia avuto il maquillage della 1100...


Melomane

MELOMANE: fanatico dei pomi

martedì 21 ottobre 2014

Una vecchia signora in forma: FIAT 1100TV

Dopo qualche intervento di chirurgia plastica, utile vista l'età rispettabile, questa 1100TV fa ancora la sua bella figura...e il suo dovere.


Melodioso

MELODIOSO: albero da frutta del Giardino dell'Eden

lunedì 20 ottobre 2014

Eppur si muove...il disgelo U.S.A. - Cuba

Dopo l'apertura del New York Times della settimana scorsa, sono sempre più i media (e l'opinione pubblica) nordamericani che chiedono una revisione della politica verso Cuba e fra pochi giorni ci sarà, alle Nazioni Unite, l'ennesimo voto riguardo l'embargo.
Fonte: el Nuveo Herald
Discuten posible cambio de política exterior hacia Cuba
NORA GAMEZ TORRES
NGAMEZTORRES@ELNUEVOHERALD.COM
El Arzobispo de Miami, Thomas Wenski y la periodista Mirta Ojito, directora de News Standards de Telemundo, durante la conferencia.NORA GAMEZ TORRES/EL NUEVO HERALD
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Políticos demócratas y académicos reunidos esta semana en un evento para invitados de la prensa nacional y extranjera en la Universidad de Columbia insistieron en que el presidente Barack Obama tiene la potestad y la oportunidad para cambiar significativamente la política hacia Cuba.
En la conferencia titulada “Covering Cuba in an era of change”, el congresista por Massachusetts, Jim McGovern, aseguró que los cambios no vendrían del Congreso, “donde ahora mismo no ganaríamos la votación para quitar la ley Helms Burton [que codifica el embargo] ni las restricciones de viaje”, dijo y añadió que “la única esperanza es que la administración tome acción”.
Este fue un llamado apoyado por el ex asesor de la Casa Blanca, el abogado Gregory Greg, quien afirmó que los Estados Unidos debían unilateralmente cambiar su política con Cuba, “independientemente de si liberan a Alan Gross o si mejoran las condiciones para la disidencia”, dijo.
Greg opinó que la política actual es “ineficiente” e impide a EEUU convertirse en “una fuerza positiva de cambio” en la isla. “Debemos cambiar nuestra política no porque queremos ser agradables con los cubanos sino porque es de interés nacional y no necesitamos la bendición de ellos para hacerlo”, aseguró.
Sin embargo, aunque ambos se refirieron a rumores sobre una posible medida de Obama después de las elecciones, McGovern admitió que esto podría no suceder pues “Cuba no es el asunto más importante de la política exterior de los Estados Unidos”.
El congresista también consideró que el país caribeño no pertenecía a la lista de los países que patrocinan el terrorismo y compartió su frustración sobre el bloqueo de las negociaciones para el canje del contratista Alan Gross, encarcelado en Cuba, por tres agentes cubanos condenados por espionaje en Estados Unidos.
McGovern, que es uno de los directores de la comisión de derechos humanos en el Congreso, dijo que una “apertura” con Cuba eliminaría el pretexto que usa el gobierno cubano “para justificar muchas de sus políticas represivas” y añadió que “hay políticos de línea dura en el gobierno cubano que quieren que nada cambie y están muy nerviosos, pero en cualquier caso, el futuro de los cubanos deben determinarlos los cubanos, no Washington”.
Varios expertos asistentes, entre ellos Peter Schechter, director del Centro Latinoamericano Adrienne Arsht del Atlantic Council, consideraron que aquellos que favorecen mantener el embargo constituyen una minoría en los Estados Unidos y que habría “poco daño político” para el presidente Obama y el partido demócrata si este promueve un cambio en ese sentido.
Parte del consenso sobre el cambio de la política hacia Cuba se basa en la tesis de que el voto cubanoamericano ya no es tan importante, pues el voto hispano en la Florida, que sigue siendo un estado clave para las elecciones presidenciales, se ha diversificado con la llegada de puertorriqueños, colombianos y otros grupos nacionales. Qué porcentaje de estos grupos finalmente vota y se moviliza fue una cuestión que quedó sin respuesta en las sesiones.
Asimismo, aunque la encuesta sobre Cuba que realizó recientemente la Universidad Internacional de la Florida encontró que la mayoría de los votantes cubanos en Miami Dade respaldaban eliminar el embargo, el profesor Guillermo Grenier, uno de los directores del estudio, señaló que pese al cambio demográfico que viene ocurriendo en el condado desde mediados de los 90 del siglo pasado, con la llegada de nuevos emigrantes cubanos, todavía el mayor número de los votantes cubanoamericanos corresponde a los que llegaron en las distintas oleadas migratorias hasta 1980, que estarían más movilizados políticamente que los “recién llegados”. Y para estos votantes, “Cuba todavía importa”, añadió Grenier.
Otros invitados al evento—organizado por la Graduate School de Periodismo de Columbia—discutieron temas centrales para entender el contexto cubano actual. Los historiadores Louis Perez ,de la Universidad de North Carolina, y Alejandro de la Fuente, de la Universidad de Harvard, se refirieron a la centralidad de la soberanía nacional en el discurso político cubano y el resurgimiento del racismo en la Cuba contemporánea, respectivamente.
Por su parte, el arzobispo de Miami, Thomas Wenski, en conversación con la periodista y directora de News Standards de Telemundo, Mirta Ojito, resumió la historia de la diáspora cubana en la Florida y el papel de la Iglesia católica en promover la reconciliación y el diálogo entre los cubanos.
Sobre la Ley de Ajuste Cubano, que otorga beneficios especiales a los cubanos que llegan a Estados Unidos, el arzobispo consideró que “la solución no es tratarlos tan pobremente como a los demás inmigrantes. Por el contrario, la ley es un modelo de cómo debemos tratar a otros inmigrantes y ha sido una de las causas del éxito del exilio cubano”, opinó.
Otros presentadores se refirieron a proyectos de colaboración entre Cuba y Estados Unidos en el campo de la medicina, la economía sustentable y la conservación de los océanos y cómo estos podrían expandirse en caso de un cambio de política.
Voces cubanas
El escritor Orlando Luis Pardo Lazo, la bloguera independiente Miriam Celaya y el músico y artista plástico David Escalona, dieron una visión más cercana de Cuba con sus testimonios sobre el quehacer del periodismo y el arte independientes en la isla.
En un panel moderado por el profesor de Baruch College, Ted Henken, Celaya y Pardo Lazo destacaron que en la isla no pueden dialogar con las autoridades ni con académicos o periodistas oficiales, y se refirieron a la “campaña de descrédito” de la que son objeto en los medios y la blogosfera oficial. “Somos interlocutores en Estados Unidos pero no en Cuba”, destacó Celaya.
La bloguera relató cómo lograba conectarse a Internet por distintas vías en la isla para enviar sus artículos y colaboraciones con 14ymedio, el periódico digital creado por la bloguera Yoani Sánchez, aunque recordó que sobre ellos pende “la ley 88”, un decreto conocido como “Ley Mordaza” que limita la libertad de expresión.
Sobre el impacto del nuevo medio en los lectores cubanos, Celaya dijo que era “muy bajo, por la escasa conectividad” aunque lograron introducir el contenido del periódico en los llamados “paquetes”, un compendio digital de información, series de televisión, películas y videos musicales que se distribuye de manera informal en Cuba.
Sobre la reforma promovida en la isla por el gobierno de Raúl Castro, Celaya y Escalona destacaron el impacto positivo de la nueva ley migratoria cubana, que les permite viajar al extranjero y participar en entrenamientos, conferencias y conciertos, así como adquirir tecnología para su trabajo en Cuba.
Escalona, que pertenece al colectivo artístico Omni Zona Franca, originado en Alamar, relató también como se han ido reduciendo los espacios de expresión y reunión para los artistas independientes en la isla, con el cierre de festivales y el control sobre los lugares de actuación pública.
“El cubano está listo para prosperar, pero hace falta que quienes están en el poder, pasen la pelota”, opinó el artista.
El evento concluyó este sábado con varios paneles en que reconocidos periodistas y escritores, entre ellos Jon Lee Anderson, Ann Louise Bardach y Achy Abejas, analizaron la cobertura que realiza la prensa estadounidense sobre Cuba.


Melodia

MELODIA: dia a me

Un altro pomeriggio a Kuquine. di Ciro Bianchi Ross

Pubblicato su Juventud Rebelde del 19/10/14

Il dittatore Fulgencio Batista, aveva una maniera molto particolare di appropriarsi dei soldi dello Stato. La sua posizione politica privilegiata, dice Guillermo Jiménez nel suo libro Los propietarios de Cuba ; 1958, gli dette l’opportunità di aprofittarsi in modo stupefacente della politica di finanziamento e concessioni promossa dalle istituzioni bancarie statali diretta da Joaquín Martínez Sáenz, presidente del Banco Nacional, sia mediante la richiesta di detti finanziamenti o mediante la riscossione, tramite terzi, di un’elevata gabella specialmente per quegli imprenditori beneficiati da quell’originale modo di malversazione che istituí.
Aggiunge Jiménez che oltre agli introiti delle sue numerose aziende - circa 70 - riceveva regolarmente i guadagni provenienti da vari modi di costrizione, malversazioni e altre imposizioni. Fra queste, quelle prodotte dal gioco clandestino e il 30 per cento che i contrattisti pagavano in contanti per la concessioni delle opere ricevute, di cui ispezionava personalmente i crediti. Ciò gli permise di ammassare una fortuna calcolata in 300 milioni di dollari. Due aneddoti illustrano queste affermazioni. Li rivela il generale Francisco Tabernilla Palmero nel suo libro di memorie che col titolo  di Palabras esperadas, pubblicò a Miami nel 2009. Tabernilla Palmero,conosciuto col soprannome di “Silito” era il segretario militare di Batista, capo del Reggimento Misto 10 di Marzo e, già negli ultimi tempi della dittatura, capo della Divisione di Fanteria Generale Alejandro Rodríguez, entrambi con sede nella Città Militare di Columbia – oggi Ciudad Libertad -, truppe che si notavano come il pollo del riso col pollo delle Forze Armate cubane dell’epoca.
Con relaione al 30 per cento che pagavano gli imprenditori “premiati” con l’esecuzione di qualche opera pubblica, dice “Silito” che i beneficiati arrivavano all’ufficio del Presidente con una valigia piena di soldi e uscivano dallo studio presidenziale senza un centesimo e a volte senza valigia perché a Batista piaceva.
Incassi favolosi
Inoltre racconta che alla morte, nel 1956, del brigadier generale Rafael Salas Cañizares, capo della Polizia Nazionale, Batista chiamò al Palazzo Hernando Hernández che recentemente promosso a Brigadiere Generale, aveva appena ottenuto il comando del corpo poliziesco e gli chiese che verificasse quanto riceveva Salas Cañizares per concetto del gioco  proibito all’Avana. L’investigazione scoprì una somma favolosa: oltre 700.000 pesos mensili. Allora Batista ordinò a Hernando Hernández che si occupasse della raccolta di questi soldi e li portasse al Palazzo al fine che sua moglie lo destinasse a “opere di carità”.
A questo fatto allude anche il padre di “Silito” in una lettera che invia a Batista, il 24 agosto del 1960. Batista trascorre il suo esilio a Funchal, nell’Isola di Madeira e il tenente generale Francisco Tabernilla Dolz, Capo dello Stato Maggiore Congiunto delle Forze Armate della dittatura, risiede a Riviera Beach, in Florida. Il “Vecchio Pancho”, come lo chiamavano, dice nella sua lettera a Batista: “Lei ha permesso l’auge del gioco d’azzardo in tutta la Repubblica di Cuba, facendo entrare i favolosi introiti dalla porta principale del medesimo Palazzo Presidenziale...”
Chiaro che è un’accusa tardiva, con pentimento e lacrime di coccodrillo comprese. La lettera è motivata dal libro che Batista aveva appena pubblicato. S’intitola Respuesta e lui vuole giustificare l’ingiustificabile; salvare le sue responsabilità nel crollo del suo Governo e incolpare del disastro i Tabernilla che accusa di essere traditori.
 Tabernilla risponde: “Il traditore più grande che Cuba ha avuto è lei, signor Batista, per il suo pessimo agire e la miopia nel problema di Cuba...In quanto alla sua mancanza di coraggio, nessuno lo discute, sono tutti d’accordo, ebbene la sua inconsulta e precipitosa fuga lo dimostra senza dar adito a dubbi”.
Tabernilla accusa con durezza il suo antico capo, quello che accompagnava fino dal colpo di Stato del 4 settembre 1933, quando fu fra i molto contati ufficiali – era allora tenente – che si aggiunse alla ribellione dei sergenti. Scrive: “Le bugie, calunnie e falsità con le quali lei tratta di giustificarsi nel libro Respuesta per discolparsi, mi creda don Fulgencio, non le rendono nessun favore”.
A loro volta i Tabernilla cercarono di discolparsi anche loro e pagheranno José Suárez Nuñez, batistiano fino all’ultimo momento del regime, per un libro contro Batista, El gran culpable.
Dice che fu l’appoggio dei Tabernilla che permise a Batista di mantenersi al potere ebbene “senza di loro non sarebbe arrivato a un anno di Governo”. Anche così si considera una vittima dell’astuto ex presidente. Il vecchio militare si copre di manto di pecora e scrive: “L’ammirazione, lealtà e sincera amicizia che professavo per lei, oscurarono la mia capacità di intendere, non potendo rendermi conto in tempo del suo egoismo, rovinosità e cattiveria. Lei mi ha utilizzato come paravento per coprire le sue molte porcherie...”
“L’unica accusa che mi faccio è per la mia debolezza, per non aver mantenuto con carattere irrevocabile le dimissioni che le ho presentato...lo stesso giorno che gli insorti hanno attaccato la caserma Goicuria nella provincia di Matanzas...Questo fu il mio grave errore, di non essermi ritirato in quell’occasione, ma mi trattenne l’idea di cosa potessero pensare i miei compagni, che abbandonavo la nave per paura dei futuri accadimenti che già si profilavano. Per questo ho continuato al suo fianco, ma le diedi l’opportunità di infangarmi e di distruggere il mio onore come militare, ma Dio Onnipotente saprà castigare quelli che continuano così”.
Un altro rimprovero scoppia alla fine della lettera, quello dei soldi. Batista estrasse il suo, almeno gran parte. Tabernilla, sorpreso dal crollo della dittatura e dalla fuga precipitosa, non poté fare lo stesso. Scrive al rispetto: “Mi permetto chiarirle...che i soldi che i castristi mi hanno rubato nelle banche di Cuba non furono il prodotto di nessun tipo di affare, concessione, asta del Governo, eccetera. Quesi soldi li ho accumulati con i compensi che mi hanno pagato per suo ordine, corrispondenti agli anni in cui rimasi fuori o per meglio dire pensionato dall’Esercito, per disposizione del Dott. Grau San Martín e le briciole che lei mi regalava, ebbene la modesta casa che possedevo l;ho fabbricata nell’anno 1950”.
Questi voti di povertà sono discutibili in un uomo come Tabernilla. Suo figlio Carlos era capo della Forza Aerea e la voce popolare garantiva che svolgevano un bell’affare con il contrabbando – sigarette, liquori, elettrodomestici, ecc. – dagli Stati uniti. Quando il tenente colonnello Ángel Sánchez Mosquera – il più grande assassino e ladro di tutti i capi militari che aveva Batista, al dire del Che Guevara – fu ferito alla testa durante la seconda battaglia di Santo Domingo, non c’era un elicottero per portarlo via dalla Sierra Maestra. I mezzi aerei di carico e trasporto dell’Esercito erano in funzione dei torbidi affari dei capi.
Dice Tabernilla: “Non voglio domandarle a quanto ammonta la sua favolosa fortuna né come la acquisí o dove la tiene depositata. Questi sono segreti di Stato. Ebbene, don Fulgencio, lei sì è stato furbo a mettere i suoi spiccioli in un luogo sicuro”.
L’Indio
Queste e altre riflessioni vengono alla mente dello scriba mentre visita di nuovo la residenza di Kuquine, il ritiro campestre di Batista nei dintorni dell’Avana. Qualcuno che preferisce mantenere il suo anonimato raccontò a chi scrive le sue visite alla tenuta quando era ancora occupata dalla famiglia del presidente. Vicino alla porta d’ingresso c’era una stanza refrigerata dove Martha Fernández, la moglie di Batista, teneva le sue pellicce e, nella zona della cucina, una dispensa con la capacità, si diceva, a provviste alimentari per un anno. Oltre alla piscina, c’era un quadrilatero per la boxe, tre o quattro cani da caccia  e fra altri quadrupedi, un cavallo bianco che era il preferito dal dittatore. Due automobili antiche, erano pure conservate nel feudo: una marca Ford, modello T, forse lo stesso che Batista aveva nei suoi giorni da sergente eil Chrysler dorato di Roberto, il fratello di Martha che viveva anche lui nella tenuta, in una casa sita a un chilometro dalla principale e che seppure più piccola è sempre sembrata più lussuosa di quella di suo cognato. La biblioteca occupava due sale del piano terra, divise da un patio e ad essa si accedeva da un portico. Le camere da letto erano al piano superiore ed erano tutti identificate da un’iscrizione dove si leggeva il nome dei loro occupanti. Il maggiordomo era negro. Questa fu solo una delle sue residenze private. Si aggiungono quella della spiaggia di Varadero, quella di Tope de Collantes e quella del’Isola dei Pini.
Batista fu un politico straordinariamente abile, con l’astuzia dell’animale forte. Un maestro nell’arte di fingere. Al fine di raggiungere i suoi obbiettivi poteva muovere, senza scrupolo, qualunque risorsa, fino alla repressione illimitata. Il suo mandato costò al Paese, non si deve dimenticare, migliaia di morti.
Nella pagina della scorsa settimana, pure dedicata a Kuquine, ho riferito del ritrovamento, già nel 1959, in un locale di disimpegno della casa e nascoste da una montagna di libri vecchi e polverosi, di cinque casse di legno...contenevano circa 800 oggetti preziosi valutati in un paio di milioni di dollari. Fra questi c’era una spilla d’oro puro con l’effigie di un indio. La testa della figura era adornata di pietre preziose con i colori della bandiera che batista instaurò nelle Forze Armate dopo il colpo di Stato del 4 settembre del 1933.
A batista piaceva far credere che godeva della protezione di un indio. Quando era candidato del Partito d’Azione Unitaria (PAU) qualcuno, a Kuquine, gli scattò una fotografia che ha per sfondo dei rampicanti. Una sera chiamò il suo segretario Raúl Acosta Rubio e gli disse: “Non vedi un  indio sullo sfondo? È ben chiaro e definito”. Acosta risposose di sì; era evidente che i rami configuravano la testa di un indio pellerossa. Batista, disposto ad aprofittarsi di quella situazione, domando immediatamente: “Che te ne pare di mandarne a stampare qualche migliaio di copie della foto perché ;a gente che crede in ciò, e qua sono migliaia, veda che ho la protezione di un capo indiano? Sarebbe una buona pubblicità!”.
Concludeva, Acosta Rubio, nel suo libro Todos culpables che com’era logico si mandò a riprodurre la fotografia in questiuone in migliaia di copie. Nell’intimità Batista ci scherzava sopra, ma quando qualcuno gli parlava del fatto, sorgeva sul suo volto un sorriso enigmatico con la quale dava per certo che contava con la protezione dell’al di la.



 Otra tarde en Kuquine
Ciro Bianchi Ross * digital@juventudrebelde.cu
18 de Octubre del 2014 22:09:03 CDT

El dictador Fulgencio Batista tenía una forma muy particular de
apropiarse del dinero del Estado. Su posición política privilegiada,
dice Guillermo Jiménez en su libro Los propietario de Cuba; 1958, le
dio la oportunidad de aprovecharse de manera asombrosa de la política
de financiamiento y concesiones promovida por las instituciones
bancarias estatales dirigida por Joaquín Martínez Sáenz, presidente
del Banco Nacional, bien mediante la requisa de esos financiamientos o
mediante el cobro, a través de terceros, de una elevada gabela en
especie a aquellos empresarios beneficiados por tal original forma de
malversación que implantó.
Añade Jiménez que además de los ingresos de sus numerosas empresas
--unas 70-- recibía regularmente las ganancias provenientes de varias
formas de cohecho, malversación y otras imposiciones. Entre estas, las
producidas por el juego prohibido y el 30 por ciento de comisión que
los contratistas pagaban en efectivo por las concesiones de obras
recibidas, cuyos créditos supervisaba él personalmente. Lo que le
permitió amasar una fortuna calculada en 300 millones de dólares.
Dos anécdotas ilustran esas afirmaciones. Las revela el general
Francisco Tabernilla Palmero en su libro de memorias que con el título
de Palabras esperadas publicó en Miami en 2009. Tabernilla Palmero,
conocido por el sobrenombre de “Silito”, era el secretario militar de
Batista, jefe del Regimiento Mixto 10 de Marzo y, ya en los últimos
tiempos de la dictadura, jefe de la División de Infantería General
Alejandro Rodríguez, ambos con sede en la Ciudad Militar de Columbia
--hoy Ciudad Libertad--, tropas que se evidenciaban como el pollo del
arroz con pollo de las Fuerzas Armadas cubanas de la época.
Con relación al 30 por ciento que pagaban los empresarios “premiados”
con la ejecución de alguna obra pública, dice “Silito” que los
beneficiados llegaban a la oficina del Presidente con una maleta
cargada de dinero y salían del despacho presidencial sin un centavo y
a veces sin maleta porque Batista se antojaba de ella.

Fabulosas recaudaciones

Cuenta además que a la muerte, en 1956, del brigadier general Rafael
Salas Cañizares, jefe de la Policía Nacional, Batista llamó a Palacio
a Hernando Hernández que, recién ascendido a Brigadier General,
acababa de asumir la jefatura del cuerpo policial, y le pidió que
averiguara cuánto percibía Salas Cañizares por concepto del juego
prohibido en La Habana. La investigación arrojó una suma fabulosa: más
de 700 000 pesos mensuales. Batista ordenó entonces a Hernando
Hernández a que se ocupara de la recaudación de ese dinero y lo
llevara a Palacio a fin de que su esposa lo destinara a “obras de
caridad”.
A ese hecho también alude el padre de “Silito” en una carta que envía
a Batista, el 24 de agosto de 1960. Batista pasa su exilio en Funchal,
en las Islas Madeiras, y el teniente general Francisco Tabernilla
Dolz, jefe del Estado Mayor Conjunto de las Fuerzas Armadas de la
dictadura, radica en Riviera Beach, en la Florida. Dice el “Viejo
Pancho”, como le llamaban, en su carta a Batista: “Usted permitió el
auge del juego prohibido en toda la República, llegando las fabulosas
recaudaciones a penetrar por la puerta principal del mismo Palacio
Presidencial...”
Claro que es una acusación tardía, con arrepentimiento y lágrimas de
cocodrilo incluidas. Motiva la carta el libro que Batista acababa de
publicar. Se titula Respuesta y quiere con él justificar lo
injustificable; salvar su responsabilidad en el derrumbe de su
Gobierno y culpar del desastre a los Tabernilla, a los que acusa de
traidores.
Responde Tabernilla: “El traidor más grande que han tenido Cuba y las
Fuerzas Armadas es usted, señor Batista, por vuestra pésima actuación
y miopía en el problema de Cuba... En cuanto a su falta de valor, nadie
lo discute, todo el mundo está de acuerdo, pues su inconsulta y
precipitada fuga así lo demuestra sin lugar a dudas”.
Tabernilla increpa con dureza a su antiguo jefe, al que acompañaba
desde el golpe de Estado del 4 de septiembre de 1933, cuando fue de
los muy contados oficiales --era entonces teniente-- que se sumó a la
rebelión de los sargentos. Escribe: “Las mentiras, calumnias y
falsedades con las que usted trata de valerse en el libro Respuesta
para exculparse, créame, don Fulgencio, que no le hacen ningún favor.
A su turno, los Tabernilla también tratarían de exculparse y pagarían
a José Suárez Núñez, batistiano hasta la víspera, un libro contra
Batista, El gran culpable.
Dice que fue el apoyo de los Tabernilla lo que permitió a Batista
mantenerse en el poder pues “sin ellos no hubiera llegado a un año en
el Gobierno”. Aun así, se considera una víctima del astuto mandatario.
Se cubre el viejo militar con piel de oveja y escribe:
“La admiración, lealtad y sincera amistad que le profesaba, nublaron
mi entendimiento, no pudiendo darme cuenta a tiempo de su egoísmo,
ruindad y maldad. Usted me utilizó a mí de mampara para cubrir sus
múltiples fechorías...”.
“La única acusación que me hago yo, es la debilidad mía por no haberle
mantenido con carácter irrevocable la renuncia que le presenté... el
mismo día que los insurgentes atacaron el cuartel Goicuría, en la
provincia de Matanzas... Ese fue mi gran error, el no haberme retirado
en aquella ocasión, pero me retuvo la idea de lo que podían pensar mis
compañeros, que abandonaba la nave por temor a los futuros
acontecimientos que ya se vislumbraban. Por eso seguí al lado de
usted, pero le di la oportunidad de mancharme de lodo y de destruir mi
honor como militar, pero Dios Todopoderoso sabrá castigar a los que
así proceden”.
Un reproche más explota al final de la misiva, el del dinero. Batista
sacó el suyo o al menos una gran parte. Tabernilla, sorprendido por el
derrumbe de la dictadura y la fuga precipitada, no pudo hacer lo
mismo. Escribe al respecto:
“Me permito aclararle... que el dinero que los castristas me robaron en
los bancos de Cuba no fue el producto de ninguna clase de negocios,
concesiones, subastas del Gobierno, etc. Ese dinero lo acumulé con los
haberes que por orden suya me pagaron, correspondientes a los años que
estuve fuera o mejor dicho retirado del Ejército, por disposición del
Dr. Grau San Martín, y las migajas con que usted me obsequiaba, pues
la modesta casa que tenía la fabriqué en el año 1950”.
Esos votos de pobreza en un hombre como Tabernilla son discutibles. Su
hijo Carlos era el jefe de la Fuerza Aérea y la voz popular aseguraba
que acometían un negocio tremendo de contrabando --cigarrillos,
licores, efectos eléctricos, etc.-- desde Estados Unidos. Cuando el
teniente coronel Ángel Sánchez Mosquera --el más valiente, asesino y
ladrón de todos los jefes militares que tenía Batista, al decir de Che
Guevara-- fue herido en la cabeza durante la segunda batalla de Santo
Domingo, no había un helicóptero para sacarlo de la Sierra Maestra.
Medios aéreos de carga y transporte del Ejército estaban en función de
los negocios turbios de los jefes.
Dice Tabernilla: “No deseo preguntarle a usted a cuánto asciende su
fabulosa fortuna ni cómo la adquirió ni dónde la tiene depositada.
Esos son secretos de Estado. Ahora bien, don Fulgencio, usted sí fue
listo al poner sus quilitos en lugar seguro”.

El indio

Esas y otras reflexiones acuden a la mente del escribidor mientras
recorre de nuevo la casa de vivienda de Kuquine, el predio campestre
de Batista en las afueras de La Habana. Alguien que prefiere mantener
su anonimato contó a quien esto escribe sus visitas a la finca cuando
la ocupaba aún la familia del mandatario. Cerca de la puerta de
entrada de la casa había un cuarto refrigerado donde Martha Fernández,
la esposa de Batista, guardaba sus abrigos de piel, y, en el área de
la cocina, una despensa que daba cabida, se decía, a una provisión de
alimentos para un año. Además de la piscina, había un cuadrilátero de
boxeo y tres o cuatro perros de caza y, entre otros cuadrúpedos, un
caballo blanco que era el preferido del dictador. Dos automóviles
antiguos se conservaban en el feudo: uno marca Ford, modelo T, quizá
el mismo que tenía Batista en sus días de sargento, y el Chrysler
dorado de Roberto, el hermano de Martha, que también vivía en la
finca, en una casa situada a un kilómetro de la casa principal y que,
aunque más pequeña, a mi interlocutor le pareció siempre más lujosa
que la de su cuñado. La biblioteca ocupaba dos salas de la planta
baja, divididas por un patio, y se accedía a esta desde el portal. Los
dormitorios estaban en la planta alta y todos estaban identificados
con una inscripción donde se leía el nombre de su ocupante. El
mayordomo era negro. Esta fue solo una de sus residencias privadas. Se
suman la de la playa de Varadero, la de Topes de Collantes y la de
Isla de Pinos.
Batista fue un político extraordinariamente hábil, con la astucia del
animal fuerte. Un maestro en el arte de fingir. Con tal de lograr sus
objetivos, podía mover, sin escrúpulo, cualquier recurso, hasta la
represión ilimitada. Su mandato, no hay que olvidarlo, costó al país
miles de muertos.
En la página de la semana anterior, dedicada también a Kuquine, referí
el hallazgo ya en 1959, en un cuarto de deshago de la casa y
disimuladas por una montaña de libros viejos y empolvados, de cinco
cajas de madera.. Contenían unas 800 alhajas valoradas en unos dos
millones de dólares. Entre estas había una sortija de oro puro con la
efigie de un indio. Adornaban la cabeza de la figura piedras preciosas
con los colores de la bandera que Batista instauró en las Fuerzas
Armadas tras el golpe de Estado del 4 de septiembre 1933.
Gustaba Batista de hacer creer que disfrutaba de la protección de un
indio. Cuando era candidato presidencial por el Partido de Acción
Unitaria (PAU) alguien, en Kuquine, le tomó una fotografía que tiene
como fondo una enredadera. Una noche llamó a su secretario, Raúl
Acosta Rubio, y le dijo: “¿No ves un indio en el fondo? Está bien
clarito y definido”. Respondió Acosta que sí; era evidente que las
ramas configuraban la cabeza, pero de un indio piel roja. Batista,
dispuesto a aprovecharse de esa situación, preguntó enseguida: “¿Qué
te parece mandar a imprimir unos cuantos millares de la foto, para que
la gente que cree en eso, y aquí son miles, vea que tengo la
protección de un cacique? ¡Sería una buena propaganda!’.
Concluía Acosta Rubio en su libro Todos culpables que, como era
lógico, se mandó a reproducir por millares la fotografía en cuestión.
En la intimidad, Batista hacía burlas de aquello, pero cuando alguien
le hablaba del asunto, asomaba a su rostro una sonrisa enigmática con
la que daba por seguro de que contaba con la protección del más allá.



domenica 19 ottobre 2014

Dove mangiare bene e bere meglio, all'Avana

Fonte: Cuba Contemporanea 
Restaurante Divino: en alabanza a la vida, el amor y la naturaleza
Por Yizzet Bermello



Restaurante Divino
Si usted es de los que gustan de los espacios abiertos y apacibles, donde la naturaleza reina y nos muestra toda su majestuosidad; si disfruta de esa energía especial que dan los verdes intensos; de la paz que se siente cuando uno sale en familia a buscar fuera de la ciudad aires menos congestionados, y además de esa gastronomía en la que los sabores tradicionales y nuevos de la cocina se mezclan y son potenciados desde condimentos bien naturales, pues créame que le tengo una recomendación muy especial en esta oportunidad.
En la barriada habanera de Mantilla, ubicada en la zona periférica de la capital cubana, abrió hace más de dos años el restaurante Divino, del que hoy hablan muchos especialistas gastronómicos, los más famosos sommeliers, pero también visitantes extranjeros y nacionales que alguna que otra vez se han llegado hasta el lugar para pasar un día de sosiego y sano esparcimiento, en el que además aprenden sobre el proyecto que allí se ha gestado.

Paella al estilo del restaurante Divino
Porque en el Divino la amplia carta de platos cubanos e internacionales que se puede degustar en su Salón de las Columnas, bajo esos corredores que en otro tiempo alojaron los portales de la casona donde todavía hoy viven sus propietarios; o los cocteles diversos para refrescarse, en el aledaño ranchón donde se ubica el bar Plaza Luna, suelen ser el destino final de una larga y calmada travesía por toda la finca y sus alrededores.
Antes de llegar al momento de júbilo que siempre regala la comida preparada al carbón, donde prima lo tradicional, aunque se le adivinen muchos elementos de modernidad y algunas esencias gourmet, la mayoría de los visitantes se mueve por las áreas de huertos en las que se cosechan los vegetales y condimentos que consume el restaurante y la familia que lo impulsa, además de un gran terreno inundado de árboles frutales, que desde hace algunos años ostenta la categoría de Jardín Botánico Provincial para estas especies.
Disfrutan durante ese periplo de la posibilidad de conocer sobre abonos naturales, control biológico de plantas y muchos conceptos sanos de cultivo, a partir del intercambio con productores, o con algunos estudiantes de la especialidad de agronomía que hacen investigaciones en la finca La Yoandra, con una Triple Corona Excelencia Nacional de la Agricultura Urbana, más Sello Agroecológico.
Para los amantes del mundo de los vinos resultará una experiencia muy singular el recorrido por la cava bajo tierra asociada al restaurante, donde se conservan, en condiciones óptimas de temperatura y humedad, más de 300 etiquetas de este producto, en representación de regiones y países de todo el orbe, junto a objetos museables muy interesantes vinculados con la coctelería, la licorería y la vinicultura en general.
Otro espacio de creciente aceptación es la Casa del Campesino, una vivienda rústica construida a la usanza de los bohíos que todavía se ven en los campos cubanos, donde el visitante puede ampliar su conocimiento sobre tradiciones rurales, o intercambiar directamente con niños y ancianos de la comunidad que rodea al restaurante, con los que los propietarios desarrollan varios proyectos de beneficio y respaldo social.
Suele confirmar siempre allí que, más que una experiencia gastronómica o sensorial, está disfrutando en los predios del restaurante Divino de un proyecto que convida al comprometimiento y hace reflexionar sobre los valores  inmensos del amor; un proyecto de alabanza a la vida y la naturaleza.
Guiados por la pasión


La autora con Yoandra Álvarez Echevarría (izq.) (Foto: E. Angoiti)
Precisamente, para la pareja que creó el Divino, como ellos mismos han terminado llamándole, el restaurante por el que tanto se les conoce ahora resulta solo un eslabón de cierre en una larga cadena de elementos que fueron estructurando durante su matrimonio de más de 20 años, y siempre en el entorno de esa casa y finca donde han crecido los hijos, muy cerca de la tierra y el barrio que vio nacer a Yoandra Álvarez Echevarría.
“Compartimos de alguna manera el amor por lo natural, los vinos y por esas iniciativas comunitarias que contribuyen a la enseñanza de valores en los niños y al beneficio de grupos poblacionales que en determinadas circunstancias se encuentran en una situación de desventaja. Y alrededor de eso fueron surgiendo todas las ideas: primero el organopónico para autoabastecernos, luego la finca de frutales, después  la cava que mi esposo siempre quiso tener por su condición de sommelier internacional y más tarde el círculo de interés”, recuerda esta mujer que dice sentirse feliz, porque ha logrado cumplir buena parte de sus sueños.
Aclara que en todo lo que han hecho los ha guiado el amor, la pasión, el deseo de probarse y crecer, incluso en ámbitos para los que no sabían que tenían cualidades y capacidad. “El proyecto comunitario es una parte esencial para nosotros. Se llama “Desde adentro” porque lo enfocamos en el mismo barrio y se acomete con recursos propios. Hemos pasado por tres generaciones de niños y ayudamos en la actualidad a unos 40 ancianos. La verdad es que reconforta mucho y le otorga mayor espiritualidad a este lugar”, añade.
Enfatiza la propietaria que el restaurante no solo genera ganancias para la subsistencia familiar. “Buena parte de lo que se gana se revierte también en estos desarrollos de la finca y el trabajo con la comunidad. De hecho, cuando lo creamos ya existían alrededor del Divino todos los demás elementos mencionados”, acota.
Le preguntamos entonces por las razones que apoyaron ese nombre, y responde rápido: “El tema del vino estaba muy latente en nuestro espacio y queríamos resaltarlo, pero tuvo que ver también con la palabra divinidad, por lo bueno, por lo exquisito, y se ha convertido en el término que usa todo el que nos visita para definirnos. El Divino nos vino por tanto como anillo al dedo”.
Restaurante Divino:
Calle Raquel, número 50, entre Esperanza y Lindero, Reparto Castillo de Averhoff, Mantilla, Arroyo Naranjo, La Habana, Cuba
Teléfono: (537) 643 7734



Melassa

MELASSA: mi abbandona (Roma)

sabato 18 ottobre 2014

Megaton

MEGATON: il mio gatto grande (Veneto)

venerdì 17 ottobre 2014

Megaciclo

MEGACICLO: bicicletta enorme

giovedì 16 ottobre 2014

Mattone

MATTONE: grosso squilibrato